indice n.58

Contro la Guerra della NATO in Libia
La NATO sta liberando l'Africa dagli africani!
Adesso in Libia l'Italia bombarda più di tutti gli altri
Tunisia: bruciati nella tendopoli innalzata nel deserto
Cariche e incendio all’interno del CIE di S. Maria Capua Vetere (ce)
Trapani: tutto pronto a Milo per il terzo cie della città
il nuovo decreto Maroni anti-immigrati
Bologna: SOTTO LE MURA DEL CIE DI VIA MATTEI
Lettera dal carcere di Asti
lettera dal carcere di pescara
sul carcere di monza
lettera dal carcere di Saluzzo (cn)
Lettera dal carcere di Poggioreale (na)
Lettera dal carcere di Siano (cz)
Gigi Fallico: 15 giugno, tutti in tribunale
Resoconto sulla mobilitazione del 18 giugno a L’Aquila
Lettera dal carcere di Como
Lettere dal carcere di Opera (mi)
lettera dal carcere di Vercelli
milano: Resoconto del presidio attorno a S. Vittorela lotta nelle carceri
como: sul presidio del 29 giugno sotto il carcere
roma: sulla giornata di mobilitazione sotto le carceri
Lettera dal carcere di Carinola (ce)
lettera dal carcere di bologna
NUOVI ARRESTI A FIRENZE
Comunicato di solidarietà per Antonella, Paolo e Ivano
Sardegna: sulla lotta contro il Poligono Interforze
DUE PAROLE SULLA CASERMA MILITARE IN PROGETTO A NUORO
Afghanistan: Perché i civili vengono uccisi?
Un resoconto dalla mobilitazione del 3 luglio in Val di Susa
lettera dal carcere di spoleto
Perquisizioni all'alba contro i NoTav
Perquisizioni ed arresti in merito agli scontri con Casapound a Cuneo
la spezia: APRE CASAPOUND FERMI E DENUNCE
LA SCINTILLA NEL VENTO: Solidarietà per Petone e Fede
catania: La casa è di chi l’abita, la terra di chi la lavora...
Cortemaggiore (pc): Report dallo sciopero alla Ceva logistica
Fincantieri: la lotta paga, ma non finisce qui
manovra finanziaria, accordo contrattazione


