L’indagine del capitalismo contemporaneo nel marxismo italiano

  di Nicolò Bellanca

Si inizia con qualche considerazione sullo “stato dell’arte” della teoria economica marxista in Italia. Un problema che ci si pone riguarda il ridotto investimento di energie intellettuali, da parte dei marxisti anche italiani, nella spiegazione del capitalismo contemporaneo, relativamente all’impegno profuso sui temi del valore, dei prezzi relativi e della distribuzione del reddito. I paragrafi centrali del testo sono dedicati alla ricostruzione di due tra le poche e più originali riflessioni sul funzionamento degli odierni sistemi socio-economici: quelle di Gianfranco La Grassa e di Ernesto Screpanti. Nella conclusione, vengono discussi alcuni spunti di risposta al problema prima sollevato.

1. Cosa rimane della teoria economica marxista?

La teoria economica marxista conta in Italia su una tradizione intellettuale vivace, che vuole capire per proprio conto quali basi razionali abbiano le teorie di Marx, e possano ricevere oltre Marx. Questo tratto è stato ben colto, quasi un secolo fa, da Roberto Michels: «Ognuno tra [i marxisti italiani] crede che il Marx come critico analitico della società capitalistica sia insuperato, ma nessuno che egli sia insuperabile. Nessuno altresì si azzarda a dire che il Marx abbia creato una dottrina così esaurientemente completa per spiegare tutti i fenomeni sociali, in qualunque campo si manifestino. Perciò uno dei maggiori compiti dei marxisti italiani consiste nella ricerca di una teoria complementare al Marx».[1] Questa “teoria complementare” non intende unicamente integrare o aggiornare Marx. Si propone anche, e forse soprattutto, di conferire alle sue dottrine principali una sistemazione razionale che esse, per gli autori in oggetto, non possiedono ap­pieno.[2]

Anche a livello internazionale, sembra negli ultimi anni prevalere, nella teoria economica marxista, un atteggiamento di aperta discussione così di importanti contributi di altre impostazioni critiche, come dei fondamenti stessi del proprio approccio.[3] Come osserva, con notevole slancio di ottimismo, Fabio Petri, «negli ultimi decenni l’economia marxista ha riacquistato piena cittadinanza nella scienza ufficiale, ma perdendo una sua unitarietà e distintività rispetto a un più generale approccio critico, classico-keynesiano, non marginalista. Ormai le differenze tra gli studiosi che si dichiarano marxisti sono spesso non inferiori alle loro differenze da altri studiosi che, pur senza dichiararsi esplicitamente tali, accettano numerose tesi caratteristiche della tradizione marxista, ad esempio il ruolo centrale del conflitto di classe, il rifiuto dell’impostazione marginalista, la tendenza delle economie di mercato non regolate a generare crisi, talvolta anche l’interesse delle classi dominanti a non eliminare la disoccupazione; e gli studiosi di quest’ultimo tipo stanno aumentando, per via dell’attrattiva sempre minore esercitata dall’impostazione marginalista. I criteri in base ai quali distinguere un approccio chiaramente marxista alla spiegazione dei fatti economici da un più generale approccio classico-keynesiano diventano dunque sempre più sfuggenti e meno validi scientificamente».[4]

Tutto bene, dunque? Affatto. Se consideriamo quali e quanti studi sistematici sono stati dedicati dai marxisti viventi, in Italia e non, alla dinamica strutturale del capitalismo coevo, dobbiamo fermarci a pochi titoli. La quota largamente maggioritaria delle ricerche continua ad occuparsi delle tematiche del valore-lavoro,  dei prezzi di produzione e della distribuzione del reddito. Si tratta, ovviamente, di tematiche cruciali nell’indagine della natura riproduttiva del capitalismo. Esse non si traducono però automaticamente in disamine del funzionamento diacronico del medesimo capitalismo, laddove pare indubbio che queste disamine dovrebbero rappresentare l’autentico fine conoscitivo di un marxismo che desideri capire e cambiare lo status quo. Non basta. La prevalenza di queste ultime tematiche appare addirittura strabordante se abbracciamo l’intera letteratura storica del marxismo internazionale: quante opere come Il capitale finanziario di Hilferding o La crisi fiscale dello Stato di O'Connor sono state scritte? Sembra pertanto esistere una propensione radicata e poco sradicabile, da parte dei marxisti che studiano la teoria economica, a privilegiare l’asse valore-prezzi-ripartizione, a scapito dell’asse moneta-crisi-ciclo-dinamica strutturale e, ancor più, a scapito dell’asse di analisi economica dei sistemi capitalistici concreti.

Possiamo chiederci come mai ciò sia avvenuto e continui ad accadere quasi senza soluzioni di continuità. La risposta più immediata consisterebbe nell’ipotizzare che il marxismo abbia poco di significativo da aggiungere alle altre analisi economiche critiche, alle quali allude Petri nel suo brano. Se così fosse, la “nicchia intellettuale” dei marxisti rimarrebbe davvero unicamente il dibattito su temi quali la sostanza del valore e la trasformazione dei valori in prezzi. Iniziamo dunque con lo smentire, almeno parzialmente, questa linea di spiegazione. Presentiamo l’elaborazione di due tra i pochi e più originali marxisti italiani che si sono concentrati sulla dinamica interna del capitalismo: Gianfranco La Grassa (§2) ed Ernesto Screpanti (§3).[5] Nel §4 riprenderemo il quesito qui formulato, azzardando qualche diverso spunto di risposta.

2. La teoria del capitalismo di Gianfranco La Grassa

«I marxisti hanno finora preteso di trasformare il mondo; è ormai tempo che tentino di comprenderlo» (G.La Grassa)

 

2.1  Dal lavoro vivo al processo di lavoro

 

Il problema del nesso, nel marxismo, tra categorie universali e concetti storicamente determinati viene rivisitato da La Grassa in maniera assai stimolante. Egli ricorda che, quando Marx parla del circolo metodico concreto-astratto-concreto, distingue due vie. L’una, seguita dagli economisti del XVII secolo, consiste nel passare dal concreto empirico, caotico e indifferenziato, ad alcune relazioni più elementari e generali. L’altra, propria degli economisti classici, risale altresì da quelle astrazioni ad una nuova totalità concreta, della quale adesso si conoscono le specifiche combinazioni interne. Marx definisce corretta la seconda via nell’ambito della scienza economica; ma nella sua prassi scientifica, sostiene La Grassa, ne offre la critica. L’astrazione introduce infatti per Marx al nesso strutturale interno dell’oggetto studiato; essa è dunque un’istanza complessa e peculiare, non semplice e universale. In altri termini, Marx non procede astraendo dalle caratteristiche che individuano la particolarità di concreti empirici diversi, bensì astrae dai fenomeni di “superficie” che impediscono di cogliere la dinamica “profonda” di una realtà.[6]

Le implicazioni di una simile interpretazione sono notevoli. La teoria marxiana non muove da alcuno schema sovrastorico di “produzione in generale”, per giungere alla specificità della produzione capitalistica attraverso l’approssimazione intermedia della società a scambio generalizzato (o “produzione mercantile semplice”). Piuttosto, Marx presenta nel primo libro de Il Capitale la “discesa” dal livello fenomenico della merce (I sezione) al livello dell’autoriproduzione del capitale (VII sezione). Ultimata questa “discesa”, l’oggetto specifico di analisi che ne risulta distillato è la forma che i rapporti tra gli uomini assumono nel processo sociale di produzione.[7] Nell’odierna società questa forma è la relazione tra proprietario-non-lavoratore e lavoratore-non-proprietario.[8] L’uno ha il potere di disporre dell’intero processo di lavoro, composto dai momenti dell’attività lavorativa, dello strumento e del prodotto: e infatti controlla la forza-lavoro ridotta a merce, i mezzi di produzione impiegati e il prodotto ottenuto.[9] L’altro viene anzitutto separato dalle condizioni oggettive del suo lavoro.[10]

Il non-produttore comanda quindi il produttore espropriato e vive del suo lavoro. Si distingue però dagli sfruttatori delle società precapitalistiche, poiché mentre in queste il comando era esterno al processo lavorativo, adesso è penetrato in esso.[11] Ciò ha decisiva importanza. È infatti il modo di funzionamento del processo di lavoro - la sua articolazione tecnico-produttiva - che riproduce la forma del nesso appropriatore-espropriato.[12] Affinché questo avvenga, occorre rendere completa la sottomissione del lavoratore, separandolo anche dalle condizioni soggettive del suo lavoro. Ogni abilità specifica, preparazione professionale o capacità di comprendere e governare le interconnessioni del ciclo di fabbricazione di un certo bene (o di sue parti importanti) vengono sottratte al produttore. Il suo lavoro viene suddiviso nei movimenti più elementari, per il compimento di ognuno dei quali quasi non occorre alcun apprendimento, mentre il coordinamento delle operazioni parcellizzate spetta al lavoro di direzione tecnica-scientifica del processo di lavoro.[13] Si realizza così il passaggio dalla divisione sociale del lavoro (la distribuzione sociale di compiti, mestieri e specializzazioni; d’ora in poi DSL) alla divisione tecnica o parcellare o “manifatturiera” del lavoro (che suddivide le mansioni all’interno di una fabbrica o di un ufficio; d’ora in avanti DTL). L’ipotesi teorica cruciale suggerisce che è il progredire della DTL che “comanda” l’articolarsi della DSL.[14]

All’interno del processo di lavoro, la DTL scinde il lavoro manuale da quello intellettuale e, più in generale, le prestazioni esecutive da quelle ideative e direttive.[15] Essa quindi separa le “potenze mentali” del lavoro cooperativo dalla grande massa dei produttori, accentrandole in ruoli ricoperti o da capitalisti o da loro funzionari. Inoltre la scomposizione di ogni mansione in una rete di subspecializzazioni determina non solo un’ovvia segmentazione, ma anche una stratificazione dei nuovi compiti, rendendo assai più complessa la gerarchia produttiva. La DTL spinge infatti il capitalista a autonomizzare sia il proprio stesso ruolo, che i ruoli a lui sottoposti: «la direzione, nel suo porsi al di sopra di una serie di processi lavorativi interconnessi, si “autonomizza” rispetto ad essi e, quando i suoi compiti di strategia e di coordinamento d’insieme si sono complicati oltre certi limiti, si articola in un nuovo processo di lavoro sovraordinato agli altri. Dato che il processo “ascensionale” considerato può ripetersi più volte nel corso del movimento che conduce all’aumento delle dimensioni dell’entità formalmente unitaria - e perciò durante la centralizzazione (monopolizzazione) dei capitali - vengono a prodursi una serie di stratificazioni successive».[16] Oltre dunque a scomporre in orizzontale, dentro e fuori l’impresa, i ruoli dell’attività lavorativa, la DTL li scompone anche verticalmente: essa costituisce il motore precipuo delle stratificazioni di gerarchia e di potere specifiche del capitalismo.

