indice n.38

Intervista con Khalida Jarrar, compagna del Fplp
Lettera dal carcere di Spoleto
Lettera dal carcere di Brucoli (Siracusa)
Lettera dal carcere di Carinola
Lettera dal carcere di Secondigliano
Lettera dal carcere di Viterbo
Lettera dal carcere di Iglesias (Cagliari)
Lettera dal carcere di Vigevano
Lettera dal carcere di San Michele (AL)
Lettera dal carcere di Macomer (Nuoro)
Lettera dal carcere di Benevento
Incarcerazione di giornalista del foglio ISCI KOYLU!
SOSTENIAMO LA LOTTA DEI DETENUTI DI SOLLICCIANO (FI)
LA MORTE DI STEFANO FRAPPORTI: UN PROBLEMA DI TUTTI
UNITI SEMPRE PER LA DIFESA DEL POSTO DI LAVORO!
agosto 2009: rivolta nei cie
massacro in Libia, 20 somali uccisi dalla polizia
milano: cronaca dal quartiere san siro
Ferragosto a L'Aquila
DEPORTATI. Controinformazione da L'Aquila
Sulla strage di Viareggio del 29 giugno
Intervista: le poste tedesche e la logistica militare
parma: Appello per giornata di mobilitazione contro l'EFSA
MARCO CAMENISCH TRENT'ANNI DOPO
INNSE: APPUNTI DI UNA LOTTA
FORUM AMBROSETTI: MERCANTI DI CRISI
sulla lotta degli insegnanti


Intervista con Khalida Jarrar,
compagna del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina
D: Iniziamo con il parere del FPLP in merito alla amministrazione Obama e al nuovo governo israeliano. Pensa che la nuova amministrazione americana porterà alcun cambiamento per il conflitto israelo-palestinese?
R: Noi non riteniamo che i singoli possono fare molto per la politica di un paese. Credo che Obama non porterà alcun cambiamento sostanziale, almeno per quanto riguarda la politica estera americana. Stiamo parlando di politiche istituzionali, non di quelle dei singoli. Naturalmente, ogni Presidente, ogni partito ha un approccio diverso sul modo di attuare la politica estera, e non ci saranno più folli politiche come quelle fatte da Bush, ma Obama non può cambiare il sistema, e le contraddizioni sono all'interno del sistema stesso: il sistema economico capitalista, l'imperialismo che ha portato all'occupazione militare in Iraq e in Afghanistan. Verso il Medio Oriente e, in particolare, la causa palestinese, stanno ancora parlando di "processo di pace", che non significa nulla per noi, non è un vero e proprio processo di pace. E credo che la priorità per gli Stati Uniti ora sarà la crisi finanziaria ed i problemi economici all'interno del sistema capitalistico stesso. Pertanto, non siamo ottimisti, Obama, non intende modificare il sistema e, di conseguenza, per i palestinesi, la situazione non cambierà molto.

D: Che dire del governo israeliano? Sembra non essere ancora impegnato per la soluzione dei due Stati...
R: Il governo israeliano? Le elezioni dimostrano che il governo israeliano sta andando sempre più verso l'estrema destra. La cosa nuova è che Lieberman è riuscito a ottenere molti consensi e un ruolo nel governo come ministro degli Esteri. Egli stesso rappresenta chiaramente, ora a livello ufficiale, il razzismo, la pulizia etnica delle politiche del governo israeliano nei confronti dei palestinesi. C'è un aumento nel numero di insediamenti, nelle demolizioni di case a Gerusalemme; così, parlare o non parlare con loro? Io appartengo a un partito che ha detto fin dall'inizio che questo processo di pace non porterà a nessuna pace o giustizia per i palestinesi. Noi stiamo chiedendo da tempo di interrompere qualsiasi tipo di negoziazione con i governi israeliani, in particolare con questa. Noi non crediamo in un processo di pace sulla base di colloqui personali, individuali, senza la reale esecuzione delle risoluzioni internazionali relative alla causa palestinese e senza il riconoscimento dei diritti fondamentali dei palestinesi. Io non parlo solo del diritto di creare uno Stato palestinese pienamente indipendente, ma anche il diritto di autodeterminazione e il diritto al Ritorno per i profughi palestinesi. Non vi è alcuna necessità di discutere o di compromesso su tali fondamentali diritti inalienabili, che dovrebbero solo essere attuati attraverso una conferenza internazionale in base al diritto internazionale e alle risoluzioni ONU pertinenti.

D: Il dialogo del Cairo: pensi che qualsiasi tipo di riconciliazione tra Hamas e Fatah sia realistico?
R: Sono pessimista sulla possibilità di una riunificazione. Non credo che ci sono delle vere e proprie trattative tra le due parti in materia di riunificazione nazionale, ma colloqui individuali. Ciascuna parte utilizzerà il suo potere per creare meccanismi che diano ancora più potere e legittimità nel settore che già controllano. Pensiamo che ci debba essere una discussione, senza interferenze esterne e precondizioni su come dovrebbe essere formato il nuovo governo. Come partiti politici palestinesi, noi condividiamo la situazione di essere sotto occupazione: per questo noi dovremmo rispettarci a vicenda e utilizzare solo strumenti democratici per risolvere i nostri problemi, invece di controllare le cose attraverso l'uso della forza. Abbiamo bisogno di tenere le elezioni, cambiare la legge elettorale, al fine di dare a tutti i partiti politici la possibilità di partecipare. Dobbiamo porre fine a questo terribile meccanismo in cui il feudo Hamas-Fatah, anche grazie a interferenze esterne, controlla tutto.

D: Un numero crescente di critici e dissidenti della leadership dell'Autorità Palestinese (AP) sta diventando un obiettivo per l'apparato di sicurezza dell'AP in Cisgiordania. Pensi che la AP stia diventando sempre più autoritaria e le forze di sicurezza militarizzate? Che cosa pensi rispetto al coordinamento tra loro e gli israeliani?
R: Questo aspetto è parte degli accordi della Road Map. Noi rifiutiamo nel modo più assoluto il coordinamento tra le forze di sicurezza palestinesi e gli israeliani e pensiamo che dovrebbe essere immediatamente interrotto. Tutte le forze di sicurezza dovrebbero aiutare i palestinesi nella loro lotta e attuare e garantire i diritti dei nostri cittadini, invece di collaborare con l'occupante. Questo è uno dei temi ora sul tavolo del dialogo. Siamo contrari a qualsiasi tipo di forze di sicurezza legate ai partiti politici, come è adesso in Cisgiordania e Gaza. Sono molto preoccupata per la violazione dei diritti umani dei palestinesi: sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza ci sono prigionieri politici, assassini, la chiusura delle istituzioni del partito rivale. A Gaza Hamas non permette a Fatah di tenere una normale attività politica, e la stessa cosa accade in Cisgiordania controllata da Fatah. Le prime vittime di queste politiche sono i diritti umani dei palestinesi stessi.

D: L'Autorità palestinese continua a ritenere che i negoziati di pace sono il modo migliore per raggiungere la pace e la giustizia per i palestinesi. Pensi che l'AP rappresenta gli interessi dei palestinesi?
R: Sono membra di un partito che si è opposto al cosiddetto "processo di pace" sin dall'inizio. Non siamo d'accordo sul modello dei singoli e continui negoziati e chiediamo che la AP metta fine a questa politica che non porta da nessuna parte. Noi vediamo che Israele usa i negoziati di pace come uno strumento e una copertura per le loro azioni sul terreno, la loro costante aggressione e gli attacchi contro i palestinesi e la loro terra.

D: C'è la necessità di un'altra forma di rappresentanza per i palestinesi? Anche l'OLP è ormai sorpassato?
R: Non abbiamo bisogno di creare un'altra istituzione. Noi vediamo l'OLP come una rappresentanza politica dei palestinesi dentro e fuori la Palestina e il simbolo della loro lotta. La AP non rappresenta tutti i palestinesi, la maggior parte dei quali sono profughi all'estero, deve solo essere un ente per aiutare i palestinesi a sopravvivere sotto l'occupazione. Quindi, abbiamo bisogno di una rappresentanza politica: ritengo che si debba salvare l'OLP riformandolo. Prima di tutto è necessaria una politica di revisione: dobbiamo imparare la lezione dal passato e fermare la politica dei futili negoziati di pace e degli accordi. In secondo luogo, vi deve essere una riforma democratica all'interno della stessa OLP. L'elezioni per una Conferenza Nazione palestinese dovrebbe essere tenute in modo da dare a tutto il popolo palestinese la possibilità di essere adeguatamente rappresentato. Da queste elezioni saranno creati un Comitato Centrale e un Comitato Esecutivo. Tutti sanno che un altro aspetto del conflitto tra Hamas e Fatah è la questione della rappresentanza: Fatah non vuole far entrare Hamas nell'OLP, al fine di mantenere l'egemonia su di esso. Al contrario, Hamas vuole avere una forma alternativa di rappresentanza, perché ha vinto le elezioni. Noi vediamo nell'OLP una casa di tutti i palestinesi e uno strumento per la loro rappresentanza nella lotta per l'autodeterminazione.

D: Affrontiamo la questione della Sinistra Palestinese. Può una Sinistra divisa rappresentare una reale terza forza nello scontro tra Hamas e Fatah?
R: Le critiche alla frammentazione dei partiti di sinistra è giusta, questa è una grande debolezza. Noi riteniamo che la sinistra dovrebbe essere unita. Non sto parlando di un nuovo partito o di una immediata riunificazione, ma una coalizione di tutti i gruppi di sinistra e progressisti, delle organizzazioni di base e degli individui intorno a un minimo di piattaforma politica. Questo potrebbe essere il primo passo verso un processo che potrebbe condurre verso una sinistra unitaria. In caso contrario, questa situazione in cui Hamas e Fatah controllano ogni cosa ci guiderà per un lungo periodo di tempo. Solo se i partiti palestinesi democratici e di sinistra, insieme ai palestinesi che li sostengono, si uniscono in una coalizione, la Sinistra può rappresentare una terza via. Stiamo lavorando molto su questo. In alcuni consigli studenteschi hanno già affrontato l'elezioni insieme, i movimenti di sinistra delle donne stanno discutendo un documento sulla base del quale unirsi in una coalizione...

D: Quali sono gli ostacoli concreti contro l'unificazione della sinistra?
R: I principali ostacoli sono di carattere politico. Per esempio abbiamo opinioni diverse sul processo di pace: alcuni partiti sono d'accordo con gli accordi di Oslo, la Road Map, ecc. Altri no. Tuttavia, come ho detto prima, questo non deve impedirci di accordarci su una agenda politica minima.

D: Mi sembra che i gruppi di sinistra in generale, e il FPLP, sono di fronte a una crisi di consenso nella società palestinese: Perché? Dove è andata la sinistra? Cosa state facendo per essere più presenti e visibili nella società civile palestinese(ONG, organizzazioni di base, movimenti popolari)?
R: Questa è la sfida: nessun partito politico di sinistra può fare molto da solo. Ora le sinistre si trovano ad affrontare una situazione difficile: non abbiamo alcun potere, né denaro, né il sostegno internazionale. Anche nel mondo arabo, i gruppi islamici stanno avendo la parte da leone. Ci troviamo di fronte a problemi interni, come quello economico. Siamo partiti poveri e se si desidera aumentare i programmi sociali, si ha bisogno di soldi per farlo. Come si può competere contro Hamas, che ha un sacco di infrastrutture e di fondi? La gente non vuole solo discorsi, ma interventi sul piano sociale. Abbiamo anche bisogno di poter contare sui militanti. Qui sorge la domanda: come incoraggiare l'attivismo quando si devono affrontare tanti ostacoli geopolitici? A livello internazionale, soprattutto dopo il crollo dell'Unione Sovietica, abbiamo perso il sostegno, la copertura, e qualsiasi tipo di protezione. Noi ci sentiamo vulnerabili: se si dice che sono un membro del FPLP, si finisce in carcere il giorno stesso. Ma la sua critica è giusta, dobbiamo rivedere la nostra politica, tornare ai movimenti di base, essere più presente ...

D: ...Come nella resistenza popolare non violenta contro il Muro...
R: Siamo già parte delle attività in Bil'in, Ni'lin, al-Ma'sara, siamo presenti in questi comitati popolari.

D: Avete rapporti con i partiti israeliani e i movimenti internazionale anti-occupazione?
R: Noi pensiamo che la nostra lotta nazionale ha bisogno del sostegno attivo del movimento di solidarietà internazionale. Per quanto riguarda i movimenti in Israele, noi chiediamo loro il pieno riconoscimento dei diritti palestinesi...

D: Non credi che sia giunto il momento per il FPLP di impiegare maggiori sforzi sui movimenti di base e la lotta popolare, e attribuire meno importanza al confronto militare?
R: Il FPLP crede in tutti i tipi di resistenza, e, naturalmente, la principale è la resistenza popolare (il boicottaggio delle merci, il boicottaggio accademico e culturale, le manifestazioni pacifiche contro il muro e gli insediamenti). Nessun partito sta sviluppando solo la resistenza militare. La lotta armata può essere condivisa solo da singoli individui, e cambia a seconda della situazione, ma la lotta popolare è la grande parte e può essere portata avanti da un sacco di gente. Non critichiamo in linea di principio, la resistenza armata, perché non stiamo affrontando un'occupazione "buona", questo è un'occupazione militare. Sono d'accordo che dovremmo aumentare la nostra resistenza popolare contro il muro, gli insediamenti, ecc. Ma c'è un collegamento tra i due tipi di resistenza.

D: Forse non è il momento giusto per una terza Intifada, anche vedendo la reazione in Cisgiordania durante l'attacco israeliano su Gaza non è stata così forte come ci si potrebbe aspettare...
R: La reazione non è stata forte a causa del ruolo svolto dalle forze di sicurezza palestinesi, e perché, e questo è il motivo principale, siamo divisi a livello nazionale. Ascolta, l'Intifada ha bisogno di leader, ma non abbiamo leader. E ha bisogno di essere uniti, ma non c'è l'unità di tutti. Penso che il momento per una terza Intifada verrà, la gente non accetterà per sempre che la situazione peggiori, ma ora la priorità è quella di essere uniti come palestinesi.

D: Il FPLP è un partito laico e marxista, ma avete posizioni politiche molto più vicine a un partito religioso come Hamas rispetto ad altri partiti laici. Come si spiega questo?
R: Non credo che politicamente siamo così vicini ad Hamas. Ad esempio, critichiamo il suo approccio politico e la sua convinzione su un cessate il fuoco a lungo termine come modo per porre fine all'occupazione. Ci sono delle somiglianze, naturalmente: siamo entrambi contro gli accordi di Oslo, la Road Map, la trappola dei negoziati di pace. E come in altri movimenti rivoluzionari, per esempio quelli in America Latina, ci possono essere, in alcuni momenti storici, dei rapporti tra marxismo e religione. Dobbiamo definire la fase in cui ci troviamo, al fine di stabilire quali sono le priorità: come palestinesi, ci troviamo di fronte a una lotta nazionale e democratica. Devi definire le priorità politiche in base all'occupazione: ora la nostra lotta nazionale unitaria deve essere la priorità, in altre circostanze le questioni sociali e democratiche saranno in cima all'agenda politica. Prima di tutto, penso che dobbiamo lavorare per creare un fronte nazionale unito tra tutte i partiti per porre fine immediatamente all'occupazione.

Enrico Bartolomei, per l'Alternative Information Center
da www.cpogramigna.org


Lettera dal carcere di Spoleto
Lettera aperta ad una cittadina onesta
Olga, sul mio articolo per la morte in carcere dell’ergastolano Khalid di 79 anni, mi scrive:
- Però anche tu non sei onesto se ricordi di Khalid solo il suo ruolo di combattente per la Palestina e non per il terrorismo che usò…
Olga, credo che sia io che tu, se fossimo nati in un campo profughi, avremmo avuto delle buone probabilità di diventare dei terroristi.
Comunque anche i partigiani italiani che lottavano contro gli invasori tedeschi erano considerati dei terroristi.
Olga tu non conosci il lato oscuro del “bene”. Non sai quanto male nasconde il “bene”.
E forse non sai neppure quanto bene c’è nel “male”. Mi scrive pure:
- Aiutaci con la tua riflessione a capire come si può liberare il nostro paese dalla criminalità organizzata…
Semplice, anche se difficile, prima bisogna liberarsi dalla mafia mediatica, politica, religiosa, finanziaria, intellettuale, imprenditoriale e poi per ultimo ci possiamo liberare dalla mafia che spara, dei quattro scemi che si fanno usare come carne da cannone dal potere perché alla fine vengono tutti ammazzati o condannati all’ergastolo.
I colletti bianchi non sono solo criminali, sono molto di più, sono criminali disonesti, cattivi, furbi e malvagi più di tutti gli altri criminali perché usano la legge, il potere, la cultura, l’intelligenza e il bene per fare il male.
E di questi mafiosi “perbene”, credimi, non ne ho mai trovato uno in carcere.
La mafia è molto diversa da quella che senti parlare nei salotti televisivi. Non sai quanta ingiustizia in nome della giustizia si fa in carcere.
In prigione c’è più ingiustizia di qualsiasi altro luogo.
Per questo io sarò sempre dalla parte dei cattivi, dalla parte di Khalid.
Le persone per bene mi hanno sempre riempito di botte e di legnate da quando sono nato, per prime le suore e poi i preti e per ultimo lo Stato.
Sempre le persone per bene, a sedici anni mi hanno legato ad un letto di contenzione e a 54 anni mi dicono che la mia pena non finirà mai.
Spesso l’umanità dei “criminali onesti” è molto più profonda delle persone perbene ma disoneste. Solo i “terroristi” e i “criminali onesti” mi hanno dato amore, amicizia e giustizia per questo io, Olga, sto con i cattivi.
Rimarrò sempre cattivo fin quando vedrò che le persone perbene sono più disoneste di me. Se cambia lo Stato, se cambiate voi, se cambiamo insieme forse cambierò anch’io.
Olga il potere della giustizia è il perdono, senza il perdono la pena è solo una crudele atroce vendetta sociale.
Per questi “sto” con i “terroristi sociali” e non con i terroristi di Stato.