Contro la Guerra della NATO in Libia
Circa 8 anni dopo l'avvio della massiccia campagna menzognera sostenuta con accanimento per mesi dai media occidentali in preparazione della guerra contro l'Irak, USA, Francia e Inghilterra hanno ripetuto un atto di aggressione imperialista.
Le forze armate dei tre stati a partire dal 19 marzo 2011, sotto il mantello dell'umanesimo, bombardano la Libia. La motivazione esposta dai tre stati per il loro attacco militare origina dalla presumibile sicurezza dei civili messa a repentaglio dagli scontri armati fra le truppe governative di Gheddafi e le bande dei ribelli.
La stampa locale, come in occasione di tutte le guerre del passato, per esempio in Kossovo, Afghanistan e senz'altro in Irak, anche questa volta diffonde notizie sulle brutalità di ogni specie del dittatore diabolico e dei suoi sgherri. L'aiuto propagandato è diretto ad un movimento di liberazione "progressista", il quale, vien detto, vuole liberare il paese in nome della gran parte della popolazione; questo movimento è osannato senza tante spiegazioni, mentre, allo stesso tempo, in Bahrain la popolazione civile viene massacrata dall'Arabia Saudita il più importante alleato dell'occidente nella regione. In fondo, anche in questi casi, la prudenza è d'obbligo e non bisogna mai dimenticare di quali menzogne sempre si servono i guerrafondai.
Nel corso dei 42 anni di dittatura Gheddafi per l'occidente si è trasformato da oggetto d'odio in importante partner per la cooperazione.
Nel 1969, al tempo dell'abbattimento della monarchia di re Idriss, Gheddafi è stato persino portatore di speranza per tanta parte della sinistra in Libia e all'estero. Quel colpo di stato in Libia venne percepito come un atto di decolonizzazione. Gheddafi chiuse tutte le basi militari straniere esistenti allora in Libia, fra cui la gigantesca base aerea USA di Wheelus, nazionalizzò l'industria petrolifera, rifiutò l'integrazione nel mercato mondiale dettata dagli interessi delle società occidentali e introdusse riforme sociali di ampia portata. Muammar Al Gheddafi venne così accettato come rivoluzionario e liberatore. L'odio dell'occidente nei suoi confronti era un fatto sicuro. L'occidente tentò con varie sanzioni, fra cui molteplici embarghi, di mettere in riga Gheddafi. Lui agiva su di un piano geostrategico in cui giunse a solidarizzare con gruppi politici europei (IRA) a cui fornì anche armi. In ragione di questi rapporti la Libia finì sulla lista dei cosiddetti "stati canaglia" stesa da USA e Unione Europea (UE) e attraverso questa pressione venne spinto, sul piano internazionale, nell'isolamento.
Negli ultimi anni, sulla base dei vasti mutamenti politici ed economici, la Libia è divenuta in Nordafrica come anche in Europa un significativo partner commerciale per l'UE e gli USA. L'economia degli USA e innanzitutto dell'Europa non può rinunciare ai giganteschi giacimenti di petrolio e gas (i più grandi dell'Africa) esistenti in Libia. Le porcherie politiche interne (disprezzo dei diritti umani, stato di polizia, dittatura) non hanno giocato nessun ruolo; le premesse della classe dominante erano fondate sul petrolio (economia) assieme agli aspetti della politica sui profughi. Per riuscire a realizzare quelle premesse con una ampia certezza, USA e UE sottoposero Gheddafi ad una "campagna di risocializzazione" e cancellarono la Libia dalla "lista dei terroristi". Gheddafi prese a viaggiare per l'Europa, visitò diversi stati, strinse la mano a capi di governo e contemporaneamente concludeva accordi economici miliardari. Nemmeno due anni fa l'ex "ribelle" sembrava purificato e diventato un partner commerciale affidabile.
All'euforia fece rapidamente seguito una grande disillusione. Su Gheddafi non si poteva più fare affidamento. Il capo della rivoluzione libica Muammar Al Gheddafi nel 2009 di fronte alla caduta del prezzo del petrolio compì un passo insolito. Nel corso di un incontro a Tripoli con il re di Spagna Juan Carlos, espose il proposito di statalizzare gli impianti delle società petrolifere internazionali nel suo paese. Quando nel 2009 effettivamente statalizzò le "proprietà" della società petrolifera canadese Verenex operante in Libia, il malumore fu grande come viene dimostrato dal seguente resoconto pubblicato quell'anno in una rivista del settore: "Se la Libia può minacciare la nazionalizzazione della proprietà privata; se gli accordi già sottoscritti vengono riveduti per ingrossare le entrate (della Libia) o per strappare un 'tributo' alle società che vogliono lavorare ed investire qui […] allora viene rifiutata la sicurezza alle società che necessitano di investimenti di lungo periodo […] La Libia ha trascurato di predisporre una piattaforma stabile. Un piccolo particolare però dalle conseguenze di ampia portata"!
Dal punto di vista dell'industria petrolifera l'insurrezione offre dunque la possibilità di cambiare il regime, tanto più in una situazione di cui Gheddafi non sembra più essere padrone. Senza l'insurrezione si poteva tirare avanti con Gheddafi, ci si poteva arrangiare in qualche modo: questo non è possibile con una guerra civile e disordini incessanti, che mettono in pericolo non soltanto l'approvvigionamento del petrolio, ma anche il "transito dei profughi". Addirittura non si vuol permettere che in Libia si stabilisca un governo che abbia più a cuore il benessere della popolazione di quello delle élite complici dell'occidente. Anche se il movimento dell'insurrezione certamente non è composto soltanto da gruppi progressisti, la sola possibilità che questi gruppi riescano ad imporsi, è vista dall'occidente alla stregua di uno scenario dell'orrore che deve assolutamente essere impedito.
Le condizioni economiche e di conseguenza anche quelle sociali della popolazione libica sembrano essere la causa originaria degli scontri in corso.
Il lungo isolamento internazionale, come anche il processo di trasformazione dell'apparato statale libico in stato capitalista, il quale cerca con forza di raggiungere per mezzo della propria industria di fondo (il petrolio) una migliore posizione commerciale sul mercato mondiale, ha impedito ad una grossa parte della popolazione di avere una parte della ricchezza economica. La miseria contrassegna le condizioni di vita di una parte non trascurabile di popolazione. La disoccupazione giovanile è collocata attorno al 40-50%, il livello dell'istruzione continua a scendere, lo spazio abitativo ragionevole diventa sempre un privilegio. Oggettivamente esistono, come già menzionato, molteplici ragioni per attaccare il regime criminale capitalista di Gheddafi ed una parte non piccola della gente scesa nelle strade vuole dare piena legittimità alle proprie richieste rimaste insoddisfatte.
Nonostante ciò sembra relativamente difficile inquadrare i "rivoltosi", cioè le forze organizzate e armate sul fronte, dal punto di vista politico e ideologico e di conseguenza sviluppare con loro un rapporto. Il governo di transizione a Bengasi è indefinibile al pari delle numerose bande ribelli, alla cui direzione in gran parte si trovano vecchie élite insofferenti verso il regime e persino monarchici. Dall'enorme dipendenza delle bande dei ribelli combattenti e dei loro rappresentanti politici dai lanci aerei militari della NATO, emerge che la stessa NATO non sosterrà incondizionatamente gli "insorti". Ciò non rappresenta un grosso problema per tanti gruppi interessati soltanto a giocare in patria il ruolo di reggicoda degli USA e dell'UE.
Detto questo bisogna in ogni caso fissare che il regime ora dominante in Libia non può in nessun modo essere sostenuto dalla sinistra radicale. Gheddafi è un criminale e lo stato libico agisce in spregio della persona. Inoltre, va detto che le azioni militari imperialiste della NATO sono totalmente da respingere. La NATO non è un'arma neutrale, tanto riguardo a chi decide al suo interno e contro chi essa si indirizza. Se adesso i Verdi, Obama, Merkel [cancelliere della RFT, Ndt] o Bush istigano alla guerra, la NATO non opererà mai indipendentemente da o contro gli interessi economici dell'occidente e sarà sempre il suo pioniere sanguinario. Anche stavolta in gioco non c'è assolutamente la sicurezza della gente. La guerra viene condotta unicamente sulla base di ragioni economiche, vale a dire, geostrategiche e non porterà nessun tipo di miglioramento alla maggioranza assoluta della popolazione.
Particolarmente nauseante è l'istigazione alla guerra espressa dai maggiori partiti. Mentre il governo federale cerca ancora di ingannare gli elettori con un'astensione dall'intervento militare e per dare certezza agli aiuti umanitari, SPD (partito socialdemocratico) e Verdi propagandano apertamente la guerra d'aggressione. In un modo o nell'altro nel prossimo futuro faremo tempo a vedere come tutti i rappresentanti delle frazioni del capitale tedesco e europeo, con il sostegno dei mass-media preparono moralmente e sensazionale altri interventi in Libia o altrove.
Per acquisire realmente un miglioramento in Libia è necessario che là si affermino le forze coscientemente progressiste e realmente socialiste, dunque ostili all'imperialismo e che vedano concretamente il sostegno della sinistra occidentale.
Per stoppare i massacri dei guerrafondai è necessario rendere pubblici qui, su tutti i piani e con tutti i mezzi, i crimini umanitari della NATO assieme alle molteplici azioni dei suoi alleati nella politica e nella stampa. Per creare pace e sicurezza sociale a tutti gli esseri umani è necessario spazzare via il capitalismo in tutto il mondo, come pure per iniziare la costruzione di un ordine sociale comunista.