All’esterno del processo lavorativo, la DTL innesca la frammentazione della produzione sociale in una miriade di “unità produttive di base”,[17] poiché ciascuna parte di una mansione divisa può a sua volta diventare l’oggetto di un peculiare processo lavorativo, moltiplicando così le branche produttive come le unità di valorizzazione entro le varie branche. Oltre che nello spazio delle imprese, la DTL dovrebbe proiettare il proprio movimento parcellizzante - orizzontale così come gerarchico - nello spazio degli apparati della connessione sociale, o, in ampia accezione, della circolazione capitalistica: mercantili, finanziari, politici, ideologici, informativi, scientifici. La Grassa e i suoi collaboratori non si dedicano tuttavia a disamine dettagliate di questi condizionamenti, confermando le tradizionali difficoltà del marxismo a documentare i canali effettivi coi quali i nessi strutturali orientano quelli sovrastrutturali.[18] 

La DTL non concerne unicamente l’attività lavorativa, bensì plasma tutti gli elementi necessari al processo di lavoro - ossia le marxiane “forze produttive”. Anzitutto essa coinvolge in maniera essenziale nella produzione il capitalista. Infatti il mercato esiste per i beni finali, non per le parti di essi: per gli spilli, non per le teste di spillo. Ecco dunque che il capitalista costringe i lavoratori a dipendere da lui per riunire in un prodotto commerciabile le componenti separate che essi stessi producono. In secondo luogo, il generico strumento di produzione diventa un sistema di macchine, che coordina le frazioni produttive nel modo con cui esse sono state scomposte e riorganizzate proprio dalla DTL. Infine il prodotto diventa una ricchezza astratta, che si scambia e consuma al fine di valorizzare il capitale e dunque per perpetuare l’assetto dei rapporti di produzione. Pensando con rigore questa impostazione, ne deriva, secondo La Grassa, l’obsolescenza della teoria del valore-lavoro. Un’indagine della struttura economica odierna non può infatti più scaturire dalla nozione di lavoro astratto salariato quale (unico) elemento valorificante. Non ha senso chiedersi se il lavoratore subordinato singolo è produttivo o improduttivo, in quanto questi compie sempre un’operazione monca: occorre piuttosto considerare il “lavoratore complessivo”, che include, oltre agli esecutori manuali dei vari reparti dell’impresa, i tecnici, i consulenti e i dirigenti.[19] È inoltre il sistema delle macchine che fissa la cooperazione dei diversi lavori nella fabbrica capitalistica, senza cui nessun lavoro diviso produrrebbe alcunché.[20] Infine i valori d’uso, o prodotti, escono dai, e rientrano nei, processi lavorativi in quanto supporti materiali della riproduzione del nesso di capitale.[21] In breve, «il lavoro vivo, in sé stesso considerato, è solo la vuota (e astratta) estrinsecazione della forza-lavoro del singolo produttore espropriato, vuota perché priva di risultato concreto senza la sintesi compiuta dalla direzione capitalistica».[22]

 

2.2 Il modello delle transizioni capitalistiche

 

Nella lettura lagrassiana di Marx, insomma, i capitalisti hanno il potere di disposizione sulle condizioni oggettive e soggettive del lavoro. Del processo lavorativo essi non detengono soltanto la proprietà giuridico-economica, ma il possesso, che consente loro di conformarlo al fine della riproduzione del rapporto di sfruttamento. Proprio questo intervento nel processo di lavoro, peraltro, evita che i capitalisti siano relegati nel ruolo di non-produttori; essi sono funzionari o agenti della produzione, in quanto massimi esponenti del lavoro di direzione e di coordinamento.[23] Con lo svolgersi della DTL, la scissione, nel corpo stesso dell’unità produttiva (del “lavoratore collettivo”), tra governo capitalistico, da una parte, e lavoro di esecuzione, dall’altra, diventa sempre più recisa. Le innovazioni tecnologico-organizzative del modo di produzione attuale realizzano tutte uno spossessamento crescente dei produttori dalle condizioni del loro lavoro.[24] In tal senso, la riproduzione del nesso di capitale avviene non soltanto in forma allargata (se si genera un plusvalore), ma altresì in forma approfondita (se si articola la DTL).[25]

Questo “approfondimento” del comando capitalistico nel processo di lavoro procede secondo un andamento ciclico, scandito da stadi di riorganizzazione e da periodi di assestamento. Più ravvicinatamente, i momenti logici dell’analisi sono indicati dalle categorie marxiane di cooperazione, DTL e macchinismo.[26] La fase iniziale è costituita dall’imporsi della disciplina dispotica e gerarchica del capitale sul lavoro cooperativo. La tecnologia è data. Intorno ad essa si dispongono metodi di estrazione del plusvalore basati sulla coercizione, sulla sorveglianza e sull’allungamento del tempo di lavoro. Tali metodi - in senso lato chiamati del “plusvalore assoluto” o della “sussunzione formale” del lavoro al capitale - possono diffondersi nelle diverse branche produttive, poiché non dipendono dalla presenza o meno di specifiche innovazioni. Il saggio del plusvalore tende dunque a livellarsi.

Il secondo stadio rende riproducibile il dominio sull’attività collettiva tramite la DTL, che connette i lavoratori nel mentre li espropria soggettivamente. La cooperazione conduce perciò, nel capitalismo, al processo del lavoro diviso. La configurazione tecnica è ancora data. Ma, stavolta, si tratta di scomporre e riorganizzare le mansioni conformemente al fine del massimo risparmio di tempo, aumentando il ritmo del lavoro e riducendo i tempi morti. Così, la manifattura modifica durante l’800 le modalità di erogazione della forza-lavoro frantumando in operazioni parziali la base tecnica del mestiere artigiano. Così, la “rivoluzione taylorista” svuota all’inizio del secolo le categorie operaie professionali con la riduzione di tutte le operazioni manuali a “movimenti semplici” governati dalla direzione. Così gli impiegati d’ufficio, specialmente dagli anni ‘60, passano da funzioni di natura semidirigenziale e compiti standardizzati e razionalizzati gerarchicamente. La circostanza che il metodo di sfruttamento sia ora del “plusvalore relativo” - poiché si basa sull’intensificazione del lavoro - comporta la “sussunzione reale” del lavoro al capitale, ed inoltre genera una forte differenziazione dei saggi del plusvalore.[27]

Infine l’intervento della macchina incardina in un sistema meccanico la parcellizzazione delle mansioni, conferendole l’oggettività di una nuova tecnologia. Le funzioni di controllo e di coordinamento vengono trasferite al sistema delle macchine, che fa dei lavoratori delle proprie appendici e crea schiere di operatori dequalificati. Così i filatoi e i telai meccanici per l’industria tessile del XIX secolo. Così la catena di montaggio di Ford per l’”organizzazione scientifica del lavoro” di Taylor. Così la microelettronica anzitutto per il settore terziario. Il metodo di estrazione del “plusvalore relativo”, a causa della maggiore efficienza dei mezzi di produzione utilizzati, si basa adesso, a ritmi di lavoro invariati, principalmente su incrementi della produttività del lavoro. Tali incrementi, poiché le innovazioni attecchiscono con tempi e radicalità differenti nell’uno o nell’altro settore,[28] rendono diseguali le quantità di capitale variabile impiegate, mentre esigono quantità diverse di capitale costante. Ne discende che tanto il saggio dello sfruttamento quanto la composizione tecnica del capitale risultano per nulla livellati.

Questi tre momenti logici ripercorrono dunque, durante ogni ciclo strutturale di “approfondimento”, il passaggio dal mero dominio sul processo di lavoro, al potere entro quel processo.[29] Una tale transizione capitalistica s’impernia attorno alla DTL, la quale non è soltanto lo stadio intermedio del ciclo, ma ne rappresenta il tratto caratterizzante: è essa che consente al lavoro cooperativo di riprodursi, traducendolo in lavoro parcellizzato; ed è ancora essa che si incorpora in una nuova conformazione tecnica, rendendola, come scrive la Turchetto, una «macchina divisa». Ma vi è di più. La centralità della DTL significa che la dinamica del capitalismo scaturisce in via preliminare dall’intervento di soggettività che frantumano e ricompongono; procedendo poi contro l’azione di altre soggettività, che resistono e si oppongono. In particolare, al termine di una fase di ristrutturazione, l’organizzazione del lavoro tende ad ossificare una nuova articolazione delle qualifiche produttive, favorendo l’aggregazione e le rivendicazioni di segmenti del “lavoratore collettivo”. È (anche) per smembrare simili processi che subentra la tappa iniziale di un ulteriore ciclo, in cui acquista considerevole importanza il potere disciplinare capitalistico direttamente coercitivo, prima di disporre un salto qualitativo nella DTL.[30]

Ma non basta ancora. L’inquadramento della DTL in una dinamica ciclica, permette di riesaminare alla radice la nozione stessa di sfruttamento. Sappiamo dal precedente paragrafo che per La Grassa la metodologia marxiana andrebbe resa del tutto indipendente dalle categorie generali. Ciò condurrebbe, di conseguenza, al rigetto di qualsiasi concetto-ponte tra epoche storiche.[31] La teoria marxista indagherebbe cioè una singola fase della strutturazione sociale; «soltanto all’interno di questa “fase” [sarebbe lecito] parlare di generalità delle leggi individuate».[32] La Grassa, nondimeno, si accorge della difficoltà implicata da questo approccio: una volta privi di categorie che abbraccino più periodi, restiamo «disorientati non appena la trasformazione delle strutture sociali abbia superato una data soglia».[33] L’uscita dal dilemma sta proprio nello schema dei grandi cicli strutturali. Essi costituiscono «una successione di modi di produzione pur entro la forma capitalistica della riproduzione dei rapporti sociali».[34] Dall’organizzazione manifatturiera del lavoro a quella informatizzata, si attuano delle vere e proprie transizioni capitalistiche entro le quali l’apparato analitico del precedente paragrafo dovrebbe riuscire a distinguere ciò che appartiene a quel certo ciclo da ciò che li attraversa tutti. Si compone così un ordinamento di concetti che, sebbene riferentisi esclusivamente al capitalismo, sono provvisti di gradi difformi di generalità. Sulla loro base, sorge una chance logica che non apparteneva all’orizzonte di Marx: elaborare un’indagine in cui perfino l’utilizzo di nozioni sovrastoriche sia interno alle epoche capitalistiche.

Si consideri l’attività lavorativa. Il suo rendimento, risultante dalla somma dei progressi nell’intensificazione e nella produttività del lavoro,[35] cambia col mutare ciclico delle articolazioni tecnico-organizzative che i processi di lavoro assumono. Si ridefinisce inoltre, entro una data unità di analisi, il lavoro semplice e la scala di quelli complessi o qualificati. Modificata è infine la composizione del “lavoratore collettivo”, a cui spetta la producibilità dei valori d’uso. Non soltanto quindi varia ciclicamente il contenuto quantitativo del valore (il “tempo di lavoro socialmente normale”), ma essendo diverse le strutture del processo di lavoro da cui derivano, in ogni fase, le grandezze di lavoro, risultano qualitativamente differenti i valori medesimi.[36] A sua volta, ciò implica che i plusvalori delle epoche capitalistiche non siano, nemmeno essi, riducibili ad una comune unità di misura; ossia che l’effettuarsi dello sfruttamento non avvenga da un ciclo all’altro nello stesso modo (di estrazione). Ormai non si tratta più di mettere a raffronto il lavoratore espropriato e quello che non lo è, bensì (poniamo) il lavoratore della fabbrica taylorista-fordista con quello dell’ufficio microelettronico.[37]

 

2.3 Dalla fabbrica all’impresa

 

Tiriamo un primo bilancio. L’attività teorica di La Grassa tra il 1973 ed il 1980 perviene ad alcuni notevoli spostamenti concettuali entro la tradizione interpretativa marxista. Traendo ispirazione da Althusser, Bettelheim e Panzieri, ma con sostanziale originalità, essa coglie nell’introduzione del potere di sfruttamento all’interno del processo di lavoro la specificità della struttura economica capitalistica. Mostra come questo potere, per riprodursi, deve parcellizzare sempre più finemente le mansioni del lavoratore entro un’unità produttiva, dando luogo alla DTL. Sostiene che, posti i primi due passaggi, i rapporti di produzione rappresentano la forma dello sviluppo delle forze produttive. Propugna di ancorare l’astrazione del lavoro non già al generalizzarsi dello scambio mercantile, bensì allo spossessamento/livellamento del lavoro vivo che avviene nel processo di produzione. Infine, oltre i testi marxiani, tenta di concettualizzare non un mero allargamento del rapporto di capitale, ma pure una sua dinamica ciclica di approfondimento. Questo ambizioso programma di ricerca ruota intorno ad un’assunzione cruciale: che, mentre è possibile ricostruire le forme della circolazione (mercantile e politica, sopra tutte) a partire dal processo di lavoro sussunto al capitale, l’itinerario inverso risulta non percorribile o, quantomeno, concettualmente meno fecondo.[38] Il decisivo banco di prova della sua impostazione sta dunque nel riuscire a mostrare come le articolazioni della DSL si dipartano dalla dinamica specifica della DTL. Soltanto riuscendo a provvedersi di una strumentazione efficace e coerente con cui accostarsi alla DSL, l’approccio diventerebbe capace di dare luogo a indagini ravvicinate di una concreta totalità sociale capitalistica. Dalla metà degli anni 1990, tuttavia, La Grassa riconosce lucidamente che il suo programma di ricerca ha subito un’impasse e articola una diagnosi teorica costruttiva.[39] Ripercorriamo molto in breve i termini dell’autocritica e della rinnovata elaborazione.

