Matériaux pour un lexique de Marx: Guerre (Krieg) (1re partie)

Louis Janover – Maximilien Rubel

in «économies et Sociétés», Cahiers de l’ismea

Série S (Etudes de Marxologie), n. 21-22

Tome xv, n. 6-7, juin-juillet 1981

 

 

 

L’epoca

 

La storia militare del periodo che fece seguito alla caduta di Napoleone fu caratterizzata, fino alla fine del xix secolo, dall’assenza di grandi guerre in Europa; in compenso, la guerra civile negli Stati Uniti seguì, sul piano sociale, il modello rivoluzionario napoleonico caratterizzato dall’impiego di masse reclutate grazie al servizio militare obbligatorio; tuttavia, sul piano tecnico, fu la prima guerra condotta con mezzi industriali. L’Europa della Restaurazione, che le cinque grandi potenze – Austria, Inghilterra, Francia, Prussia e Russia – avevano fabbricato a loro piacimento, sembrava destinata a un lungo periodo di pace e posta al riparo da nuove rivoluzioni grazie alla Santa Alleanza, trovata chimerica di Alessandro I di Russia. Tuttavia, il secolo non trascorrerà senza che tutta una serie di esplosioni rivoluzionarie e di guerre nazionali di durata e d’intensità poco considerevoli provochino sconvolgimenti politici e sociali; ma le loro conseguenze a lungo termine non saranno percepibili che da rari spiriti capaci di prevedere il futuro osservando e analizzando il presente alla luce del passato.

 

Questione d’Oriente

 

Gli inizi letterari di Marx coincidono con il risorgere della «questione d’Oriente»; la guerra turco-egiziana (1839-’41), esacerbando le tensioni tra le grandi potenze, in particolare tra l’Inghilterra e la Francia che rivaleggiavano per la conquista di sfere d’influenza in Medio Oriente, minacciava di trascinare l’Europa in una guerra generale. Simultaneamente, nuovi pericoli di conflitti militari comparivano a est, ove la Russia perseguiva energicamente la sua politica di annessione e di espansione in direzione dell’Asia, minacciando le vie fluviali e marittime prese a prestito dal commercio inglese per raggiungere l’India.

 

Hegel e la guerra

 

Indirizzandosi a una carriera universitaria, Marx aveva scelto l’insegnamento della filosofia piuttosto che la professione del giurista; ma nel suo primo lavoro di lungo respiro, imperniato sul tema centrale di carattere puramente storico dell’epicureismo, l’erudizione non si perde mai nella pura speculazione: da subito Marx concepisce la filosofia come una certa pratica della teoria, la teoria in quanto critica e volontà di realizzazione, tendente a superare la filosofia mediante il «divenire filosofico» del mondo.

Il lavoro del giovane aspirante al titolo di dottore in filosofia, rivela già tutt’altro che un’ammirazione senza riserve per il pensiero di Hegel, questo maestro dalle cento teste di Giano del quale numerose scuole nemiche si disputavano l’eredità spirituale. Studente innamorato del romanticismo, egli era già stato respinto dalla «grottesca melodia rococò» della filosofia hegeliana; si era allora dedicato a un dileggio in piena regola del pensatore che Ludwig Börne non aveva esitato a trattare da Knechtphilosoph, da filosofo servile. Attraverso la penna di Marx, Hegel dichiara che avrebbe insegnato non pensieri, ma parole ingarbugliate in un turbine demoniaco, parole e idee generate da emozioni puramente soggettive e di cui ciascuno può, a suo piacimento, pensare non importa che: «Io vi dico Tutto, veramente, perché ciò che vi ho detto è un Niente». (Epigrammi su Hegel, 1836)

L’epigramma attaccava con ferocia la falsa profondità della logomachia hegeliana; Marx svelerà il carattere reazionario delle filosofia politica del maestro, dopo aver dovuto subire, su di sé e nella propria professione di giornalista, i soprusi di un regime di censura a di reazione sociale di cui Hegel era stato il sostegno impenitente. Tuttavia, del grande progetto di una critica della filosofia politica e morale di Hegel, Marx non ha potuto eseguire che una magra parte, di cui ha d’altronde abbandonato l’elaborazione definitiva, dopo che la sua adesione al comunismo, le sue letture sulla storia delle rivoluzioni francesi e americane e la sua scoperta dell’economia politica l’hanno convinto dell’inanità di proseguire la critica sul terreno della speculazione filosofica. Affrontando l’ultima sezione, dedicata allo Stato, dei Princìpi della filosofia del diritto (1821), di cui analizza minuziosamente, uno dopo l’altro, una cinquantina di paragrafi, Marx si è arrestato poco prima delle tesi che trattano, non senza disdegno, dell’opinione pubblica e della libertà di stampa, e in cui Hegel vota un autentico culto alle autorità stabilite (dal § 315 al § 320); così, non ha potuto prendere in considerazione i capitoli vertenti sulla «sovranità verso l’esterno» (dal § 321 al § 329), sul «diritto pubblico estero» (dal § 330 al § 340), sulla «Storia universale» (dal § 241 al § 360), e nei quali Hegel espone le sue concezioni filosofiche sulla guerra e sui quattro «Imperi storici» incaricati di compiere successivamente la volontà del Weltgeist, dello spirito universale. Ma se Marx non ha creduto di dover spingere più lontano la sua critica del pensiero politico di Hegel, si può dire che, sotto un certo aspetto, la sua opera costituisce la confutazione delle concezioni di Hegel in materia. Fin dal suo primo tentativo di edificare un sistema di moralità, Hegel esamina le relazioni tra i popoli sotto l’angolazione della «negatività»: i popoli sono concepiti come «totalità morali», come individualità poste in un rapporto di esclusione reciproca, rapporto segnato dalla coazione e dal valore, con il secondo di questi lati che pone essenzialmente la figura e l’individualità della totalità morale, vale a dire la necessità della guerra – il pericolo della morte –, le cui virtù sono considerevoli: la guerra «preserva la salute morale dei popoli nella loro indifferenza verso le Bestimmheiten, le determinazioni e verso la loro assuefazione e cristallizzazione (Festwerden), così come il movimento dei venti preserva il mare dalla putrefazione in cui lo farebbe cadere una tranquillità durevole, o addirittura eterna» (Sui modi scientifici di trattare il diritto naturale, 1802, pp. 110 sgg.).

Nella Fenomenologia dello spirito (1807), la negatività della morte è al centro di una riflessione che scruta la moralità e la legge divina, l’essere morale della famiglia e della comunità: «la morte è il compimento e il lavoro supremo, che l’individuo come tale, si assume per essa [la comunità etica]» (G. F. W. Hegel, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze, 1973, vol. II, p. 12).

Questa società non vive che attraverso il governo, spirito reale in sé, potenza del tutto che abbraccia le parti nell’uno negativo e dà loro il sentimento della loro dipendenza, la coscienza di non vivere che attraverso il tutto. La comunità può organizzarsi in sistema dell’autonomia personale e della proprietà, del mestiere e del godimento individuali, giacché lo spirito d’incontro è la semplicità e la natura negativa di questi sistemi isolati. Ora, «per non lasciar loro mettere radici e irrigidirsi in tale isolamento, per non far disgregare l’intiero e vanificare lo spirito, il governo ha da scuoterli di quando in quando nel loro intimo con le guerre, ha con esse da ferire e da confondere il loro ordine consuetudinario e il loro diritto d’indipendenza; e agli individui che, adagiandosi in quell’ordine e in quel diritto, si distaccano dall’intiero e anelano all’invulnerabile esser-per-sé e alla sicurezza della persona, il governo deve dare a sentire, con quell’imposto lavoro, il loro padrone: la morte. [...] L’essenza negativa si mostra come la potenza peculiare della comunità, e come la forza della sua autoconservazione; la comunità trova dunque la verità e il rafforzamento del suo potere nell’essenza della legge divina e nel regno delle ombre» (G. F. W. Hegel, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze, 1973, vol. II, pp. 14-5).