25 aprile 2011
Organisierten Autonomie di Norimberga, da de.indymedia.org/2011/04/305800.shtml


La NATO sta liberando l'Africa dagli africani!
A giudizio degli Stati Uniti e dell'Europa, sembrerebbe che gli africani non hanno diritto di parola e di voto su quanto succede in Africa. Il presidente sudafricano Jacob Zuma ha fatto un secondo viaggio in Libia, a nome dell'Unione Africana, alla ricerca di un esito diplomatico alla guerra della NATO contro il governo di Muammar Gheddafi. Esattamente come nella precedente missione per il mantenimento della pace dell'Unione Africana, all'inizio di aprile, il colonnello Gheddafi ha accettato il piano di pace. E anche prima che i cosiddetti ribelli e i loro capi statunitensi ed europei si rifiutassero di prendere in considerazione il cessate il fuoco.
Come è risultato ovvio fin dall'inizio di questa “farsa” umanitaria, i Grandi Padri Bianchi dell'Europa e la “mascotte di Wall Street” degli Stati Uniti, come hanno chiamato Obama, avranno soddisfazione solo con il cambiamento di regime in Libia. E al diavolo tutto ciò che pensano gli africani!
Presto gli euro-statunitensi non mancheranno di dimostrare lo stesso disprezzo per i loro attuali alleati nordafricani, che stanno a Bengasi, che hanno la pretesa di dirigere la “rivoluzione” contro Gheddafi. Ma questi ribelli hanno perso la loro credibilità nello stesso momento in cui hanno deciso di trasformarsi in truppe terrestri per l'invasione neocoloniale del Nord Africa. I rivoluzionari lottano contro il Potere. La banda di Bengasi altro non rappresenta che dei “peones” dell'imperialismo, che non hanno alcuna credibilità come rivoluzionari. E' una guerra imperialista, scatenata con obiettivi imperiali. I ribelli preferiscono trasformarsi in mascotte dell'imperialismo che aspettano come miserabili piccoli “Gunga Dins” (portatori d'acqua dei britannici in una cintura dello stesso nome, ndt) che i britannici e i francesi arrivino con elicotteri da combattimento per bruciare e assassinare i loro compatrioti.
La NATO impartisce ordini ai suoi accoliti libici come se fossero bambini. La NATO “ha emesso recentemente istruzioni” perché i ribelli non si spingano più in là di certi punti nel deserto, affinchè non entrino nei campi della morte che i ricchi padri bianchi – più Obama – preparano per incenerire i soldati del governo libico. Naturalmente i ribelli faranno esattamente quello che gli si dirà, dal momento che questa non è una rivoluzione. Ma piuttosto la Libia è la linea avanzata della controrivoluzione europea e statunitense. La catena di comando parte da Parigi, Londra e Washington. Bengasi si è trasformata nell'avamposto coloniale che era quando comandavano gli italiani. Solo ora, nel XXI Secolo, tutti insieme, europei e statunitensi, arrivano per soggiogare dei libici, che sorridono e si spellano le mani per applaudire i colonizzatori che tornano a salvare l'Africa dagli africani.
E per questo ha perfettamente senso che una proposta di pace del presidente del Sudafrica, il paese più potente e ricco dell'Africa Nera, che opera per conto dell'organizzazione che comprende tutte le nazioni del continente, conti meno che niente nel contesto imperiale attuale. L'Occidente invita il presidente sudafricano ad aiutarli a mettere in riga i paesi africani più turbolenti, ma Zuma e l'Unione Africana non sono autorizzati a interferire nelle guerre imperialiste nel continente. E' una “cosa da bianchi”.
Quando arriveranno gli elicotteri occidentali (previsione che si è puntualmente avverata, ndt), saranno acclamati dai ribelli di Bengasi come se avessero ottenuto qualcosa. I “Gunga Dins” dovranno studiare attentamente questi elicotteri e il loro tremendo potere distruttore. Perché un giorno potrebbero rivolgersi contro di loro. USA ed Europa non hanno la minima intenzione di permettere che i libici governino la Libia. In fin dei conti: perché gli occidentali dovrebbero trasferire tutto questo petrolio a un pugno di burattini locali che non sono neanche in grado di fare la guerra da soli.