La relazione intersoggettiva che dà forma al capitalismo è la separazione delle potenze mentali della produzione dal lavoro meramente manuale ed esecutivo. Grazie a tale scissione, il potere della classe dominante si radica nel processo di produzione e, in generale, nella sfera economica.[40] A sua volta, le “potenze mentali” sono per un verso costituite da saperi tecnico-organizzativi e, per l’altro verso, da capacità politiche di direzione strategica. Gli uni si concretizzano nelle figure dei dirigenti tecnici, mentre le altre danno luogo a gruppi di imprenditori-manager. I dirigenti gesticono le “fabbriche”, quali unità di trasformazione di certi input in certi output. Gli imprenditori si dedicano alle “imprese”. Una “impresa” può includere varie “fabbriche”, coordinandole tra loro; ma, soprattutto, essa esplica strategie di conquista del potere che si estendono su ogni sfera della società.[41] La distinzione risalta meglio se consideriamo le innovazioni. Finché guardiamo - nell’ottica tipica del capitalismo concorrenziale, e propria ad esempio della teoria schumpeteriana - all’imprenditore come al dominus della “fabbrica”, le innovazioni principali riguardano i processi lavorativi (la tecnologia utilizzata e l’organizzazione del loro svolgimento; la scoperta di nuovi prodotti e di nuovi mercati). Quando esaminiamo il capitalismo del XX e del XXI secolo, dobbiamo piuttosto riconoscere che l’imprenditore introduce in ampia misura innovazioni non economiche: l’accesso ad un network di relazioni sociali può far entrare in un mercato noto ma chiuso; il finanziamento, o addirittura la diretta creazione, di un partito politico può promuovere o salvare molte “fabbriche”; il legame con un ceto burocratico può far ottenere commesse industriali e risorse creditizie; la ricerca dell’avvallo di professionisti dell’ideologia (scienziati, religiosi, trasmettitori di cultura) può rendere leciti e addirittura legittimi comportamenti altrimenti proibiti, e così avanti.[42] Si tratta di fenomeni non tutti nuovi e che - è bene rimarcare - non manifestano alcun “patologico intreccio” tra Economico, Politico e Ideologico, bensì che esplicano nella maniera più coerente e compiuta il meccanismo sistemico della riproduzione capitalistica. Questo meccanismo si basa sulla dinamica della DTL - considerata nei paragrafi precedenti -, la quale divide, gerarchizza e contrappone tra loro sia i processi di lavoro che le attività circolatorie. L’espressione di superficie del meccanismo è anzitutto la competizione tra chi governa le “fabbriche” e, al livello superiore, tra chi governa le “imprese”. Mentre però le “fabbriche” gareggiano tra loro secondo una razionalità strumentale avente quale scopo la massimizzazione del profitto dati certi vincoli (di costi e di contesto istituzionale), le “imprese” ingaggiano una competizione a tutto campo che riflette una razionalità strategica o politica, per la quale sono proprio i vincoli a essere oggetto di modifica. Questa seconda razionalità, focalizzandosi sulle possibilità di aggirare e ridefinire le regole d’azione date, si realizza così col comando imperativo come con la flessibilità della mediazione.[43]

La scissione tra le potenze mentali ed il lavoro manuale non ha dunque condotto - come aveva ipotizzato Marx - all’opporsi antagonistico di un “lavoratore collettivo produttivo” (in cui confluiscono dirigenti, quadri e operatori subalterni) ad una proprietà parassitaria sempre più estranea alla formazione della ricchezza. Piuttosto, la prima separazione tra direzione ed esecuzione ha in seguito, approfondendosi, dato forma alla seconda separazione: quella tra direzione manageriale e direzione tecnica. La connessa distinzione dei due apparati definiti “fabbrica” e “impresa”, ha radicato il potere nei luoghi lavorativi (con la “fabbrica”), ma lo ha rafforzato attraversando ogni altra sfera sociale (con l’”impresa” e la sua razionalità politica).[44] La scissione interna alle potenze mentali, ossia dei ruoli direttivi della società, da parte della DTL non si arresta, peraltro, alla coppia “fabbrica”-”impresa”. Essa si compie, più o meno conseguentemente, dentro ogni apparato della circolazione, a cominciare dallo stato, in cui occorre distinguere tra gli agenti politici investiti di mansioni strategiche, che rappresentano la frazione dominante, e gli agenti politici che governano i mezzi coi quali l’apparato statuale si riproduce. Come si vede, La Grassa propone un’impostazione teoricamente parsimoniosa e coesa, la quale, evocando unicamente la doppia scissione operata dalla DTL dalle e nelle attività intellettuali, riesce a orientare la ricerca sia a livello strutturale che sovrastrutturale. Con questa impostazione, inoltre, il nostro autore effettua un radicale distacco dall’economicismo. Recuperando e criticando importanti tesi althusseriane, La Grassa sostiene che la riproduzione dei rapporti umani nel capitalismo è centrata sul conflitto dispiegato per il potere: anche nel capitalismo «l’economia è al servizio della politica».[45] La sfera economica rappresenta il sottosistema sociale in cui, durante la nostra epoca, prioritariamente vengono tratti i mezzi per svolgere tale conflitto. Il fine del profitto è dunque al servizio di un fine ulteriore: la riproduzione dei rapporti sociali capitalistici.[46] «Nella formazione sociale capitalistica, la sequenza causale [decisiva] è: ottenimento di crescenti risultati nella sfera economica per utilizzarli quali mezzi al fine di conquistare, tramite strategie appropriate, il maggior potere possibile nella società nel suo complesso. […] Logicamente, il potere poi conquistato nell’ambito della società tutta serve a conseguire ulteriori miglioramenti nell’ottenimento dei mezzi economici utilizzati nella lotta per il dominio».[47]

Avviamoci a concludere. L’impasse dell’impostazione lagrassiana, al termine della prima fase della sua riflessione, sembra in larga parte dovuta al residuo di determinismo e di economicismo di cui s’imbeveva. Il compito di “dedurre” le articolazioni complesse degli apparati della DSL, ovvero delle forme della circolazione sociale, dalla dinamica profonda della DTL appariva difficilmente esaudibile, e generò in effetti modesti risultati.[48] Dopo una fase nella quale il nostro autore tentò di affrontare lo stallo radicalizzando ancor più il suo strutturalismo,[49] nell’ultimo periodo stiamo assistendo ad un’interessante rivalutazione delle istanze politiche e soggettive.[50] È anzitutto il gruppo degli imprenditori-manager, generato dalle pulsioni della DTL nei processi lavorativi, ad attraversare i territori della circolazione, influenzando gli apparati politici e ideologici coi mezzi economico-finanziari, e reciprocamente condizionando le attività economico-finanziarie coi mezzi tratti dalle sfere della circolazione. I movimenti di questo gruppo, retti da una razionalità strumentale non riducibile alla canonica razionalità strumentale statica, comportano un intreccio vicendevole sistematico tra le principali sfere istituzionali, rendendo poco trasparente la fondazione dell’odierno dominio nell’ambito produttivo. In maniera isomorfica, anche i maggiori apparati circolativi (stato, mercato, sistemi ideologici) si riproducono mediante la scissione tra ruoli strategici e ruoli amministrativi. Al centro della scena capitalistica stanno pertanto quei gruppi di agenti che - provenendo da vari ambiti, plasmati tutti dalla dinamica frammentante e gerarchizzante della DTL -, confliggono tra loro per perseguire il potere, alterando regole e vincoli, impiegando i mezzi tratti dalla loro sfera per raggiungere il potere e, circolarmente, usando il potere per migliorare i mezzi nella propria sfera. Questi gruppi di agenti costituiscono l’odierna classe dominante. Siamo davanti all’abbozzo di una sintesi teorica che documenta le potenzialità ancora vive di un marxismo (o post-marxismo) rigorosamente pensato.

3. La teoria del capitalismo di Ernesto Screpanti

 

«I marxisti hanno solo variamente riletto Marx; il problema è però di riscriverlo» (E.Screpanti)

 

3.1 Le onde lunghe

 

Come possiamo abbandonare le marxiane “leggi di movimento” del capitalismo, senza rinunciare ad un’analisi dinamica di lungo periodo? Una risposta consiste nell’interpretare quelle “leggi” in maniera radicalmente antideterministica. «La mia opinione - suggerisce Sraffa - è che la legge di Marx [della caduta del saggio del profitto] sia metodologica e non storica e quindi non verificabile statisticamente. Da quel che si sa, sembra che in ogni data società capitalistica sia il saggio del plusvalore che quello del profitto siano straordinariamente stabili nel tempo. Questo non contraddice la legge di Marx, quando ‘tendenziale’ sia inteso relativamente ad una particolare astrazione, cioè essa sia il risultato dell’azione di un gruppo di forze (accumulazione) supponendo che altre forze (progresso tecnico, invenzioni e scoperte) non operino. Il risultato è che la caduta tendenziale costringe i capitalisti a continue rivoluzioni tecniche per evitare la caduta del saggio del profitto».[51] Si tratta dunque di immaginare che la clausola di ceteris paribus - con la quale siamo abituati a congelare un coacervo di forze, per concentrarci sulla variazione di una o di poche -, non rifletta comode ed arbitrarie assunzioni del teorico, bensì sia espressione diretta dell’operare di processi storici reali. Il teorico “chiude in un sacco” le stesse forze che il capitalista cerca di liberare. Ciò fa sì che l’agente storico si comporta così da falsificare lo schema del teorico: s’impegna per contrastare l’esito che il modello, sotto le sue premesse, predice. Qui sembra annidarsi una concezione “empiristica” dell’impresa scientifica, secondo cui può esistere una sostanziale corrispondenza tra gli schemi astratti e la realtà storica: gli uni e l’altra convergono asintoticamente verso una medesima verità; talché la seconda può confutare i primi operando proprio e soltanto sui fattori che i primi hanno individuato. Se l’esigenza di abbandonare le “leggi” marxiane si lega allo scetticismo sul loro statuto legale, nonché sulla loro ridotta presa esplicativa, una linea di risposta che dia credibilità a quelle leggi in nome di “controtendenze” esse stesse economiche, e perciò in grado di annullare sistematicamente l’influenza delle leggi enunciate, appare poco convincente.

Dove si colloca, allora, lo spazio concettuale del lungo periodo? «Si pensi a decisioni d’investimento di dimensioni grandi rispetto all’intero sistema, o di contenuto fortemente innovativo, spiegabili più convincentemente in termini di capacità e percezioni imprenditoriali piuttosto che di massimizzazione di qualche funzione di valore atteso sotto vincoli parametrici; o ancora, si pensi a comportamenti indotti da esternalità così potenti da apparire come il risultato di decisioni di soggetti collettivi, quali lo stabilirsi o il trasformarsi di patterns di consumo, di atteggiamenti di classe o corporativi, di consuetudini e regole istituzionali. Il lungo periodo è lo spazio adeguato a isolare fatti di questo genere e a ragionare sulla loro genesi ed evoluzione».[52] Tale evoluzione presenta discontinuità tali da giustificare l’ipotesi che il sistema capitalistico «attraversi ricorrentemente periodi di stabilità e instabilità strutturale».[53] Nei primi si prendono decisioni sulla base di pochi segnali espressi dai valori effettivi (o dalle loro variazioni) assunti dalle variabili interne a ciascuna sfera istituzionale. Nei secondi, mancando soluzioni d’equilibrio stabili, sulle decisioni influiscono le variabili esterne ad ogni sfera. L’alternanza sistematica tra lunghi periodi di intensa crescita e lunghi periodi di tendenziale depressione, non richiede peraltro che si riscontri una regolarità periodale delle onde lunghe, intese quali ampie fluttuazioni dell’economia-mondo capitalistica. La non-regolarità aiuta anzi ad escludere che un medesimo complesso causale possa governare più onde lunghe, e che dall’onda si passi al ciclo, quale (eterno) ritorno delle onde passate. L’alternarsi delle onde lunghe, per cui disponiamo ormai di seri riscontri statistici,[54] scaturisce, secondo Screpanti, almeno altrettanto da specifiche circostanze politico-istituzionali, che da svolte tecnologiche, non consentendo quindi una spiegazione teorica unitaria: ciascun ciclo lungo «è un fenomeno in cui gli shocks casuali giocano il ruolo maggiore; così una spiegazione probabilistica basata su vari differenti processi appare la più opportuna. La periodicità quasi regolare di 50-60 anni che sembra ricorrere nei quattro cicli di Kondratieff storicamente documentati, può essere l’effetto della fortunata sinergia di fenomeni differenti quali baby-booms, cicli generazionali, cicli di mutamento delle élites, lags generazionali, che sono stati intrecciati e rafforzati da qualche grosso impatto come le quattro rivoluzioni e guerre europee».[55] Dato questo scetticismo di fondo, si può procedere all’analisi delle traiettorie di singoli fattori endogeni di cambiamento. In particolare Screpanti elabora una modellizzazione della centralità, nelle fasi di drastici cambiamenti qualitativi, delle decisioni d’investimento; sulle quali incidono specialmente le variabili della sfera socio-politica, e in particolare le esplosioni, attuali e previste, di conflittualità.[56]

Tirando le fila, se uno spazio concettuale per l’analisi della dinamica strutturale di lungo periodo esiste; se in esso i fattori causali coinvolti oltrepassano la sfera economica, al punto che «ci sarebbe bisogno di un modello generale dell’azione sociale in grado di dar conto al contempo della dinamica delle cose economiche e di quella» dei ruoli sociali, delle norme e delle opinioni;[57] se infine in quello spazio ripudiamo gli asserti nomici a favore di modelli specifici di onde lunghe specifiche; se ammettiamo tutto ciò, non possiamo stupirci della vaghezza degli esiti scientifici di quest’impostazione. Nel suo scritto epistemologicamente più raffinato sul tema, Screpanti giunge con lucidità ad assimilare il confronto tra un’onda lunga e le altre alle analogie di cui si nutre il mestiere dello storiografo: discorrere ad esempio di periodi di “guerra” e di “pace” non indica che questi posseggano le stesse ricorrenti caratteristiche; significa soltanto paragonare fasi nelle quali il potere politico si riveste di forme differenti, al fine di orientare la ricerca dentro ciascuna fase.[58] Una tale conclusione non appaia deludente. Al contrario: essa ha il pregio di giustificare ed esaltare quanto il marxismo sa fare di meglio: la disamina storico-economica di congiunture. L’approccio alle onde lunge, così inteso, è insomma un antidoto alla scarsità delle analisi concrete di capitalismi concreti, che nel §1 abbiamo evocato e problematizzato.