Circa quindici anni dopo, Hegel si dedicherà a una ripetizione di questa «filosofia» della guerra: le darà un’espressione definitiva, non senza ornare il nuovo testo di una citazione tratta da un’opera vecchia di circa vent’anni. Nella terza parte dei suoi Princìpi di filosofia del diritto (1821), egli tratta della morale come dottrina etica dei doveri e consacra numerosi paragrafi (dal § 324 al § 329) ai temi della guerra, dell’organizzazione militare, del coraggio e della pace. Realtà dello «spirito», lo Stato possiede, come «esser-per-sé» esclusivo, un’individualità che s’incarna nell’individuo del sovrano e che si manifesta come tale nel suo rapporto con altri Stati «di cui ciascuno è indipendente rispetto agli altri». Si tratta di un rapporto «negativo» che ha la forma di un evento e del groviglio con altri eventi provenienti dall’esterno. In questo rapporto negativo si mostra la potenza assoluta verso tutto ciò che è singolare e particolare, «verso la vita, la proprietà e i suoi diritti, così come verso le altre sfere» la cui vanità si rivela qui pienamente. Il «dovere sostanziale» dell’individualità consiste nel mantenere l’indipendenza e la sovranità dello Stato mediante il sacrificio della vita e del patrimonio propri: ecco definito il «momento morale della guerra», che non bisogna considerare come un male assoluto e un puro caso esteriore avente per causa le passioni dei potenti e dei popoli, le ingiustizie eccetera. Per la filosofia, non esiste il puro caso; essa conosce solo la necessità: è necessario che le cose finite, la proprietà e la vita, siano poste come contingenti, essendo mortale ed effimera ogni cosa finita. Nello Stato, essere morale, la necessità è elevata all’opera della libertà, alla moralità: l’effimero diviene cosa voluta, e la negatività diviene individualità dell’essere morale: «La guerra come lo stato in cui la vanità dei beni e delle cose temporali cessa di essere una formula pia, ma diviene cosa seria [...]; essa ha questo significato superiore ché con essa, come ho scritto altrove, la salute morale dei popoli [...]» (cfr., supra, 1802).

Hegel chiama questa formula un’«idea semplicemente filosofica», o, per così dire, una «giustificazione della provvidenza», il che la rende incompleta: le «guerre reali» hanno bisogno di una giustificazione supplementare, perché l’«idealità» che si manifesta nella guerra si conferma storicamente grazie al fatto che «guerre fortunate» hanno impedito crisi interne e consolidato il potere statale all’interno. In breve, il dovere generale impone ed esige il sacrificio a favore dell’«individualità dello Stato». Questa «idealità» che si oppone alla realtà dell’esistenza particolare provoca la creazione di un’istituzione particolare che non è altro che uno Stand, un ordine o una casta particolare, l’«ordine del coraggio». Siccome ogni Stato è minacciato nella propria autonomia, esso richiama tutti i cittadini al dovere della difesa, e quando ogni politica è trascinata verso l’esterno, la guerra di difesa può trasformarsi in guerra di conquista. La necessità di un esercito permanente conduce di conseguenza alla formazione di un ordine speciale, allo stesso titolo degli altri «momenti» e interessi particolari che diventano ordini raggruppanti i mestieri, i commerci, gli affari dello Stato eccetera. La sostanza del coraggio militare, «virtù formale» in quanto suprema astrazione della libertà rispetto a tutti gli scopi particolari – possesso, godimento, vita – è lo spirito che conosce solo uno scopo assoluto, la sovranità dello Stato, la suprema autonomia dell’esser-per-sé che s’incarna nel meccanismo di un ordine esteriore e del servizio, nell’obbedienza e nella rinuncia totali all’opinione e al ragionamento individuali, nell’«assenza dello spirito personale» eccetera. Mettere la propria vita in pericolo, è più che temere semplicemente la morte, il che non ha valore in sé. Il principio del mondo moderno ha dato al coraggio una forma superiore nel fatto che la sua manifestazione non appare più come l’azione di una persona particolare, ma come membro di un tutto, in lotta non contro degli individui, ma contro un tutto ostile. «Quel principio ha dunque inventato l’arma da fuoco, e non è un’invenzione dovuta al caso ad aver cambiato la forma puramente personale del coraggio in una forma più astratta.» (§ 328)

Così Hegel non si limita ad analizzare il fenomeno guerra; deve «filosofare» ad nauseum per fissare una volta per tutte, e senza ipocrisia né illusione, l’«essenza» della guerra, essenza morale quant’altre mai, giacché non si tratta di uccidere non importa come, ma di uccidere «impersonalmente», senz’odio, eliminando ogni riflessione personale, ogni autonomia spirituale; come se dare la morte «senz’ira», la «morte universale» simboleggiata dall’«arma da fuoco» faccia della carneficina, del massacro, del macello di massa, la manifestazione della «virtù suprema» e vieti a coloro che debbono la propria conservazione solo al coraggio militare d’interrogarsi sul senso di questo «dovere sostanziale» di obbedienza agli Stati e ai sovrani nazionali. Da realista, per il quale ciò che è reale è razionale, Hegel non osa interrogarsi sulla necessità di questi stessi Stati, e immaginare la loro scomparsa (cfr. anche il Sistema della vita etica, 1802-1803).

 

Hegel contro Kant

 

Insomma, il «realismo» di Hegel gli impedisce di perdersi nelle immaginazioni di un Kant che credeva possibile la sostituzione dello stato di natura regnante tra gli Stati mediante il rispetto del diritto dei popoli: questo diritto dei popoli poggia su di un imperativo morale, un sollen, poiché non c’è arbitro tra gli Stati, né «pretore» – a parte il «pretore superiore» che non è altro che lo «spirito universale in sé e per sé», in una parola il Welgeist, lo spirito del mondo che esercita il suo diritto supremo nella storia universale: Weltgeschichte ist Weltgericht, ripete Hegel dopo Schiller! La storia del mondo come giudizio ultimo, ecco cosa permette al pensiero dell’assoluto di sciogliersi dai legami con il quotidiano e di spacciare da grande altezza trivialità come queste: «L’idea kantiana di una pace perpetua grazie a una federazione di Stati – che risolverebbe tutti i conflitti e che, come potenza riconosciuta da ogni Stato particolare, metterebbe fine a tutti i disaccordi e renderebbe impossibile ogni risoluzione attraverso la guerra – presuppone l’adesione unanime degli Stati, che poggerebbe su considerazioni religiose, morali o altre, in ogni caso su volontà sovrane particolari: questa adesione resterebbe, con ciò, inficiata di contingenza». (§ 333)

Sempre il caso come regola nei rapporti degli Stati, sempre la minaccia per il «tutto morale» dello Stato, e in ultima istanza, il Welgeist come arbitro supremo – e sempre, sullo sfondo di queste invocazioni della contingenza nelle relazioni tra gli Stati, la «grande» idea della salute morale per mezzo della guerra promessa ai popoli eroici minacciati dalla mollezza e dal comfort offerti da una pace durevole: non è altro che la superstizione più crassa eretta a morale assoluta.