13 giugno 2011
da www.blackagendareport.com, in resistenze.org


Adesso in Libia l'Italia bombarda più di tutti gli altri
Nell’articolo de La Stampa dell’11 giugno emerge il ruolo preminente ormai assunto dall’Italia nella guerra che da mesi la NATO sta conducendo contro la Libia. Pare che addirittura il 30% degli attacchi sia portato avanti dalla "nostra" macchina militare. E, già da un po', non ci limitiamo a sorvolare i cieli libici in missioni di ricognizione o di oscuramento di qualche radar; ora sganciamo bombe, rendendoci colpevoli in prima persona dell'omicidio di tanti libici che stanno soccombendo sotto la pioggia di fuoco quotidianamente scatenata dalla NATO. Ciò che dovrebbe destare preoccupazione e – perché no? – sgomento lascia invece evidentemente soddisfatto Lao Petrilli, autore dell’articolo. L’Italia passa infatti dal ricoprire un ruolo marginale ad uno di primo piano.
Se all’inizio si è trovata costretta ad inseguire l’iniziativa franco-britannica si può ora gioire del fatto che la “nostra bella Italia” abbia finalmente ritrovato il posto al sole che merita. Anzi, per citare le parole di una delle fonti utilizzate dal giornalista de La Stampa, “naturale”. Perché non dobbiamo dimenticare che “parliamo di una campagna militare che si svolge in un teatro che è il nostro cortile di casa”. In effetti, sebbene qualcuno potesse averlo dimenticato o fatto finta di non capire, l’Unione Europea (e in questo caso l’Italia in particolare) ha tutta l’intenzione – e purtroppo siamo già ben al di là delle semplici intenzioni – di trattare la sponda Sud del Mediterraneo esattamente come gli USA hanno trattato e continuano a voler trattare il subcontinente americano, un "patio trasero" in cui non è ammesso altro se non l’allineamento al fine supremo dell’imperialismo: la continua ricerca di profitto.
Che questo si traduca in migliaia di morti (tra l’altro, sebbene gli organi di informazione non ne facciano quasi menzione, i bombardamenti della NATO sulla Libia stanno causando molte più morti che nelle fasi iniziali della guerra), in devastazioni e distruzioni, e che sia sempre più possibile un intervento di truppe di terra sembra importare poco a molti. Noi però siamo tra quei pochi a cui interessa molto e per questo continuiamo in questo lavoro di informazione (non può nemmeno dirsi di controinformazione dal momento che sulla guerra in Libia si preferisce il silenzio alla distorsione dei fatti!), cercando di piantare - per quanto possiamo - i semi di una opposizione al militarismo e all’imperialismo non solo statunitensi ma anche europei.

13 giugno 11
Collettivo autorganizzato universitario di Napoli


Tunisia: bruciati nella tendopoli innalzata nel deserto
Migliaia di profughi e migranti sub-sahariani sono bloccati nel lager di Coucha nelle vicinanze del confine con la Libia – in tanti fanno ritorno in Libia.
Choucha è uno dei quattro lager posti fra Ben Guardane e Ras Jdir sul confine, aperto, libico-tunisino. E’ stato innalzato dall’UNHCR (è l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati: United Nations High Commissioner for Refugees – Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), dalla Croce Rossa e dalla Mezzaluna Rossa il 24 febbraio 2011 immediatamente dopo l’inizio degli scontri armati in Libia. In prevalenza vi sono giunti egiziani e bengalesi. Là, in un territorio desertico attualmente 4-5 mila persone del Sub-Sahara, dell’Africa dell’est ed altri profughi provenienti da 30 paesi, devono vivere in quel luogo se vogliono la sicurezza dei visti necessari, se vogliono disporre di denaro e passaporti, se vogliono viaggiare all’interno della Tunisia. In realtà tutto questo però a causa della polizia tunisina, e dei controlli militari, è (quasi) impossibile.
Secondo l’UNCHR le persone abitanti la tendopoli, registrate come profughi o richiedenti asilo, sono circa 3.800, la cui gran parte vive lì da due anche quattro mesi. Questa situazione viene caratterizzata dal portavoce dell’UNCHR come “seconda cacciata”; essa colpisce soprattutto i profughi provenienti dai paesi in cui non possono far ritorno, ossia, Somalia, Sudan, Eritrea, Costa d’Avorio e Irak. Un termine a questo urgente ricovero nelle tende sabbiose, con infrastrutture completamente improvvisate e acqua sporca, non è all’orizzonte. Nelle ultime settimane dal lager hanno fatto ritorno in Libia già circa 700 profughi per imbarcarsi, nonostante ne conoscano i gravi pericoli, su un battello stracarico in direzione dell’Italia. Il rischio mortale viene accettato proprio in relazione alla situazione insopportabile e incerta esistente nel lager di Coucha. Secondo Firas Kayal, portavoce dell’UNCHR sul luogo, in tutto il mondo sono oggi possibili solo 900 accoglienze in un terzo stato sicuro. Di fronte a questo dato si fa avanti il bisogno di circa 6.000 persone. Questo numero appare assolutamente ridicolo se paragonato ai diecimila che hanno fatto ritorno nel paese d’origine, se paragonato, in particolare, ai circa centomila profughi di origine libica accolti molto bene in Tunisia, assistiti e in parte alloggiati in case private. I governi dell’UE finora, invece, hanno rifiutato di compiere il più piccolo gesto solidale a favore dei profughi.
Nella notte del 21 maggio le persone accampate nel lager di Coucha vennero nuovamente poste di fronte ad una tremenda acutizzazione della situazione, quando nella tendopoli è divampato un fuoco. Ben 21 tende sono andate in fiamme, quattro persone, fra le quali un neonato, hanno perso la vita. Connessi al panico conseguente all’incendio, sono esplosi adesso anche conflitti interni riguardanti il paese d’origine e la religione. Inoltre, l’incendio ha consolidato in numerosi profughi il senso dell’insicurezza e della disperazione e a mettere al primo posto la decisione di riprendere il cammino verso la Libia, nonostante i pericoli mortali; ma ha nache consolidato la prontezza alla protesta.
Di fronte a questa situazione disumana, in cui Tunisia e Egitto hanno sempre tenuto aperto il confine con la Libia, i profughi ed anche l’UNCHR attendono finalmente l’apertura dei confini e l’accoglienza anche in Europa.