Carmelo Musumeci
luglio 2009


Lettera dal carcere di Brucoli (Siracusa)
Carissimi compagni, vi scrivo queste righe per darvi notizie e informarvi che mi trovo in Sicilia per processo. Al momento sono appoggiato al carcere di Brucoli, vicino a Augusta (Siracusa). Dovrei rimanere qui 15 giorni - perché devo fare 3 udienze di un processo che si svolge a Catania, poi ritorno a Carinola.
Negli ultimi resoconti pubblicati dai giornali della Sicilia, sulle carceri siciliane, hanno scritto di Brucoli come di un carcere modello, da imitare. Qui c'è un regime totalitario dove manca tutto. In questo periodo ci troviamo appoggiati qui per processi in 4 compagni ergastolani, tutti provenienti da altre carceri e siamo tutti isolati. Abbiamo fatto richiesta di fare il passeggio assieme, ci hanno risposto che è impossibile, che non ci metteranno mai all'aria assieme. Questa, dicono, è una struttura che deve rimanere di oppressione e di isolamento. La sezione è composta da 25 celle tutte singole, il regime è uguale per tutti. Noi ergastolani (Faro, Giustino, Adamo, Calabro) siamo tutti sotto il regime AS1. poi ci sono 4 prigionieri con il 14bis. Li hanno messi nelle ultime celle per tenerli lontani dagli altri compagni.
A tutti ci mandano da soli all'aria. Non c'è nessuna attività ricreativa o sportiva, nessun tipo di socialità; il passeggio non dura più di 30 min. proprio perché ci devono mandare, uno dopo l'altro, negli stessi passeggi.
Insomma non c'è la benché minima libertà. Ci viene proibita ogni cosa capace di alleviare le sofferenze che questi posti comportano. Qui la direzione è sorda. Siccome non ci interessa dialogare per umanizzare la vita dei carcerati, fanno di tutto per tenere un regime di oppressione. Le loro giustificazioni sono che questa è una struttura di cui il direttore ha deciso che deve rimanere di repressione. E nulla deve cambiare.
Ultimamente hanno tolto un posto di lavoro. Ci dicono che è una decisione ministeriale in via di applicazione in tutte le carceri italiane. Purtroppo dopo le ultime circolari è difficile organizzare delle lotte unitarie. Stanno facendo di tutto per rompere la solidarietà tra i carcerati. Qui c'è un ragazzo islamico con il 14 bis, gli hanno tolto tutto, e trova poca solidarietà da parte degli altri carcerati. Comunque, qui noi ergastolani stiamo portando avanti una lotta, almeno per andare all'aria assieme. Ci mettiamo tutte le nostre forze, non ci arrendiamo mai. Per quelle che sono le nostre possibilità si continua a lottare e ad andare avanti. Saluti a tutte le compagne e ai compagni, con affetto, Antonino.
Saluti dai compagni Giustino, Adamo e Calabro.

Brucoli, 7 luglio 2009


Lettera dal carcere di Carinola
Siamo qui da qualche giorno quattro da Biella (io, Stefano, Cesare e Gerardo), più quattro da Sulmona (Carlo, Nino, Franco e Fabio), uno da Voghera (Fabio), uno da Livorno (Francesco) e uno (Michele) che era già qui: in undici, per ora. Ci sono 2 cameroncini da 4 posti l’uno e 8 celle singole, piccolissime. Vedremo più avanti cosa succederà. Boh! Ora concentrano tutti come ai vecchi tempi. E’ però anche un modo per non creare unità per possibili lotte. Anche se la mala di oggi non è più quella degli anni 70-80. Con tutte le restrizioni che hanno in programma, noi siamo sempre una possibile aggregazione per le lotte. Mah! Vedremo...

Giorgio
23 luglio 2009


Lettera dal carcere di Secondigliano
Francesco dopo aver letto quello che succede nel carcere di Macomer ha scritto una lettera a Maria Grazia Caligaris, ex-consigliera per Rifondazione alla regione. Purtroppo la lettera, spedita alla sede del Coniglio Regionale della Sardegna gli è tornata indietro, perché nel frattempo il Consiglio Regionale ha cambiato colore e la signora Caligaris non vi svolge più alcuna funzione. Francesco ci scrive di pubblicarla sull'opuscolo, eccola:
On. Non mi interessa il mio caso. Le invio un opuscolo, 'Ampi orizzonti', che ricevo fisso. Essendo sardo, nel leggere che a Macomer usano i peggiori metodi, mi rivolgo a lei per bloccare, se può, questa vergogna nella storia.
Lei sa già che io ho passato i peggiori pestaggi, oltre all'estintore, all'idrante, i peggiori letti di forza, pestato da 7-8 per volta, ma mai mi sono piegato. Mi hanno rotte tutte e due le spalle, le piante dei piedi, mi hanno ridotto in stampelle e in cella posso muovermi solo sulla sedia a rotelle.
Questi ultimi ministri, da Di Liberto a Fassino, al leghista, uguale a tutti; quest'ultimo una volta, di ritorno dal Brasile, ebbe a dire che qui i pestaggi non esistono. Nel 2005 nelle carceri ci sono stati 57 ammazzati, nel 2006 60, nel 2007 62. L'ultimo, Verbicaro Luigi, è arrivato qui da Parma verso i primi di maggio, ,hanno messo alla quarta sezione. In quella stalla ci portano chi deve essere sottoposto a visita mentale. Il 9 giugno l'avevano portato verso le 15,30 alla 5° sezione, dove mi trovo io, doveva fare la doccia, perché nella sua sezione era guasta. Era seguito da un accompagnatore, ad ogni modo è caduto, hanno chiamato il medico che si trovava al 1° piano (la doccia è al piano terra). Il medico rispose di portare il moribondo da lui, come era già successo con Del Duca e Racco Francesco. Hanno chiamato il 118 per portarli a morire in qualche ospedale compiacente.
La procura sa tutto, così il tribunale di sorveglianza, ma si nascondono. Anche a me, che sono invalido, non danno più le medicine, il Voltarin, assegnatemi pochi giorni fa dall'ortopedico. Al medico di qui e al suo servo infermiere glielo dico in faccia che sono degli assassini. Un saluto caro.

Catgiu Francesco
Secondigliano, 2 luglio 2009


Lettera dal carcere di Viterbo
Salve! So che suona un po’ impersonale, ma non vi conosco e quindi ho ritenuto che fosse la formula migliore…
Mi è capitato di leggere, del tutto casualmente, perché passatomi da un’altra persona che non ha interessi specifici, il vostro opuscolo n° 35 e l’ho trovato interessante e ben fatto, oltre a costituire un utile veicolo di informazione fra i prigionieri e anche di contro-disinformazione, che è quella che regna qui dentro.
Vi scrivo da Viterbo che è un istituto di massima sicurezza diviso in tre: il blocco 41-bis (con circa 50 detenuti) lontano e recintato (in pratica un carcere al cubo!) e i blocchi D-1 e D-2. Il blocco D-1 nel quale mi trovo, consta di cinque piani – piano terra “matricola”, magazzino, celle d’arrivo, ufficio comandante, inoltre:
1° piano: “educatori”, magistrati, avvocati, biblioteca, ufficio medico, barberia;
2° piano: tossicodipendenti;
3° e 4° piano: prigionieri a minima sicurezza.
Il blocco D-2: piano terra simile a quello del D-1, dal 1° al 4° piano prigionieri definitivi divisi fra penale e regimi AS 1, 2, 3.
La struttura è semi-nuova, degli anni ’80, ma è sovraffollata, com’è di moda oggi. Siamo a quota 900 presenze, contando anche l’isolamento (40 posti in 20 celle) e le sezioni “rossa” e “blu” (10 posti l’una) destinate, la prima ai reati a sfondo sessuale e lòa seconda agli infami. Le stanze sono di circa 5x2 con un mini bagno con tazza, bidet e lavabo e con due letti a castello. L’acqua è razionata in misura di 80 litri al giorno per due persone; il cibo, scarso e di pessima qualità; una doccia al giorno eluse le domeniche e festivi … La spesa interna scarsa e con prezzi alti.
Totale assenza di “educatori”, volontari, lavoro, attività ludiche. Del magistrato di sorveglianza nemmeno parlarne; l’acerrima Carpitella, questo è il suo nome, si vanta pubblicamente di non aver concesso una “misura alternativa” negli ultimi 12 anni!!
Le guardie sono tranquille anche se la squadretta interna nell’ultimo mese ha provveduto a tre pestaggi, il loro metodo è il muro di gomma: tu puoi chiedere ma nessuno ti risponde… Infine, la presenza di prigionieri stranieri è circa al 60%, ed è in aumento.
Dopo questo lungo excursus vi dico di me: sono Maurizio, ho quarantasette anni e sono “ricorrente” su di una condanna a otto anni e due mesi per rapina e tentato omicidio.
La ragione che mi ha spinto a scrivervi è che sarei interessato a ricevere il vostro opuscolo e, se possibile, anche dei libri, visto che qui la biblioteca è di difficile accesso. Ritengo valido ed utile il lavoro che state facendo, anche se qui il clima attuale è di generalizzata rassegnazione e sopportazione, un po’ come di chi subisce il vento e la pioggia, non so se mi sono spiegato… tranne qualche isolato che fa casino, ci si sbrana fra di noi con somma gioia dei mastini. Ritengo molto utile far girare notizie su quanto sta accadendo in questa dimensione, anche perché fra di noi c’è tantissima ignoranza sugli avvenimenti esterni. Per esempio: nei giorno scorsi, fine luglio - a Lucca ci sono stati cinque gravi casi di autolesionismo fra prigionieri stranieri, il 1° agosto a Ivrea una sezione dell’istituto è stata gravemente danneggiata durante una protesta e l’altro ieri al C.I.E. di Gradisca d’Isonzo c’è stato un grosso scontro fra prigionieri e guardie…
Potreste assumere altre informazioni e metterle sul prossimo opuscolo?
Ritorno sull’argomento di prima: potrei ricevere dei libri che avete a disposizione e sceglierne? Avete qualcosa su Jacob e Bonnot? Visto il mio tipo di “lavoro” li considero degli antesignani e dei colleghi… Per ora è tutto.
Mi scuso per la grafia, ma ho una grave forma di “oculopatia degenerativa”, tipo cellophane all’occhio dx ed ho già subito due interventi in 18 mesi che sono qui e mi rimane il sinistro… sarà un segno?

Con simpatia, saluti Maurizio
Viterbo, 12 agosto 2009


Lettera dal carcere di Iglesias (Cagliari)
Cari/e compagni/e! Vi ringrazio per la continua e costante solidarietà che ci date e vi informo che ho ricevuto l’opuscolo nr. 37, e voglio aggiungere qualcosa che riguarda questo istituto di Iglesias.
Come argomento prendo la “corrispondenza epistolare”. Molte lettere vengono smarrite e tante altre ci raggiungono con un notevolissimo ritardo, anche mensile; abbiamo inoltrato diverse istanze esponendo tale problematica alla direzione e al comandante. Per tutta risposta ci è stato detto che la “colpa” non è loro, ma bensì delle poste! Una volta il postino è in ferie, l’altra volta la posta è chiusa, ma, come abbiamo già capito il vero problema è questo carcere. Continuano con le loro “meschinità”, non hanno i coglioni di affrontarti a quattr’occhi e fanno queste bastardate. D'altronde, cosa possiamo aspettarci da questi servi dello stato infami? …
Il secondo problema è quello del sopravitto: i prezzi sono molto esagerati. Li abbiamo confrontati con i prezzi dell’esterno, si dice che siano il doppio. Dato che ci troviamo in un posto isolato, dove nessuno ci sente e vede, non si ha la possibilità di farsi sentire per come i nostri cuori desiderano. E’ inutile esporre tale problema alla direzione, perché sono proprio loro a mangiarci sopra!
Quello che vi chiedo è di poter organizzare un presidio fuori da questo carcere. Voi da fuori e noi da dentro, sono più che sicuro che qualcosa si “sistemerà”, perché come sappiamo la verità a questi fa molto male.
Miei carissimi compagne/i!
Per oggi concludo qui questo mio scritto inviandovi un abbraccio e sempre un costante attacco a stato, capitale, capitalisti!
Fuoco alle galere e ai loro servi in divisa!

Francesco Domingo
Iglesias, 25 agosto 2009


Lettera dal carcere di Vigevano
Carissime e carissimi, vi confermo con dispiacere del trasferimento nel carcere di Iglesias di un mio caro amico, compagno, Francisco Domingo. Se possibile far girare la notizia del suo trasferimento, sicuramente voluto per evitare che lo stesso riuscisse ad usufruire dei benefici, che doveva avere a breve. Questo è il trattamento per chi non si piega di fronte alle infamie del carcere. Ora deve scontare altri 6 mesi di carcerazione, un ulteriore periodo di osservazione…
Lo sappiamo che questi sono i metodi degli infami impiegati per evitare che individui liberi, i quali non abbassano la testa di fronte ai loro sporchi metodi possano tornare in circolazione e unirsi alle lotte esterne! Il clima fuori è quello di uno stato di polizia. Il totalitarismo si fa sentire in tutte le sue forme: lo stesso avviene anche all'interno delle carceri, che sono lo specchio del sistema sociale vigente.
E' da un po' che si parla di far scontare agli stranieri la loro pena nel paese d'origine allo scopo di sistemare la situazione del sovraffollamento. Poco tempo fa il DAP ha mandato una circolare, gestita in maniera differente in ciascun carcere: con "benefici" per i detenuti/e, ad esempio, ore d'aria in più, aumento anche delle telefonate, socialità ecc. ecc.. In questo modo pensano di spezzare la tensione che si crea all'interno di questi lager a causa del sovraffollamento. Inutili e futili manovre di potere. E' superfluo dire che il disagio e l'odio per questi cimiteri dei vivi non si cancella con contentini alle/ai detenuti/e. Vabbuò, vi lascio con un abbraccio, mando un saluto a tutti/e coloro che ultimamente non hanno ricevuto risposte alle lettere mandatemi. Questo accade perché la mia corrispondenza con tante e tanti compagni/e viene bloccata non perché io non risponda al rapporto con l'esterno! Ecco un altro dei loro infami metodi per spezzare la solidarietà! Fanculo allo stato e ad ogni forma di dominio, la solidarietà non si spezza con queste infamie! Un abbraccio, Madda

30 luglio 2009


Lettera dal carcere di San Michele (AL)
Scriviamo ai/lle compagni/e dal carcere di Alessandria e lo facciamo solo adesso, perché finora siamo stati nella totale impossibilità di comunicare con l'esterno. Tuttora permane la censura, ma almeno riceviamo qualche messaggio dai compagni e dalle compagne.
Siamo prigionieri in seguito alla recente operazione "SHADOW", che ci vede indagati insieme a 40 compagni/e, l'ennesima volta per 270 bis.
A noi viene anche contestato furto d'auto ed attentato ai trasporti pubblici, con l'aggravante di terrorismo, il cui spunto è stato un fermo casuale, su un'auto rubata, nel marzo dello scorso anno, a cui era seguita soltanto una denuncia a piede libero per furto d'auto.
Non ci interessa, in questo momento, fornire dettagli sulle indagini, ci sarà sempre tempo per parlare di montature o cose simili e fortunatamente quel tempo lo sprecheranno gli avvocati. Quindi chi cerca il giallo o il gossip si rivolga altrove.
Nostre uniche priorità sono mandare un abbraccio complice ai nostri fratelli e sorelle coindagati, rassicurare i/le compagni/e sulle nostre condizioni, (siamo tranquilli, sempre a testa alta ed entusiasti, nonostante le circostanze, di aver avuto l'occasione di abbracciare compagni di vecchia data e di poter conoscere di persona qualcuno con cui, grazie alla repressione, potevamo comunicare solo per via epistolare), e soprattutto chiarire quella che è la nostra posizione: siamo prigionieri di una guerra che abbiamo abbracciato con gioia, da parte nostra non c'è stupore, ne interesse sulle risposte repressive del potere. Nostre uniche speranze ora sono, di riuscire a rimanere componente attiva della lotta, nonostante l'isolamento e la passività in cui ci vorrebbero neutralizzare e visto che il potere non fa nulla di diverso da quello che noi anti-autoritari ci dovremmo aspettare che anche noi ritroviamo la capacità di non deludere le precauzioni del nemico! L'unico "gratta e vinci" che può regalarci la felicità è quello di un fiammifero con cui innescare le fiamme della rivolta.

Alessandro Settepani, Sergio Maria Stefani
(via casale 50/a San. Michele (AL))
da informa-azione.info


Lettera dal carcere di Macomer (Nuoro)
Carissimi compagni, tanti saluti a tutti voi, vi spedisco queste poche righe per darvi le ultime notizie da questo lager.
Domenica 1° agosto 2009: La direzione di questo lager non ha dato l’autorizzazione ad un nostro compagno di telefonare alla propria famiglia in Algeria. Nel momento in cui questo nostro compagno sta chiedendo una spiegazione alla guardia sul perché di questo sbaglio, un altro compagno si rivolge alla medesima guardia per la stessa ragione. La risposta della guardia è un ordine a tener chiusa la bocca e allo stesso tempo lancia una serie di insulti diretti alla madre del compagno.
Subito abbiamo fatto una battitura e dato a fuoco all’intera sezione. Dopo due ore di fuoco tutta la sezione è diventata un casino di rumori, grida e insulti contro le guardie. In quei momenti due nostri compagni (Khaled e Habib, già colpiti dall’asma, sono soffocati. Dopo 3 ore di sofferenza e di soffocazione è arrivato il dottore locale, ha visitato i nostri compagni e ha dato loro le medicine.
Lunedì 3 agosto 2009: Alle ore 12,30 tre nostri compagni (Habib, Gnawa, Rabbie Said, Mourad Mazi) sono stati deportati in carcere di punizione (14-bis), perché in questo lager hanno sempre chiesto i loro diritti; e ancora oggi non sappiamo niente di loro, né dove sono né come stanno! Siamo molto preoccupati per loro.
Questa è la politica del terrore che il governo fascista in Italia sta applicando contro i prigionieri islamici e contro gli immigrati.
Non mi fanno mai paura e continuiamo la lotta contro questo regime borghese, fino in fondo. Inshallah.