 

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Hegel si proponeva di edificare un sistema della morale assoluta, e aveva, fin dal suo periodo jenense (1801-1807), aderito a una concezione dei destini dei popoli che respingeva, direttamente o indirettamente, le dottrine di Hobbes e di Rousseau, di Kant e di Fichte, non senza incorporarne taluni elementi nel proprio sistema. Per restare a Kant, egli poneva, contrariamente a Rousseau, che un bene assoluto della morale fosse accessibile non all’individuo, ma all’insieme sociale e politico: la libertà, principio supremo di ogni morale, può essere realizzata solo nello Stato. Tra gli Stati regna lo stato di natura, in cui le forze immorali predominano, di modo che la guerra vi trova una ragione morale: lo Stato difende la propria esistenza in quanto Stato. Per allontanare questa minaccia permanente, occorrerebbe instaurare uno stato di diritto (Rechtszunstand) tra gli Stati e fare loro adottare un sistema federativo eretto ad arbitro e tribunale supremo in caso di conflitto; ma una tale istituzione non è concepibile che tra Stati repubblicani, laddove la volontà del popolo decide sulle questioni di politica estera. Così sarebbero create le condizioni di una pace eterna, bene politico supremo che si situa nell’infinita distanza della fine della storia. Irrealizzabile nell’immediato, questo scopo ideale deve essere eretto a norma e servire per giudicare del valore degli eventi storici. Gli antagonismi all’interno della società sono le cause dell’«insocievole socievolezza» degli uomini: sono uno stimolo per superare l’istinto di pigrizia e spingere l’individuo a misurarsi con i suoi compagni e ad avanzare così sulla via della cultura. Il problema essenziale della specie è realizzare la società civile, ricercare una costituzione perfetta, ma questo scopo non sarà mai raggiunto totalmente; è legato a quello dell’instaurazione di relazioni normali tra gli Stati: le miserie delle guerre li spingono a uscire dallo stato anarchico e selvaggio per entrare in una società delle nazioni (foedus amphyctorium). L’abbé de Saint-Pierre e, dopo di lui, Rousseau hanno avuto torto a crederne prossimo l’avvento: le guerre e le rivoluzioni continueranno, e nuove relazioni si stabiliranno tra gli Stati, fino al momento in cui, grazie a una convenzione e a una legislazione comuni sia sul piano estero sia su quello interno, sorgerà uno stato di cose, un grande organismo politico che, quale una comunità civile universale, potrà mantenersi per così dire automaticamente: lo Stato cosmopolita universale.

«Dunque al grado di cultura cui è pervenuto il genere umano, la guerra è un mezzo indispensabile per perfezionarla ancora; ed è solo dopo il completamento (Dio sa quando!) di questa cultura che una pace eterna ci sarà salutare e diverrà perciò possibile.» (Congetture sugli scopi della storia umana, 1786)

Interrogandosi sulle prospettive di un progresso costante del genere umano, tra le tre ipotesi – regressione perpetua, progresso e stagnazione –, Kant doveva prendere in considerazione l’attitudine della specie umana a prendere in mano il suo destino grazie alle sue disposizioni morali; giacché malgrado i segni contrari che si possono osservare, in Francia per esempio, ove la Rivoluzione minaccia di accumulare miserie e atrocità, una doppia disposizione morale può permettere il progresso del genere umano: il diritto di ogni popolo di darsi una costituzione di sua scelta e il diritto di scegliere un regime repubblicano. Così si troverebbe posto nelle condizioni che fugano la guerra, fonte di tutti i mali e di ogni corruzione dei costumi. Questa speranza di un progresso, bisogna nutrirla, senza tuttavia cullare il sogno degli utopisti e senza farsi illusioni sulle disposizioni dei popoli. La speranza di progresso deve essere posta solo nella saggezza venuta dall’alto, dalla Provvidenza divina e dai riformatori dello Stato. Bisogna contare solo sulla saggezza negativa degli uomini la cui educazione sarà fatta in modo tale da obbligarli a rendere la guerra – «il più grande ostacolo alla moralità» – sempre più umana e rara, per abolire, infine, la guerra offensiva.

 

Fichte

 

Si è parlato del bellicismo, della Kriegsfreundlichkeit dei pensatori post-kantiani in Germania, della «polemofilia» che avrebbero predicato Fichte, Schleiermacher, Kleist e Schiller: questa opinione dev’essere accolta con prudenza. Fichte, per esempio, autore dei Discorsi alla nazione tedesca (1808), esaltò una rigenerazione universale dell’umanità di cui la Germania sarebbe l’iniziatrice, dotandosi di una sorta di socialismo morale di Stato, ma seppe combinare questo nazionalismo estremo con un cosmopolitismo fondato su di una morale rigorosa del dovere. La pace interna, che distingue ogni autentico Stato, è al tempo stesso la pace esterna almeno con tutti gli altri veri Stati. La sicurezza degli Stati vicini dev’essere la legge di ogni Stato «che non sia uno Stato di rapina». «Non è possibile che ogni nazione osi fare guerra a un Paese vicino, per amore del saccheggio, perché in uno Stato in cui tutti sono eguali il bottino non potrebbe appartenere a qualcuno; dovrebbe essere diviso egualmente tra tutti, di modo che la parte spettante a ciascuno non varrebbe i rischi di una guerra. È solamente in un Paese in cui il tornaconto va a profitto di una minoranza di oppressori, mentre gli inconvenienti, le pene, i costi sono a carico dell’innumerevole esercito degli schiavi, che la guerra di rapina è possibile e concepibile. Questi Stati non hanno da temere una guerra da parte degli Stati loro simili; ma unicamente da parte dei selvaggi, dei barbari che, incapaci di arricchirsi con il lavoro, subiscono il richiamo della rapina, o da parte dei popoli schiavi spinti dai loro padroni a una rapina, di cui non godranno mai per se stessi.» (Fichte, Il destino dell’uomo, 1800, p. 113) Che il sentimento patriottico abbia potuto offuscare il giudizio etico dei filosofi della generazione post-kantiana si comprende facilmente: avendo dovuto subire gli effetti spesso umilianti delle campagne napoleoniche, essa non poteva evitare il clima passionale creato dalle guerre di liberazione; ma questo fondo passionale non ha impedito una certa credenza di fondo in un’umanità rigenerata, esprimentesi soprattutto nelle creazioni artistiche dei poeti della scuola romantica, nell’opera di Hölderlin, Schlegel o Novalis. Se è certo che questo stesso spirito ha abitato anche l’opera giovanile di Hegel, è nondimeno evidente che ha fatto posto, nel «sistema», a vedute il cui realismo toglie alle costruzioni e alle invenzioni verbali di questo maestro della dialettica tutto ciò che, nell’opera di questi poeti come in quella dei filosofi che l’hanno preceduto, è spirito critico e aspirazione alla libertà.

 

Marx «calcolatore»

 

Marx non aveva nulla da imparare da questo Hegel che conduceva, sotto le apparenze di un’ardua riflessione filosofica, un’apologia della guerra in quanto tale e del coraggio militare che serve da sostegno all’ordine stabilito (cfr. supra). A importargli prima di ogni altra cosa, è la comprensione della storia vissuta come osservatore impegnato in un movimento di emancipazione sociale, che ha da formulare giudizi non sulla guerra in sé, ma su conflitti «puntuali»; perché la scelta di parte in questi conflitti militari non può obbedire a criteri dipendenti da una visione astratta della funzione e del posto della guerra nell’evoluzione dei popoli e della storia del mondo; essi sono inseparabili dall’adesione di Marx a un ordine assiologico nel quale la guerra come fatto e come valore s’inscrive fatalmente quale un male inevitabile legato al funzionamento di ogni società di classe e che scomparirà solo con essa. Il calcolo del minor male è, allora, l’unico modo di valutazione compatibile con una posizione esprimente una presa di partito a favore del belligerante la cui vittoria parrebbe «vantaggiosa», a breve o a lunga scadenza, per la causa assunta, in questo caso la causa della classe operaia e del socialismo.