24 maggio 2011
da de.indymedia.org/2011/05/308321.shtml


Cariche e incendio all’interno del CIE di S. Maria Capua Vetere (ce)
Alla fine è successo! Stanotte un incendio ha devastato le tende del campo di S. Maria Capua Vetere mentre la polizia inondava i profughi rinchiusi con i micidiali lacrimogeni CS! Una situazione ormai del tutto inaccettabile e inumana che provoca l’insofferenza, la rabbia e la disperazione dei rifugiati tunisini, che da quasi due mesi continuano a vivere ingabbiati senza colpa alcuna in questa tendopoli esposta al sole e alla pioggia, priva di qualunque minimo requisito di vivibilità e di dignità, ma anzi oltre il limite della tortura psico-fisica!
Una condizione ancora più esasperata dopo i dinieghi in primo grado delle richieste di protezione internazionale da parte della commissione di Caserta (protezione riconosciuta invece per decreto a quelli che erano giunti appena pochi giorni prima in Italia. Cos’è cambiato in pochi giorni in Nord-Africa…!!?).
Ormai il CIE Andolfato è un girone dantesco. Negli ultimi giorni ci sono stati prima alcuni gravi atti di esasperazione e di autolesionismo con un profugo che è stato ricoverato dopo aver bevuto la candeggina e un altro che si è procurato ampie ferite col vetro dei bagni. Ancora stanotte un altro rifugiato ha ingerito del vetro! Per non parlare delle condizioni di vita umilianti e nocive: dopo la pioggia di pochi giorni fa i materassi si sono di nuovo e completamente inzuppati d’acqua (ricordiamo che non hanno più le reti e dormono tutti praticamente in terra) tanto che per protesta alcuni migranti hanno urinato sui materassi per rendere evidente l’umiliazione che subivano!
Infine l’isolamento: la preclusione a qualunque associazione indipendente di entrare, eccetto agli avvocati, ha dato i suoi frutti! Un interprete della Croce Rossa è stato infatti allontanato e risulta indagato dopo la denuncia di due rifugiati: avrebbe sottratto denaro (400 euro e un oggetto d’oro) in cambio del millantato inserimento in fantomatiche liste per il permesso di soggiorno!!
E poi stanotte! Secondo la ricostruzione di diversi rifugiati (alleghiamo registrazione di una telefonata fatta proprio mentre i fatti accadevano) la tensione è stata innescata quando uno dei reclusi ha saputo della morte di suo fratello in Tunisia e si è sentito male. Gli altri connazionali lo hanno condotto all’uscita della gabbia che circonda la tendopoli pretendendo che fosse curato fuori dall’Andolfato, ma quando hanno visto che la polizia lo trascinava per le braccia e lo maltrattava la tensione è comprensibilmente salita. A quel punto la polizia ha cominciato a caricare e soprattutto a sparare lacrimogeni a profusione per allontanare i migranti che protestavano e alcuni di questi lacrimogeni hanno dato fuoco alle tende! Un rischio che abbiamo più volte denunciato, visto che non è la prima volta che la scena si ripete. Diversi migranti sono poi stati ricoverati al pronto soccorso e lì incontrati anche dagli avvocati: alcuni erano in totale stato catatonico, secondo i medici, per lo shock e lo stress psico-fisico! Alle 4 del mattino, nel pieno del caos, è arrivato alla caserma anche il Questore di Caserta…
Al di là perfino della dinamica specifica è evidente sempre di più che l’Andolfato è una struttura degradante e pericolosa che umilia persone che cercano semplicemente la libertà, un rifugio, una vita migliore!
Il 20 giugno i giudici dovranno decidere l’ulteriore trattenimento di queste persone, dopo che nelle prime convalide è saltata ogni ordinaria misura di garanzia costituzionale in nome di un autoproclamata “emergenza”… Noi non vogliamo credere che si farà la follia di tenerle ad asfissiare a 40° nelle tende a luglio ed agosto! E non vogliamo arrivare a pensare che questi cento rifugiati diventino un capro espiatorio solo per giustificare la spesa di diversi milioni di euro che il ministero ha appena messo a bando per la gestione del centro fino alla fine di dicembre (il bando è proprio di questi giorni)….
Come denunciano le mobilitazioni del movimento antirazzista è necessario uscire da questo tunnel in cui si è infilato ogni minimo senso di umanità!