 

3.2 Il comunismo nel capitalismo

 

La maggiore difficoltà della concezione marxista della transizione dal capitalismo a differenti modi di produzione può essere così enunciata: «La via seguita dai borghesi per scalzare il mondo feudale fu quella della ricerca di una propria area autonoma di produzione e di distribuzione della ricchezza, e dalla possibilità o meno di realizzare tale disegno dipendeva alla fine anche il progetto politico. Nulla dice che il proletariato debba percorrere il medesimo cammino con un fine analogo; tuttavia, l’avere affidato al solo ambito politico l’ipotesi di mutamento radicale del modo di produrre la ricchezza potrebbe anche rivelarsi un mito, perché gli antagonismi vengono proiettati con un salto ben oltre la loro vera radice originaria, che resta per sempre circoscritta alla natura dello spazio economico».[59] Come le esperienze storiche testimoniano, sembra illusorio ritenere che uno spazio economico nuovo - il quale elimini lo sfruttamento e/o riduca la mercatizzazione universale del mondo - possa edificarsi semplicemente a mezzo ed in conseguenza di sconvolgimenti politici (la famigerata “dittatura del proletariato”). Screpanti riconduce questa difficoltà a un errore teorico del marxismo: l’idea che il capitalismo sia, o possa diventare, un modo di produzione puro. Invece, proprio come dentro l’involucro istituzionale feudale si svilupparono, fin dal Trecento, aree di economia capitalistica, così oggi assistiamo all’avvento di processi economici non-capitalistici nell’ambito istituzionale dominante. Il principale tra questi processi è rappresentato, a suo avviso, dall’offerta e fornitura di beni sociali, ossia «di beni allocati fuori dal mercato e sottratti alla logica del profitto, che è possibile offrire a tutti i cittadini senza esclusione e senza far pagare il prezzo, e la cui fruizione non genera rivalità tra i consumatori. Le politiche ambientali, ad esempio, producono un bene – diciamo, aria pulita – che viene distribuito a tutti i cittadini gratis e il cui consumo da parte di un individuo non riduce la quantità disponibile per gli altri. Alcuni importanti beni sociali (o che possono essere forniti come sociali) sono la sanità, l’istruzione, la giustizia, la scienza, l’arte, la cultura, la prevenzione infortuni, la previdenza, le assicurazioni sociali, il web. Ma la lista si potrebbe allungare. Il criterio di allocazione di questi beni è “a ognuno secondo i suoi bisogni”. Non solo, ma essi possono essere finanziati in tutto o in parte con la fiscalità generale. Ne consegue che, in un sistema fiscale improntato al principio della progressività delle imposte, i beni sociali possono essere finanziati in base al criterio “da ognuno secondo la sua capacità” (contributiva)».[60]

La linea di ragionamento è interessante ma sembra pretendere troppo. Si può infatti dubitare che i beni sociali soddisfino la celebre condizione che Marx attribuiva all’economia comunista (a ognuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità). Essi, in effetti, vengono definiti mediante le stesse caratteristiche dei “beni pubblici”,[61] ossia che per essi il razionamento non è possibile e non è desiderabile. L’impossibilità di attuare un razionamento del bene mediante il sistema dei prezzi, discende dal fatto che quel bene esprime una particolare esternalità del consumo: quella in cui ciascuno deve consumare la stessa quantità del bene. Si pensi alla difesa nazionale, o al fumo passivo in un appartamento: vi è un solo livello di difesa nazionale per tutti gli abitanti di un dato territorio, e un solo livello di inquinamento da fumo per tutti i coinquilini. La non desiderabilità del razionamento deriva invece dalla circostanza che il consumo di un individuo nulla sottrae alla quantità disponibile per essere consumata dagli altri, ossia che nessuno può acquistare una frazione del bene pubblico: tutti debbono in qualche modo concordare su una qualche quantità comune. Secondo questo significato di “bene pubblico”, appare inesatto che ognuno fruisca del bene sociale secondo i suoi bisogni: ciascuno deve fruirne la stessa quantità degli altri. Consapevole di questa difficoltà, Screpanti adotta una concezione più ampia che colloca in un'unica categoria i beni pubblici e i “beni meritori”. Questi ultimi sono quei beni privati che la collettività giudica appunto meritevoli di essere forniti pubblicamente. «In quest'ottica è sufficiente una decisione politica per fare di un prodotto un bene sociale. […] Se la collettività ritiene che le patate debbano essere offerte a tutti i cittadini gratis, le patate diventano un bene sociale».[62] Come chiarisce Musgrave, i beni meritori presentano tuttavia il solo requisito della non-rivalità: le patate restano un bene privato, nel senso che se sono consumate da A non possono esserlo da B, e viceversa. Non basta: perfino la non-rivalità vale unicamente «per particolari consumatori»,[63] in quanto altrimenti il suo onere non sarebbe sostenibile,[64] e dunque «avvantaggia segmenti ristretti della popolazione».[65]

Appare altresì inesatto che ciascun cittadino contribuisca al finanziamento dei beni sociali (come definiti da Screpanti) secondo le sue capacità: anzi ognuno, sapendo di non poter essere escluso dalla fruizione del bene, è incentivato a non sopportarne il costo. Affinché vengano offerte quantità positive del bene, occorre un accordo vincolante, o addirittura una coercizione, sulla ripartizione degli oneri, che in generale non riguarda soltanto l’imposizione, posto che numerosi beni sociali sono finanziati da altre forme di fiscalità oppure in deficit. Anche in presenza di una progressività dell’imposta, la contribuzione riflette dunque il criterio “da ciascuno secondo le sue capacità” unicamente in circostanze speciali.[66]

L’insistenza di Screpanti sui beni sociali è nondimeno importante. Per intenderne la ragione, conviene ricorrere alla contrapposizione tra i beni pubblici ed i beni posizionali. Consideriamo per semplicità un sistema economico composto da due soli individui. In esso abbiamo la compresenza di tre principali tipi puri di beni (cui si aggiungono, ovviamente, tanti casi intermedi): i beni privati, tali che se un soggetto ne consuma una certa quantità, l’altro soggetto non ne consuma affatto; i beni pubblici, tali che, come si è visto, ognuno ne consuma la medesima quantità; e i beni posizionali, tali che se un soggetto ne consuma una certa quantità, l’altro soggetto deve consumarne un’eguale quantità negativa. Pensiamo a beni come il prestigio o il potere: è impossibile che un soggetto ne fruisca, se non a detrimento dell’altro; se vi è un dominatore, abbiamo un dominato; se vi è qualcuno dallo status sociale superiore, abbiamo qualcun altro dallo status inferiore.[67] Tanto i beni pubblici quanto quelli posizionali esprimono esternalità del consumo, definite in unità del bene stesso e da cui nessuno può venire escluso; sia gli uni che gli altri richiedono da tutti una pari quantità di consumo del bene; mentre però gli uni erogano quantità positive per tutti, gli altri o danno o tolgono lo stesso ammontare. Nel capitalismo sono insomma offerti, accanto ai beni privati, due classi di beni che, nei termini dello scambio volontario, mai esisterebbero: i beni pubblici, in quanto solo un obbligo spinge a finanziarli; i beni posizionali, in quanto solo un obbligo può stabilire che qualcuno li consumi “in negativo”. Con una differenza, però: mentre l’obbligo che presiede ai beni posizionali è sempre asimmetrico (il prestigio e il potere, in effetti, o si impongono o vengono imposti), quello che statuisce i beni pubblici può non esserlo (anzi, da Wicksell in avanti si è addirittura immaginato che possa essere deliberato unanimisticamente).

Ma cosa accade quando un bene pubblico viene richiesto da una parte della popolazione contro l’altra? Accade che l’obbligo di contribuzione ha natura asimmetrica, ossia nasce dal potere di un gruppo su un altro. Abbiamo stavolta un bene pubblico che è nel contempo un bene posizionale. Il caso principale, ma per nulla unico, è costituito dalla «riduzione dell’orario lavorativo, a parità di salario, imposta per legge. È distribuita senza escludibilità perché, essendo determinata dalla legge, ne godono tutti i lavoratori. È fruita senza rivalità perché l’ora in meno di lavoro di cui gode un operaio non aumenta le ore lavorate dagli altri lavoratori».[68] Siamo davanti a un bene pubblico puro, del quale non solo qualunque salariato, ma qualunque cittadino, in linea di principio, fruisce in eguale misura. Nel contempo siamo davanti a un bene posizionale puro, in quanto un gruppo sociale può goderne soltanto perché un altro gruppo può goderne meno (in pari misura): i capitalisti possono controllare una quota della giornata lavorativa di tanto minore, di quanto maggiore è il tempo libero (o liberato). Nella mia rilettura dell’approccio suggerito da Screpanti, insomma, il comunismo può entrare nel capitalismo all’intersezione dei beni pubblici coi beni posizionali.

 

3.3 Il contratto di lavoro

 

Screpanti, in pagine che per acume analitico sono tra le migliori della recente letteratura neomarxista internazionale, sostiene che l’istituzione fondamentale del capitalismo non è l’assetto privatistico dei diritti di proprietà, bensì il contratto di lavoro. Quest’ultimo ha per oggetto una relazione sociale asimmetrica: qualcuno aliena la propria libertà a qualche altro per un certo numero di ore al giorno. Secondo l’autore, unicamente dentro questa relazione può determinarsi lo sfruttamento. Per argomentare la sua tesi, egli inizia togliendo di mezzo tutte le ipotesi che, nei contributi neoistituzionalistici, giustificano il contratto di lavoro.[69] Assume inoltre che gli scambi siano tali che «il prezzo di ogni merce coincide col valore attuale dei suoi rendimenti attesi e col costo sostenuto per produrla».[70] Grazie a queste premesse elimina ogni fattore distorsivo che possa comportare guadagni occasionali e/o asimmetrici di uno scambista a danno di altri. È proprio in un simile mondo trasparente, efficiente, privo di potere e di arbitrio, che dobbiamo riuscire a spiegare l’insorgere di un profitto sistematico. Dopo aver mostrato che altri tipi di contratto non generano alcun profitto,[71] il nostro autore si concentra sul contratto di lavoro, col quale qualcuno sottrae la libertà a qualche altro per un tempo prestabilito. Questo “qualche altro” sono i lavoratori, che stipulano un accordo in cui ignorano quali attività dovranno eseguire, nell’arco dell’orario lavorativo prefissato, sotto il comando della controparte. La retribuzione che essi percepiscono non è pertanto il prezzo dei servizi erogati, dato che il valore nominale del loro salario è stabilito ex  ante indipendentemente dalla produttività del lavoro, mentre l’entità e la natura dei servizi vengono stabiliti durante il processo di produzione immediato. La loro remunerazione è null’altro che un compenso per l’impegno all’obbedienza. In ciò il contratto di lavoro è unico. Tutte le restanti forme contrattuali pretendono di pagare il lavoro come se fosse una merce, ossia in base ai servizi che esso eroga. Perfino Marx concesse che ciò avvenisse sul “libero mercato”, per poi collocare la dimostrazione dello sfruttamento nei processi produttivi. Perfino Marx è stato influenzato da «un’ideologia economica potentissima e onnipervasiva che accomuna economisti appartenenti tutte le scuole di pensiero, escluso forse qualche istituzionalista e qualche seguace di Polanyi, e che ha attraversato inalterata la storia delle dottrine economiche dai tomisti ai nuovi keynesiani: l’ideologia e il lavoro merce. È basata sull’idea che i lavoratori siano in possesso di uno stock di capitale umano di cui possono vendere dei flussi che si configurano come merci. Secondo questa ideologia il contratto di lavoro sarebbe un contratto di scambio, un contratto con il quale una delle controparti, il lavoratore, cede la merce lavoro, mentre l’altra, il capitalista, ne paga il prezzo, cioè il salario. È perché è una merce che il lavoro ha unprezzo. Ed è perché è una merce riproducibile che quel prezzo converge al suo valore lavoro. Il valore della forza lavoro corrisponde al “salario naturale” dei classici e si configura come un prezzo di equilibrio di riproduzione».[72] Piuttosto, nota Screpanti, istituendo il contratto di lavoro non si scambia una merce: si istituisce l’obbligo del lavoratore a svolgere una generica attività sotto il comando della controparte.[73] Tale obbligo può generare un profitto sistematico, quando riesce a ottenere dall’attività lavorativa a sua disposizione un valore aggiunto che, al netto degli interessi, supera quello pagato ai lavoratori. E ci riesce per un verso se l’abilità manageriale del capitalista eleva adeguatamente la produttività del lavoro; per l’altro verso, se i rapporti di forza tra le classi non fissano troppo in alto i livelli salariali.[74]