 

La crisi europea: 1840

 

Quando Marx debutta come giornalista, cittadino renano dalle idee liberali avanzate, son passati due anni dalla crisi europea provocata dal trattato di Londra: la quadruplice alleanza tra Russia, Inghilterra, Austria e Prussia per la protezione della Turchia (1840) aveva consacrato la sconfitta diplomatica della Francia ed era stata sul punto di provocare una guerra con la Germania, con la frontiera sul Reno come posta in gioco. I giovani hegeliani si opponevano alle tendenze reazionarie che – avendo per obiettivo lo smantellamento della Francia, bastione del liberalismo – esaltavano l’egemonia della Russia e dell’Austria tra le potenze europee. Arnold Ruge vedeva nello Stato francese l’ideale di un’organizzazione politica ispirata ai princìpi della Rivoluzione francese; Moses Hess, nella scia di Heinrich Heine, si adoperava a dimostrare la necessità di un’alleanza tra Francia e Germania, evento che, ai suoi occhi, doveva annunciare il ribaltamento totale dei rapporti politici e sociali in Europa (Triarchia europea, 1841). La «Rheinische Zeitung» (1842-1843) contava tra i suoi collaboratori, oltre a Marx, numerosi rappresentanti dell’hegelismo «di sinistra», per i quali l’intesa della Francia e della Germania era tanto più urgente dal momento che l’influenza della diplomazia russa si esercitava con forza sulla politica interna prussiana. Questo avvicinamento franco-tedesco fu senza dubbio uno dei principali obiettivi dei «Deutsch-französische Jarbücher» (1844), ma non vi comparivano che nomi di tedeschi, quelli di Ruge e di Marx, di Hess e di Heine, di Herwegh e di Bernays, di Jacoby e di Engels. Nessuno scrittore francese aveva potuto o voluto unirsi a questo gruppo germanico. L’epopea napoleonica s’inscriveva, nella storia moderna della Francia, come un episodio di un movimento rivoluzionario che, cominciato nel 1789, si prolunga nel 1830 con il trionfo del liberalismo borghese, prendendo una dimensione sociale che annuncia una nuova fase dello stesso movimento. Napoleone aveva considerato lo Stato come un fine in sé, provocando così l’inevitabile scontro con la società civile uscita dalla rivoluzione e dal ciclo di guerre di conquista: «[Napoleone] ha perfezionato il terrorismo mettendo al posto della rivoluzione permanente la guerra permanente». (Marx-Engels, La Sacra famiglia, mew, ii, p. 130 [Opere complete, vol. IV, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 137])

Le conquiste napoleoniche sembravano confermare un analogo insegnamento del passato dei barbari ove la guerra e il saccheggio agiscono come motori della storia: «Nel popolo barbaro conquistatore la guerra stessa costituisce ancora [...] una forma normale di relazioni, che viene sfruttata con tanto maggiore impegno quanto più l’aumento della popolazione, perdurando il rozzo modo di produzione tradizionale che per essa è l’unico possibile, crea il bisogno di nuovi mezzi di produzione». (Marx-Engels, L’ideologia tedesca, 1845-1846, mew, iii, p. 23 [Opere complete, vol. IV, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 70])

Inutile cercare la spiegazione delle guerre in forze oscure o metafisiche o nel progetto di un qualsiasi Weltgeist, di un misterioso spirito universale. Non è bastato, in effetti, che Napoleone imponesse il suo sistema continentale perché la penuria di zucchero e di caffè (derrate che avevano acquistato un’importanza mondiale) incitasse i tedeschi a insorgere contro l’ambizioso conquistatore e diventasse il fermento delle «gloriose guerre di liberazione del 1813» (Opere complete, vol. IV, p. 36). Con il progresso del commercio internazionale legato allo sviluppo della produzione manifatturiera e industriale, sorge la lotta concorrenziale tra le nazioni, che prende l’aspetto di scontri commerciali e militari. Il colonialismo è all’origine di lunghi conflitti tra nazioni per la spartizione del mercato mondiale.

«La concorrenza fra le nazioni fu esclusa nella massima misura possibile mediante tariffe, proibizioni, trattati; e in ultima istanza la lotta di concorrenza fu condotta e decisa con le guerre (specialmente con le guerre marittime).» (Opere complete, vol. IV, p. 57)

La Germania sembra aver fatto eccezione nel processo di evoluzione industriale commerciale delle nazioni moderne: mentre nella maggior parte dei Paesi la monarchia assoluta appare nel periodo di transizione in cui gli antichi ordini feudali declinano e nasce una classe borghese moderna, in Germania la comparsa di questa monarchia è più tarda e dura più a lungo, a seguito di uno sviluppo stentato della classe borghese. Nel momento in cui si apre il mercato mondiale moderno e in cui sorgono le grandi manifatture, le città libere tedesche deperiscono, i cavalieri sono annientati, i contadini sconfitti, l’industria e il commercio decadono; la Germania, spopolata in seguito alla Guerra dei Trent’Anni, è in una «situazione barbara» («D. Br.-Z.», 18 novembre 1847), aggravata dalla vergognosa politica prussiana nei confronti della Polonia insorta contro i suoi oppressori interni e stranieri.

 

La questione polacca

 

Marx ed Engels non si stancano di levare le loro voci a gloria della «Polonia democratica» la cui emancipazione era divenuta «il punto di onore di tutti i democratici europei» (22 febbraio 1848); essi hanno mescolato le loro grida di rivolta agli accenti, assai bellicosi, e alle proteste di tutti i democratici, in Francia, Belgio, Inghilterra. Per Engels, che si felicitava dell’esplosione, nella Polonia del febbraio 1846, delle passioni democratiche, i tedeschi dovevano «combattere le orde barbare dell’Austria e della Russia» (cfr. i discorsi di Marx e di Engels, il 22 febbraio 1848, a Bruxelles). Solo Proudhon non mischierà la sua voce al concerto; benché a proposito della guerra difendesse vedute che Hegel non avrebbe biasimato, egli vedeva nella creazione dello Stato nazionale, che rafforza lo Stato e la centralizzazione a detrimento della spontaneità sociale, un nuovo ostacolo alla rivoluzione economica e, sotto un’apparenza di progresso, un movimento reazionario che non corrisponde ad alcuna necessità naturale dei gruppi umani, ma costituisce una creazione artificiale della politica.

 

La Germania di fronte all’Est

 

Immersosi nel movimento rivoluzionario che incominciava in Germania, nel marzo 1848, Marx volle militare innanzitutto con la sua penna, per accelerarvi la «rivoluzione borghese», nella quale vedeva il «preludio immediato di una rivoluzione proletaria» (Manifesto del partito comunista). Le Rivendicazioni del Partito Comunista in Germania fatte circolare da lui ed Engels in una certa stampa tedesca non rappresentavano che un programma di riforme radicali da realizzare su di un piano puramente interno, senza il minimo riferimento alla politica estera di una futura Germania unificata e repubblicana; in compenso, la «Neue Rheinische Zeitung», da loro sottotitolata «organo della democrazia», non tardò a proclamare la doppia condizione, interna ed esterna, che avrebbe permesso alla «Sinistra» radical-democratica di raggiungere il suo grande obiettivo: «L’unità tedesca, come la costituzione tedesca, può nascere solo da un movimento in cui tanto i conflitti interni, quanto la guerra con l’Oriente europeo, impongano drastiche decisioni. La costituzione definitiva non è decretabile; coincide col movimento che dobbiamo portare a termine. Perciò non si tratta di realizzare questa o quella opinione, questa o quella idea politica; si tratta di capire le vie e il corso della storia». («Neue Rheinische Zeitung», 7 giugno 1848, mew, v, p. 38 [Marx-Engels, Il Quarantotto. La «Neue Rheinische Zeitung», trad. it. di Bruno Maffi, La Nuova Italia, Firenze, 1970, pp. 18-9])