8 giugno 2011
Rete antirazzista campana, da www.napoliurbanblog.com


Trapani: tutto pronto a Milo per il terzo cie della città
Ci risiamo. Dopo Chinisia, Palazzo e Santa Maria, un altro nuovo centro di identificazione e espulsione è in arrivo. E toccherà di nuovo a Trapani. Per la città siciliana è il terzo cie, dopo il Serraino Vulpitta, aperto dal 1999, e il campo di Chinisia inaugurato un mese e mezzo fa. A differenza delle improvvisate tendopoli però, stavolta si tratta di una struttura appositamente progettata e costruita per la detenzione. E infatti visto da fuori ha l'aspetto di un carcere di massima sicurezza. Un muro di cinta in cemento armato corre lungo tutto il perimetro e lascia intravedere le sbarre gialle delle gabbie di ferro che dividono gli spazi interni. Dentro c'è posto per almeno 200 prigionieri. Alla sua costruzione si è lavorato per anni. La struttura è pronta da mesi, ma pare ci fosse un problema di allacciamento alla rete fognaria. Improvvisamente però deve essere stato risolto tutto, visto l'annuncio dato dalla Prefettura di Trapani lunedì scorso, 27 giugno, in occasione della visita del deputato Jean Leonard Touadi al cie di Chinisia. Milo aprirà a giorni, ancora non c'è stata nessuna gara d'appalto, ma con la scusa dell'emergenza, c'è da immaginarsi che la gestione sarà data provvisoriamente alla cooperativa Insieme, che a Trapani gestisce tutto quello che riguarda detenzione e accoglienza degli stranieri (il Cie Vulpitta, il Cie Chinisia, il Cara di Salina Grande e una serie di progetti Sprar) e che a livello nazionale è una delle colonne portanti di Connecting People, il consorzio più accreditato nella gestione di centri dei espulsione, insieme a Croce Rossa e Misericordie.Probabilmente al nuovo Cie di Milo saranno trasferiti anche i reclusi del  campo di Chinisia e parte di quelli del Vulpitta. Resta quindi da capire che ne sarà dei due vecchi cie di Trapani, se continueranno a lavorare in modo stabile o se invece saranno chiusi alla scandenza dell'appalto. O anche prima. Dopotutto già due dei tre nuovi Cie sono stati chiusi nel giro di poche settimane. Il Cie di Santa Maria Capua Vetere, a Caserta, gestito dall'Arciconfraternita di San Trifone e del Santissimo Sacramento, è stato svuotato e sequestrato dalla magistratura dopo l'incendio che l'ha distrutto lo scorso 8 giugno. Il cie di Palazzo San Gervasio invece, a Potenza, è finito al centro di uno scandalo dopo la pubblicazione su Repubblica di un video che mostrava le condizioni di detenzione e le violenze degli agenti delle forze dell'ordine, dopodiché è stato svuotato e chiuso una settimana fa, ufficialmente per permettere all'ente gestore - sempre Connecting People - di avviare i lavori di ristrutturazione. Ristrutturazioni che sono state finanziate dall'ordinanza del 21 aprile per un valore di 6 milioni di euro, soldi che, a giudicare dalle condizioni in cui versano le strutture, davvero non si capisce che fine abbiano fatto. 

4 luglio 2011
da fortresseurope.blogspot.com


il nuovo decreto Maroni anti-immigrati
"Il decreto approvato oggi dal Consiglio dei Ministri è importante perché dà attuazione a due direttive europee. Si trattava di un problema di interpretazione e noi - nel pieno rispetto della direttiva - abbiamo fornito questa interpretazione". E' quanto affermato oggi in Conferenza stampa a Palazzo Chigi dal ministro dell'Interno, Roberto Maroni.
Secondo il ministro, "L'interpretazione alla direttiva ci permette il prolungamento delle permanenze nei Cie dai 6 mesi attuali fino al termine massimo di 18 mesi, per consentire l'identificazione o l'effettiva espulsione".
Inoltre, secondo Maroni il decreto consente "di ripristinare l'espulsione coattiva immediata dei clandestini (la magistratura aveva previsto come unica possiblità per l'espulsione, il foglio di via, ndr). Espulsione - sottolinea - per i clandestini pericolosi per ordine pubblico e sicurezza, già espulsi o che violano misure di garanzie previste dal questore". "E introduciamo - ha proseguito - per la prima volta la possibilità di espulsione, in alcuni casi, anche per i cittadini comunitari".