Occorre osservare che la teoria di Screpanti non nasce dall’esigenza privata dell’autore di approntare uno schema “nuovo”, bensì da una questione di fondo che attraversa l’intera riflessione marxista: cosa si vende quando si vende “lavoro”? Se la marxiana forza-lavoro è una merce, si vendono i suoi servizi produttivi. «Il punto è che non esiste alcun rapporto tra la quantità di lavoro oggettivato nella forza-lavoro e la quantità di lavoro che da questa forza-lavoro può essere estratta; queste sono due quantità di lavoro che non hanno niente a che fare l’una con l’altra; questo è il punto essenziale della spiegazione marxiana del profitto. Cioè, se io dico che i mezzi di sussistenza consumati dall’operaio in un giorno contengono quattro ore di lavoro, perché ci son volute quattro ore di lavoro per produrli, questo non significa che l’operaio, la cui forza-lavoro è stata comprata e messa in funzione per un giorno, possa dare quattro ore di lavoro. Se la giornata lavorativa è di otto ore, da quella forza-lavoro si trarranno otto ore di lavoro vivo. […] Questa è appunto la spiegazione del plusvalore data da Marx. Il plusvalore, come ogni altro valore, è lavoro; e quale lavoro? La differenza tra il lavoro erogato e il lavoro contenuto nella forza-lavoro».[75] Dunque, per Marx, la genesi del plusvalore sta in una peculiare circostanza istituzionale: l’oggetto di scambio tra il capitalista e l’operaio non è direttamente il lavoro vivo, bensì la mera capacità di lavoro. Viene comprata la capacità di lavoro, mentre è utilizzato il lavoro vivo.[76] Fin qui sembra chiarito come può accadere che siano compresenti uno scambio eguale sul mercato e uno diseguale nella produzione. Ma non sappiamo ancora perché il lavoro vivo esprime un’eccedenza di valore rispetto alla forza-lavoro. La risposta testuale di Marx, ripresa da Napoleoni nel brano citato, osserva che il tempo di lavoro necessario alla riproduzione semplice del salariato compone soltanto una parte del tempo contrattualmente a disposizione del capitalista. Una prima obiezione è però che non posso spremere dal soggetto più dell’energia lavorativa che costui ha incorporato: «la forza-lavoro è definita nel Capitale come energia trasmessa a un organismo umano dai mezzi di sussistenza».[77] Per fissare le idee, introduciamo il caso estremamente semplificato in cui l’operaio incorpora energia solo mangiando e bevendo, ed in cui il suo paniere salariale include solo beni alimentari. Egli mangia e beve il suo intero paniere di beni-salario, ma eroga un’energia lavorativa (diciamo) doppia. Come può succedere? Qui, ovviamente, l’ausilio di beni strumentali più o meno produttivi non è pertinente: esso spiega l’aumento della ricchezza, non quello del valore. Se quindi il salariato riceve l’energia che serve a riprodurlo come tale, da dove trae l’energia addizionale con cui crea plusvalore? [78] Una risposta consiste nel rilevare che i lavoratori non assumono energia dal mondo esterno solo attraverso il consumo dei beni salario prodotti capitalisticamente e scambiati con la forza-lavoro. Essi possono spendere più energia nel processo produttivo di quanta ne abbiano ricevuta mangiando e bevendo i beni del loro paniere-salario, in quanto sono uomini come tutti gli altri e acquisiscono energie anche respirando ossigeno, scaldandosi al sole o bevendo acqua da una sorgente naturale libera, e in genere interagendo con la natura, che non è (ancora) completamente assorbita dai meccanismi capitalistici.[79] Ma una tale risposta appare poco persuasiva. Le forze naturali contano ma, come Marx tante volte sottolinea, costituiscono meri presupposti dei processi produttivi storicamente determinati. Che conteggiando l’apporto di Madre Natura si ottenga spesso un surplus in termini fisici e/o energetici, è evidente: una tonnellata di grano, ad esempio, contiene ovviamente più energia di quella immessavi dal lavoro vivo dell’uomo. Ciò però, altrettanto ovviamente, non “fonda” una teoria del valore-energia naturale, da affiancare a quella del valore-lavoro, o ad altre riferentisi comunque a rapporti sociali di produzione. Dentro il sistema capitalistico di produzione, il lavoratore trae energia (alimenta la sua capacità-di-lavoro) soltanto dai beni-salario che riceve in quanto membro del “proletariato industriale di fabbrica” (come Marx, con grande esattezza, scriveva). Che poi, fuori dal nesso produttivo e di dominio, il proletario fruisca di vari commons, conta nulla.

Un’altra linea di risposta consiste nell’annotare che, essendo il surplus definito come ciò che avanza della produzione rispetto agli input e alla sussistenza, l’unica grandezza che rimane variabile, rispetto a questa stessa definizione, è la lunghezza della giornata lavorativa, la quale può crescere o diminuire anche restando costante il salario reale.[80] Abbiamo dunque che un certo paniere di mezzi di sussistenza trasmette un certo ammontare di energia a un certo organismo umano: si tratta di tre dati (il paniere, l’energia e l’organismo). Accanto ad essi abbiamo un’unica grandezza variabile, quella della giornata lavorativa. Ora, delle due l’una: o l’ammontare di energia non era stato totalmente impiegato nella situazione iniziale, cosicché, accrescendo la sottomissione del lavoro al capitale, il capitalista ottiene un surplus di valore dal lavoratore; oppure già nella situazione iniziale il capitale aveva realizzato il pieno comando sul lavoro, utilizzandone in toto l’energia. La seconda ipotesi appare in effetti la sola pertinente, riguardando un capitalismo del tutto realizzato o dispiegato. È rilevante supporre un capitalista che, per massimizzare i propri guadagni, massimizza il proprio potere sui subalterni, estraendo dunque da loro ogni goccia di energia (in termini di lunghezza come di intensità del lavoro). Procedendo da tale assunzione, scompare la fonte del profitto, perché svanisce l’idea di un input che produce più di quanto è necessario alla sua sostituzione: anche la grandezza della giornata lavorativa diventa un dato.[81] Riassumiamo la nostra tesi in due asserzioni distinte. A) Possiamo ammettere che i lavoratori eroghino più energia di quella incorporata nel loro paniere salariale; possiamo ammettere che ciò crei un surplus; ma si tratta di un surplus non specificamente capitalistico, e che dunque rimane fuori dalla nostra attenzione. B) Dobbiamo riconoscere che i lavoratori non possono dare meno energia di quanta non sia nei loro beni-salario. Siamo infatti qui davanti a una semplice regola di razionalità economica: se il capitalista, all’interno di un nesso asimmetrico, può ottenere di più, lo ottiene; in termini di lunghezza e d’intensità del lavoro vivo, egli estrae tutta la capacità-di-lavoro sorretta dai beni-salario.

Torniamo alla teoria di Screpanti. Essa ha il pregio di affrontare direttamente la domanda cruciale: cosa si vende quando si vende “lavoro”? Le linee marxiane di soluzione vengono sì abbandonate, ma quella che affiora è una spiegazione storicamente indeterminata. Così, la differenza tra l’istituzione schiavistica e quella del contratto di lavoro è minima: mentre l’una era «il contratto di compravendita della potestas sul lavoratore», l’altra è «il contratto di compravendita del comando sul lavoro».[82] Così, può accadere che una cooperativa socialista effettui uno sfruttamento, assumendo lavoratori mediante contratti di lavoro ed estraendo da loro un surplus «che verrà consumato dai soci cooperatori».[83] Soprattutto, la sua risposta - di sapore weberiano e commonsiano -[84] appare incompleta: abbiamo infatti argomentato che la variabilità (in lunghezza come in qualità) della giornata lavorativa, consentita dal “contratto di lavoro”, non riesce a “spremere” dal salariato altro che la sua energia lavorativa; e che, a rigore, la spiegazione del surplus inizia quando il salariato è stato “spremuto” in maniera capitalisticamente ottimale. Screpanti non chiarisce dunque perché mai il capitalista possa ottenere un profitto. Deve succedere “qualcosa” dentro il processo di produzione immediato che – privo di costo – aumenti l’energia lavorativa dei salariati. Screpanti si arresta alla costatazione che, essenzialmente nell’ambito del processo di produzione immediato, i lavoratori salariati vengono disciplinati e coordinati dal rapporto di capitale. Ciò è corretto, ma richiede un passo ulteriore: sussumendosi al capitale, i lavoratori apprendono qualità che prima non conoscevano. Tale apprendimento non figura nella matrice tecnica del sistema economico capitalistico. Esso infatti non incide sulle anticipazioni capitalistiche, essendo un semplice by-product gratuito della sottomissione del lavoro al capitale. Il capitalista, versando il salario, copre il costo diretto del mantenimento della forza-lavoro degli operai e delle loro famiglie; mentre è il learning-by-doing nel processo di produzione che crea uno scarto positivo: a parità di anticipazioni, alla produttività degli operai si addiziona la produttività del processo che riproduce gli operai, dentro cui questi apprendono.[85] Viene insomma pagato il lavoratore singolo e in-disciplinato, mentre ad essere utilizzato è il lavoratore collettivo disciplinato dal rapporto di capitale, ossia un input-che-apprende-come-sottoprodotto-dell’attività-di-lavoro.[86]

 

3.4 Lo sfruttamento controfattuale

 

Osserva Screpanti: «Sia che il saggio di sfruttamento venga misurato in valori-lavoro, sia che venga misurato in prezzi, resta vero che esiste sfruttamento perché la produttività del lavoro è maggiore del salario. Questo, in poche parole, dice la teoria marxiana: il salario è minore della produttività del lavoro».[87] Ma questa proposizione è in sé autoevidente e da tutti condivisa: «Se per produrre l’intera ricchezza netta annua è stato necessario, ad esempio, l’impiego contemporaneo di L quantità di lavoro e di C “quantità” di mezzi di produzione, è ovvio che per produrre solo la parte di ricchezza che va ai lavoratori sarebbero state sufficienti L’<L quantità di lavoro e C’<C “quantità” di mezzi di produzione».[88] Il passaggio da una mera costatazione ad un’idea di sfruttamento del lavoro, è però del tutto opinabile in quanto «si può affermare indifferentemente: a] che per produrre la parte di ricchezza che va ai lavoratori sarebbe sufficiente che questi erogassero L’ quantità di lavoro; la quantità (L-L’) di lavoro erogato in più è necessaria per produrre la parte che va ai capitalisti; b] per produrre la parte che va ai capitalisti sarebbe sufficiente che questi anticipassero (C-C’) “quantità” di mezzi di produzione; la “quantità” C’ di mezzi di produzione anticipata in più è necessaria per produrre la parte che va ai lavoratori; g] per produrre la parte che va ai lavoratori sono state impiegate L’ quantità di lavoro in più e C’ “quantità” di mezzi di produzione in più di quelle che sarebbero state necessarie per produrre solo la parte che va ai capitalisti; d] per produrre la parte che va ai capitalisti sono state impiegate (L-L’) quantità di lavoro in più e (C-C’) “quantità” di mezzi di produzione in più di quelle che sarebbero state necessarie per produrre solo la parte che va ai lavoratori. Proseguendo su questo tono, ha forse senso concludere che il profitto è dovuto a un pluslavoro, più di quanto ne abbia il concludere che il salario è do­vuto a un pluscapitale?».[89]

Screpanti, nella consapevolezza della difficoltà, tenta di elaborare una spiegazione dello sfruttamento che sia disancorata dalla marxiana identità valore-lavoro, ossia dalla premessa che il valore non è altro che lavoro vivo astrattificato nel rapporto capitalistico di produzione. Egli procede mediante un ragionamento controfattuale: immaginiamo una società in cui i lavoratori si appropriano dell’intero prodotto netto; confrontandola con la società attuale, a parità delle tecniche impiegate, i lavoratori percepiranno l’ingiustizia di ottenere un reddito netto minore e si sentiranno sfruttati.[90] La debolezza di quest’impostazione può essere argomentata lungo tre tappe. Iniziamo considerando l’esempio di una società divisa in cacciatori e sacerdoti. Mentre i primi inseguono la selvaggina, i secondi pregano per il buon esito della caccia. La cacciagione viene poi ripartita tra i due gruppi. Se i cacciatori approvano le pretese dei sacerdoti sulla selvaggina, magari in quanto ritengono che l’atti­vità della preghiera è necessaria al buon esito della caccia, come possiamo affermare che i sacerdoti sono sfruttatori? Per discorrere di sfruttamento, il generico trasferimento di surplus tra gruppi attivi e gruppi inattivi non è più sufficiente. Occorre aggiungere un criterio extraeconomico: nel caso citato, che i cacciatori non desiderino spartire la selvaggina coi sacerdoti, cioè rifiutino di riconoscerne il ruolo produttivo.[91] Alternativamente, occorre aggiungere un criterio teorico: quali attività umane so­no produttive di neovalore, e quali no? Ma, in tal maniera, l’analisi dello sfruttamento torna a dipendere dalla teoria del valore.