Bouhrama Amine
Macomer, 11 agosto 2009
Lettera dal carcere di Benevento
Buongiorno. Ho ricevuto la vostra lettera del 31 luglio. Sto bene grazie. Poi prima di iniziare vi voglio ringraziare anche per la vostra visita in carcere. Sono rimasto molto contento. Sinceramente in questi giorni una visita dai compagni mi ha alzato il morale. Pensavo di essere rimasto solo in questo paese perduto… Avevo scritto anche ai compagni nuoresi, che mi sentivo come un orfano.. Ecco, la vostra visita mi ha dimostrato che ovunque mi trasferiscono troverò sempre compagni, che mi hanno sostenuto, che non mi hanno lasciato solo per ben 5 anni e 5 mesi!
Cari compagni, passano i tempi, sono passati anche per me. Oggi siamo arrivati ad un punto molto critico. E’ una contraddizione, dovrei essere liberato, forse dopo 5-6 mesi, però non avrò la possibilità di godere la libertà… E la libertà che ognuno di noi farebbe qualsiasi cosa per ottenerla… Però io, dopo la mia lunga carcerazione, non sarò “libero”. Io, uno straniero, anzi un pericoloso straniero, verrò riarrestato di nuovo e messo in un campo di concentramento che è conosciuto come CPT, e poi, dopo, i due paesi amici, tratteranno sulla mia pelle, come merce di scambio, la mia espulsione verso il fascismo… Dove mi aspetta non un giardino con i fiori, una casetta vicino al mare o uno stato che mi accoglie con tanti regali. Un bel sogno, però la realtà è molto diversa, solo per pensarla vengono a uno i brividi. Ecco la realtà è che mi aspetta un giardino, però questo è il giardino della morte, un giardino che quando viene scavato escono fuori le ossa degli uomini, che erano dispersi da anni, che sono stati massacrati dalla contro-guerriglia… Mi aspettano le “casette” che in Turchia sono conosciute come celle tipo-F, chi entra dentro viene torturato e costretto ad abbandonare le proprie idee e i propri pensieri. Chi non accetta viene lasciato in isolamento, per marcire, per dimenticare tutto il suo passato, la sua gioventù… Se esce vivo dopo tutta questa tortura, uscirà come un morto che cammina… Sì, mi aspetta uno stato, però è lo stato che permette tutto questo. Uno stato fascista che non rispetta i diritti umani, che premia i torturatori e i massacratori…
Cari compagni, la realtà che mi aspetta è questa. Siamo arrivati alla fine di questa carcerazione. Come ho detto, voi mi avete sostenuto dall’inizio, contro la ingiustizia che abbiamo subito. Abbiamo lottato insieme contro la richiesta della mia estradizione, voi mi avete dato la forza di resistere in carcere, mentre voi protestavate fuori, io ero con voi… e voi avete subito la mia carcerazione. Oggi abbiamo più bisogno della solidarietà di tutti i compagni, degli antifascisti, dei sinceri democratici, associazioni e istituzioni che difendono i diritti umani. Ritengo che dire tante parole è inutile. Ma sono sicuro che con la vostra solidarietà e sacrificio vinceremo, tutti insieme. Prima di chiudere vi vorrei aggiornare sulla situazione della salute della compagna Guler Zere. Come vi ho accennato nell’ultima lettera la compagna Guler Zere è una prigioniera politica che si trova da 14 anni nelle carceri turche. Ha 37 anni, ha trascorso la sua gioventù nelle carceri e in isolamento. Guler sta morendo lentamente perchè ha il cancro nella gola e in bocca. Il cancro è maligno e si espande molto velocemente. Guler ha adesso problemi molto gravi, se non verrà ricoverata adesso in un ospedale morirà. Ci sono certificati del medico che non può stare in carcere e deve essere curata e operata fuori dal carcere. Però lo stato ignora il suo problema di salute e la fa morire. In tutta Europa e anche in Turchia c’è una campagna in corso per salvare la vita di Guler. Noi saremo la voce di Guler anche in Italia.
Salviamo la vita di Guler Zere! Guler Zere non deve morire! Stop all’isolamento! Viva la solidarietà internazionale! Cari compagni vi ringrazio in anticipo per la vostra solidarietà. Vi saluto tanto e vi mando un bacione. A presto. A pugno chiuso. Avni

Benevento, 03/08/09
Incarcerazione di giornalista
del foglio progressista-rivoluzionario socialista ISCI KOYLU!
I massicci attacchi, con arresti e censura dei media, chiusura di fogli di opposizione rivoluzionari e progressisti in Turchia si sono di recente intensificati. Tutti questi attacchi avvengono in un momento in cui la Turchia parla di “soluzione curda” e “soluzione democratica”, ma la realtà è tutt’altra, il movimento democratico, patriottico, rivoluzionario e socialista e loro attivisti sono sotto attacco permanente con repressione, montature ogni altro genere di misure repressive. L’esempio recemte dimostra il vero carattere dello Stato fascista turco. Questa l’attacco ha colpito un nostro reportere e giornalista Suzan Zengin della nostra sede di Kartal/Istanbul. Suzan Zengin lavora per le Edizioni Umut da più di 7 anni. È stata anche rappresentante dell’ILPS Turchia (International League of Peoples’ Struggle). Il 28 agosto alle 6.15 del mattino è stata sequestrata dalle forze della polizia antiterrorismo senza alcun motivo legittimo. Suzan Zengin è stata presa in custodia è portata alla centrale di polizia di Istanbul. Al suo avvocato non è stato permesso di leggere la sua pratica col pretesto che è un’indagine segreta. Suzan e altre persone sono state tenute per tre giorni in custodia e il 31 agosto portate di fronte al Tribunale per la Sicurezza dello stato di Besiktas/Istanbul. Suzan sta lottando contro questo provvedimento ingiusto e illegittimo iniziando lo sciopero della fame. Quando l’hanno trascinata di fronte la corte Suzan ha gridato slogan di protesta quali: “oppressione e montature non ci fanno paura”, “abbasso il fascismo” ecc. Poi Suzan e gli altri tre sono stati incarcerati. È detenuta nelle prigione di Bakirkoy/Istanbul, mentre gli altri sono nel carcere di Metris.
Non è altro che una montatura. L’accusa dice che Suzan avrebbe fatto “telefonate sospette” a una delle altre tre persone arrestate, che erano sotto attenzione della polizia per altra causa. Questa accusa è ridicola: da quando lavora al nostro ufficio di Kartal Suzan risponde al telefono. Ma queste false accuse sono sufficienti per arrestare la nostra lavoratrice e incarcerarla.
Solo poco tempo fa la polizia aveva realizzato operazioni repressive ad Erzincan e arrestato due dei nostri giornalisti e altri attivisti. Questo dimostra l’atteggiamento prevenuto e illegale dello stato verso la stampa rivoluzionaria e socialista. Attacchi, arresti, incarcerazioni e montature non riusciranno a fermare la lotta della stampa rivoluzionaria e socialista, una lotta che siamo fieri di portare avanti.
Facciamo appello a tutte le organizzazioni e individui rivoluzionari, democratici a solidarizzare coi lavoratori del nostro giornale incarcerati e con tutti i prigionieri politici e condannare queste ingiuste e illegali operazioni dello Stato turco.
Viva la solidarietà internazionale!
La stampa rivoluzionaria e socialista non può essere imbavagliata!

I.S,ÇI. KÖYLÜ (CONTADINI-OPERAI)
Settembre 2009
postato da ro.red@libero.it


SOSTENIAMO LA LOTTA DEI DETENUTI DI SOLLICCIANO (FI)
Il 18 agosto nel carcere di Sollicciano è partita una protesta con l’incendio di materassi e lenzuola per richiedere quei minimi diritti legati alla semplice sopravvivenza. Una protesta che ha fatto seguito alla negazione di uno dei colloqui settimanali.
Sovraffollamento, pasti rancidi, riduzione del numero di docce, richiesta di una seconda cucina: questi sono solo alcuni delle motivazioni che hanno portato i detenuti di Solliciano a protestare ed a cercare di far sentire la propria voce fuori dal carcere.
Si tratta di condizioni minime di sopravvivenza per persone che sono costrette nelle celle 22 ore al giorno, alimentate al costo giornaliero di 1,53 euro, ristrette in uno spazio inferiore ai 7 metri. Ricordiamo ancora che il carcere fiorentino è stato costruito per 460 persone e che ora ne ospita più del doppio, ammassate in 3/4 nelle celle singole, in 6 nelle celle da tre posti, con pochi educatori e scarso accesso al lavoro e ad altre attività.
Nel carcere fiorentino per le donne non è possibile accedere ai servizi educativi ed alle attività sociali con la scusa che “sono poche” anche se sono oltre un centinaio.
In 10 anni nelle carceri italiane sono morti quasi 1.500 detenuti, oltre un terzo per suicidio e gli altri per i ritardi nell'assistenza sanitaria o in circostanze non chiarite.
Qui spesso l'autolesionismo è l'unico mezzo, per i detenuti, per affermare la propria esistenza; sono stati frequenti i pestaggi sistematici, regna la violenza ed è massiccio l’uso di psicofarmaci.
Questa è la realtà del carcere di Sollicciano come di tante altre carceri d’Italia, dove infatti sono divampate nei giorni successivi altre proteste, da Pisa a Napoli a Milano.
La risposta delle istituzioni è stata purtroppo la solita: con la visita di Franco Ionta, direttore del DAP, che invece di riportare perlomeno una parvenza di decenza nel carcere ha ammonito i detenuti dal fare sentire le proprie rivendicazioni; a questo ha fatto seguito la denuncia penale verso i detenuti stessi per danneggiamenti.
Oltre 50 persone sono state invece denunciate nella giornata di sabato 29 agosto per avere portato la loro solidarietà all’esterno del carcere, ad ennesima dimostrazione che si vuole finanche negare la possibilità di un legame ed una solidarietà tra il fuori e l’interno del carcere.
In un contesto nazionale in cui la cosiddetta “sicurezza” è il faro ispiratore delle politiche reazionarie del governo, è del tutto normale che le carceri si riempiano: si riempiono di immigrati, grazie alle nuove e vecchie leggi su clandestinità ecc.., si riempiono per reati legati alle droghe, si riempiono per le norme sulle recidive...
E la risposta governativa non può essere che altra repressione, la costruzione di altre carceri, l’aumento di nuovi CIE per immigrati, per gestire appunto l’enorme quantità di futuri detenuti.
Crediamo necessario che le voci che dal carcere stanno cercando di farsi sentire e che parlano a tutti noi vadano raccolte e rilanciate e per questo saremo davanti a Sollicciano sabato 5 settembre dalle ore 18 in poi a manifestare la nostra solidarietà ai detenuti ed il nostro appoggio alle loro minime richieste.

Cpa Firenze sud, Cantiere Sociale K100fuegos, Collettivo Politico Scienze Politiche, Fuori Binario, Perunaltracittà, Partito della Rifondazione Comunista, Unione degli Studenti, Csa Nextemerson, Comunità di Base Isolotto, Comunità delle Piagge, Associazione L’Aurora, Movimento di lotta per la casa, Associazione Liberarsi, Centro Carlo Giuliani, Centro delle Culture di Firenze


LA MORTE DI STEFANO FRAPPORTI: UN PROBLEMA DI TUTTI
Continua la mobilitazione per ribadire che la morte di Stefano “Cabana” Frapporti non passerà nel silenzio. Sempre più persone lo stanno ripetendo: “Non si può morire così”.
Stefano è stato ucciso da un arresto (oltretutto illegale, secondo gli avvocati). Durante le iniziative di piazza e le assemblee pubbliche che si susseguono da più di un mese in tanti sono passati dallo sgomento a una diversa consapevolezza. Quello che è accaduto a Stefano poteva o potrebbe capitare a tanti altri. Non è né una tragedia privata né un caso isolato. Solo negli ultimi sei mesi, secondo dati ufficiali, ci sono stati cento morti nelle carceri italiane (65 archiviati come suicidi, 35 per “cause non accertate”). Le testimonianze di violenze perpetrate da forze di polizia si accumulano. Più in generale assistiamo a un clima di pesante attacco alle libertà individuali e collettive e a un crescente potere affidato alle forze dell’ordine. S’inganna chi pensa che la faccenda riguardi sempre qualcun altro (ricordate la poesia, “Prima vennero a prendere gli zingari...”?). A morire questa volta è stato un muratore incensurato di 49 anni.
La difesa della nostra vita e della nostra libertà non possiamo delegarla.
Per Stefano. Per tutti.

MARTEDI’ 15 SETTEMBRE: ORE 20,30, SALA DELLA FILARMONICA, ROVERETO
“Dalla Legge Reale al pacchetto sicurezza: come difendersi dai difensori dell’ordine pubblico?” Conferenza-dibattito con l’avvocato Giuseppe Pelazza di Milano
VENERDI’ 18 SETTEMBRE: ORE 20,00, GIARDINI “PERLASCA”, ROVERETO
Buffet-concerto a sostegno delle spese legali della famiglia di Stefano
LUNEDI’ 21 SETTEMBRE (a due mesi dalla morte di Stefano): CORTEO
Ritrovo alle ore 18,00 in piazza Loreto, ROVERETO
Non si può morire così
familiari, amici e solidali di Stefano
Assemblea pubblica ogni lunedì alle ore 20,00 ai giardini Perlasca di Rovereto

nonsipuomorirecosi@gmail.com


UNITI SEMPRE PER LA DIFESA DEL POSTO DI LAVORO!
Lunedì 31 agosto, l’assemblea degli operai della Fin.Al di Vigonza (PD) ha deciso di iniziare una mobilitazione a sostegno del pieno reintegro del collega operaio Alessandro, assolto da un recente processo penale ma non ancora pienamente reintegrato al posto di lavoro.
Da metà giugno 2009, il Tribunale ha emesso sentenza di assoluzione nei suoi confronti, e da quel giorno la ditta gli passa lo stipendio mensile senza farlo però entrare in fabbrica; praticamente viene pagato per restare a casa. Nonostante le sue continue richieste all’azienda di essere pienamente reintegrato, la direzione continua ad essere vaga sui motivi di questa vera e propria forma di mobbing, dicendo che la causa è la mancanza di lavoro.
Ma noi operai della Fin.Al sappiamo bene che, nonostante la cassa integrazione a cui da diversi mesi siamo costretti, c’è una cronica mancanza di personale. Inoltre Alessandro vuole guadagnarsi il suo stipendio, e non vuole accettare questa situazione che, se fosse per l’azienda, si potrebbe prolungare per mesi e mesi. Questa forma di mobbing non riguarda però solo Alessandro, in quanto può diventare uno strumento di forzatura anche nei confronti di altri operai che per un motivo o per l’altro creano fastidio o rappresentano un pericolo per l’azienda; ad esempio un operaio combattivo e sindacalizzato, oppure una lavoratrice in maternità o un lavoratore che deve affrontare una lunga malattia: all’azienda basterà pagarlo per stare a casa sperando di sfiancarlo e ottenere un licenziamento.
Ma in questo caso Alessandro è stato pienamente assolto dal recente processo politico a quelle che i media hanno definito le “Nuove BR”, e quindi è suo diritto essere immediatamente reintegrato a pieno nel suo posto di lavoro. Così come l’azienda non si è fatta scrupoli a licenziare subito dopo la sentenza un altro nostro collega processato per gli stessi motivi senza neanche attendere una condanna definitiva, allo stesso modo il reintegro di Alessandro deve essere immediato.
A fronte di questa situazione e a causa del continuo rinvio di decisioni da parte dell’azienda, tutti noi operai Fin.Al siamo scesi in agitazione, prima con uno sciopero di 2 ore per turno per quanto riguarda la giornata di martedì, e poi con uno sciopero di 8 ore con blocco dei cancelli per la giornata di ieri. Grazie all’unità e alla determinazione di tutti gli operai nella difesa del posto di lavoro, abbiamo ottenuto un incontro tra l’azienda e la RSU, che si svolgerà venerdì mattina negli uffici di Confindustria.
La nostra unica proposta è il ritorno di Alessandro nel suo posto di lavoro, se così non sarà siamo già pronti a ricominciare nuovamente gli scioperi e i blocchi della fabbrica.