17 giugno 2011
da www.redattoresociale.it


Bologna: SOTTO LE MURA DEL CIE DI VIA MATTEI
Dopo diversi mesi siamo riusciti a tornare sotto le mura del CIE di via Mattei a Bologna e a metterci in contatto con i reclusi.
Per il presidio indetto per domenica 5 la questura ha vietato di avvicinarsi più di 200 metri alla struttura e di usare l’amplificazione. Un gruppo di solidali ha allora anticipato a sabato la presenza sotto il CIE, riuscendo comunicare ai reclusi un numero di telefono utile. La reazione dentro è stata immediata e molto forte.
Le voci che da subito abbiamo sentito al di là della cornetta ci hanno parlato di una realtà come sempre disumana dentro le mura di quel lager: immediatamente le guardie hanno distrutto tutti i cellulari con videocamere; sono all’ordine del giorno i pestaggi e i sedativi nel cibo; molti dei reclusi sono addirittura in possesso dei documenti, magari in fase di rinnovo; tanti ci hanno raccontato come la routine per la maggior parte sia un costante rimbalzo fra CIE e carcere, cose che quasi non stupiscono più.
Gridavano “siamo come bestie qui dentro! Sei mesi qui sono un furto! Un furto alla vita!”
Nei giorni scorsi sono arrivati 55 nuovi “ospiti” dalla Tunisia, per il totale di una sessantina di detenuti maschi. Delle donne non siamo riusciti a sapere nulla. Un uomo è in sciopero della fame da 27 giorni.
Nel corso della notte tra sabato 4 e domenica 5 un gruppo di reclusi ha ammucchiato uno sull’altro dei tavoli accanto ad un muro alto circa 3 metri per tentare di scappare. L’intervento immediato delle guardie ha bloccato il tentativo di evasione, e poco dopo tutte le stanze della struttura sono state rese inagibili con l’uso di idranti da parte dei militari che hanno allagato materassi, vestiti ecc.
La mattina di domenica 5 giugno una cinquantina di solidali si è trovata al di fuori delle mura del CIE di via Mattei. La DIGOS ci ha immediatamente sequestrato un megafono, ma le nostre voci hanno continuato ad arrivare al di là delle mura e a raggiungere i reclusi. Recuperato un altro megafono abbiamo continuato a sostenere le battiture che i reclusi hanno fatto per due ore continuative, scandendo slogan e comunicando quello che stava accadendo fuori.
Dopo molti mesi in cui la comunicazione con i detenuti risultava impossibile, dopo gli arresti e le misure di allontanamento dalla città che hanno colpito molti di noi è stato importante riuscire a tornare sotto le mura del CIE e a riprendere i contatti. Chi sta oltre le sbarre ha la chiara percezione di quello che si muove fuori e la coscienza che siamo dalla stessa parte in una guerra permanente che vede sfruttati e solidali contro chi sfrutta e reprime.
La polizia arresta e allontana i compagni. Divide rapporti che hanno costruito lotte.
La polizia rinchiude, manganella gli immigrati imprigionati, tentando di isolarli nel silenzio e di stabilire distanze tra noi e loro.
LA LOTTA NON SI ARRESTA! RILANCIAMO LA NOSTRA SOLIDARIETA’ ATTIVA CON TUTTI GLI IMMIGRATI CHE SUBISCONO LA RECLUSIONE DI STATO E SI RIBELLANO AD ESSA!

8 giugno 2011
Anarchici solidali, da informa-azione.info


Lettera dal carcere di Asti
Buongiorno compagni, mi chiamo Uhadeni Joans sono un ragazzo marocchino, al momento mi ritrovo rinchiuso nel carcere di Asti. Ho letto il vostro opuscolo e sono d’accordo con tutto: che purtroppo questo sistema, sia per situazioni, che, per varie motivazioni non sono riuscito a cambiare.
La mia storia è lunga e difficile, comunque oggi mi ritrovo a pagare allo stato il mio debito, ma faccio questo con la conoscenza di un luogo che mi fa stare male, dove cresce l’odio fra il rammarico di tutte le cose successe. Il futuro è un’incognita, come quando sono arrivato in questo paese. Si va avanti senza calcolare le conseguenze. L’importante è campare e riuscire ad aiutare la famiglia, e poi, via eccoci qua a fare niente o veramente poco, perché ci sono pochi corsi; devi fare mille domandine per vedere l’educatrice, questo o l’altro devi aspettare.
Intanto la condanna è lunga e le nostre (condanne) non sono una priorità. Siamo reclusi, perciò si ha il tempo. Ma il tempo adesso va via, sono ancora giovane, purtroppo la mia famiglia è lontana e cerco di trovare uno spunto per ricominciare in un altro modo la mia vita qui in Italia. Non chiedo l’espulsione perché ho già scontato 4 anni e penso che questo mi deve servire da monito per lottare in un altro modo.
Vi scrivo nella speranza di una vostra risposta, e se magari fate dei colloqui, io ho bisogno di un appoggio e non so se voi potete aiutarmi. Mi congratulo con voi per quello che fate per noi, perché, per molti, noi siamo nessuno, solo extracomunitari pericolosi, senza un cuore, un’anima, una famiglia. Anche noi soffriamo e abbiamo una coscienza.
Spero in una vostra risposta.