Ammettiamo adesso che i cacciatori si sentano sfruttati. Ai sacerdoti essi, volontariamente, danno nulla. Ma come escludere che un cacciatore ne sfrutti un altro, in quanto la sua produttività del lavoro è inferiore al salario, mentre la produttività media dei cacciatori come gruppo eguaglia il monte-salari? Non possiamo sempre invocare la complementarità stretta, in nome della quale è necessario che i cacciatori operino in team. Ciò forse vale per la cattura del cinghiale, non per quella della lepre. L’unico modo per escludere una tale forma di sfruttamento è di trattare i lavoratori come una classe, assumendo che le differenze tra i membri della classe non alterino il loro fondamentale diritto alla ripartizione paritaria del prodotto netto. Siamo davanti ad un noto procedimento logico della filosofia morale: «Supponiamo che tre persone si stiano dividendo una tavoletta di cioccolata, e supponiamo che la cioccolata piaccia a tutti e tre in eguale misura. E supponiamo che nessun’altra considerazione, come età, sesso, proprietà della cioccolata, ecc., venga ritenuta rilevante. A noi pare ovvio che la maniera giusta di dividere la cioccolata sia di dividerla in parti uguali. E il principio di universalizzazione ci dà la logica di questa conclusione. Se si afferma infatti che uno dei tre deve avere una porzione più grande di quella degli altri, il suo caso deve presentare pur qualcosa che giustifichi questa differenza, poiché altrimenti esprimeremmo giudizi morali differenti intorno a casi simili. Ma ex hypothesi non vi è alcuna differenza che abbia rilevanza, e così quella conclusione consegue».[92] Dietro la “coscienza di classe” dei cacciatori sta dunque un loro concorde giudizio morale sul diritto di ciascun membro della classe ad acquisire pari reddito. Se intorno a quel criterio etico si scatena il dissenso, sorge l’idea - magari rafforzata da opportuni ragionamenti controfattuali - che qualche cacciatore sia uno sfruttatore.

La terza notazione riguarda proprio il ricorso ai controfattuali. C’è uso e uso. Possiamo chiederci: se Y si verificasse, quale W si verificherebbe? Si tratta fin qui di un mero esperimento intellettuale, che è “pane quotidiano” nella scienza. Come osserva Sen, «the use of counter-factuals is an essential part of any ‘marginalist’ analysis (what would have happened had the facts been different, e.g. if one more unit of labour had been applied?). Neoclassical equilibrium conditions use such counter-factuals displacements as important features».[93] E in riferimento a Marx afferma: «An important distinction is that between actual labour time and the ‘socially necessary’ labour time. The former is purely factual, while the latter involves ‘counter-factuals’: the labour that would have been ‘required to produce an article under the normal conditions...’».[94] Tuttavia, «counterfactual statements should always be understood in the contest of an implicit or explicit theory».[95] Ciò avviene, per dir così, a due livelli: su uno elaboriamo la teoria in base alla quale giustificare e costruire la pietra di paragone dell’analisi controfattuale; sull’altro livello svolgiamo l’analisi controfattuale in base a quello strumento di comparazione. Nei loro saggi metodologici, Max Weber e Raymond Aron illustrano a fondo questo procedimento.[96] Nell’interpretazione che ho difeso in altra sede,[97] il giovane Croce, pur tra tentennamenti e con un linguaggio ambiguo, attribuisce a Marx un simile procedimento. A suo avviso Marx confronta anzitutto capitalismo e non-capitalismo, individuando il connotato originale del capitalismo nella mercificazione della forza-lavoro. Paragona quindi il capitalismo effettivo con un capitalismo fittizio, deprivato proprio e soltanto del carattere essenziale, ossia della forza-lavoro. Tale capitalismo svuotato si presenta come una società di scambio generalizzato tra lavoratori indipendenti, proprietari dei mezzi di produzione: in esso i lavoratori s’appropriano dell’intero reddito netto, e dunque il valore prodotto non può che essere ricondotto al lavoro contenuto nelle merci. Nel capitalismo reale, invece, il reddito netto si scompone, oltre che in salario, anche in profitto, interesse e rendita. La differenza tra il valore appropriato dai lavoratori nel capitalismo “vuoto”, e il valore ottenuto nel capitalismo “pieno”, è definibile come plusvalore. Al primo livello, insomma, il Marx crociano formula il concetto di capitalismo [D], individuando ciò che lo distingue dalle altre formazioni storico-sociali: elabora un idealtipo, direbbero Weber e Aron. Da [D] estrae un sottoinsieme [D’], contenente tutti e soli i caratteri giudicati secondari: ottiene così la pietra di paragone. Al secondo livello, infine, usa la “pietra” per effettuare l’analisi controfattuale: poiché la mercificazione della forza-lavoro costituisce il carattere strutturale di [D], allora la “pietra” [D’] è un capitalismo-senza-forza-lavoro, ossia una società lavoratrice pura. In [D’] l’elemento non-merce, eppure riproducibile, è esclusivamente il lavoro vivo. [D’] rappresenta insomma la situazione controfattuale nei cui confronti si individua l’elemento non-merce, e dunque l’origine del plusvalore, e dunque il fenomeno dello sfruttamento (peculiarmente) capitalistico. Come si vede, questa ricostruzione non richiede alcun “essenzialismo metafisico”. Non si pretende di fondare l’identità valore-lavoro altro che su un “punto di vista”, ma non si tratta, come in Screpanti, del semplice giudizio di valore di una “classe sociale”, ossia di un senso comune etico socialmente diffuso, bensì di una giustificazione rigorosamente dedotta da un costrutto idealtipico del capitalismo. Possiamo, rispetto al Marx crociano, precisare e/o cambiare i connotati dell’idealtipo, e dunque della pietra di paragone, senza però tralasciare il primo livello dell’analisi controfattuale.[98]

4. In conclusione

Torniamo all'interrogativo formulato in apertura: perché la teoria economica marxista ha espresso pochissime opere come Il capitale finanziario o La crisi fiscale dello Stato? Erano quelle opere che, con rigore e originalità, prendevano le mosse dall'analisi di un sistema capitalistico concreto (tedesco o americano) per elaborare un quadro interpretativo di ampia portata. Libri come Lezioni sul capitalismo di La Grassa o The Fundamental Institutions di Screpanti si collocano solo in parte nel solco dei capolavori di Hilferding e O'Connor, se non altro nel senso che si occupano piuttosto poco di capitalismi concreti, ma procedono comunque nella stessa direzione: tentano di ripensare a fondo un apparato di analisi per adattarlo alla decifrazione del capitalismo contemporaneo. Anche quando dedicano scritti ai temi canonici del valore-lavoro, dei prezzi e della distribuzione del reddito, La Grassa e Screpanti hanno quale nitida finalità conoscitiva la comprensione del capitalismo. Perché studiosi come loro sono un’esigua minoranza tra i marxisti (o post-marxisti, basta intendersi)? La principale risposta sta, a mio avviso, nello “spirito di sistema” geneticamente proprio del marxismo. Claudio Napoleoni lo evocava col suo consueto vigore, scrivendo che «la teoria del valore non è una parte della scienza economica, ma è il principio da cui tutta la scienza si svolge».[99] Gli risponde circa venticinque anni dopo un suo allievo: «L’impostazione in termini di valore e di equilibrio ha visto via via scemare la propria importanza, per cedere spazio ad approcci molto più “mossi”, aperti e problematici, in cui la teoria non si articola in “leggi” ferree e deterministiche, non descrive risultati ed esiti prevedibili a priori, ma piuttosto disegna scenari, in cui il futuro non è iscritto nel passato ma dipende in modo che non può essere stabilito ex ante dalle scelte dei soggetti e dalle decisioni delle politiche. Certo, assieme alle grandi sintesi basate sulle teorie del valore e dell’equilibrio generale, si è indebolita anche la capacità di svolgere discorsi generali, sul capitalismo, sulle sue miserie e sui suoi splendori, sul suo significato per l’uomo e sulle sue prospettive. Gli sviluppi della teoria economica contemporanea consentono analisi più limitate, sicuramente meno “grandiose”; tuttavia, al contrario delle vecchie teorie, non chiudono lo spazio della politica, non indicano quale sarà il nostro futuro, ma ci consentono di provare a costruirlo».[100] L’epoca delle “grandi narrazioni” sembra tramontata.[101] Quel che resta è l’accertamento di una “compatibilità concettuale” tra teorie relative ad aspetti specifici: ciascuna teoria deve risultare congruente con la rappresentazione di base del funzionamento del sistema economico.[102] Se si adotta quest’impostazione, viene meno la pretesa di una sorta di sovramodello nel quale le varie elaborazioni rientrino, e perde rilievo l’insistita ricerca dei marxisti del “fondamento generale” che possa consentire di costruirlo (o di riaffermarne la validità).[103] Svincolando le energie intellettuali dei marxisti da quella vana aspirazione, sarà possibile reindirizzarle, come hanno fatto gli autori esaminati, verso direzioni d’indagine scottanti e rilevanti.

 

 

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¨ Relazione alla Giornata di studi in onore di Aurelio Macchioro, Università di Padova, 15 novembre 2002. Con rimpianto e affetto, dedico queste pagine alla memoria di Marco Bonzio, amico e studioso di razza. Ringrazio sia i partecipanti al Seminario del gruppo Spes di Lecce (giugno 2002), coordinato da C.Perrotta, sia S.Perri e R.Bellofiore, per alcune discussioni intorno al marxismo senza le quali questo paper non sarebbe nato; sono inoltre grato a L.Michelini e a R.Patalano per i loro commenti ad una prima stesura; tutti costoro peraltro quasi nulla condividono delle mie conclusioni, e non vanno coinvolti. Ringrazio infine E.Screpanti per la gentilezza con cui ha completato la mia disponibilità dei suoi scritti.

[1] Michels (1910), p.116.

[2] Ho ricostruito alcune tappe importanti di questa tradizione intellettuale in Bellanca (1997).

[3] Segnaliamo Arestis - Sawyer (1993), che contiene introduzioni, spesso autobiografiche, a economisti marxisti recenti; Howard - King (1992) e, per l’Italia, Bellofiore (1999), in riferimento ai dibattiti sulla teoria del valore.

[4] Petri (1999), p.78 dell’estratto.

[5] Non aspiriamo ad una ricostruzione compiuta del pensiero di questi due autori; ci soffermeremo soltanto su alcuni loro contributi, selezionati sulla base di un percorso problematico e interpretativo.

[6] La Grassa - Turchetto (1978), specie alle pp.35-41. In questo scritto il nostro autore si distacca da una sua precedente lettura della metodologia marxiana, esposta in La Grassa (1973).

[7] La Grassa (1973), p.9; Id. (1975), p.152.

[8] La Grassa (1973), p.61; Id. (1977), pp.23 e 78.

[9] «Non conta qui tanto un mero titolo formale (giuridico) di proprietà, quanto l’effettivo potere di disporre» del processo lavorativo. La Grassa (1973), p.137. Si veda anche Id. (1975), p.56.

[10] La Grassa (1973), pp.60-61, 109, 113 e passim. La Grassa - Turchetto (1978), p.49, parlano al riguardo del processo di espropriazione (reale) dei produttori come della loro separazione dal potere di disposizione dei mezzi di produzione.

[11] La Grassa (1980a), p.66. Lo sfruttamento è così fondato nel modo di produrre da coincidere con il processo di produzione del capitale: «la valorizzazione è appunto il processo di appropriazione capitalistica del lavoro altrui non pagato che si attua per mezzo del processo lavorativo adeguato a questo scopo». La Grassa - Turchetto (1978), p.165.