Operai Fin.Al

Aggiornamento venerdì 4 settembre: questa mattina la direzione ha convocato i delegati RSU per comunicare che l’incontro in Confindustria non era più necessario in quanto faranno ricominciare a lavorare Alessandro lunedì prossimo. Una vittoria che dimostra come la lotta paga!

parentieamici@libero.it


AGOSTO 09: RIVOLTA NEI CENTRI di IDENTIFICAZIONE e ESPULSIONE (CIE)
Lunedì 4: Nel CIE di Ponte Galeria lunedì sera arriva un gruppetto di algerini, appena trasferiti da Bari Palese. Tra loro c'è anche un ragazzo gravemente malato di cuore, che si lamenta e protesta: la polizia non ha provveduto a portare da Bari le medicine che deve prendere ogni giorno. Invece di procurare i farmaci, i poliziotti lo portano in infermeria e poi nella cella di sicurezza. Lì lo massacrano di botte. Quando lo riportano in sezione è pieno di lividi e sangue. Lui è malato di cuore per davvero e durante la notte si sente malissimo: i suoi compagni danno l'allarme, e il malato lascia il Centro a bordo di una ambulanza. La mattina dopo i suoi compaesani vengono raggruppati e portati via. Tutti pensano ad un rimpatrio, e solo la sera si scoprirà che in realtà il gruppo è stato messo in "isolamento" nel reparto delle donne. Intanto, durante tutto il giorno, del ragazzo malato di cuore, non si sa più niente. Passano le ore, e i reclusi del Centro si ricordano di Salah Soudami, morto soltanto cinque mesi fa in circostanze pressoché identiche, e pensano al peggio. Così chiedono aiuto ai solidali che stanno fuori dai Centri e lanciano un appello, vogliono avere notizie del loro compagno. Vogliono sapere come sta, se è vivo o morto, e dov'è. Lo hanno chiesto alla Croce Rossa e non hanno avuto risposta. Lo hanno chiesto pure agli agenti, e anche loro sono stati zitti.
Mercoledì 5: Un gruppo di prigionieri di Ponte Galeria ha rifiutato il vitto ed è rimasto nelle gabbie all'ora di pranzo, protestando rumorosamente. La polizia è intervenuta in forze ma i reclusi hanno continuato a protestare fino a quando non è stato promesso loro un incontro con il direttore. Previsto per la serata, l'incontro però non c'è stato, e non c'è stato neanche questa mattina. A detta dell'amministrazione, il direttore è assente dal centro.
Giovedì 6: A due giorni dall'appello di Ponte Galeria nulla si è mosso. Gli algerini, testimoni dell'accaduto, sono ancora in isolamento dentro alla sezione femminile: non vengono fatti uscire, neanche per mangiare e non hanno contatti con nessuno. L'ambasciata algerina, chiamata in causa, sostiene di non saperne niente. Una troupe di Canale 5, chiamata da alcune mogli di reclusi, si è vista negare l'accesso al Centro.
Venerdì 7: Sempre più fitto il muro di silenzio intorno al pestaggio di lunedì sera a Ponte Galeria. Il direttore del Centro continua a farsi negare e, soprattutto, gli algerini testimoni dell'accaduto sono stati velocemente rimpatriati, dopo aver passato qualche giorno in isolamento. Da parte sua, l'ambasciata algerina, interpellata sia da alcuni prigionieri del Centro che da alcuni solidali da fuori, continua ad ignorare vistosamente la situazione: evidentemente l'accordo bilaterale per "rafforzare l'azione di contrasto all'emigrazione clandestina" siglato quindici giorni fa ad Algeri da Antonio Manganelli e Ali Tounsi, capi rispettivamente della polizia italiana e di quella algerina, sta cominciando a dare i suoi frutti. Domani entrerà in vigore il "pacchetto sicurezza". La gran parte delle prigioniere e dei prigionieri dà inizio ad uno sciopero della fame e della sete contro questo "pacchetto" che tra le altre cose, estende la prigionia (per mancata identificazione) dai precedenti 2 a 6 mesi prevedendo inoltre la "retroattività" per tutte/i coloro attualmente già rinchiuse/i nei CIE.
La protesta si collega subito alla mobilitazione in corso nei CIE di Ponte Galeria (Roma), di Gradisca d'Isonzo (Gorizia), di Torino e infine di Bari. Anche a Milano un gruppo di prigionieri e prigioniere inizia lo sciopero della fame e della sete.
Sabato 8: A Gradisca occupano il tetto, bottigliate da una parte e lacrimogeni e manganelli dall'altra. La polizia che si sta ancora riprendendo dalla sorpresa, per ora, si è limitata a rinchiudere i detenuti nelle camerate, senza acqua e senza mangiare, sottoponendoli a perquisizioni frequenti: li ha messi in castigo, insomma. Intanto le autorità continuano a fare finta che lunedì sera a Ponte Galeria non sia successo nulla. I reclusi sono convinti che il ragazzo algerino malato di cuore sia morto in seguito alle percosse e che i responsabili del Centro abbiano nascosto il corpo. "Qui è come Guantanamo", - dicono - "manca solo la tortura!". La tortura fisica, perché quella psicologica c'è già. Il pacchetto sicurezza, passato in Parlamento, firmato dal Presidente della Repubblica, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, scatena la prima battaglia e non sarà l'ultima. A Milano nel CIE di via Corelli continua, compatto, lo sciopero della fame: "Nessuno è caduto" ci dicono, da dentro, i reclusi. Per ora, continuano a rifiutare il cibo due intere sezioni, la femminile e una maschile. Hanno chiesto assistenza medica continua alla polizia e ai volontari, ma gli è stata negata. Così come poliziotti, volontari e gestori del centro continuano a negare che l'estensione della reclusione a 180 giorni sia retroattiva. Ma poco importa, i reclusi sono determinati a continuare a lottare.
Domenica 9: Si allarga la protesta nei CIE contro l'entrata in vigore delle norme del pacchetto sicurezza. Ed è la volta di Gradisca d'Isonzo, e questa volta è una sommossa: tutti sul tetto. Intanto, a Milano e a Roma prosegue la mobilitazione. Da Roma arriva un altro particolare, inquietante. Lunedì sera, gli algerini arrivati nel Centro da Bari-Palese erano in quindici. Quelli rimpatriati l'altro giorno, dopo essere stati tutta la settimana in isolamento, quattordici. Ne manca uno: un elemento in più che conferma la convinzione dei reclusi che il malato di cuore scomparso in realtà sia morto.
Mercoledì 12: A Milano una trentina di compagni/e si reca in via Corelli per ottenere un incontro fra una propria delegazione - comprendente un medico - e i detenuti, che intanto hanno interrotto lo sciopero della sete, e per consegnare loro delle bevande. L'incontro viene negato con le rituali argomentazioni burocratiche. La situazione dentro già di per sé tesa dal timore dell’applicazione retroattiva della legge (i 180 giorni del “pacchetto sicurezza”) e dalle solite misere e sporche condizioni di vita ed è surriscaldata dall'arrivo, nel pomeriggio, di una trentina di prigionieri da Gradisca, trasferiti in seguito alla lotta. La rivolta è nell'aria. Da fuori si capisce che fra le sezioni (3 maschili e 1 femminile) si sviluppa comunicazione, probabilmente cercano di coordinarsi, di occupare gli spazi collettivi (passeggi, sala mensa-tv, magari i tetti…). Polizia e i militari, vista la determinazione delle persone prigioniere a difendersi, scelgono di non intervenire. Il sostegno solidale all'esterno si concretizza con battiture e slogan.
A Torino, proprio nel mezzo della sommossa di Corelli, anche i reclusi di corso Brunelleschi hanno scelto di scendere in campo, rifiutando la cena. Appena la polizia si è accorta che qualcosa non andava, ha cominciato a circondare le gabbie con i manganelli temendo una rivolta. Ma la voce si è sparsa e i solidali da fuori hanno cominciato a telefonare al centralino del CIE per protestare ("Ci hanno chiamato in milioni" - si sono lamentati dal centralino della Questura). La polizia si è poi ritirata in buon ordine.
Giovedì 13: A Milano inizia il settimo giorno di sciopero della fame, la rivolta divampa in tutte le sezioni. Le persone rinchiuse esigono delle risposte, non possono e non vogliono essere aggredite, ingannate, trasfigurate da persone "senza permesso di soggiorno" (clandestine) in galeotte. La risposta dello stato è quella di sempre in questi casi. Verso le 19.30 polizia, carabinieri, guardia di finanza e militari entrano nelle sezioni. La loro è una rappresaglia: avanzano a colpi di manganello, lancio di gas lacrimogeni, impiego di idranti e occupano i tetti per strappare alle persone arrestate una base importante, solitamente adoperata per comunicare con l'esterno. Dentro resistono, innalzando barricate con quel che hanno sottomano, materassi, termosifoni, panchine…Una trentina di compagne e compagni riesce ad arrivare sotto Corelli, ma solo verso le 22.30. La battaglia è ancora in corso, l'odore dei lacrimogeni, delle cose bruciate al pari dei rumori sordi e forti causati dai colpi alle porte blindate, alle pareti, caratterizzano l'intera nottata. Riprendono le battiture, gli slogan. Qualche passante attirato dai rumori, dalle voci, si azzarda nella via laterale, si avvicina. Da dentro chiedono, con insistenza e fermezza, che la notizie della rivolta sia divulgata il più possibile, che sia rafforzato il sostegno. Polizia ecc... vogliono riprendere il controllo a tutti i costi e per raggiungere l'obiettivo utilizzano anche l'arma degli arresti e del carcere. Le persone arrestate sono selezionate in base all'impegno messo nella lotta, ma anche dalle conseguenze delle manganellate subite. Gli sbirri sanno che nelle "altre" carceri, in qualche maniera, vige la visita medica per le persone "nuove giunte"; la gran parte delle persone che ha sul corpo i segni delle legnate non viene infatti arrestata, viene separata per essere trasferita. Vengono arrestate 14 persone, 5 donne e 9 uomini; 47 invece le persone selezionate per essere trasferite (28 a Bari-Palese e 19 a Brindisi). Dopo l'una di notte, una trentina di poliziotti con caschi, scudi e manganelli esce dal CIE per aprire la strada al primo blindato che porta in questura le donne in stato di arresto. Riusciamo a vederle e a salutarle, il loro sguardo è incredulo e preoccupato, sono ammanettate con le braccia dietro la schiena e sul collo il fiato di un branco di poliziotti. Queste sono le fasi violente e ultime della battaglia. All'esterno si giunge alla conclusione, anche sentendo gli avvocati, che la mattina successiva si svolgerà l'udienza di convalida. Alle 2.30 di notte il presidio si scioglie.
Venerdì 14: All'udienza di convalida attendiamo dalle 9 del mattino, per ore, l'arrivo delle persone arrestate in seguito alla rivolta in Corelli. Si è lì per ribadire che la legittimità della lotta contro il "pacchetto sicurezza" e i CIE, non può essere criminalizzata. Ci viene impedito di entrare nell'aula, il motivo è che l’udienza di convalida si tiene a porte chiuse. Si resta nel vicino corridoio per tutta la giornata. I "capi di imputazione" sono pesanti: danneggiamento seguito da incendio, resistenza e lesioni in concorso tra loro. L'arrivo in manette e catene delle persone arrestate, attorniate da decine di poliziotti, viene accolto con l'urlo "libertà", "horria" (libertà in arabo) e altri slogan, con pugni chiusi e battimani e si andrà avanti così fino a quando, gli arrestati/e, lasceranno il tribunale per essere portati in carcere.
A Torino contemporaneamente, nel secondo giorno di sciopero della fame al CIE, dopo aver rifiutato il cibo a colazione e a pranzo, nel pomeriggio i reclusi cominciano a gridare tutti assieme "libertà! libertà!". Esasperati dalle condizioni di reclusione, preoccupati per la salute di alcuni svenuti per i primi effetti dello sciopero della fame, in contatto con il CIE di Milano in lotta da giorni, resisi conto che l'estensione a 180 giorni di reclusione li colpisce direttamente, rincuorati da un rumoroso presidio improvvisato fuori le mura, cominciano a spaccare il primo ostacolo che li separa dalla libertà: le porte. La polizia, che da ieri gira in tenuta antisommossa, carica. E per ben due volte i reclusi tengono, non fuggono, resistono. Alla terza carica la polizia e i militari riescono a sfondare, e picchiano giù duro. Nel frattempo, il presidio fuori viene disperso da poliziotti e alpini. In serata, la situazione si tranquillizza, e la polizia vuole l'ultima parola, con una specie di perquisa con cani e macchine fotografiche.
Domenica 16: Dopo due giorni un po' deprimenti passati ad ambientarsi, i rivoltosi di Milano trasferiti nel Cie di Bari Palese hanno ripreso la lotta, e stanotte hanno dato vita ad una lunga battitura. "Se non la piantate vi carichiamo tutti!", hanno intimato i soldati del battaglione San Marco che sono di stanza nel Centro, dopo aver convocato un bel po'dei ribelli dentro ad una stanza. I ribelli sono stati zitti, sono ritornati nelle loro camerate e hanno continuato a battere: testardaggine premiata, nessuna carica. Hanno esperienza di lotta, del resto, i nuovi arrivati a Bari: e sono pure temuti, tanto che nell'aereo che li ha trasferiti venerdì avevano un poliziotto ciascuno seduto accanto a loro, alla faccia di Maroni e della sua ostentata tranquillità.
Lunedì 17: Questa mattina due prigionieri del Cie di Bari sono stati arrestati dopo un tentativo fallito di evasione. I due sono stati arrestati come ritorsione per la protesta dell'altra notte e sono stati accusati di devastazione e saccheggio. Secondo la polizia la protesta della notte di Ferragosto avrebbe causato migliaia di euro di danni e sarebbe stata un tentativo collettivo di evasione; secondo i nostri contatti all'interno, invece, i danni alle strutture c'erano già.
Martedì 18: Si allunga la lista delle rivolte nei centri di identificazione ed espulsione, ora è il turno del Cie di via Lamarmora a Modena. La protesta è cominciata ieri pomeriggio con uno sciopero della fame proclamato da una trentina di nordafricani. In serata, alcuni reclusi hanno dato fuoco a diversi materassi, provocando un incendio spento solo tre ore dopo dai pompieri. Il fuoco della rabbia dei rivoltosi ha seriamente danneggiato quattro camerate, e infatti le dodici donne rinchiuse a Modena sono state trasferite in un altro centro, ma la polizia ha dovuto liberare quattro cinesi, che non sapevano proprio dove diavolo mettere.
Giovedì 20: Questa mattina, nonostante il regime di massima sicurezza imposto dalla questura di Gorizia dopo la rivolta di sabato scorso, sette reclusi del centro di Gradisca di Isonzo sono riusciti ad evadere, forzando le sbarre delle loro celle. Altri due, che hanno cercato di scappare dai tetti, sono stati purtroppo riacciuffati dalla polizia. Stando ai giornali la fuga è avvenuta in piena notte ed è stata organizzata con una certa maestria. A renderla possibile il fatto che il sistema di sicurezza del Centro era andato distrutto nel corso della rivolta dell'8 agosto scorso. Le rivolte servono, insomma, anche a distanza di tempo.
Venerdì 21: A Milano inizia il processo ai 14 arrestati/e a seguito della rivolta dello scorso 13 agosto. All'appuntamento, provenienti da diverse città, un centinaio di compagne e compagni, oltre ad amici e parenti dei prigionieri. Entriamo in un'aula dove le persone sono chiuse in gabbie distinte: da una parte 9 uomini, dall'altra 5 donne. Gli arrestati/e, in barba ai soliti tentativi di divisione, decidono di affrontare il processo tutti insieme; rifiutano la trappola dei riti alternativi che, in cambio di una riduzione di pena, eliminano praticamente la possibilità di dare al processo il carattere politico che merita. I prigionieri/e si dimostrano determinati a rivendicare la scelta collettiva della protesta e a rendere pubbliche le violenze adoperate da polizia e carabinieri tanto nella repressione della rivolta, quanto nella quotidianità. La giudice tenta invano di eliminare ogni riferimento politico, affermato con forza dagli avvocati della difesa; la formalità del rito processuale svanisce non appena in aula viene convocato l'ispettore capo direttore di Corelli. Le donne e gli uomini nelle gabbie e noi con loro, gli siamo addosso all'unisono, con lo sguardo, con l'urlo: vergogna, libertà, horria (libertà in arabo), assassini...compare anche un piccolo striscione "A Corelli si tortura". La comunanza-sintonia costruita fra compagne/i fuori e arrestati/e, già espressa a distanza nei momenti della rivolta, ora anche fisicamente unita, si esprime stupendamente. Nel clamore la giudicessa, prima licenzia il boia, poi dichiara sospesa l'udienza, ordina lo sgombero dell'aula e infine se ne va. Niente e nessuno riesce più ad impedire l'incrociarsi dei saluti, delle parole d'ordine scandite assieme, riusciamo a scambiare qualche breve impressione con le prigioniere e i prigionieri prima che vengano portate/i fuori. Il primo segnale del mutamento della situazione lo si coglie alla ripresa dell'udienza "a porte chiuse" senza pubblico ma con le persone arrestate. Noi siamo nel corridoio antistante l'aula, presidiata da sbirri con scudi ecc., salutiamo i passaggi delle prigioniere e dei prigionieri, insomma siamo lì in contro presidio e staremo con gli arrestati/e per tutto il giorno.
Lunedì 24: Una buona notizia dal CIE di Bari Palese: un ragazzo arabo è riuscito a fuggire la notte scorsa dal Policlinico barese, dove era stato trasportato dopo aver ingerito tre viti smontate da un tavolo del Centro. Non c'erano poliziotti a sufficienza per piantonarlo costantemente. Gli auguriamo buon viaggio, alla faccia di Maroni. Una brutta notizia dallo stesso CIE: questa sera, intorno alle 22.30, due reclusi hanno "fatto la corda": uno di seguito all'altro hanno cercato di impiccarsi. I loro compagni di camera li hanno salvati appena in tempo, "respiravano ancora", hanno detto. Sono stati portati via dalle gabbie, in infermeria o al Pronto Soccorso. Ci hanno raccontato la storia di uno dei due. Trattenuto due mesi in via Corelli è stato deportato in Algeria, e lì trattenuto in una struttura detentiva dove racconta di essere stato torturato: a detta dei suoi compagni di cella di questi giorni, sul corpo porta segni inequivocabili di questa esperienza. Dopo tre mesi l'Algeria l'ha riconsegnato all'Italia ed stato riportato in via Corelli più di un mese fa. Il resto è storia nota: lo sciopero della fame, la sommossa, i pestaggi, il charter per Bari e un'altra sommossa a ferragosto. Questa sera la disperazione e il tentativo di suicidio. Anche oggi, come pochi giorni fa, nel CIE di Gradisca hanno tentato nuovamente di evadere, purtroppo questa volta non ci sono riusciti.
Martedì 25: Anche questa mattina un nutrito gruppo di compagne e compagni solidali ha atteso in tribunale, all'ingresso dell'aula, l'arrivo delle e degli "imputati". Questa volta, a differenza delle precedenti (udienza di convalida e prima udienza del processo in direttissima), non ci è stato possibile incontrare lo sguardo di nessuno/a degli arrestati/e. Sono infatti, stati/e fatti entrare direttamente in aula dalla porta sul retro, quella dove i signori della corte sono soliti ritirarsi per decidere le sorti dei loro nemici. L'udienza come annunciato si è svolta a porte chiuse; la giudice non ha accettato la richiesta di ingresso per il pubblico. L'ispettore capo di Corelli è stato il primo teste ascoltato; nella prima parte, quella in cui faceva le domande la pm, ha reso una testimonianza precisa e particolareggiata. Tra l'interrogatorio dell'accusa e quello della difesa però, c'è stata una pausa temporanea ed è quindi uscito sorridente dall'aula per raggiungere i suoi colleghi. Peccato che ad accoglierlo ci fossero anche voci fuori dal coro che non hanno esitato ad urlargli in faccia quello che realmente è: un boia. Inizialmente strafottente ha smesso di ridere, evidentemente grida, urla e battitura sulle porte lo hanno irritato, è infatti dovuto rientrare in aula ancor prima che suonasse la campana! Nella seconda parte della sua testimonianza - quella in cui gli avvocati interrogavano e hanno chiesto di visionare i filmati delle telecamere poste all'interno - ha dichiarato che queste erano rotte, poi che forse i filmati erano stati cancellati per poi tornare a dire che in due settori erano rotte da due mesi. Gli è stato chiesto inoltre dove fossero i "reperti testimoniali" che potrebbero sostenere le prove accusatorie (materassi bruciati, oggetti divelti e distrutti ecc…) e ha risposto di averle viste nella (non meglio precisata) discarica, proprio la mattina stessa. Queste sono alcune delle consuete negligenze che polizia e apparati vari dimostrano! Al termine della sua testimonianza però l'ispettore capo è uscito dal retro, evidentemente aveva perfettamente chiaro cosa si sarebbe sentito urlare in faccia e ha scelto di scappare via, di nascondersi come si meritano gli esseri come lui. Dopo la ripresa dalla pausa pranzo, il compagno portoghese arrestato, ha rilasciato una dichiarazione per dire che - proprio due giorni prima dei fatti - dall'infermeria aveva potuto tranquillamente guardare i monitor collegati alle telecamere che riprendevano e mostravano tutto quanto, con immagini nitide e chiare, altro che telecamere rotte. Sono infine stati sentiti altri due sbirri dei dodici che si erano fatti repertare (i più per distorsione del rachide cervicale procuratosi mentre massacravano le prigioniere e i prigionieri).
Mercoledì 26: Ancora un tentativo di evasione del Cie di Gradisca: fallito, ancora una volta. La notte scorsa un gruppetto di detenuti è riuscito a far saltare il lucchetto della propria camerata per poi allargare uno dei molti buchi rimasti nella struttura dal giorno della rivolta e dai tentativi di evasione precedenti. Sono stati beccatti sul fatto, purtroppo, e rimessi sotto chiave. Non si placa, insomma, la tensione dentro al Centro e il permanere del regime di isolamento imposto ai detenuti da quasi tre settimane, non fa che esasperare ulteriormente gli animi.
Giovedì 27: Oggi si è svolta a Milano la terza udienza agli arrestati/e a seguito della rivolta scoppiata lo scorso 13 agosto nel CIE di via Corelli. Anche oggi il pubblico non è stato ammesso in aula ma per l'intera giornata - conclusasi alle 18.30 - un gruppo di compagne e compagni ha presenziato all'esterno dell'aula facendo sentire agli arrestati/e tutta la propria solidarietà e vicinanza. Nel corso della mattinata sono stati ascoltate tre testimonianze da parte del personale della croce rossa; nel pomeriggio è iniziato l'esame degli "imputati", per ora ne sono stati ascoltati quattro, due donne e due uomini. Una delle donne ha denunciato davanti alla giudice un tentativo di violenza sessuale da parte dell'ispettore capo del CIE. Nel corso delle prossime udienze, che si terranno lunedì 21 e mercoledì 23 settembre, verrà chiamato a testimoniare il direttore della croce rossa e due prigionieri presenti alla rivolta, attualmente ancora rinchiusi nel CIE (la giudice ha ammesso quindi i testi della difesa che aveva rifiutato nel corso della prima udienza). Nell'udienza successiva verranno ascoltati alcuni degli sbirri oggi ancora convalescenti per poi proseguire con l'esame degli "imputati/e".
Venerdì 28: Nonostante i controlli fittissimi delle volanti tutto intorno al Centro di Identificazione ed Espulsione di corso Brunelleschi, un gruppo di antirazzisti riesce ad avvicinarsi alle mura per salutare i reclusi. Urla e battiture, come d'abitudine, ma per pochissimo tempo: la Digos è proprio là e non si può fare di più. All'improvviso, però, dall'altro lato del Centro partono petardi e fuochi d'artificio. Dalle gabbie i reclusi rispondono ai saluti.
Sabato 29: Buone notizie da Brindisi. Questa mattina, all'alba, trentasei reclusi nel CIE di Restinico sono fuggiti dal Centro. Solo uno è stato ripreso, e gli altri sono alla macchia. Ricordiamo che a Brindisi erano stati trasferiti il 14 agosto scorso una parte dei reduci della sommossa di Corelli. Al momento del loro arrivo, in realtà, la struttura di Restinico era ancora un Centro di Prima Accoglienza: solo tre giorni dopo, il 17, è diventato un CIE. Là dentro c'è spazio - stretti stretti - per 83 persone e a vigilare le gabbie ci sono 75 soldati e 30 poliziotti. La prima evasione, dunque, dodici giorni dopo l'inaugurazione: un buon auspicio, senza dubbio.