Engels dirà poi che il programma politico della «Neue Rheinische Zeitung» si riduceva a due grandi obiettivi: «Una repubblica tedesca democratica, una e indivisibile, e la guerra contro la Russia che includa il ristabilimento della Polonia (13 marzo 1884); il secondo di questi obiettivi, “la politica estera”, era semplice: appoggio a ogni popolo rivoluzionario, appello alla guerra generale dell’Europa rivoluzionaria contro il grande bastione della reazione europea – la Russia. A partire dal 24 febbraio era chiaro per noi che la rivoluzione aveva un solo nemico temibile, la Russia, e che questo nemico sarebbe stato tanto più costretto a ingaggiare la lotta quanto più il movimento prendeva dimensioni europee. Gli eventi di Vienna, Milano, Berlino dovevano ritardare l’attacco russo, ma il suo scatenamento finale diveniva sempre più certo man mano che la rivoluzione si avvicinava alla Russia. Ora, se si fosse riusciti a portare la Germania in guerra contro la Russia, sarebbe stata la fine degli Asburgo e degli Hoenzollern, e la rivoluzione tedesca avrebbe trionfato su tutta la linea». (Ibid., mew, xxi, p. 22)

 

Russofobie

 

È quasi impossibile misurare esattamente ciò che spetta a ciascuno dei due giornalisti amici in questa campagna guerresca, ma si può senza tema di errore attribuire a Engels la maggior parte delle cronache a carattere strettamente militare, così come si può ritenerlo responsabile degli articoli estremamente aggressivi non solamente riguardo la Russia ma anche le piccole nazioni slave, alle quali egli si compiaceva di negare il diritto all’esistenza «storica». Caporedattore del grande giornale renano, Marx a questo riguardo non potrebbe essere sciolto da ogni connivenza con il suo migliore amico. Se, per la quasi totalità dei redattori della «Neue Rheinische Zeitung», Engels in testa, «la grande lotta tra l’Europa occidentale e quella orientale» era imminente, se, in questa lotta, l’Oriente rappresentava «il dispotismo» e l’Occidente «la Rivoluzione», è senza dubbio il solo Engels ad assumere la grave responsabilità di precisare il significato storico di questo grandioso scontro ardentemente auspicato: «La guerra con la Russia significava la rottura completa, aperta e definitiva, con il nostro passato vergognoso; la vera liberazione e unificazione della Germania, l’instaurazione della democrazia sulle rovine sia del feudalesimo, che del breve sogno di dominazione della borghesia. La guerra con la Russia era la sola via possibile per salvare il nostro onore e insieme difendere i nostri veri interessi nei confronti dei vicini slavi e, in particolare, dei polacchi». («Neue Rheinische Zeitung», 20 agosto 1848, mew, v, p. 334 [Marx-Engels, Il Quarantotto. La «Neue Rheinische Zeitung», trad. it. di Bruno Maffi, La Nuova Italia, Firenze, 1970, pp. 80-1])

 

La guerra danese (1848)

 

È ancora a Engels che incombe il compito di far udire la voce patriottica del giornale durante la guerra prusso-danese, nella quale la Prussia tradiva gli interessi della Germania al fine di rafforzare la propria posizione e d’impedire un’evoluzione democratica nello Schleswig-Holstein, la cui popolazione reclamava la riunificazione alla Germania. Dopo l’accettazione di condizioni di armistizio, abbastanza umilianti, da parte dell’Assemblea nazionale di Francoforte (16 settembre 1848), Engels si premura d’inchiodare alla gogna il governo prussiano responsabile della maniera vergognosa in cui si era svolta la «prima guerra rivoluzionaria» tedesca. Egli prevede una guerra della Germania contro la Prussia, l’Inghilterra e la Russia, Paesi schieratisi a fianco della Danimarca.

«E, al movimento tedesco sonnecchiante, appunto una guerra simile occorre – una guerra contro le tre grandi potenze controrivoluzionarie, una guerra che risolva veramente la Prussia nella Germania, che elevi a necessità improrogabile l’alleanza con la Polonia, che provochi l’immediata liberazione dell’Italia, che si rivolga proprio contro i tradizionali alleati controrivoluzionari della Germania dal 1792 al 1815; una guerra che metta “la patria in pericolo” e appunto perciò la salvi, condizionando la vittoria tedesca alla vittoria della democrazia.» («Neue Rheinische Zeitung», 10 settembre 1848, mew, v, p. 397 [Marx-Engels, Il Quarantotto. La «Neue Rheinische Zeitung», trad. it. di Bruno Maffi, La Nuova Italia, Firenze, 1970, p. 88])

A sua volta, Marx fustiga il governo prussiano e i suoi ministri per aver condotto un’autentica guerra contro i polacchi in Posnania, per annettere finalmente nuovi territori polacchi (aprile-maggio 1848): «La guerra in Posnania fu più di una guerra contro la rivoluzione prussiana. Fu la caduta di Vienna, la caduta dell’Italia, la disfatta degli eroi di giugno. Fu il primo trionfo decisivo che lo zar russo riportò sulla rivoluzione europea». («Neue Rheinische Zeitung», 10 ottobre 1848, mew, vi, p. 103)

E, come Engels, Marx biasima il ministro Camphausen per non aver intrapreso contro la Danimarca che un «simulacro di guerra»: «La guerra danese doveva essere un mezzo per stornare l’eccesso patriottico della gioventù tedesca; dopo il suo ritorno, essa fu subito richiamata all’ordine con delle misure di polizia, come ci si poteva aspettare; la guerra doveva procurare una certa popolarità al generale Wrangel e ai suoi famosi reggimenti di guardie, e doveva riabilitare, in generale, la soldatesca prussiana. Una volta raggiunto l’obiettivo, bisognava far finire a tutti i costi questo simulacro di guerra con un armistizio vergognoso [...]». («Neue Rheinische Zeitung», 10 settembre 1848, mew, v, p. 397)

Allo stesso modo, la condotta della guerra in Posnania, contro gli insorti, che avevano nutrito l’illusione di trovare nelle truppe prussiane degli alleati contro la Russia, aveva rivelato la codardia dei prussiani, le loro barbare sevizie contro la popolazione civile sottomessa al saccheggio e a brutalità di ogni sorta.

«Abbattere vegliardi e donne incinte, violentare [...], maltrattare cittadini pacifici con le colbes e le sciabole, demolire delle abitazioni, uscire nottetempo con le armi nascoste sotto il mantello per attaccare gente disarmata, brigantaggio di strada [...] – tutto quest’eroismo si chiama, in linguaggio germano-cristiano, “perfetta disciplina”, “spirito di corpo”! Viva lo spirito di corpo e la disciplina, pertanto coloro che sono stati assassinati da questa ditta sono morti bene.» («Neue Rheinische Zeitung», 9 gennaio 1849, mew, vi, p. 160)

 

Guerra e nazionalismo

 

Nel clima post-rivoluzionario del 1849, allorché in Italia, in Ungheria, a Parigi e a Vienna il trionfo dei governi reazionari pareva sempre più certo, nessun lucido osservatore degli eventi poteva più dubitare che il famoso «equilibrio europeo» non era più che una leggenda e che l’esacerbazione dello spirito nazionale non poteva mancare di produrre conflitti militari tra potenze dalle grandi ambizioni espansioniste. L’ossessione dei redattori del giornale renano, lo zarismo russo, doveva condurli a considerare sospetto ogni movimento nazionale tra le popolazioni slave e a mettere in discussione la fondatezza delle loro aspirazioni nazionali: esperto in materia, Engels arrivava fino a stendere la lista esatta dei «rimasugli di popoli» (Völkerabfälle) votati all’annientamento totale, degni di essere calpestati «dalla marcia della storia». E a dare un nome allo strumento della Nemesi che s’incarica di eseguire la sentenza storica: la guerra. Di fronte alla minaccia per i nazionalisti ungheresi costituita dal «panslavismo» controrivoluzionario, Engels non poteva impedirsi di volgere gli occhi verso la Francia, secondo una vecchia credenza – o una superstizione? – centro dell’«iniziativa rivoluzionaria»: «Alla prima sollevazione vittoriosa del proletariato francese, che Luigi Napoleone si sforza di provocare con tutte le forze, i tedeschi e i magiari d’Austria si libereranno ed compiranno una vendetta sanguinosa sui barbari slavi. La guerra generale che scoppierà allora dislocherà questa Sonderbund, questa federazione separata (?) slava, e annienterà financo nei loro nomi queste piccole nazioni alleate. La prossima guerra mondiale estirperà non solamente classi e dinastie reazionarie, ma interi popoli reazionari. Anche questo, è un progresso». («Neue Rheinische Zeitung», 13 gennaio 1849, mew, vi, p. 176)