[12] Il processo lavorativo è intrecciato al «processo di valorizzazione del capitale, che piega il primo al conseguimento dei suoi fini specifici, rappresentati non soltanto dalla produzione di merci e dalla estorsione di plusvalore, ma anche dalla produzione e riproduzione del rapporto di produzione (e dell’intera articolazione dei rapporti sociali capitalistici)». La Grassa - Turchetto - Soldani (1979), p.112.

[13] La Grassa (1973), p.139 e nota. «In un secondo tempo, con la completa trasformazione del modo tecnico-organizzativo di fabbricazione, la proprietà degli espropriatori trova nuova e sostanziale garanzia nell’incapacità del lavoratore di prestare la propria attività se non come articolazione elementare di un lavoro complessivo diretto dalla scienza capitalistica, dalla tecnologia subordinata al capitalista». La Grassa (1975), p.38. Si veda anche La Grassa - Turchetto (1978), pp.58-60, 146-147.

[14] La Grassa - Turchetto (1978), pp.17-18; La Grassa-Turchetto-Soldani (1979), p.121. Ne discende che il capitalismo non tende necessariamente verso l’affermazione di poche grandi imprese. La Grassa (1980b), pp.31 e 35-36.

[15] Infatti anche nella sfera del lavoro intellettuale si afferma la DTL con la creazione di ruoli direttivi ed esecutivi. La Grassa (1980a), p.102; (1981), p.159.

[16] La Grassa (1983), p.46.

[17] «Per unità produttiva di base (o “fabbrica”, intesa in un senso molto lato) intendiamo quell’unità in cui il processo di lavoro si esplica secondo una serie di operazioni parcellari fra loro sincronicamente coordinate dal piano capitalistico». La Grassa (1980b), pp.29-30 nota.

[18] Un’ipotesi proposta è che un mutamento della DTL cambi la DSL e, in particolare, determini l’autonomizzazione della funzione che costituisce l’apparato strategico, entro quel ciclo strutturale, della connessione sociale. Nella storia del capitalismo si passerebbe così dalla dominanza della forma-merce, a quella della forma-denaro, a quella della forma-politico, a quella della funzione informativa. Questa idea è peraltro poco più che accennata, e mostra evidenti debolezze. Si veda Turchetto (1982), pp.255, 259-260; (1983), pp.215-217; La Grassa (1985), p.116.

[19] La Grassa (1973), pp.133-135.

[20] La Grassa (1980a), p.64.

[21] Ivi, pp.17-19, 22 e 65.

[22] Ivi, pp.65-66, 22, 89-91.

[23] La Grassa - Turchetto (1978), pp.56, 78, 129, 165; La Grassa (1981), p.115.

[24] La Grassa (1973), p.29.

[25] La Grassa - Turchetto (1978), pp.26, 61-68; La Grassa (1980a), pp.20, 63-64, 122.

[26] Si tratta di «categorie che possono essere utilizzate per ricostruire la forma dello sviluppo del modo di produzione capitalistico ulteriore alla sua prima affermazione storica». Turchetto (1982), p.252. Peraltro, La Grassa e Turchetto sembrano al riguardo seguire troppo dappresso Braverman (1974, p.313 e passim), per il quale, anche cronologicamente, si presenta prima la DTL e poi la meccanizzazione. Rimane così non posto a fuoco lo stadio della cooperazione, che può invece ritenersi (come in Marx) quello iniziale e già specificamente capitalistico. Mentre la Turchetto, di fatto, recupera implicitamente questo stadio - si veda il suo (1981), pp.30-36 -, esso è trascurato del tutto da La Grassa: contribuendo a suscitare la critica radicale alla figura del “lavoratore collettivo” di qualche anno dopo. Si veda La Grassa (1982).

[27] Infatti la tendenza ad un saggio generale del plusvalore deriva dalla tendenza ad un saggio generale del salario entro ogni ramo produttivo e dalla tendenza ad un eguale tempo di lavoro. Anche ammettendo eguali sia i salari che l’estensione della giornata lavorativa, rimane da considerare il “grado di condensazione” del lavoro; ossia quando, a tecnologia costante, uno stesso numero di produttori può dare luogo, nello stesso tempo, a diverse quantità di merce. Si aggiunga che: 1) la misurazione fisica dello “sforzo” dei produttori dovrebbe avvenire in base ad un’unità di misura, che però sembra difficile costruire; 2) l’intensità del lavoro è sottratta all’influenza dei fattori che determinano una tendenza all’eguaglianza dei salari e all’estensione della giornata lavorativa. Si veda un importante testo del periodo, a cui si appoggiano La Grassa e Turchetto: Graziosi (1978), specie a p.33.

[28] Al riguardo, La Grassa e Turchetto formulano l’ipotesi che ogni “grande ciclo” avrebbe un suo settore trainante, nel quale i processi innovativi si radicherebbero prima e con maggior vigore: l’industria tessile inglese dell’800, quella chimica tedesca a cavallo del secolo, quella meccanica americana degli anni 1930, quella informatica dell’area intorno all’Oceano Pacifico oggi. Si tratta però di una congettura che non «indica elementi che consentano di identificare con maggiore precisione tali settori». Turchetto (1981), p.48. Essa si limita cioè a costatare che di solito, di fronte ad una ristrutturazione globale degli assetti produttivi, si verifica questa circostanza.

[29] Questo «grande ciclo di approfondimento della struttura capitalistica» è abbozzato in La Grassa - Cappelletti (1979), pp.233-242; La Grassa (1980a), pp.102-103 e 121. Esso viene svolto e arricchito da Turchetto nei suoi (1980), (1981), (1982) e (1983).

[30] Che l’opposizione dei produttori abbia, o meno, natura antagonistica e rivoluzionaria, non è argomento qui esaminato. Va comunque osservato che la DTL è una categoria che fonda l’esistenza di soggettività dominanti e subalterne nell’ambito dell’odierna società.

[31] «Il quadro teorico di riferimento è dato esclusivamente dalla conoscenza del movimento “interno” del modo di produzione capitalistico. Tale conoscenza, da un lato, non ci permette di individuare una nascita della struttura del modo di produzione capitalistico a partire da “leggi” proprie della società feudale […]; dall’altro lato, ci porta a escludere che il sistema della riproduzione dei rapporti capitalistici possa, benché intimamente contraddittorio, originare di per sé stesso gli elementi di un nuovo modo della produzione sociale». La Grassa - Turchetto (1978), pp.149-150.

[32] La Grassa (1973), p.68.

[33] La Grassa (1985), p.98; e a p.32: «resto convinto della necessità di trovare un qualche metodo di confronto …».

[34] Ivi, p.8. Anche se talvolta citiamo qui testi lagrassiani degli anni 1980, ci saremmo facilmente potuti arrestare ai testi del precedente decennio, poiché già in essi sono rinvenibili tutte le posizioni originali.

[35] Si veda Coriat (1979), p.39.

[36] La Grassa (1980a), p.105.

[37] Come ad esempio nel feudalesimo coesistettero a lungo le forme precapitalistiche di produzione del surplus e le prime forme moderne, così entro un certo “grande ciclo” possono convivere modi non omogenei di sfruttamento. Sul feudalesimo, si veda La Grassa - Turchetto (1978), pp.145, 175-176.

[38] La Grassa - Cappelletti (1979), p.249; Turchetto (1981), p.23; La Grassa (1989), p.97; La Grassa - Bonzio (1990), p.52.

[39] Durante gli anni 1980 e l’inizio del successivo decennio, La Grassa elabora il modello del “capitalismo lavorativo”, sul quale non ci soffermiamo. Esso rappresenta infatti a nostro parere la manifestazione delle difficoltà teoriche alle quali l’autore tenterà di offrire una risposta più meditata e costruttiva con l’elaborazione recente. Si veda più oltre la nota (49) e si leggano La Grassa (1986) e La Grassa - Bonzio (1990).

[40] «Mentre in tutte le formazioni sociali precedenti tale potere veniva esercitato all’esterno della produzione, negli apparati politici e ideologici». La Grassa (1996), p.77.

[41] Naturalmente «la realtà del controllo gestionale è rafforzata dalla forma giuridica della proprietà». Ivi, p.112. Tale forma può ricorsivamente cambiare ed ultimamente, nota il nostro autore, torna a stringersi il legame tra funzione direttiva strategica e proprietà d’impresa.

[42] «La conflittualità tra gli agenti dominanti del modo di produzione capitalistico - che lottano per il predominio, in prima istanza, nella sfera economica (caratteristica storicamente peculiare della società moderna rispetto alle precedenti), servendosi quindi, come strumento di lotta, dei diversi complessi aziendali su cui hanno potere di disposizione - si estrinseca a tutto campo, cioè in ogni ambito o sfera della formazione sociale, ed investe quindi anche, con la massima energia, il politico e l’ideologico-culturale». La Grassa (2002), p.240; si veda anche Id. (1999), p.50.

[43] Si tratta pertanto di una linea di condotta razionale più complessa, che ingloba «l’inganno, la prepotenza, l’intimidazione, l’opportunismo, il ricatto, il “far finta di”, il dire una cosa e farne un’altra, gli elogi e le blandizie che celano il raggiro, il mettere gli uni contro gli altri, il far balenare all’avversario la possibilità di un’intesa per poi aggredirlo quando la sua vigilanza si è allentata, e via dicendo». La Grassa (2002), p.92; nonché Id. (1999), p.84.

[44] Le imprese vengono «intese come insiemi gerarchici (o simbiosi di agenti politici e imprenditoriali) comprendenti un settore propriamente di direzione strategica, orientato alla conquista del potere sociale complessivo, e sottogruppi di direzione tecnica, che operano in base a criteri di produttività ottimale per fornire i mezzi necessari al conflitto. La logica delle imprese si avvicina quindi più all’arte della guerra che al calcolo economico razionale, lasciando in secondo piano la proprietà (che ha importanza variabile nelle diverse fasi storiche) e soprattutto la saldatura fra tecnici e lavoratori subordinati, sopravalutata da Marx in riferimento a un capitalismo ancora prevalentemente concorrenziale». Illuminati (2002). Si tratta di una recensione di La Grassa (2002).

[45] La Grassa (1999), p.67.

[46] «In tutta la scienza economica, compresa quella critica di orientamento marxista, si verifica una inversione della relazione mezzi-fini, tipica di quella deformazione conoscitiva denominata economicismo. L’imprenditore (o il capitalista) perseguirebbe finalità economiche (il profitto, massimo oppure “adeguato”, nel breve o nel lungo periodo, ecc.; oppure la massima quota possibile di mercato, o altri scopi consimili), magari utilizzando, oltre all’attività produttiva, anche altri mezzi di carattere politico-ideologico, poiché la ricchezza conseguita gli consentirebbe di influenzare questi diversi apparati di potere e di volgerne l’azione ai propri obiettivi economici. In realtà, quanto appare come evidenza sul palcoscenico è il contrario di ciò che avviene dietro le quinte: le dirigenze imprenditoriali si confrontano e si scontrano per una questione di generale dominio nella società, ma a tal fine, in questa particolare epoca dello sviluppo delle forme sociali, utilizzano precipuamente l’attività economica, che fornisce loro i mezzi principali per l’affermarsi, sempre instabile e transitorio di fase in fase, della loro supremazia». La Grassa (1999), pp.75-76.

[47] La Grassa (2002), p.46.

[48] Riferendosi anche alla propria impostazione iniziale, La Grassa (2002, p.85) osserva: «quando poi si è voluto uscire dalla fabbrica, lo si è fatto estendendo l’organizzazione e il piano di quest’ultima alla società». Una simile mera “estensione” ha consentito di capire poco, generando analisi generiche e scolastiche.

[49] «L’impersonalità del prodursi è anteriore alle diverse personalità che agiscono nella produzione, non è il risultato della loro interazione conflittuale». La Grassa - Bonzio (1990), p.71. Qui il capitalismo è un processo senza soggetto da cui è impossibile uscire, posto che tutto è agito dall’iperstruttura.

[50] Il che non equivale a sostenere che La Grassa sia scivolato nel soggettivismo. Come egli acutamente osserva, «è ben difficile sfuggire a questa contraddizione: ho come concezione generale quella secondo cui la relazione precede i soggetti relazionantisi - e li costituisce in quanto soggetti individuali, singoli o collettivi che sino - ma poi, nell’analisi effettiva, tratto questi ultimi come individui già dotati di precise caratteristiche (strategie in conflitto), da cui in definitiva discendono quelle della struttura di relazioni che la loro interazione costituisce». La Grassa (2002), p.100.

[51] Sraffa (1991). Il brano è anche citato in Lunghini (2002), che da anni propugna una simile lettura delle leggi marxiane.

[52] Screpanti-Dardi (1987), p.99.

[53] Screpanti (1988), p.67.

[54] In special modo dopo Maddison (1991) e Tylecote (1992).