Milano, settembre 2009

I materiali sopra riportati sono stati redatti anche grazie alle informazioni che i compagni/e di macerie quotidianamente divulgano e alle testimonianze dirette raccolte dai reclusi, trasmesse via radio (Radio Black-out) e pubblicate in internet (www.autistici.org/macerie/).


massacro in Libia, 20 somali uccisi dalla polizia
Bagno di sangue a Bengasi. Almeno 20 rifugiati somali sarebbero stati uccisi dalla polizia libica durante un fallito tentativo di evasione dal centro di detenzione di Ganfuda, dove erano detenuti perché sprovvisti di documenti. Cinque di loro sarebbero morti sotto gli spari della polizia al momento della fuga. Gli altri 15 sarebbero invece morti a seguito delle violenze inferte loro dagli agenti di polizia, armati di manganelli e coltelli. La repressione è stata durissima, i feriti sarebbero almeno una cinquantina, in maggior parte somali.
I fatti risalgono alla prima settimana di agosto. La notizia è stata diffusa il 10 agosto dal sito internet della diaspora somala Shabelle Media Network che ha parlato telefonicamente con un testimone oculare della strage. La notizia è stata ripresa anche dalla stampa libica (Libia Watanona) e internazionale (Voice of America). Ed è confermata da una terza fonte, con cui Fortress Europe è direttamente in contatto a Benghazi, ma della quale non possiamo svelare l’identità per motivi di sicurezza.
Sebbene al momento non si conosca ancora l’esatta ricostruzione dei fatti e non si sappia con certezza il numero delle vittime, si tratta comunque della più grave strage avvenuta nei campi di detenzione libici. Una notizia credibile anche alla luce di massacri ben più atroci, come quello che venne commesso a Tripoli, nel carcere di Abu Salim, nel giugno del 1996 e che costò la vita a centinaia di detenuti libici. Ovviamente le autorità libiche hanno prontamente smentito la notizia. L’ambasciatore libico di stanza a Mogadiscio, Ciise Rabiic Canshuur ha definito la notizia una "menzogna" e ai giornalisti ha chiesto: "prima di parlare o scrivere dovrebbero confrontarsi con noi".
Questa notizia è gravissima. Questa è la Libia verso cui l’Italia rispedisce fieramente centinaia di emigranti e rifugiati. Gli ultimi 80 somali sono stati respinti lo scorso 12 agosto. Dall’inizio di maggio i respinti sono almeno 1.216. O almeno quelli di cui si ha notizia. Perché di altri non si sa niente. Come del gruppo di 80 eritrei imbarcatisi il 29 luglio e mai arrivati, eppure ufficialmente mai respinti. Dall’estero i familiari chiedono notizie di loro. Speriamo soltanto che non sia accaduta una tragedia in mare.

Fortress Europe, 20 agosto 2009
Milano: Cronaca dal quartiere San Siro (nord-ovest)
La lotta diretta delle famiglie per la casa si scontra con il mostro della speculazione edilizia, lo vince anche, si estende e intreccia ad altri quartieri.

Venerdì 17 Luglio 2009: un manipolo di sabotatori dell'ALER (l'ente a cui Berlusconi e soci hanno dato il compito di privatizzare, cioè di far proprio, con ogni mezzo, il patrimonio edile pubblico di Milano), polizia, carabinieri sgomberano una decina di famiglie "abusive", senza contratto, in via Mar Jonio.
Lunedì 20: stesso dispiegamento di forze stavolta impiegato in via Albertinelli per sgomberare un'altra decina di famiglie. Diversamente che in passato, a partire da questi atti di forza, nel quartiere si sviluppa una cosciente mobilitazione dal basso carica di significati. Da quel momento, ad esempio, numerose famiglie di diversa etnia si riuniscono la sera in piazza (Selinunte), danno vita ad un'assemblea, che giorno dopo giorno è sempre più partecipata, coscientemente voluta - soprattutto dalle donne.
In una di queste assemblee nei giorni immediatamente successivi viene deciso un presidio davanti alla sede centrale dell'ALER (situata in zona Città Studi) per imporle un "tavolo" e concretizzare il bisogno che unifica tutte le famiglie: "basta sgomberi", "regolarizzazione generale dei contratti".
Giovedì 30: bambini, mamme, giovani, al presidio "contro gli sgomberi". Tanti gli striscioni e le bandiere appesi nei cortili delle case, davanti ai negozi, alle scuole: "la casa è un diritto", "non siamo delinquenti vogliamo una casa", "i nostri diritti non si toccano", "un abusivo, un occupante non è un delinquente ma è un povero che ha bisogno di una casa".
"Oggi, un centinaio di inquilini ha dato vita ad un presidio sotto la sede dell'Aler in viale Romagna. Una delegazione è salita per parlare con il presidente dell'Aler per chiedere di bloccare gli sgomberi almeno fino all'istituzione di un tavolo di trattative a Settembre. Inizialmente l'Aler ha dato una risposta negativa ma dopo che le famiglie hanno iniziato ad occupare la circonvallazione minacciando di non spostarsi, si è aperto un dialogo.
Prefettura, questura ed Aler hanno garantito [attraverso il SICET , Sindacato inquilini casa e territorio] il blocco degli sgomberi sino a settembre…" (Pubblicato in Casa Metropoli Expo da Cantiere, Giovedì 30 Luglio 2009)
Le famiglie occupanti afferrano di aver ottenuto una tregua, ma soprattutto di essere più unite e forti in vista di una lotta lunga e feroce.
Sabato 8 agosto: l'assemblea decide di organizzare una manifestazione dentro il quartiere. Vi prendono parte circa 200 persone, la testa è presa dai bambini, dalle donne. Il corteo si ingrossa strada facendo; sosta di fronte al caseggiato dove nei giorni scorsi sono stati compiuti gli sgomberi. La determinazione "contro gli sgomberi", per il "diritto alla casa" è sui visi di tutte le persone dentro la manifestazione e fuori, come spiega il volantino "Abitanti a San Siro" distribuito lungo il corteo: "…più di 20 famiglie con bambini sono stati messi in mezzo alla strada, tra l'altro senza preavviso. In poche ore questo ha portato gli altri abitanti, occupanti e non, ad organizzarsi e presenziare davanti alla prefettura e in seguito davanti alla sede dell'ALER di viale Romagna, manifestando per il diritto alla casa! […]
In merito a quanto detto sopra gli occupanti di San Siro ribadiscono: noi non siamo delinquenti ma gente comune che tira alla fine del mese e ha diritto alla casa!"
Mercoledì 2 settembre, ore 18: l'ALER si rimangia la parola data. Dietro il pretesto di un presunto "rilascio della casa", suoi operai (traditori) accompagnati da alcune volanti della polizia iniziano a demolire la porta di un appartamento, dicono sia vuoto. Invece, la gente lo sa, è abitato. Il blitz, privo peraltro di qualsiasi foglio o nota ufficiale, fallisce miseramente grazie all'intervento di decine di persone e al tam tam che in breve tempo porta sul posto oltre 70 persone. Questa presenza e le azioni pur se piccole di chi si trova sul posto convincono la squadra sgomberi ad allontanarsi.
L'assemblea in serata, con la coscienza di aver ottenuto un'importante vittoria, decide di fare una "mappatura" in ogni via sulla situazione di ciascuna famiglia. Il lavoro viene deciso e ripartito in maniera pubblica e diretta.
Il modello di democrazia San Siro può e deve fare scuola. Altro punto discusso è di tornare alla sede centrale dell'ALER per imporre le richieste condivise. Le decisioni definitive, con piccole varianti, vengono prese dall'assemblea di venerdi 4 settembre. Si svolge dentro il centro sociale Micene, divenuto in pochi giorni centro abitato da bambini, donne, giovani, famiglie di tante etnie decise a lottare insieme per la casa, per la propria dignità. La decisione più importante è di trovarsi tutte e tutti giovedì 10 alle ore 10 davanti alla sede dell'Aler, questo è l'appello generale lanciato.
Mercoledì 9: l'influenza politica della mobilitazione dal basso determina nuovi rapporti. Cgil, Cisl e Uil con i loro sindacati per la casa (Sunia, Uniat, Sicet e per altri versi Unione Inquilini) in cui si battono famiglie attive anche nell'assemblea di piazza Selinunte, prendono posizione. In una breve lettera all'Aler invitano a trovare una soluzione per la vicenda delle "occupazioni senza titolo". Il problema è grave, scrivono, deve essere sottratto alle strumentalizzazioni: "sicurezza pubblica", "ripristino della legalità". In senso contrario a queste propongono perciò la costruzione di un "confronto e di un percorso che realizzi la tutela delle situazioni famigliari"…
La scesa in campo di queste forze è valutata positivamente dalle famiglie occupanti che ritengono necessaria una riflessione. Il presidio preannunciato viene quindi rinviato.
Venerdì 11: la durezza dello scontro è riproposta di primo mattino in via Morgantini. All'inizio di agosto l'Aler, profittando della momentanea assenza di una famiglia egiziana (che avrebbe firmato una carta in cui acconsentiva allo sgombero in cambio di una sistemazione in comunità), con due bambini, blinda la porta dell'appartamento in cui vive. Al ritorno alla famiglia non resta che dormire in auto. Le viene notificato di presentarsi l'11 settembre per vuotare l'appartamento. Mentre la famiglia colpita porta fuori le masserizie, la solidarietà delle famiglie occupanti e non solo, non si fa attendere. In breve tempo un centinaio di persone giunge sul posto; non c'è timore della presenza in forze della polizia. Ci vuole tempo per convincere la famiglia a lasciar cadere le proposte individualizzanti dell'Aler, che anche i soliti sindacati consigliano di accettare. Solo verso le 13 la pressione delle famiglie occupanti, coscienti del brutto precedente in gioco rivolto contro tutte loro, riesce a vincere le titubanze della famiglia sotto sgombero. Materassi, sedie… in pochi minuti con l'aiuto di tutti, per primi i bambini, ritornano nell'appartamento, di cui l'Aler per sfregio e insipienza ha rotto - come sempre in questi casi - il vater e il lavandino.
La soddisfazione è generale, si può leggerla sui volti di tutte le persone presenti.
L'assemblea della sera, partecipata come sempre, registra la mattinata vittoriosa, l'adesione di diversi comitati di altri quartieri. Viene letta la lettera dei sindacati. La considerazione è: va bene, è un risultato della lotta delle famiglie occupanti ma non ci si può fidare più di tanto, lo si è visto anche oggi. Loro devono sostenere quel che decide questa assemblea: no agli sgomberi, regolarizzazione dei contratti per tutte le famiglie occupanti - che devono andare al tavolo delle trattative.
Le proposte di lotta sono tante, per prima un presidio di più giorni della piazza antistante il comune di Milano (Palazzo Marino). Incombe però un altro sgombero annunciato per mercoledì 16 settembre in via Preneste 1. Va impedito. L'appuntamento per tutte e tutti è per le 5,30.

Milano, settembre 2009


Ferragosto a L'Aquila
Come molti di voi già sapranno ho trascorso la settimana di Ferragosto presso una tendopoli a L’Aquila. Anzi di più; sfruttando un’opportunità offerta dall’Arci Nazionale ero in un campo gestito dalla Croce Rossa Militare in cui l’Arci ha un’attività autonoma di servizio ai terremotati. In questo modo sono potuto entrare nella pancia del mostro. Militarizzazione totale del territorio, militarizzazione delle tendopoli, assenza di democrazia, devastazione ambientale, falsità totale riguardo alla ricostruzione sono gli elementi costitutivi del dramma aquilano.
La certezza che ne ho ricavato, oltre che dall’esperienza diretta anche dai contatti con i compagni aquilani del comitato 3 e 32, è quella che oggi L’Aquila rappresenta un esperimento in grande stile di controllo totale del territorio e della popolazione. In sostanza si consolida una modalità che potrà essere valida in futuro a seguito di ogni calamità naturale o non e magari anche di una rivolta territoriale. Per tanto l’accostamento al documento NATO 2020 è più che logico. In questo senso vi rimando al bellissimo opuscolo “A chi sente il ticchettio” che contiene i materiali del convegno antimilitarista di Trento del 2 maggio 2009.
L’Aquila è in sostanza un segmento fondamentale del lato guerra interna nella connessione guerra interna/guerra esterna. Vi sono molti aspetti del caso “L’Aquila” che collegati assieme portano a questa conclusione. Io vorrei evidenziarne alcuni che ritengo i più chiarificatori.
Innanzi tutto la militarizzazione delle tendopoli. Sarebbe esatto parlare di campi militari o militarizzati. Ve ne sono circa 150 in tutto il territorio interessato dal sisma. La gran parte è gestita e presidiata direttamente da Protezione Civile, Croce Rossa Militare, Esercito, Alpini, San Marco e chi più ne ha più ne metta. Tutti questi si avvalgono agli ingressi ed all’interno dei campi di Polizia, Carabinieri, Polizie Municipali di tantissime città italiane. Tutti i campi sono presidiati da passi carrai dove per accedere è obbligatorio esibire o un tesserino di riconoscimento (nome, cognome, codice fiscale e foto) o un documento d’identità. Ovviamente l’accesso al campo è possibile solo per il personale di servizio o per chi risiede nel campo. Nessun esterno può entrare nei campi. Molti campi sono in luoghi cintati o da reti metalliche o da mura e soprattutto hanno un'illuminazione notturna forse superiore a quella dello stadio di San Siro. In ogni campo comanda un capo campo nominato dalla Protezione Civile il quale governa da Monarca assoluto ed al quale ognuno è obbligato a rivolgersi per qualsiasi richiesta anche la più stupida. Si capisce benissimo che qualsiasi forma non dico di autogestione ma di democrazia è praticamente impossibile tanto che solo in pochissimi casi si sono potute svolgere delle assermblee. Particolarmente pesante è la situazione del campo, il nome è tutto un programma, denominato Piazza d’Armi, perché essendo un campo a forte presenza d’immigrati, ha un filtro d’accesso presidiato da Polizia, Protezione Civile, Alpini e lungo la rete perimetrale ha degli accessi anch’essi controllati 24 ore su 24. Tutto questo armamentario di sbirri ovviamente si avvale di un altro esercito formato da preti, frati, suore, boy scout, assistenti sociali, volontari della croce rossa e della Caritas che ovviamente hanno il compito di completare il controllo ed il rincoglionimento dei terremotati. Messe, rosari, tombolate, feste di compleanno, giochi da oratorio ve ne sono a tutte le ore e per tutti i gusti. Anche la vita fisica all’interno dei campi è alquanto pesante. Nelle tende sono costrette a convivere dalle 8 alle 10 persone di nuclei familiari diversi. Immaginatevi i problemi che questo comporta in un contesto di assoluta mancanza di privacy. Molti nuclei familiari ancora non sono stati ricongiunti. Soprattutto nei primi giorni anche in seguito al trauma di aver perso tutto ed in modo particolare i propri familiari si sono verificati casi di suicidio. Vi sono stati anche alcuni anziani morti in seguito all’aggravamento delle loro condizioni di salute. Così come si sono verificate delle risse dovute alle precarie condizioni di vita. Sono ancora molti, a distanza di mesi, gli anziani, i malati anche psichici, i minori che non hanno ancora un’adeguata assistenza.
Per quanto riguarda la militarizzazione del territorio si può così sintetizzare: L’Aquila è quasi per intero una città fantasma in cui il centro storico, oltre ad essere rimasto fermo al 6 aprile, è transennato e presidiato da sbirri. Una sola strada è percorribile dal centro alla periferia e viceversa. Poco o nulla della normale vita civile di L’Aquila è attivo.
La disoccupazione già forte prima del terremoto a seguito delle politiche devastanti di delocalizzazione produttiva è ora alle stelle. L’Università che con i suoi 25.000 studenti era il fulcro vitale della città ora è morta. L’Aquila è l’esempio e l’opportunità di come a seguito di un terremoto si può uccidere, militarizzare e lucrare ai danni di un’intera popolazione. La traiettoria di L’Aquila è drammatica: prima i camorristi di Stato hanno impastato il cemento con la sabbia del mare, poi i vari scienziati di Stato hanno tranquillizzato la popolazione che lo sciame sismico iniziato lo scorso novembre era innocuo ed infine i poteri forti hanno sfruttato la tragedia per militarizzare il territorio oltre che per i loro squallidi interessi politici ed economici. In questo contesto va dato grande merito ai compagni del Comitato 3 e 32 che nel loro presidio fisso autogestito svolgono feste, assemblee, iniziative politiche e che sono l’unico spazio vivo e vitale di gestione diretta che io abbia visto.
Quando si parla di militarizzazione del territorio deve bastare questo esempio: per poter accedere alla propria casa situata nel centro storico bisogna far richiesta ai vigili del fuoco ed una volta ottenuta l’autorizzazione farsi scortare dalla polizia municipale.
Un altro pietoso capitolo è quello della ricostruzione e della devastazione del territorio. Nella completa disinformazione verso i cittadini e verso gli enti locali sono stati aperti 4 cantieri a fronte dei 13 promessi. 4 cantieri in 4 luoghi completamente avulsi dal contesto della città. 4 cantieri, tra l’altro sufficienti per 13.000 persone a fronte di una necessità di 60.000, che formeranno 4 quartieri ghetto privi di servizi e distanti chilometri dal centro storico. 4 cantieri mostro che stanno stravolgendo l’ambiente paesaggistico/ecologico del contesto aquilano. 4 cantieri di cui non si sa nulla riguardo alla correttezza ed alla trasparenza delle gare d’appalto. Il grande circo mediatico della ricostruzione berlusconiana imponeva questo e questo è stato fatto, mentre nulla è stato fatto per salvare quello che poteva essere salvato. Dato che una scadenza incombe ed è quella del generale autunno che non permetterà più la vita nella tende la protezione civile ha iniziato i primi d’agosto la distribuzione dei moduli graduatoria per l’assegnazione degli alloggi. Stileranno le graduatorie ma non ci saranno le case! A quel punto forse l’intero territorio aquilano potrebbe diventare una parte importante dell’autunno caldo. Noi comunque da ora in ogni caso li dobbiamo sostenere.