Engels continua a fornire al giornale diretto da Marx articoli sui grandi fatti d’arme, in Italia e in Ungheria, durante il 1848. La sconfitta e la capitolazione di Carlo Alberto, re di Piemonte e Sardegna, di fronte all’esercito austriaco, la sua abdicazione a favore di Vittorio Emanuele II, l’armistizio, poi la pace (6 settembre 1849) consacrano la sconfitta del movimento rivoluzionario nell’Italia settentrionale (Lombardia e Venezia); l’esercito austriaco può così volgersi contro gli ungheresi insorti e battere le truppe di Kossuth. Commentando la vittoria austriaca, Engels scrive: «In primo luogo fu un enorme errore da parte dei piemontesi opporre agli austriaci soltanto un esercito regolare, voler condurre contro di loro una guerra ordinaria, borghese, onesta. Un popolo che vuole raggiungere l’indipendenza non deve limitarsi ai mezzi di guerra ordinari. Sollevazione di massa, guerra rivoluzionaria, guerriglia, ecco i soli mezzi grazie a cui un piccolo popolo può vincerne uno grande e un esercito più debole può essere in grado di resistere a uno più forte e meglio organizzato». («Neue Rheinische Zeitung», 1 gennaio 1849, mew, vi, p. 387)

Engels critica amaramente il re Alberto, questo «traditore» che si è lasciato battere per permettere all’Austria di «pacificare» l’Europa. Nessuna monarchia tollera la guerra rivoluzionaria, la sollevazione di massa, il terrorismo: preferisce fare la pace col suo nemico più accanito piuttosto che allearsi col popolo.

Si poteva temere che le esigenze russe e austriache nei confronti della Turchia, asilo di numerosi rivoluzionari ungheresi e polacchi dopo l’annientamento della rivoluzione magiara, conducessero alla formazione di una nuova Santa Alleanza. Peraltro, i movimenti del 1848-’49 avevano permesso alla Russia di rafforzare la sua influenza sulla politica europea, di modo da poter progettare una nuova campagna contro la Turchia, per impadronirsi delle «chiavi di casa propria». Le conseguenze di una simile impresa furono allora intraviste da Marx ed Engels in termini che non avrebbero tardato a tradursi nei fatti stessi: «La guerra contro la Turchia sarà fatalmente una guerra europea. Sarà tanto meglio per la santa Russia, che avrà così l’occasione per riaffermare la sua influenza in Germania, per condurre a termine energicamente la controrivoluzione, per aiutare i prussiani a conquistare Neuchâtel e, in ultima istanza, per marciare su Parigi, il centro della rivoluzione. Se questa guerra europea esplode, l’Inghilterra non potrà restare neutrale. Dovrà decidersi contro la Russia. E l’Inghilterra è per la Russia l’avversario più temibile». («Neue Rheinische Zeitung», gennaio-febbraio 1850, mew, vii, p. 216)

Così fu, oltre ai pronostici sorprendentemente realistici sull’èra di prosperità che andava ad aprirsi per un’Inghilterra in piena espansione industriale e commerciale, così come per un Nord America in procinto di riversare sul mercato mondiale l’oro delle miniere californiane scoperte di recente. L’incrollabile «Impero di mezzo», la Cina, era alla vigilia di un immenso sconvolgimento sociale, dalle conseguenze incalcolabili per la «civiltà». Ma i due focolai di crisi, la Svizzera (Neuchâtel) e la Turchia, lasciavano prevedere una nuova èra di guerre e di rivoluzioni. Tale fu almeno la ferma convinzione di Engels che si compiaceva d’immaginare le conseguenze e le prospettive di una guerra imminente, di una nuova Santa Alleanza contro una Francia rivoluzionaria.

«È, a mio avviso, cosa certa che ogni rivoluzione che trionferà a Parigi avrà come conseguenza immediata una guerra della Santa Alleanza contro la Francia. Questa guerra sarà ben differente da quella del 1792-’94, e gli eventi di allora non potrebbero in alcun modo servire da paragone.» (Note inedite, aprile 1951, mew, vii, p. 468)

Sicuro del fatto suo, Engels fa il computo delle forze militari in campo – come se la coalizione presunta fosse cosa fatta; similmente, congettura sulla strategia e la tattica, non senza interrogarsi sui rapporti tra una rivoluzione proletaria trionfante e la Kriegsführung, la maniera di condurre la guerra, che essa comporterà immancabilmente!

«L’emancipazione del proletariato avrà anche un’espressione militare particolare: produrrà un metodo di guerra a sé stante. Cela est claire [in francese nel testo di Engels].» (Ibid., p. 480)

E senza esitare, Engels si fa forte di definire i «fondamenti materiali di questa nuova strategia»! Molto ammirato delle «grandiose scoperte di Napoleone in materia di scienza militare», Engels si sforza di definire «la nuova scienza militare» che sarà un prodotto delle nuove condizioni sociali.

«Così come, nella rivoluzione proletaria, non si tratta, per l’industria, di sopprimere le macchine a vapore, ma di moltiplicarle, egualmente per la condotta bellica si tratta di rafforzare i fattori di massa e di mobilità.» (Ibid., p. 481)

Marx ha probabilmente ignorato queste riflessioni dell’amico, «specialista» dell’arte «proletaria» della guerra; se le avesse conosciute, non avrebbe potuto trattenere il suo stupore – a meno di dimenticare le proprie concezioni rivoluzionarie! Insomma, i pronostici di Engels concernenti le future guerre di un proletariato francese che avesse fatto la sua rivoluzione sono animati da quello spirito militarista che si ritrova negli strateghi tipo Clausewitz eccetera. Engels si mostra «ottimista», augurando ai battaglioni francesi di essere guidati da un «ministro della guerra capace», che abbia «qualche conoscenza in materia di guerre rivoluzionarie e di metodi per creare rapidamente un esercito». Tutto si svolge, nella mente specializzata del «comunista» Engels, come se il processo della rivoluzione proletaria si svolgesse secondo le stesse regole sociologiche dei movimenti rivoluzionari del passato, secondo lo schema tradizionale: rivoluzione, invasione, guerra civile, dipartimenti e classi ribelli..., con sullo sfondo un Napoleone «proletario», degno del suo modello... borghese! A vedere l’accanimento col quale Engels si dedica agli studi militari negli anni Cinquanta, ci si può domandare se non nutrisse l’ambizione di avere questo ruolo...

Quando si sa che Marx ha firmato col proprio nome numerosi articoli redatti per lui da Engels e destinati al «New York Daily Tribune», si è obbligati a supporre che egli non fosse in disaccordo con il suo amico sul modo di concepire non soltanto gli avvenimenti e i problemi militari dell’epoca, ma anche le questioni nazionali che agitavano allora l’Europa. Così, Marx ha firmato un articolo, scritto da Engels, in cui quest’ultimo si mostra poco incline ad accordare ai polacchi – che combattevano per il ristabilimento della loro patria – la restituzione dei territori polacchi «germanizzati» da lunga data, largamente popolati da tedeschi. Bisognerebbe abbandonare città anticamente polacche, ma divenute «pienamente tedesche», a un popolo «che non ha ancora dimostrato di essere capace di progredire oltre lo stadio feudale fondato sul servaggio agricolo»? («New York Daily Tribune», 5 marzo 1852) Engels non vede che una soluzione a questo problema: una guerra contro la Russia. I polacchi, paghi di ottenere vasti territori a est, si sarebbero mostrati più trattabili a ovest...