[55] Screpanti (1989), pp.125-126. Una posizione abbastanza simile difende Mandel (1975), p.133.

[56] Si veda, tra gli altri, Screpanti (1985).

[57] Screpanti (1988), p.67.

[58] Screpanti-Dardi (1987), pp.103-104.

[59] Papagno (1977), p.305.

[60] Screpanti (2001c), pp.6-7 dell’estratto. In questo brano l'espressione “bene sociale” è stata sostituita a quella di “bene pubblico”, come l'Autore decide di fare nei successivi scritti sull'argomento.

[61] Screpanti (2002), p.2 dell'estratto: «Definisco “beni sociali” quelli che sono forniti in condizioni di non-escludibilità e non-rivalità».

[62] Ivi, p.6.

[63] Musgrave (1969), p.246.

[64] Le patate presentano un costo dal punto di vista di chi le fornisce; eppure costui può fornirle in quantità illimitata: come fa?

[65] Brosio (1986), p.66.

[66] L’autore si accontenta peraltro di un criterio che riprende solo parzialmente quello marxiano, riferendosi ad un mero “da ognuno secondo la sua capacità contributiva”. Se si eguaglia la capacità contributiva alla capacità di produrre reddito, e se quest’ultima viene fatta coincidere con le abilità lavorative, si restaura il criterio di Marx. Ma si tratta di una catena di ipotesi “eroiche”: «Ogni individuo pagherà le tasse con aliquote crescenti al crescere del reddito. Se si ipotizza, per il momento e per semplicità, che il reddito vari in proporzione alle capacità lavorative individuali, si deve concludere che i beni pubblici sono finanziati da ognuno secondo le sue capacità». Screpanti (2002), p.3.

[67] Sto qui seguendo l’esposizione di Pagano (1999).

[68] Screpanti (2001c), p.7.

[69] Si tratta della razionalità limitata, dell’incompletezza e asimmetria informativa, dell’opportunismo, della differenziazione sociale dell’avversione al rischio, dei costi di controllo, dei costi di transazione, della specificità degli investimenti.

[70] Screpanti (2001b), p.3. Citerò da questo testo, che è la versione italiana di alcune parti di Id. (2001a).

[71] Con una disamina stringente, vengono considerati in dettaglio quattro tipi di contratto: di società, di mandato, di opera e di mezzadria.

[72] Screpanti (1996), pp.6-7 dell’estratto.

[73] Questo «contratto non ha bisogno di definire la natura dei servizi lavorativi perché non è un contratto di  scambio di servizi. Dal punto di vista tecnologico non può essere né completo né incompleto perché è vuoto di implicazioni tecnologiche. Le sue vere implicazioni sono di natura “politica”, in quanto esso istituisce un rapporto di potere, definendone eventualmente i limiti. Può dunque essere incompleto come qualsiasi istituzione negoziale, ad esempio per i suoi effetti su terzi o per la definizione delle norme disciplinari.  Ma si tratta di incompletezza relativa ai limiti dell’autorità, non alla natura dei servizi lavorativi». Screpanti (2001b), p.8 nota.

[74] Screpanti (2001b), pp.9-10.

[75] Napoleoni (1972), p.131.

[76] Nella terminologia marxiana, il lavoro vivo è non-prodotto (capitalisticamente), mentre la capacità di lavoro (o forza-lavoro) viene ridotta a merce. «La forza-lavoro è una merce che ha caratteri particolari, perché – mentre nella circolazione attraversa uno scambio equo, come tutti gli altri valori-merce prodotti – nella produzione è usata per creare nuovo valore, dopo che come merce essa stessa non è prodotta capitalisticamente. Infatti essa non si ottiene nella sfera di produzione di neovalore, ma nella sfera del consumo individuale (privato e sociale), in quanto rimane immediatamente di proprietà del produttore reale, del lavoratore-consumatore, anche se è prodotta finalisticamente, esclusivamente come merce, e necessariamente per lo scambio contro il capitale. È questo il motivo per cui […] non è possibile prevedere, neppure formalmente, alcuna industria o processo produttivo inerente la produzione di queste particolari merci che sono le forze-lavoro necessarie». Pala (1981), p.108. In Marx non esiste quindi un settore di produzione del lavoro vivo, da inserire nella matrice tecnica, e nemmeno un settore di produzione della forza-lavoro; abbiamo in­vece il settore di produzione dei beni salario, dallo scambio con i quali la forza-lavoro riceve il pro­prio valore. Tale valore della forza-lavoro, o salario, consente al lavoro vivo la propria riproduzione economica. Il residuo del neovalore oltre i salari è il plusvalore, e viene appropriato dai possessori di capitale, pur derivando dal lavoro vivo.

[77] Dobb (1973), p.147.

[78] Ripercorriamo più in dettaglio l’obiezione. La teoria marxiana del plusvalore poggia sulla distinzione concettuale tra il lavoro vivo e la forza-lavoro dell’uomo. L’uno è l’esercizio effettivo di un’attività produttiva, mentre l’altra è la persona concreta del lavoratore, che contiene la capacità o potenzialità di espletare un lavoro: il lavoro vivo è dunque l’uso della forza-lavoro. In termini economici, un uomo, per disporre di una “capacità lavorativa”, deve consumare certe quantità di beni salario; se, quando esercita il proprio lavoro come mezzo di produzione, i beni prodotti dal suo lavoro risultano in quantità maggiore rispetto alla quantità degli stessi beni anticipatagli quale salario, si forma un plusprodotto. Supponendo, come Marx fa, che le merci si scambino in proporzione alle quantità di lavoro che contengono, abbiamo che «il valore della forza-lavoro è determinato dal valore degli oggetti d’uso corrente che sono necessari per produrla, svilupparla, conservarla e perpetuarla» (Marx (1865), p.73); ma il valore prodotto dai lavoratori eccede il valore dei loro mezzi di sussistenza, cioè il valore della forza-lavoro che il capitalista acquista pagando un salario; allora lo scarto positivo costituisce un plusvalore. Al riguardo egli coglie un problema importante mediante una formulazione incompleta. Il problema è la diseguaglianza tra l’apporto dell’attività lavorativa integralmente considerata e l’apporto del lavoro remunerato dal salario. Marx rende questo scarto positivo con la distinzione tra lavoro in potenza e lavoro in atto. Se la forza-lavoro risulta di norma inferiore al lavoro in effetti erogato, ciò accade – egli annota – in quanto l’operaio è reso subalterno al rapporto di capitale; ossia perché il capitalista assume e retribuisce la disponibilità dell’operaio per un certo tempo, senza precisare ritmi, modi e qualità delle prestazioni. Diventa così possibile utilizzare l’operaio, durante il tempo indicato dal contratto, per ricavare da lui più del valore del suo salario. L’incompiutezza del ragionamento marxiano si scorge accostando la distinzione tra forza-lavoro e lavoro vivo a quella tra energia potenziale ed energia cinetica. Marx ci dice: se un uomo converte l’energia potenziale del cibo mangiato nell’energia cinetica dei suoi muscoli in azione, e se l’energia cinetica occorrente a reintegrare il cibo consumato è inferiore a quella totale che l’uomo eroga, la differenza positiva può destinarsi ad altri scopi. Una simile proposizione è ovviamente inesatta: l’una forma di energia può trasformarsi nell’altra, e viceversa, ma nella conversione nulla dell’energia originaria va perduto o guadagnato. Ad ogni aumento dell’energia cinetica corrisponde un’equivalente diminuzione dell’energia potenziale, così che la somma delle due energie ha sempre lo stesso valore. (Un sasso, nell’istante in cui viene fatto cadere da una certa altezza, possiede la massima energia potenziale, mentre la sua energia cinetica ha valore zero. A mano a mano che il sasso, nella caduta, si avvicina al suolo, la sua energia potenziale diminuisce, mentre aumenta in eguale misura l’energia cinetica. Nell’istante in cui il sasso tocca il suolo, la sua energia cinetica ha valore massimo – perché massima è la velocità raggiunta –, mentre l’energia potenziale diventa zero. Se in un punto qualsiasi della traiettoria sommiamo l’energia potenziale e cinetica possedute dal sasso in quell’istante, troviamo sempre il medesimo valore).

[79] Questo argomento è stato portato alla mia attenzione da Stefano Perri.

[80] Questo argomento è stato portato alla mia attenzione sia da Riccardo Bellofiore che da Stefano Perri.

[81] Se non lo fraintendo, Bellofiore (1993) ragiona sullo stesso problema in termini schumpeteriani: «Una volta instaurato un modo di produzione specificamente capitalistico, l’origine del sovrappiù va fatta risalire alle ondate di innovazione che riescono a garantire il controllo dell’uso della forza-lavoro e/o la riduzione del suo valore di scambio - non all’allungamento della giornata lavorativa o alla maggiore intensità della prestazione lavorativa, se l’uno e l’altro fenomeno avvengono a tecnologia data».

[82] Screpanti (1996), p.15 dell’estratto. «Così come lo schiavo è un salariato perpetuo, il lavoratore salariato è di fatto uno schiavo a tempo definito». Id. (2001b), p.14.

[83] Screpanti (2001b), p.10.

[84] Com’è noto, Max Weber distingue tra due forme di dominio. L’una è basata sugli interessi e deriva dal possesso di beni o di capacità che si scambiano sul mercato; essa lascia i soggetti formalmente liberi e motivati dalla ricerca del proprio vantaggio. L’altra esprime invece un dovere di obbedienza, indipendentemente dalle ragioni individuali. Screpanti costruisce una spiegazione dello sfruttamento capitalistico che si colloca nell’alveo della seconda forma di dominio, mentre la teoria di Marx sta nell’ambito della prima forma. Riguardo invece a Commons, è Screpanti (2001b, p.17) stesso a riportare un passo di questo studioso in cui leggiamo: «Quello che il lavoratore vende è la disponibilità ad usare le sue facoltà in maniera conforme ad uno scopo che gli è stato indicato: vende la sua promessa di obbedire a degli ordini».

[85] Stavolta il ragionamento non deve incoerentemente ipotizzare un’energia cinetica diversa e maggiore dell’energia potenziale originaria (si veda la nota precedente). Accade che il lavoro vivo o in atto dell’operaio non rappresenta unicamente l’espressione del lavoro in potenza o forza-lavoro; piuttosto esso esprime pure un ulteriore contributo, il learning-by-doing, che viene ottenuto quale sottoprodotto gratuito. Il segreto dell’origine del profitto consiste insomma nella possibilità di utilizzare senza oneri un lavoro dotato di conoscenze acquisite nel processo produttivo capitalistico.

[86] “Qualcosa” cambia durante il processo di produzione immediato. Non cambiano i costi, né l’organizzazione, né l’assetto istituzional-contrattuale. Cambia l’apprendimento dei lavoratori, quale by-product gratuito. Rinviamo alla più ampia trattazione di Bellanca (2002).

[87] Screpanti (2001d), p.3 dell’estratto.

[88] Vicarelli (1975), p.136.

[89] Ivi.

[90] Screpanti (2001d), p.5.

[91] L’esempio è tratto da Bowles - Gintis (1983).

[92] Hare (1971), pp.168-169, corsivo aggiunto.

[93] Sen (1978), pp.180-181.

[94] Ivi, p.178.

[95] Elster (1978), p.5

[96] Si veda ad esempio Weber (1904); Aron (1989).

[97] Bellanca (1997).

[98] Non possiamo richiamare, per ragioni di spazio, altri contributi di Screpanti che meriterebbero di essere discussi: tra questi, segnaliamo almeno un’acutissima interpretazione di Sraffa (Screpanti 1993) e alcune pagine sui limiti della teoria marxiana del valore (in Screpanti 2003).

[99] Napoleoni (1976), p.7.

[100] Rodano (1999), p.26.

[101] La Grassa (1996), capitolo primo; Screpanti (2000).

[102] Roncaglia (2001), pp.568-569. Questo autore appare meno persuasivo quando aggiunge che il compito di elaborare la concezione di fondo spetta ancora alla teoria del valore.

[103] Se restiamo alle due opere di analisi strutturale e diacronica del capitalismo che abbiamo eletto a “titoli esemplari”, possiamo osservare come sia nel volume di Hilferding, sia in quello di O'Connor, la teoria del valore-lavoro e dello sfruttamento non assolvano alcun ruolo; ciò nondimeno, si tratta di indagini che mostrano con efficacia le profonde asimmetrie del capitalismo, e che abbiamo molte ragioni per considerare d'indirizzo marxista. Chi sostiene che il marxismo è tale solo finché tiene insieme analisi del valore-lavoro e analisi dinamica, dovrebbe darsi il carico di argomentare perché nella storia effettiva della teoria economica marxista, questa simbiosi sia stata di fatto spesso trascurata, senza con ciò compromettere necessariamente il valore degli esiti scientifici.