renatopomari@tiscali.it


DEPORTATI - Controinformazione da L'Aquila
Non ci sono C.A.S.E. per tutti e non ci saranno, neanche in primavera. E francamente, dopo aver fatto un giro nella periferia di Coppito ci auguriamo che non ce ne siano!
Non una new town ma 20 new town stanno spuntando come funghi. Intorno a un centro storico che sarà svenduto a immobiliaristi senza scrupoli, un pullulare selvaggio di gru, ruspe, megacantieri, colate di cemento armato... e soldi, soldi, soldi inafferrabili. E sfruttamento di tutto e tutti (sembra che gli operai dei cantieri lavorino a tre turni).
Non ci sono C.A.S.E. per tutti. I senza tetto sono 70.000, mentre i posti previsti nel piano C.A.S.E. a primavera saranno al massimo 16.000.
27.886 gli sfollati censiti dal Comune e dalla protezione civile con le case completamente inagibili (E o F), di cui circa 5.300 affittuari. Gli affittuari dovranno lasciare le C.A.S.E. dopo i primi 2 anni. Quelli con le case temporaneamente o parzialmente inagibili (B o C) non possono anticipare i soldi per la sistemazione.
Nessuna ricostruzione, ma realizzare questo piano C.A.S.E. metterà uno spesso strato di cipria e fondotinta alle crepe di questo regime e un robusto ingresso di denaro pubblico nelle tasche dello stesso e delle imprese che lo sostengono.
Un altro terremoto all'Aquila. Inizia a Piazza d'Armi la deportazione in massa degli sfollati. La voce nel campo si era sparsa da un paio di giorni ma niente di ufficiale. Il tempo "congruo" annunciato da Bertolaso in TV per mettere al corrente i terremotati di Piazza d'Armi che sarebbero stati cacciati dalle tende e mandati chissà dove, senza dare loro la possibilità di scegliere, si è tradotto di fatto per molti in un giorno di preavviso. All'assegnazione delle località di destinazione (alcuni sfollati stanno ancora aspettando di sapere dove saranno mandati) la guerra tra poveri si è subito materializzata: gli "italiani" contro gli immigrati, chi ha trovato un lavoro contro i disoccupati, i single contro i nuclei con più di 2 o 3 persone, chi ha le protesi o è comunque disabile contro chi ha ancora la salute per camminare e fare le scale a piedi, gli incensurati e i collaboratori contro i pregiudicati, chi viene mandato sulla costa o ad Avezzano o a Sulmona, comunque lontano dalla città, contro chi ha avuto la "fortuna" di essere ristretto nella scuola della caserma della guardia di finanza, vicino L'Aquila (dove si è svolto il G8) ecc.
Dopo aver discriminato tra gli sfollati sulla costa e quelli dei campi, l'operazione dividi et impera, va avanti.
Pochi annunciano di incatenarsi o di "occupare" le proprie case inagibili, ma spesso queste dichiarazioni non ottengono il risultato sperato, ossia rimanere ai margini più prossimi della città, della propria casa, del proprio lavoro dei propri affetti.
Intere famiglie ulteriormente separate... tutti dispersi.
Il campo è militarizzato oltre misura, sembra di essere ad esercitazioni militari e antisommossa. Durante il G8 i militari, pur con una presenza robusta dentro il campo (più del doppio degli sfollati), incombevano soprattutto fuori del campo, a sorvegliare che nessuno intralciasse le grandi manovre fuori, dove scorrazzavano i potenti.
Ora si sono concentrati soprattutto all'interno del campo (gli sfollati ora saranno quasi un decimo di militari e forze dell'ordine), ad evitare che scoppi una scintilla di protesta, pronti a toglierti via la tenda dietro le spalle appena ti allontani di un paio di metri. Ai 1.200 sfollati, presenti ancora 2 giorni fa, hanno tolto tutti i cessi chimici tranne 1, hanno cominciato a servire cibo particolarmente disgustoso e a smontare una delle 2 sale mensa. La polizia locale (che conosce le sue pecore) fa da paciere e intercede con la protezione civile per i sottoproletari che hanno avuto dei precedenti penali e sono disposti a non piantare grane e a "collaborare" purché li si lasci vicino all'Aquila. Il ricatto è: o te la prendi così o torni in galera e non ti piangerà nessuno.
Dopo i bei propositi dell'assemblea cittadina di ieri, indetta dai comitati, dopo la promessa di quei rappresentanti di vigilare affinché in nessun campo ci fosse stata una "deportazione non consensuale" (ma una deportazione non può esserlo, è ovvio!), nessuno di loro ho visto stamattina.
Davanti al campo c'era però uno striscione che recitava: "Dall'impegno e dal cuore dell'Emilia Romagna alla prevaricazione del Dipartimento" firmato "i Ri-sfollati di piazza d'armi".

Luigia, per una rete di soccorso popolare

***
Quello che segue è il volantino che verrà diffuso nei campi in questi giorni, già condiviso, da alcuni, all'assemblea cittadina del 5 settembre:

"Nessuno o tutti - o tutto o niente. Non si può salvarsi da sé" (Bertold Brecht)
Decine di migliaia di sfollati senza più lavoro né reddito, né case, né luoghi di studio sicuri per tutti gli studenti.
Diritto alla salute inesistente. Dopo aver consentito lo svolgimento di un G8 da 500 milioni di euro sopra una sanitopoli che saremo sempre noi a pagare, i "clienti" dell'Azienda Sanitaria Locale si vedranno scippata anche questa.
Dopo aver resistito 5 mesi alla dura vita delle tendopoli per non abbandonare la propria città, ora anche noi verremo deportati lontano dall'Aquila, senza che siano pronte le case per tutti.
Il vero scopo di questa deportazione di massa è come al solito di natura elettoral-propagandistica - si mira a spacciare il piano C.A.S.E. e la politica del governo come un successo a livello internazionale - e speculativa - i cittadini saranno scoraggiati a tornare e incentivati a vendere le proprie case per pochi euro a immobiliaristi senza scrupoli (magari proprio alle immobiliari legate alla famiglia di Bertolaso e all'Eucentre, fondato dalla stessa protezione civile).
Su 70.000 sfollati, circa 16.000 sono i posti ufficialmente previsti nel piano C.A.S.E. per la fine dell'anno, dove andranno tutti gli altri terremotati?
Ogni alloggio del piano C.A.S.E. ha un costo base di 135.000 euro contro i 15.000 previsti per le case mobili nuove, mentre il 70% delle case mobili, utilizzate per dare riparo davvero temporaneo ai terremotati dell'Umbria e delle Marche, vengono lasciate a marcire a Capua, presso il deposito del Raggruppamento autonomo recupero beni mobili della Protezione civile (ora sotto inchiesta - e giustamente - per omicidio colposo plurimo).
I criteri per l'assegnazione delle C.A.S.E. (stabiliti da Comune e protezione civile), così come quelli per l'individuazione delle località dove entro la fine del mese saranno deportati tutti gli aquilani, stanno già scatenando una guerra tra poveri. I ricchi la faranno sotto traccia, mentre tutti tenteranno di salvarsi da sé.
Solo con l'autorganizzazione, il rifiuto della delega ed un processo di democrazia diretta è possibile rovesciare le politiche antipopolari e scongiurare la guerra tra poveri. C'è chi ancora si ostina a chiedere la requisizione di case sfitte agibili. C'è chi ancora mette avanti il dialogo con le istituzioni a una lotta di massa. C'è chi ancora cede al terrorismo delle istituzioni rinunciando ad essere protagonista del proprio futuro. Ma il futuro è di chi lotta, non di chi lo compra o, peggio, lo delega.
Noi crediamo che sia ora di occuparle le case sfitte agibili.
Noi crediamo che solo una lotta di massa possa portare dei risultati e se le istituzioni non ci rappresentano vanno rovesciate.
Noi crediamo che il futuro ci appartiene e lottiamo ogni momento per questo. Noi lottiamo per la vita, non per la sopravvivenza. Per la vita e per la memoria di tutto e di tutti. Settembre non è tempo di migrare, ma di lottare energicamente e di opporsi alla rapina della nostra città e della nostra storia. ORA O MAI PIU'