«La parte avanzata della Germania, ritenendo dunque che una guerra con la Russia era necessaria per stimolare il movimento continentale, riteneva che il ristabilimento nazionale anche solo di una parte della Polonia avrebbe condotto fatalmente a quella guerra, e accordava il proprio sostegno ai polacchi; in compenso il partito borghese al potere prevedeva chiaramente che una guerra nazionale contro la Russia avrebbe condotto alla propria caduta [...].» («New York Daily Tribune», 5 marzo 1852, edizione 1933, p. 56)

La firma apposta da Marx agli articoli engelsiani equivaleva a un impegno politico che si estendeva a tutto un insieme di concezioni relative alla legittimità o illegittimità storica delle frontiere nazionali nate da guerre e da conquiste di ogni tipo nel corso degli ultimi secoli: l’interesse nazionale di una Germania unificata è portato avanti con lo stesso zelo che la distruzione dell’Austria multinazionale di Metternich, boia d’Italia, Ungheria e Polonia. Marx assumeva, con la propria firma, le opinioni di Engels sull’insurrezione e sulla guerra considerate come «arti»: «L’insurrezione è un’arte tanto quanto la guerra od ogni altra arte, ed è sottoposta a certe regole di condotta che, per poco che siano oggetto di negligenza, provocano la rovina del partito che se ne è reso colpevole». («New York Daily Tribune», 18 settembre 1852, op. cit., p. 100)

Per sovrappiù, Marx faceva proprie le idee engelsiane sull’importanza dell’offensiva in ogni insurrezione seria, perché «non bisogna mai giocare con l’insurrezione», e «la difensiva è la morte di ogni sollevazione armata». Persino i riferimenti storici, cari a Engels, che Marx, la cui conoscenza della lingua inglese era allora insufficiente per redigere da sé le corrispondenze inviate al giornale americano, dovette sottoscrivere. Così dovette plaudere alle parole di Danton, «il più grande maestro fino a oggi conosciuto di politica rivoluzionaria», a Danton che lancia il famoso «audacia, audacia, ancora audacia!». (Ibid.)

 

Nuova crisi d’Oriente: Guerra di Crimea 1854-’56

 

All’inizio degli anni Cinquanta, l’Europa vide una volta di più l’orizzonte politico oscurato da nuvole minacciose; gli sforzi della Prussia miranti a costituire sotto la propria egemonia un’Unione germanica, con l’esclusione dell’Austria, erano stati battuti in breccia da quest’ultima, che beneficiava dell’appoggio totale della diplomazia russa («ritirata di Olmütz»). Fu allora che Napoleone III, il «parvenu khan», scelse infine tra due avventure possibili: a occidente, in direzione dell’Inghilterra, o a oriente, ove la Russia, forte dei suoi successi in Ungheria e contro la Prussia, riprendeva alla più bella i progetti di conquista di Caterina II. Posta in gioco: l’eredità del «grande malato», l’impero ottomano in declino. La decisione dell’imperatore francese fu presa quando la Russia rivendicò il protettorato su tutti i cristiani greci che vivevano nell’impero turco: essendo posta così la questione dei luoghi santi, sui quali la Francia possedeva dal 1740 un diritto di protettorato, la Francia e l’Inghilterra si accordarono per venire in aiuto del Sultano. Dopo l’occupazione dei principati danubiani da parte delle truppe russe, seguita da una dichiarazione di guerra alla Russia da parte della Turchia, la Francia e l’Inghilterra firmarono un’alleanza con quest’ultima: fu l’inizio di quel che l’Occidente considerava come l’ultima guerra di religione.

Tale non fu l’opinione dei due corrispondenti del «New York Daily Tribune», i cui articoli sulla Guerra di Crimea giungevano al giornale con la sola firma di Marx. Tuttavia, sembra essere stato totale il loro accordo nella considerazione del carattere «storico» di questo scontro militare, apparentemente provocato da un conflitto religioso: si trattava, agli occhi dei due amici, comunisti e materialisti dichiarati, di niente di meno che una guerra tra la civiltà e la barbarie, tra la democrazia rivoluzionaria e l’assolutismo zarista. Dall’inizio della crisi, prima ancora che la Turchia dichiarasse guerra, Marx vedeva profilarsi dietro gli appetiti di conquista russi una doppia minaccia: una guerra europea, indi «la rivoluzione»: «Una sola questione si pone: la Russia agisce sotto il proprio impulso, o è schiava incosciente del fatum moderno – la rivoluzione? Io credo a quest’ultima eventualità». («New York Daily Tribune», 9 giugno 1853)

Insomma, per lui, le possibilità di una rivoluzione in Europa erano direttamente proporzionali alle ambizioni espansioniste della Russia, che bramava ora un nuovo «protettorato», lei che fu la «protettrice» della Polonia, della Crimea, della Georgia, dei popoli caucasici eccetera. Calcolando le distanze delle frontiere russe in direzione di città quali Berlino, Dresda, Vienna, Costantinopoli e Teheran, misurando poi i suoi acquisti territoriali in Svezia, in Polonia, nella Turchia europea, in Persia, in Mongolia, in Grecia, Italia e Spagna, Marx concludeva: «La totalità delle conquiste della Russia durante gli ultimi sessant’anni equivalgono in estensione e importanza all’intero impero da essa posseduto precedentemente in Europa». («New York Daily Tribune», 14 giugno 1853)

Non è come comunista, si potrebbe dire, che Marx si adira a questo punto, denunciando l’espansionismo russo; e se attacca un tale orleanista che, sul «Journal des Débats» – di fronte al dilemma: guerra contro la Russia, per l’indipendenza dell’Europa, ma con una rivoluzione per conseguenza –, non esita a decidersi per la pace, è per testimoniare apertamente la sua simpatia a David Urquhart, diplomatico reazionario, filo-turco e russofobo, da lui riconosciuto, per così dire, come alleato «oggettivo», in una strategia rivoluzionaria a lunga scadenza. Quasi ogni articolo inviato da Marx al giornale americano è una lezione di storia diplomatica ove la condanna della diplomazia britannica verso la Russia è quasi costante, soprattutto quando l’obiettivo scelto è Lord Palmerston. Il cronista non si stanca di risalire lontano nel passato per stigmatizzare il vergognoso spirito di sottomissione delle potenze occidentali nei confronti di una Russia pronta a «mangiare» la Turchia pezzo a pezzo. Fu il così dopo il Congresso di Vienna, altrettanto nel 1827 e ’28, nel 1829 come nel 1839 e nel 1848: «La diplomazia russa poggia dunque sulla fiacchezza degli uomini di Stato occidentali, e la loro arte diplomatica è divenuta lentamente un’autentica mania, al punto che si può seguire quasi testualmente la storia dei compromessi attuali negli annali del passato». («New York Daily Tribune», 14 luglio 1853)

C’è tutto lo spazio per pensare che Marx avesse piena coscienza della portata rivoluzionaria di una guerra europea contro la Russia zarista, e che non facesse per nulla il doppio gioco, da una parte come «democratico» e dall’altra come «comunista». Quindi si felicitava del fatto che il proletariato inglese si mostrava più eroico della borghesia e dell’aristocrazia illuminate «prosternate ai piedi dell’autocrate barbaro»: «Durante un meeting pacifista organizzato dai manchesteriani ad Halifax in favore del filo-russo Aberdeen, il cartista Ernest Jones è riuscito a far trionfare una risoluzione “che chiama il popolo alla guerra e in cui si dichiara che la pace sarebbe un crimine fintanto che la libertà non è conquistata». («New York Daily Tribune», 25 luglio 1853)

All’annuncio dei primi successi delle truppe russe impegnate contro la Turchia, Marx scriveva: «Lo zar ha non solo incominciato a fare la guerra, ha anche terminato la sua prima campagna. La linea delle operazioni non si trova più dietro il Pruth, ma lungo tutto il Danubio. Che fanno nel frattempo le potenze occidentali? Tengono consiglio, ossia forzano il Sultano a considerare la guerra come una pace. Rispondono agli atti dell’autocrazia non con i cannoni ma con delle note. Lo zar si vede assalito non dalle due flotte ma da non meno di quattro proposte di trattativa [...]. Così come si fa con i cani, la Russia getta ai diplomatici occidentali numerose note, al solo fine di procurare loro un passatempo innocente, mentre guadagna tempo». («New York Daily Tribune», 5 agosto 1853)

Quasi fosse un crociato dell’Occidente, Marx fustiga l’ipocrisia e l’esitazione della liberale Inghilterra e della Francia bonapartista, non senza richiamare il significato della «questione d’Oriente»: «Scontento e rattristato che il suo immenso impero disponga di un solo porto per l’esportazione [...], lo zar persegue il piano dei suoi predecessori: ottenere un accesso al Mediterraneo. Sottrae dal corpo dell’impero ottomano le parti più esterne, una dopo l’altra, finché, alla fine, il cuore, Costantinopoli, cessa di battere [...]. Contando sulla fiacchezza e la codardia delle potenze occidentali, impaurisce l’Europa e fa salire il più possibile le proprie esigenze, per sembrar poi generoso, quando si soddisfa di ciò che voleva veramente ottenere subito. Le potenze occidentali, dall’altra parte, incostanti, pusillanimi, sospettose l’una dell’altra, cominciano con l’incoraggiare il Sultano a resistere allo zar di cui temono gli sconfinamenti, per forzarlo, alla fine, a cedere, per paura di una guerra generalizzata che potrebbe condurre a una rivoluzione generale». (Ibid.)

Lungi dal fermarsi lì, Marx erige il conflitto orientale a causa del «partito rivoluzionario», senza, certo, tenere ai lettori americani un linguaggio «comunista». Vedendo avvicinarsi una nuova crisi economica, egli arriva fino a mescolare la collera dei «popoli» alla propria requisitoria contro i governi occidentali che accusa di tradire la causa della libertà: «L’umiliazione dei governi reazionari occidentali e la loro manifesta incapacità di difendere gli interessi della civiltà europea contro gli sconfinamenti russi, produrranno fatalmente un malcontento salutare nei popoli che sono, dal 1849, sottomessi al regno della controrivoluzione. Di più, la crisi industriale che si avvicina è influenzata e accelerata da questi problemi semi-orientali tanto quanto da quelli totalmente orientali in Cina». (Ibid.)

Se il fervore guerriero con il quale Marx si faceva così il campione della civiltà occidentale contro la barbarie zarista poteva lasciare perplessi lettori che non ignorassero le radici comuniste della sua posizione politica, bisogna ammettere che il rischio di compromettersi fu piccolo dal momento che le corrispondenze pubblicate sul «New York Daily Tribune» non giungevano a conoscenza del grande pubblico europeo. E come per giustificare il carattere «giacobino» della propria campagna anti-russa, Marx non esitava ad andare a cercare nel passato più remoto della Russia la spiegazione degli appetiti di conquista dei suoi capi, come se per lui si trattasse di trovare in questo approfondimento degli antecedenti storici il massimo di ragioni morali capaci di rendere plausibile una «vera» guerra europea la cui posta in gioco valesse il prezzo d’immensi sacrifici per i «popoli»! Attingendo largamente alla storiografia russa, Marx sembra essersi piegato a combinare, nei suoi articoli americani, lo stile didattico dello storico erudito e il tono del tribuno ardente di lanciare un manifesto politico: «Alcuni politici hanno l’abitudine di rifarsi al testamento di Pietro I, quando vogliono dimostrare la politica tradizionale della Russia, in generale, e i suoi disegni su Costantinopoli in particolare. Essi potrebbero, a dire il vero, risalire ben più lontano. Più di ottocento anni fa, Sviatoslav, granduca di Russia ancora pagano, dichiarava in un’assemblea dei suoi boiardi, che “non soltanto la Bulgaria, ma anche l’impero greco in Europa, unitamente alla Boemia e all’Ungheria, devono passare sotto il dominio della Russia” [...]. Nell’xi secolo, Kiev imitava in tutto e per tutto Costantinopoli, e si chiamava la seconda Costantinopoli: questo nome traduce l’instancabile aspirazione della Russia. La religione e la civiltà russe sono di origine bizantina, e il suo desiderio di soggiogare l’impero di Bisanzio [...] era più naturale di quello degli imperatori tedeschi rispetto a Roma e all’Italia. Conseguentemente, la concordanza negli obiettivi della politica russa si spiega con il suo passato storico, con le sue condizioni geografiche e con la necessità di conquistare porti marittimi aperti sull’Archipel e sul Baltico, se vuole mantenere la sua egemonia in Europa. E tuttavia, la maniera tradizionale con cui la Russia persegue questi obiettivi non merita minimamente il tributo di ammirazione che le rendono i politici europei. Certo, il successo di questa politica ereditata dal passato è una prova della debolezza delle potenze occidentali, ma, contemporaneamente, l’uniformità stereotipa di questa politica dimostra la barbarie interna della Russia [...]. La politica russa può imporsi grazie ai suoi intrighi, trucchi e sotterfugi tradizionali sulle corti europee, che si fondano anch’esse sulla sola tradizione; di fronte ai popoli rivoluzionari, fallirà totalmente».

Marx si rallegra che gli Stati Uniti d’America comincino a intervenire negli affari europei, e che questa intromissione si operi a proposito della questione d’Oriente. Il fatto è che Costantinopoli ha solo un’importanza commerciale e militare grazie alla sua posizione geografica, è la «Roma dell’Oriente»: se accadesse che il sultano fosse rimpiazzato dallo zar, si vedrebbe il ritorno del Basso Impero, e lo zar sarebbe per la civiltà bizantina ciò che a lungo degli avventurieri russi furono per gli imperatori dell’impero declinante: corpi di guardia tra i loro soldati. In breve, Costantinopoli ridiverrebbe ciò che fu un tempo, il centro di un impero teocratico, autentica barriera contro il progresso europeo. Sembrerebbe di leggere Michelet che se la prende con l’«impero cosacco», quando ci si trova di fronte a proclami come questo: «La lotta tra l’Europa occidentale e la Russia per il possesso di Costantinopoli porta all’interrogativo se il bizantinismo indietreggerà davanti alla civiltà occidentale o se l’antagonismo tra l’uno e l’altra resusciterà in forme ancor più spaventose e violente che mai. Costantinopoli è il ponte d’oro tra l’Est e l’Ovest, e la civiltà occidentale non può, come il sole, fare il giro del mondo, senza attraversare questo ponte, e non può attraversarlo senza lottare con la Russia. Il Sultano tiene ormai Costantinopoli sotto la sua guardia solo per la rivoluzione, e i dignitari presenti nominati dall’Europa occidentale, che, per quanto li riguarda, vedono l’ultimo bastione del loro “ordine” sulle rive della Neva, non possono fare nient’altro che lasciare la questione in sospeso, fino al giorno in cui la Russia si troverà faccia a faccia con il suo vero avversario: la rivoluzione. La rivoluzione, che getterà a terra la Roma d’Occidente, trionferà così anche dell’influenza demoniaca della Roma d’Oriente». («New York Daily Tribune», 12 agosto 1853)