rete di soccorso popolare
mumiafree@inventati.org - sfoll-aut.blogspot.com/


Sulla strage di Viareggio del 29 giugno
Nella notte del 29 giugno scorso, un treno merci che trasportava gas è deragliato in prossimità della stazione ferroviaria di Viareggio. Un carrello si è rotto, un vagone si è rovesciato e dalla cisterna è fuoriuscito il gas che dopo qualche istante è letteralmente esploso incendiando persone e cose nel raggio di centinaia di metri. A tutt'oggi, 29 persone sono morte, altre sono rimaste ustionate in modo gravissimo. Non c'è bisogno di dire che se questo incidente fosse avvenuto nel pomeriggio e 100 metri prima i morti potevano essere centinaia.
La città di Viareggio ha subito uno di quegli shock che fanno uscire violentemente dal torpore, dall'assuefazione e spingono le persone a manifestare tutti quei sentimenti che esplodono in occasioni come queste: dolore, incredulità, rabbia, solidarietà, necessità di reagire... Quanto durerà questa emozione cittadina e quanto sia stata effettivamente tale (e non soprattutto oggetto di chiacchiericcio) è, per ora, impossibile dirlo.
Un evento come quello accaduto a Viareggio il 29 giugno non può lasciare indifferente nessuno. Ma c'è modo e modo di affrontarlo. Dopo soli due giorni dall'esplosione, mentre le persone morivano una dopo l'altra, Silvio Berlusconi aveva già pronta un'operazione “Abruzzo bis”: “vado a Viareggio e prendo in mano la situazione”. I viareggini hanno tamponato immediatamente questa indegna speculazione propagandistica e il 3 luglio hanno accolto Berlusconi a male parole, costringendolo ad allontanarsi da una porta posteriore del Municipio per non sfilare tra manifestanti inferociti (certo, l'operazione era ben congegnata e c'erano anche i supporters, ma si sa che gli amici non riescono a parare le pomodorate dei non amici).
L'apparato di strumentalizzazione di regime si è comunque riproposto – e in grande stile – in occasione dei funerali di Stato ai quali non è voluto mancare nessuno. Certo, la vicinanza alle vittime e alle loro famiglie da parte dei cittadini di Viareggio, in questo momento di sgomento collettivo, era comprensibile e giusta. Meno giusta, ma altrettanto comprensibile (nel senso che se ne possono comprendere le motivazioni) è stata la spettacolarizzazione dell'evento (con tanto di maxi-schermi), la retorica “presidenziale” e religiosa, la “copertura mediatica”... insomma, la “messa in onda” del dolore, affinché tutti i tele-cittadini potessero usufruirne.
Il “nostro” Presidente della Repubblica, fedele alla sua ripetitiva e inconcludente litania, ha ripetuto il suo solito “mai più” e il suo solito “ora basta”: le stesse parole che usa ogni qualvolta avviene una qualche morte sul lavoro che riesce a superare il velo dell'informazione di regime.
Ma aldilà dell'evidente ipocrisia è proprio il contenuto che non può convincere: “Mai più” cosa? “Mai più” incidenti? E perché? Se l'incidente è stato – come non è stato – una fatalità allora come si può impedire una fatalità? E se l'incidente non è dipeso dal fato, ma ha avuto precise responsabilità, allora bisogna dire dove stanno queste responsabilità, dove stanno le cause, per impedire che essere possano ripresentarsi, ammesso e non concesso che questo sia effettivamente possibile.
E allora: dove stanno le responsabilità? Dove stanno le cause prime di questa strage? Semplificando, le cause stanno su 4 diversi livelli.
A livello più basso sta la rottura del carrello che è la causa immediata del rovesciamento del vagone e dell'apertura della cisterna (a proposito, una cisterna che si rovescia deve per forza aprirsi? Non è previsto che una cisterna, viaggiante su un treno, possa rovesciarsi, ma nonostante questo non aprirsi e non rilasciare il suo pericolosissimo contenuto?). Ma, ci dicono, i carrelli dei carri merci sono controllati e certificati. Non girano mica per le ferrovie a casaccio. A tal proposito, il signor Mauro Moretti, Amministratore Delegato delle Ferrovie dello Stato e già segretario della FILT-CGIL, presentatosi fugacemente sul luogo del disastro ha avuto la “prontezza d'animo” (diciamo pure il “pelo sullo stomaco”) e la voce sufficientemente alta e chiara per affermare (affinché qualcuno potesse sentirlo) che “dobbiamo controllare anche quello che viene dall'estero”, riuscendo in un sol colpo a scaricare prontamente le responsabilità “sull'estero” e a far la figura di quello che – tanto gli sta a cuore la sicurezza – vuole preoccuparsi anche di ciò che “non gli competerebbe”. Fatto sta – come hanno riportato La Repubblica e il Manifesto – che pare sia proprio ad una società del Gruppo Ferrovie dello Stato (FS Logistica) che si era rivolta la società che aveva noleggiato i carri (per trasportare il gas) al fine di certificare la loro efficienza. E quindi Moretti, prima di preoccuparsi dell'estero, farebbe bene a preoccuparsi dell'interno, del suo gruppo. Ed ecco il “secondo livello”, il sistema ferroviario italiano nel quale problemi di sicurezza ce ne sono eccome. Mauro Moretti, quello a cui sta tanto a cuore la sicurezza in ferrovia da volersi occupare “anche dell'estero” è lo stesso Mauro Moretti che il 15 agosto dello scorso anno ha licenziato (per la seconda volta) il macchinista – e Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza - Dante De Angelis, reo di aver denunciato alla stampa la mancanza di sicurezza dei treni.
Ma a questo punto ci si domanda. Ci sono forse sanguinari omicidi alla direzione delle Ferrovie dello Stato? Beh, in un certo senso, forse... Ma il vero motivo per cui i vagoni deragliano (e in Italia - in particolare in Toscana - ne sono deragliati parecchi negli ultimi tempi, ovviamente nell'inconsapevolezza dei cittadini ai quali queste notizie, nonostante le denunce dei ferrovieri e dei pendolari che se ne occupano, non vengono date o vengono sommerse sotto valanghe di chiacchiere di nessuna importanza per la vita delle persone) è perché viene fatta una manutenzione sempre più scadente. E perché? Perché le Ferrovie dello Stato sono state semi-privatizzate, devono realizzare profitto per gli azionisti e per realizzare questo profitto tagliano sui costi, principalmente del personale e della manutenzione. Che poi questo vada a detrimento della sicurezza degli utenti, diciamo, è un “problema collaterale”. Siccome, si dice, in Italia c'è ancora maggiore sicurezza rispetto al resto d'Europa e muoiono meno persone, Moretti e il suo entourage pensano di avere ancora buoni margini di riduzione della sicurezza. Fintantoché i morti in ferrovia in Italia restano sotto la media europea possono aumentare, questo è il principio che serpeggia ai vertici delle FS.
Nel frattempo, l'importante è realizzare profitto (valorizzando soprattutto il trasporto ad Alta Velocità). Non si può mica andare in Consiglio d'Amministrazione o all'Assemblea dei Soci e dire: non guadagniamo nulla ed anzi siamo in perdita, ma è aumentata la sicurezza dei lavoratori e degli utenti, le carrozze sono comode e non odorano di discarica, i bagni sono puliti, gli orari sono rispettati, i prezzi sono adeguati alle tasche dei pendolari, lavoratori e utenti sono soddisfatti, ecc... Eh, non si può... capitalisticamente parlando, ovviamente.
Viene in mente un bel film (il cui titolo originale - “Class Action” - fu “arditamente” tradotto in italiano in “Conflitto di classe”) nel quale si raccontava di una azienda automobilistica che aveva scoperto che uno dei suoi modelli, in particolari situazioni, poteva esplodere causano la morte o la grave ustione dei passeggeri. Aveva così affidato ad uno suo esperto l'analisi dei costi per valutare se era più conveniente ritirare gli esemplari o pagare i danni alle vittime, scegliendo la seconda strada.
Un'impresa capitalistica funziona proprio così: valuta i costi e se ritiene che convenga abbassare il livello di sicurezza per aumentare i profitti, abbassa il livello di sicurezza. Nel piccolo, è quello che avviene quotidianamente nei cantieri edili, nelle fabbriche e, appunto, in ferrovia, ecc...
Il terzo livello è dunque il livello del modo di funzionamento della società in cui viviamo, una società capitalistica dominata dal profitto e non certo dalla tutela dei diritti dei cittadini. Fintantoché vivremo in una società come questa il profitto verrà sempre prima della vita delle persone e quindi dire “mai più”, “ora basta”... significa solo farsi delle illusioni o, se invece si hanno chiare le cose, raccontare delle vere e proprie bugie.
Riassumiamo la “catena delle cause e delle responsabilità”: i carri non si controllano o si controllano poco; sicuramente si controllano meno o, come nel caso di Viareggio, non si controllano affatto - perché le Ferrovie risparmiano sulla manutenzione (chiudendo le Officine oppure esternalizzandola sempre più verso ditte private esterne che per fare profitto comprimono al massimo i tempi, i salari, i materiali, i controlli...); le Ferrovie risparmiano sulla manutenzione perché sono una società che deve fare profitti e le società devono fare profitti perché stiamo nel capitalismo: per inciso, meno profitti fanno le Ferrovie e più velocemente vengono avviate, con la scusa che creano un buco nei conti pubblici [1], alla totale e definitiva privatizzazione [2] (che poi, come si è visto nel caso delle ferrovie inglesi negli anni '80 e '90, produce la minore sicurezza, la maggiore frequenza dei disastri, la diminuzione dei posti di lavoro e dei salari, il caos organizzativo e, ovviamente, l'aumento delle tariffe).
Siamo quindi in un vicolo cieco. Se le Ferrovie riducono la manutenzione abbassano il livello di sicurezza, ma mantengono alti i margini di profitto. D'altra parte se, per ipotesi, facessero l'opposto (riducendo i margini di profitto per aumentare la sicurezza e tutto il resto) non farebbero altro che accelerare la propria privatizzazione e quindi, a conti, fatti, le cose non cambierebbero. E' il circolo vizioso al quale siamo costretti dal fatto di non mettere in discussione radicalmente la società in cui viviamo.
C'è chi pensa che alcuni “effetti collaterali” dello “sviluppo” capitalistico sono da preferire alla sua sostituzione con un altro tipo di società; altri pensano l'opposto. Ma le cose stanno così e qualsiasi persona dotata di un minimo di onestà intellettuale non può che convenirne.
Se ci fermiamo al primo livello della catena delle cause e delle responsabilità (ovvero cerchiamo di capire “perché il carrello si è rotto”, “perché il vagone si è rovesciato”, “perché la cisterna si è aperta”, ecc...) facciamo un errore. Su quel livello si può collocare l'indagine della Magistratura che “accerterà le responsabilità” (ma rigorosamente deresponsabilizzando, come quasi sempre è accaduto, le FS, vedi la strage di Crevalcore).
Ma noi, i “cittadini”, i lavoratori, gli studenti – e specialmente quelli che pensano di essere anti-capitalisti - che ogni giorno saliamo su un treno o entriamo in una stazione o passiamo davanti ai binari... possiamo limitarci a cercar di sapere “perché si è rotto il carrello”? Possiamo limitarci a contestare Berlusconi, come se il funzionamento a rischio del sistema ferroviario dipendesse solo da lui e non da un “modus operandi” rispetto al quale nessuno - destra o “sinistra” - ha fatto nulla di concreto? Possiamo prendercela solo o principalmente con Mauro Moretti come se le scelte che compie dipendessero dalla sua avidità o insensibilità personale e non dal ruolo che egli ricopre e che sarebbe ricoperto in modo del tutto analogo da qualcun altro (del resto, non è proprio Moretti che sostituendo il proprio responsabile della sicurezza cerca di chiudere le polemiche scaricando su una persona le responsabilità di un sistema)?
Ma ancora manca un ultimo, quarto livello, perché sarebbe un po' semplicistico anche buttarla solo sul “capitalismo” che spinge le ferrovie a non fare le manutenzioni e a far viaggiare per l'Italia vere e proprie “bombe ad orologeria” pronte ad esplodere ed a far strage di persone qualsiasi.
E su questo livello ci stiamo noi: “noi” in quanto lavoratori e cittadini e - soprattutto - noi in quanto lavoratori che hanno raggiunto la comprensione che il nostro problema non è il singolo capitalista, ma l'insieme di tutti i capitalisti; non il singolo episodio, ma il sistema sociale che in ultima istanza determina tutti gli episodi.
E qui la questione si complica ulteriormente. Non per far “distinzioni tra i morti”, ma per farne, semmai, tra i vivi, bisogna pur dire che sul livello del “carrello difettoso” o della vigilanza sul pagamento dei danni alle famiglie delle vittime (richiesta di cui abbiamo peraltro la più alta comprensione ove si tratti di famiglie bisognose) possono posizionarsi un po' tutti nel senso che tutti, ricchi e poveri, belli e brutti, vogliamo carrelli che non si rompono, vagoni che non si rovesciano, cisterne che non aprono...
Ma quanti, di questi tutti, capiscono o sono disposti ad accettare il fatto che non il destino, ma l'organizzazione capitalistica del trasporto (in generale e su rotaia in particolare) sta all'origine dei mancati controlli (dunque della strage), che questa organizzazione dipende da come è strutturata la società entro cui funziona questo trasporto e che l'unica garanzia affinché certe cose non avvengano più (se non per vere fatalità) è lottare per costruire una società dove i diritti dei lavoratori e delle persone (nonché, di conseguenza, la loro sicurezza) vengono prima del profitto e dei risparmi di spesa?
Quanti sono disposti ad ammettere che se non si cambia la struttura sociale complessiva porsi obbiettivi come “mai più” ecc... diventa solo un innocuo esercizio di retorica che fa il controcanto al “nostro” “maipiuista” Presidente?
Pochi, lo sappiamo, ma non bisogna spaventarsi e bisogna continuare a dire la verità; se la situazione è difficile vuol dire che ci vuole ancora più coerenza ed intelligenza.
Invece, a cantar Messa quando tutti cantano Messa son buoni tutti.

NOTE
[1] Non le abbiamo già sentite queste parole durante l'orgia privatizzatrice nell'Italia degli anni '90?
[2] Si tenga conto che già adesso di stanno presentando una serie di operatori privati (la FIAT in testa) per entrare nel business del trasporto ferroviario e che Innocenzo Cipolletta, già DG di Confindustria, ora presidente di FS, sta lì proprio per gestire questo passaggio.
[3] Certo fare proposte di buon senso non fa mai male. Ad esempio, la proposta di ridurre la velocità dei treni merci (specialmente se trasportano merci pericolose) che viene dai comitati popolari viareggini sorti dopo la strage, dalle forze dell'estrema sinistra e dal “Popolo della Libertà” (cfr. Mario Valducci, Presidente della Commissione Trasporti della Camera su La Repubblica); le proposte sull'adozione di misure fiscali speciali come in Abruzzo avanzate dai parlamentari PD della provincia di Lucca raccolgono - di nuovo - l'adesione dei comitati popolari e delle forze dell'estrema “sinistra” viareggina... E si potrebbe continuare con il sostegno economico e psicologico alle famiglie, con le discussioni sul Commissario locale o nazionale, con l'offerta delle cene ai parenti delle vittime alle feste di partito, con le raccolte di firme per provocare l'impeachment di Moretti, e così via... Nel tentativo di dire e di fare sempre e comunque cose “di buon senso” i comitati popolari e la “sinistra” viareggina dicono tante cose condivisibili da tutti ovvero ripetono cose che più o meno tutti hanno già detto ovvero non si capisce a quale necessità risponda la loro esistenza.

Primomaggio
Agosto 2009


Intervista: le poste tedesche e la logistica militare
Sui giornali di tanto in tanto si può leggere di mezzi delle poste dati alle fiamme. La polizia punta il dito contro estremisti di sinistra non definiti. Noi, leggendo qua e la su Internet, abbiamo appreso che queste azioni non accadono casualmente, che, bensì, sono parte di una campagna che mette in luce l’intreccio delle imprese della logistica con l’economia di guerra. Questa campagna è nata nel quadro della mobilitazione contro il vertice Nato 2009 a Strasburgo/Baden-Baden. Per saperne di più abbiamo incontrato un attivista della campagna.

Domanda: Dall’autunno 2008 è avviata una campagna contro la società di logistica “Deutsche Post-DHL” [DHL sta per: Deutsche Heeres Logistik, forza tedesca per la logistica]. Numerose azioni da allora sono state realizzate dai gruppi pacifisti e antimilitaristi. Perché?
Risposta: DHL e Deutsche Post Spa lavorano dal 2003 per le forze armate USA in Irak e anche per la Bundeswehr [forze armate RFT] in Afghanistan. Trasportano materiale necessario alla conduzione della guerra imperialista, dalla posta fino al materiale bellico assassino. Oltre a ciò DHL aspira ad un contratto miliardario con la Bundeswehr, in cui è prevista la cessione di gran parte della logistica di base della Bundeswehr ad un’impresa civile (DHL).
La campagna deve far esplodere lo scandalo del ruolo giocato dalla multinazionale DHL nella logistica della guerra. Contemporaneamente viene tematizzata e criticata la crescente militarizzazione del civile. La campagna ha come punto di partenza il riconoscimento che gli interessi conseguiti militarmente sul piano mondiale non sono politica estera. La guerra non lascia nella società, da cui prende le mosse, soltanto una traccia, ma presuppone anche la predisposizione della società civile alle necessità militari. La collaborazione e l’amalgama fra civile e militare non si prendono cura soltanto degli interessi economici, per esempio assicurare grossi guadagni alle poste tedesche attraverso la logistica militare. Esse sono anche strategicamente determinate.

D: Come si sviluppa la campagna?
R: Nel frattempo sono usciti parecchi materiali: documenti, volantini, giornali, adesivi, manifesti, distribuiti e attacchinati, nei due giorni di mobilitazione di mobilitazione in tutto il paese, davanti alle filiali delle poste. Alcuni di questi sono documentati anche sull’home page http://dhl.blogsport.de. Scopo della campagna è la completa uscita delle imprese della logistica dai maneggi con la guerra.
La campagna è stata parte della mobilitazione contro il recente vertice NATO di Strasburgo. Nei resoconti pubblici sull’insieme della attività contro DHL – dalle manifestazioni davanti alle filiali delle poste fino alle azioni clandestine della guerriglia della comunicazione e dei gruppi autonomi – sempre è stata menzionata la ragione della campagna. Così questa è sempre più riuscita a mettere nella merda la reputazione, il buon nome della grande impresa. La campagna contro le poste e DHL è lunga, non si è ancora sviluppata pienamente. Da molteplici idee e iniziative, come la campagna contro la classe-deportazione predisposta da Lufthansa, possono venire grossi impulsi.
Come è stato fatto nella campagna contro la class-deportazione, in primo luogo c’è l’obiettivo di danneggiare l’immagine delle poste per determinare l’uscita dell’impresa dalle attività militari. A tutti è chiaro che il collegamento con l’infrastruttura militare ha un significato strategico, che nella campagna naturalmente si dispiegano anche forme di protesta offensive.
D: Da quel che dici pare che la mobilitazione contro il vertice NATO sia stata soltanto la prima tappa della campagna.
R: Certamente. A Strasburgo non è stata sciolta la NATO, anzi. Essa rafforza le proprie truppe in Afghanistan. Le guerre si inaspriranno e di conseguenza, con loro, anche i trasporti di materiale bellico in tutto il mondo. L’attività logistica bellica si espanderà ed è molto lucrativa per le imprese. E se queste – non importa come si chiamino – prendono direttamente parte alle guerre offrono alla resistenza politica il punto connettivo e di attacco. Adesso e in futuro.
Nelle discussioni a partire dalle quali è stata sviluppata la campagna, un punto centrale è stato anche lo scontro sul carattere da evento di queste mobilitazioni contro il vertice NATO. Le iniziative contro DHL dovevano dimostrare una possibilità dell’intervento antimilitarista che va oltre il vertice. La strutturazione e l’orientamento militare penetra nel quotidiano, è normalità e deve sempre essere resa visibile e attaccata.
A riguardo può essere di aiuto creare sul piano locale e regionale comitati d’azione antimilitaristi, a cui esortare a prendervi parte alcuni gruppi più attivi della sinistra. Questo perché un altro proposito, naturalmente, è quello di rendere attuale la necessità della prassi antimilitarista nella sinistra radicale. Secondo noi questo non è un tema qualsiasi, ma tocca un nodo centrale della politica dell’emancipazione.
I mesi precedenti il vertice NATO di aprile hanno caratterizzato una fase, ma la prima tappa della campagna non si è conclusa con quella: la campagna deve essere ancora conosciuta dalla sinistra in generale e deve trovarla pronta. Secondo noi deve svilupparsi maggiore continuità con la molteplicità della protesta e della resistenza. Naturalmente anche nell’intreccio con altre iniziative come “Ordinare il rompere le righe alla Bundeswehr”, contro l’“Incontro a tre a Celle” e “Fuori la Bundeswehr dall’Afghanistan”.

D: A nostro parere gli attivisti della sinistra l’anno scorso hanno dispiegato una prassi antimilitarista tanto più forte che negli passati. Questo coincide con la tua valutazione?
R: La vedo anch’io come voi e penso che l’ignoranza rispetto a questa questione centrale frantumi i gruppi pacifisti e antiguerra. Va bene così. La politica anticapitalista, persino rivoluzionaria, non può tralasciare questo aspetto della politica del dominio. Ciò riguarda anche le questioni della tortura o della lagerizzazione, che la sinistra ovviamente deve porsi praticamente, in quanto questa politica struttura la società in modo autoritario.

D: In seguito ad un incendio di un mezzo DHL, improvvisamente, dalla sinistra sono stati presi di mira corrieri privati, danneggiandone l’esistenza, che lavoravano per conto della DHL. Ciò ha danneggiato la campagna?
R: Non si può giudicare se sia stato dannoso. Sicuramente ha suscitato irritazioni perché l’attacco non veniva portato su un’impresa, in quanto DHL ha privatizzato parti delle consegne relegandole nel subappalto. Così diversi furgoni disegnati con i colori di DHL non appartengono più alla grande impresa ma alle persone private.
In Austria – e in Germania i numeri sono presumibilmente simili – circa la metà del totale dei trasporti DHL li ha assegnati al subappalto. La tendenza è in crescendo. I subappalti DHL sono piccole imprese proprietarie al massimo di tre mezzi, spesso soltanto di uno.
Il tutto è un tipo di affiliazione (franchising) con il quale DHL appalta l’uso del proprio marchio a privati, come agisce Mc Donalds con le catene di panetterie in cui chi vi lavora riceve 4 euro l’ora. Le imprese del subappalto trasportano in nome di DHL, ma su conto proprio. La grande impresa in questo modo risparmia una quantità di costi, può scaricare sui piccoli padroncini i problemi della consegna e può sempre meno azzuffarsi con sindacaliste, sindacalisti organizzati/e. DHL è e resta perciò un giusto obiettivo di attacco. Le piccole imprese del subappalto non si trovano di fronte nessun consiglio di fabbrica e possono con maggior facilità far pressione sui salari dei due-tre autisti (che sfruttano). Il lavoro salariato e lo sfruttamento qui esistono sotto altre condizioni.

D: I redditi nelle imprese personali non sono più alti dal minimo stabilito dalla legge Hartz. Allora uno non è più vittima della propria cieca etica del lavoro che di un attacco incendiario?
R: Bisogna essere coscienti di queste condizioni ed agire in maniera corrispondente. Sui furgoni è segnato, visibile, quando sono in viaggio “su ordine delle poste tedesche/DHL”. I mezzi incendiati negli ultimi mesi nei parcheggi DHL di Amburgo, Karlsruhe e Berlino sicuramente non hanno colpito mezzi di imprese del subappalto.
Trovo giusta la ricostruzione della connessione fra l’impegno militare delle poste la privatizzazione, in quanto i metodi impiegati da DHL per diventare la maggiore impresa mondiale nel settore della logistica, la qualificano come impresa trasporti della Bundeswehr. Ed ho trovato ben espresso il fatto che in una “informazione alla clientela”, scritta negli striscioni e nei volantini affissi e distribuiti davanti alle filiali delle poste, è stata ricostruito ed espresso il legame fra la crescente chiusura di filiali delle poste e le condizioni di lavoro al loro interno.
In ogni caso la campagna prosegue con molteplici e belle azioni.

www.wiederstandmitte.blogspot.com
de.indymedia.org/2009/08/257520.sthml


parma: Appello per giornata di mobilitazione contro l'EFSA
GIORNATA DI MOBILATAZIONE CONTRO L'ENTRATA IN EUROPA
DEGLI Organismi Genticamente Modificati (OGM)
UN MOMENTO DI LOTTA E DISCUSSIONE PER RILANCIARE
LA RESISTENZA ALL'ORDINE GENETICO, FERMIAMO GLI OGM!
In Italia sono state autorizzate nove sperimentazioni in campo aperto, imponendo in questo modo gli OGM ad un collettività che non li vuole. A breve le regioni interessate dovranno stabilire i siti dove verranno effettuate. Queste sperimentazioni serviranno da apripista ad una diffusione commerciale su vasta scala della contaminazione da OGM.
Dal Gennaio 2009 è stata alzata la soglia di tolleranza di OGM nei prodotti alimentari dallo 0,1% allo 0,9%.
Non è possibile fermare gli OGM portando come soluzioni le stesse promosse da chi le sta diffondendo: etichettatura dei prodotti, coesistenza, metodi precauzionali, soglie di tolleranza non possono essere considerate tra le possibilità da percorrere, l'inquinamento genetico già in atto non permette scelte di compromesso, peraltro fittizie e funzionali.
E' fondamentale sviluppare un'opposizione alle biotecnologie senza separarle dal contesto che le ha rese necessarie, con la consapevolezza che se non è l'intero sistema economico-sociale ad essere messo in discussione si potranno solo continuare a generare altre dinamiche di prevaricazione e sfruttamento.
In tutto il mondo è attiva una forte resistenza contro le biotecnologie: dall'Africa che ha rifiutato la carità sperimentale di sementi GM, ai contadini in India che non cedono alle pressioni delle multinazionali e continuano a preservare le loro sementi originarie.
Di recente e per la seconda volta in Svizzera militanti anonimi hanno attuato un metodo precauzionale alternativo: rendere inutilizzabile l'unica sperimentazione in campo aperto danneggiando le piante e quindi la ricerca.

PERCHE L'EFSA!
L'EFSA, Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare, istituita nel 2002 su forte pressione del governo italiano, è l'organismo europeo riconosciuto a livello internazionale a cui la Commissione Europea fa riferimento in materia di “valutazione dei rischi per la sicurezza di alimenti e mangimi, salute degli animali, nutrizione, protezione e salute delle piante.”
Sulla falsa riga dell'FDA americana (Food End Drugs Administration), l'EFSA è chiamata a “garantire la sicurezza” di ogni nocività immessa sul mercato.
Come anello di congiunzione tra le multinazionali, i produttori di nocività e la Commissione Europea quello che intende garantire è la sopravvivenza di un sistema sempre più in agonia che promuove la nuova rivoluzione bio-nano tecnologica per non dover affrontare i disastri ambientali e sociali che stanno alla base dello sviluppo tecno-industriale.
Il ruolo dell'EFSA non è solo quello di redigere relazioni scientifiche, ancor più significativa la sua funzione sociale di mantenere l'inquietudine diffusa nella percezione generale in tema di nocività, questo con lo scopo di gestirla e di rendere permanente una domanda di protezione.
Intervenire oggi sull'EFSA non significa canalizzare in quest'unica direzione le prospettive di lotta, ma rappresenta l'inizio di un percorso per la creazione di un contesto forte di opposizione che comprenda e contrasti il dominio alla base dello sviluppo tecnologico, l'anello di una catena che va spezzata fin dalla prima maglia.
Invitiamo ogni situazione interessata a partecipare a questa giornata.
SABATO 31 OTTOBRE: CORTEO PER LE VIE DI PARMA CONTRO L'EFSA.
ORE 14:30 presso la STAZIONE dei TRENI
A SEGUIRE DISCUSSIONE PUBBLICA SUL RUOLO DI QUESTO ORGANO EUROPEO E SULLE PROSPETTIVE DI LOTTA AGLI OGM

Coalizione contro le nocività
MBE 222, C.so Diaz 51, 471OO, Forlì
nonanobio@inventati.org - www.inventati.org/contronocivita



MARCO CAMENISCH TRENT'ANNI DOPO
Quando l'8 Gennaio 1980 Marco Camenisch venne arrestato in Svizzera, per dei sabotaggi antinucleari, Chernobyl era una sconosciuta località della pianura Ucraina. Allora,la salute già compromessa del Pianeta, non era ancora giunta agli attuali picchi di allarme e nessuno poteva immaginarsi le due guerre del Golfo, i conflitti balcanici ed i “bombardamenti umanitari” di Jugoslavia, Irak e Afghanistan.
L'affermazione del Pensiero Unico di questo sistema di dominio tossico-industriale ha mosso in questi ultimi 30 anni passi da gigante,forte dell'alta tecnologia, del monopolio energetico, alimentare, e della totale dipendenza dai perversi e capillari meccanismi dell'economia di mercato.
Milioni di individui dopo sanguinose guerre etniche e tribali oppure privati,a causa di scellerate politiche economiche liberiste, dei più elementari bisogni di sussistenza,sono oggi costretti a travagliati esodi verso i cosiddetti paesi benestanti della” nostra” Eurolandia. La globalizzazzione crea disoccupati, precari e profughi, alimentando guerre tra poveri e politiche xenofobe e razziste mentre l'industrializzazzione forzata di paesi come Cina e India espelle continuamente ogni anno milioni di contadini dalle loro terre.
Aumenta la dipendenza dal Progresso industriale, diminuisce la nostra libertà e capacità di autodeterminazione e avanza soltanto la sistematica distruzione ecologica di un Pianeta che non potrà tollerare ancora per molto i nostri folli ritmi di sviluppo.
Questa critica, radicalmente ecologica, antiautoritaria e anticapitalista, è stata la molla che trent”anni fa ha mosso il pensiero e l”azione di Marco. Una ribellione che ha attraversato questi decenni con carcere, fuga,latitanza e nuovo carcere, nella prospettiva di negargli ogni futura libertà per aver sputato nella tiepida brodaglia tossica di questa democrazia da operetta.
Resta il carcere per Marco e per tutti i ribelli e rivoluzionari che non hanno svenduto la loro dignitosa identità contro questo sistema fondato sulla morte per inquinamento,omicidi bianchi sul lavoro, disperazione, incidenti stradali, malattie cancerogenee...
E una triste e amara realtà che ogni giorno che ogni giorno può solo alimentare illusioni di felici consumi all'ombra dell'indifferenza,in un mondo che sta andando a pezzi.
Contrastare i Poteri Forti, la cultura della speculazione privata ai danni della comunità,riprendere le forme solidali del mutuo appoggio e della rivolta è indispensabile per uscire dalle pericolose gabbie sociali costruite con la complicità e la rassegnazione della moltitudine.
MARCO DEVE USCIRE DALLA GALERA e rivendicare oggi la sua liberazione significa continuare la critica contro questo sistema tecno-industriale, consapevoli del suo totale fallimento ecologico e sociale.

ALPI in RESISTENZA per l'ecologia sociale
Sondrio, 4 Agosto 2009
f.i.p via C.Battisti 39, Sondrio


INNSE: APPUNTI DI UNA LOTTA
È stata in prima pagina, ne parlano tutti i telegiornali, tutta l’Italia ha visto la foto con i quattro operai INNSE sul carro ponte della loro fabbrica, tuta blu, casco giallo e muso duro. “Il simbolo della crisi”, ha scritto qualcuno. Ma quale crisi?
Quella economica che tutti credono che sarà passata fra un anno o due? O piuttosto la crisi di un sistema economico che ormai è fallito. Un sistema economico e sociale basato sullo sfruttamento del lavoro salariato. Un sistema che permette la produzione soltanto fino a quando aumenta il capitale.
La INNSE ha svelato la causa dell’attuale crisi con tutte le assurdità di un sistema economico distruttivo: una fabbrica con una maestranza qualificata e specializzata va chiusa per il semplice motivo che il capitale del suo padrone aumenta di più con la demolizione delle macchine che con la produzione.
La legge dello Stato borghese, garantendo la proprietà privata, permette al proprietario la rottamazione delle macchine, con la conseguenza assurda che lo Stato protegge con le forze dell’ordine la distruzione della base economica dei suoi cittadini. Lo Stato dei padroni, quindi, non garantisce soltanto, come una volta, lo sfruttamento del lavoro salariato, ma persino la demolizione dei mezzi di produzione dei salariati.
Ecco perché è fallito il sistema economico basato sullo sfruttamento del lavoro salariato: una volta, quando gli operai scioperavano, l’esercito proteggeva i crumiri per imporre la continuità della produzione, mentre oggi alla INNSE, un esercito di polizia impone la fine della produzione che è stata portata avanti dagli operai senza padrone e contro la sua volontà.
Ma ce n’è di più. La INNSE ha anche svelato, per chi l’avesse dimenticato, che lo Stato non protegge i suoi cittadini, ma soprattutto la proprietà privata, cioè il capitale. Questo non è niente di nuovo, la novità consiste nel fatto che la classe padronale, pur avendo perso ogni interesse alla produzione industriale, usa le Istituzioni statali per la spartizione tra di loro della ricchezza prodotta in passato. Se non fosse così, come si spiega il fatto che un patrimonio industriale come la INNSE è stato svenduto per un prezzo simbolico di 700.000 Euro ad un rottamaio speculatore come Genta? Un rottamaio che ora rivendica il suo diritto da proprietario per realizzare il lucro, smantellando e vendendo i macchinari pezzo per pezzo. Dapprima, lo Stato ha organizzato la svendita della INNSE, adesso garantisce con le forze dell’ordine il suo smantellamento, garantendo la proprietà privata e impedendo la continuazione di una produzione. Piuttosto che permettere a 50 famiglie di guadagnarsi il pane tramite questa produzione, lo Stato dei padroni li costringe a vivere delle elemosine chiamati “ammortizzatori sociali”.
Quando una classe dominante non permette più a un numero crescente della società di nutrirsi da solo, è giunto il momento di rovesciarla. I quattro operai della INNSE sul carro ponte non sono tanto “il simbolo della crisi”, ma piuttosto il simbolo del suo superamento. Poiché, questi operai dimostrano che si può lottare, che la crisi non è un destino da sopportare come un fenomeno naturale, ma invece il risultato di un sistema economico che va superato. La INNSE è l’esempio come va affrontata la crisi: invece di subire passivamente ulteriori tagli di salario, aumenti dei ritmi e degli orari di lavoro, licenziamenti e chiusure di fabbriche, gli operai devono diventare i protagonisti del proprio destino. Gli operai della INNSE hanno portato la prova che è possibile ribellarsi anche essendo in pochi. 50 operai che sfidano la prepotenza padronale e statale trasformatasi in impotenza, quando i quattro, eludendo un assedio permanente di 500 sbirri, hannoconquistato il carro ponte della loro fabbrica.
Guardando la foto dei quattro operai INNSE, tanti altri operai che si chiederanno: Perché loro si ribellano e noi no? Perché lasciarsi portare al macello come dei buoi senza almeno aver tentato di lottare? Perché non facciamo anche noi come gli operai della INNSE? Da quando c’è l’assedio militare alla INNSE, si sono verificati almeno altri tre esempi di ribellione operaia: invece di andare in ferie, gli operai della Ercole Marelli a Sesto San Giovanni hanno occupato la fabbrica, un altro presidio di fabbrica c’è alla Manuli di Ascoli Piceno nelle Marche. «Siamo l’INNSE della Toscana», dicono gli operai della Bulleri Brevetti di Cascina che hanno bloccato la fabbricacon un presidio permanente davanti ai cancelli. Comunque finisca la lotta alla INNSE, o con la ripresa produttiva o con la chiusura definitiva imposta dalla repressione statale, una cosa è certa: è valsa la pena di resistere tanti mesi, e di passare tanti giorni e tante notti in cima di una gru, perché questa lotta ha il potenziale per diventare il principio di una lotta operaia che si estende sempre di più, diventando finalmente una lotta di classe contro classe per rovesciare questo sistema corrotto e marcio fino alle ossa.
Giù le mani dalle Officine! Giù le mani dalla INNSE! Che questo grido di battaglia degli operai delle Officine di Bellinzona e della INNSE diventi la parola d’ordine di tutti gli operai e lavoratori!

Da «Operai Contro», n. 591, 2009, venerdì 14 agosto 2009
www.operaicontro.it
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INNSE: arriva la repressione
Stanno arrivando a diversi sostenitori della nostra lotta dei provvedimenti con multe da 2.500 a 10.000 euro per il blocco della tangenziale avvenuto il giorno 2 agosto, il giorno in cui l'INNSE era presidiata da più di 300 poliziotti e Genta aveva iniziato a smontare il macchinario. Lo riteniamo un colpo basso contro una mobilitazione che, sostenendo l'iniziativa diretta degli operai, ha portato al risultato che tutti conosciamo.
Come insieme abbiamo resistito allo smantellamento della fabbrica, assieme reagiremo a questa azione intimidatoria. Al presidio stiamo raccogliendo tutti i provvedimenti, fateli pervenire immediatamente. Stiamo preparando una grande assemblea pubblica per decidere le iniziative di risposta.

Milano, 4 settembre 2009
Gli operai della INNSE


FORUM AMBROSETTI: MERCANTI DI CRISI
Anche questo settembre a Cernobbio, presso Villa d’Este, The European House-Ambrosetti organizza l’ormai consueto forum di consulenza alle organizzazioni pubbliche e private, nazionali ed internazionali, durante il quale personaggi dell’economia e della politica si ritrovano per concordare e decidere le linee guida della politica economica.
Senza nessuna delega, ma solo contando sui loro privilegi e sulle loro autorità, questi personaggi da più di 30 anni si arrogano il diritto di concordare strategie economiche che puntualmente si tramutano in guerre, imperialismo e sfruttamento.
Anche quest’anno, la Ambrosetti si ostina a chiamare il suo workshop con il suggestivo titolo: Lo scenario di oggi e di domani per le strategie competitive. Sentire parlare di strategia competitiva come soluzione a quella che sembra essere la più grande crisi del capitalismo, ci lascia molto perplessi. Gli stessi che hanno sempre guadagnato per mezzo di questo sistema, gli stessi che hanno inventato strumenti finanziari di ogni tipo per creare ricchezza dal nulla, ora propongono le ricette per uscire da questa situazione, preoccupandosi che a farne le spese siano sempre le fasce più deboli della società, private anche del più minimo stato sociale, e sempre più precarizzate e ricattabili.
Sabato 5 Settembre anche noi faremo sentire la nostra voce, il nostro dissenso. E lo faremo davanti a uno dei più infami strumenti del capitalismo: la banca centrale. La Banca d’Italia, quella che trasmette (e decide, con le altre banche centrali europee) la politica monetaria, il cui principale obiettivo è far sì che il castello di carta su cui si regge questo sistema rimanga in piedi. Quella stessa che simboleggia perfettamente la nostra economia, se si pensa che i padroni di questa istituzione sono le stesse banche che dovrebbe controllare, e da cui dovrebbe difenderci.
Saremo in piazza perché chi decide delle nostre vite inizi ad assaggiare quello che sicuramente sarà un autunno carico di lotte e rivendicazioni, perché questo impianto non va solo modificato. Va cancellato radicalmente.
LA VOSTRA CRISI, LA NOSTRA RABBIA!
SABATO 5 SETTEMBRE 2009, presidio contro il FORUM AMBROSETTI
15:00 Via Pietro Boldoni - Como

Gruppo Politico Territoriale
gptcomo@live.it


Sulla lotta degli insegnanti
Ormai da diversi mesi gli insegnanti di tutta Italia hanno iniziato a informarsi, mobilitarsi e protestare con presidi, manifestazioni e sit-in per affermare la loro contrarietà ai tagli e alla "riforma" della scuola pubblica statale, nel generale silenzio di partiti, sindacati e media.
Ma è oggi, alla vigilia del nuovo anno scolastico, che il durissimo attacco sferrato alla scuola pubblica e ai lavoratori statali comincia a mostrare i suoi effetti devastanti. La legge 133 ha cessato di essere un numero e si sta traducendo in decine di migliaia di disoccupati. Inoltre, essa continuerà a mietere vittime per altri due anni, poi sarà la riforma Gelmini a continuare il massacro sociale, fino all'espulsione dal lavoro di 200 mila uomini e donne. In più rimane la minaccia del PDL Aprea, giunto nel mese di luglio 2009 alla sua quinta stesura, che prevede la possibilità di trasformare le istituzioni scolastiche in fondazioni di diritto privato e sostituisce il Consiglio di Istituto con un Consiglio di Amministrazione aperto a membri esterni, affidando, così, al preside-manager il compito di assumere i lavoratori con gli evidenti rischi di clientelismo e di minaccia alla libertà di insegnamento.
Oggi gli insegnanti si stanno mobilitando in tutta Italia contro la precarietà di vita e di lavoro e in opposizione ad un'idea di scuola aziendalista, produttivista e classista, volta a formare non futuri cittadini consapevoli, ma lavoratori precari facilmente ricattabili e sfruttabili.
- licenziamento in massa di docenti (16.500) e personale ATA (7.000) con il taglio di 50.000 cattedre in tutta Italia;
- svuotamento dell'offerta formativa, attualmente già scarsa a causa della mancanza di una continuità didattica;
- aumento del precariato (verranno immessi in ruolo solo 8.000 dei 200.000 precari della scuola);
- innalzamento del numero di alunni per classe (fino a 33) con il conseguente inevitabile peggioramento delle condizioni di apprendimento oltre che di sicurezza;
- impossibilità di sostituire i docenti assenti a causa della mancata assunzione di nuovo personale;
- cancellazione di tutte le sperimentazioni a causa del taglio degli insegnanti tecnico-pratici;
- tagli al personale addetto all'istruzione e all'assistenza degli studenti disabili;
Si tratta dell'ennesimo escamotage con cui governo e padroni intendono smantellare la scuola pubblica (7,8 miliardi in meno) e finanziare le scuole private, in particolare quelle confessionali, accollandone i costi non soltanto ai lavoratori che stanno perdendo il lavoro, ma anche agli studenti, alle loro famiglie e in ultimo a tutta la società che dovrà pagare un servizio che dovrebbe essere pubblico, di qualità e gratuito per tutti.
I lavoratori dicono NO a tutto questo e dicono NO al contratto di solidarietà proposto dalla Gelmini. Una sorta di ammortizzatore sociale della durata di 8 mesi (12 per chi ha più di 50 anni) e che riguarderà solo una minima parte dei precari che si renderanno disponibili a coprire brevi supplenze. Non è prevista la facoltà di rifiutarsi se non per gravi ragioni ad oggi non precisate. Nei periodi di insegnamento l'indennità sarà pari allo stipendio base e durante il periodo di inattività l'assegno di disoccupazione sarà pari a 600 euro netti. Dall'anno prossimo nemmeno questi.

Milano, settembre 2009