31 maggio 2011
Uhadeni Jons v. Quarto Inferiore, 266 - 14030 Asti


lettera dal carcere di pescara
“Ai refrattari dei vari padiglioni delle carceri del mondo”
Ogni mattina, mi alzo presto, prestissimo (5:30), un’abitudine di questo sfottuto luogo che in 27 anni di frequentazione mi ha accompagnato anche nei risvegli da libero.
Ogni mattina automaticamente si perpetua il rituale di un risveglio astioso e velato da una sottile speranza. Speranza e speranze che il tempo e l’età hanno affievolito. 44 anni e una vita sempre in bilico tra libertà e galera. Il carcere è un produttore di rabbia, per lo meno è quello che succede a me. In 27 anni di frequentazioni forzate tra Italia, Spagna e Belgio, la mia permanenza in carcere non ha mai prodotto ravvedimenti e riabilitazione, al contrario sono sempre più incazzato. Non avendo nessun bavaglio culturale, la mia educazione, la mia cultura l’ hanno fatta la strada e la galera. Leggo molto e scrivo in quel che mi riesce.
Ricevo periodicamente libri, riviste, opuscoli e altro materiale, a parte qualche scritto degno di nota, il resto si dimostrano scritti che, pur ricchi di contenuto, tra le righe risulta inevitabile scorgere belati di modi/metodi più o meno adeguati di lotte contro il carcere e il sistema, di solidarietà verso partiti che con la loro politica riconoscono la legittimità del carcere, anche se di tanto in tanto, risvegliano il loro sentimento umanitario con pie iniziative, tese a decongestionare il carcere, auspicando la collocazione di qualche cesso in più, dei colloqui affettivi e qualche muro in meno, riempiendosi la bocca di diritti per i detenuti, diritti che, quantunque approdino tra le mura di un carcere, saranno sempre diritti incarcerati. Tutte iniziative, a mio parere, capaci solo di illudere i detenuti. Lotte democratiche, adeguate, sermoni di preti travestiti, proclami di rivoluzionari moralisti, di sdoganati di ogni sorta, che illudono, con i loro canti progressisti gli uomini e le donne in catene.
Chi conosce il carcere sa che l’autorità, i partiti e le varie associazioni hanno fatto proseliti nella popolazione reclusa, stanca ormai di battaglie mai iniziate e pensate solo quando qualche individuo laureato prova il morso delle catene. Io non voglio far proclami o suggerire a chi dare ascolto, non cerco né consensi né compagni, mi bastano quelli che ho.
27 anni vissuti da fuorilegge mi hanno fatto capire che essere fuorilegge è un percorso troppo feroce per accettare come compagni/e dei parassiti che si dilettano a parlare d’azione, che poi alla fine dimostrano i loro limiti morali di pecore travestite da lupi. Gli esempi non mancano tra i politici, i comuni e chi più ne ha più ne metta.
Io non ho nessun pensiero politico coerente che mi guida, solo la passione della ribellione, della rivolta, del rifiuto di ogni forma di coazione mi trascinano al raggiungimento della libertà individuale. C’è bisogno di questo e non di auspicare una libertà che non sappia fare a meno dell’istituzione carceraria, c’è bisogno di uomini e donne capaci di sollevarsi così in alto che la propria individualità finisca per confondersi con i limiti del pianeta e non di chi combatte il sistema per abbatterlo, ricreandone un altro forse peggiore, legittimando l’esistenza del carcere, riempiendolo nuovamente.
Discorso lungo, ma chi vuol capire capisce. Certo non mi dispiace se il carcere si decongestiona, se il carcere consegna dei miglioramenti di “vita” per i detenuti, ma il mio pensiero, la mia lotta non può fermarsi con il raggiungimento di questi obiettivi. Non voglio un carcere migliore, non voglio il carcere come istituzione, questo è il punto. E che nessuno mi venga a dire che il carcere è necessario, perché non è così.
Allora la mia solidarietà va incondizionata a tutti gli uomini e donne in catene che, mantenendo la dignità non barattano la propria libertà, calpestando quella di altri. Non voglio essere solidale con chi, pur essendo in catene, accetta e riconosca il trattamento correzionalista e non disdegna la delazione tra le mura dell’ufficio del comandante di turno, educatore ecc. Questa è gente che, oltre ad essere indegna, una volta fuori chiude il proprio vissuto di reclusione alla chiusura della porta carraia principale e sale sul carro della questura.
La coscienza di essere contro il carcere, in buona parte si crea al suo interno, subendo la detenzione e tutto quello che essa comporta; ma va proseguita e pianificata dall’esterno, attraverso la lotta reale. Vi sono tanti esempi perseguibili che in passato hanno dato risultati. Esempi informali, individuali, tutti praticabili a seconda dei propri mezzi e delle proprie capacità. Non sta a me dire come, l’importante è fare, senza pregiudizi morali, facendosi carico di una necessità che comporta rischi. Rischi che si affrontano e perfezionano solo attraverso l’esperienza.
Come detto, non cerco consenso al mio pensiero, ribadisco la mia solidarietà incondizionata a tutti quegli uomini e donne in catene e libere che sono contro il carcere e contro la società che lo giustifica. Ai politici e ai politicanti dico che, l’unico errore che commettono quando iniziano lo sciopero della fame per solidarietà ai detenuti, è quello di interromperlo. Un saluto ribelle e complice a tutti/e i/le refrattari/e nei vari padiglioni delle carceri del mondo.

2 giugno 2011
Emidio Paolucci, v. S. Donato, 2 - 65129 Pescara


sul carcere di monza
Qui di seguito proponiamo un’intervista fatta ad un ex detenuto del carcere di Monza. Le condizioni a cui questa testimonianza fa riferimento sembra che non siano affatto cambiate. Da testimonianze raccolte tramite terzi e in base quelle poche notizie che vengono rese note dai giornali locali, sembra che le condizioni siano peggiorate, sia per un cronico sovraffollamento sia per una carenza di servizi crescente. I dati sono realistici e confermati da fonti che gravitano attorno al carcere di Monza.
Fa riflettere il fatto che se le condizioni igieniche, sanitarie non vanno migliorando, nel corso di quest’estate che si preannuncia ancora più calda, oltre a rivolte si pensa che ci scapperà pure il morto.

La giornata nel carcere di Monza inizia alle 7.30, orario in cui arriva il carrello della colazione, subito seguito dalla raccolta della pattumiera. Dalle 9.00 alle 11.00 si può andare all’aria.
L’aria consiste in un cortile grande di 20 metri per 9 oppure 10 metri quella piccola. Ogni sezione ha la sua ora d’aria. In realtà non sono mai le 9 precise, quando si scende, e non si ritorna mai su alle 11 ma almeno tre quarti d’ora prima; poi sei nel cortile e giri di continuo e basta, non fai un gran che, ma meglio di niente.
Quando si ritorna su passa subito il carrello del mangiare: è l’ora del pranzo.
Il problema è che spesso il carrello si ferma a metà sezione, ognuna delle quali conta 25 celle, sia che parta dalla prima o dall’ultima e gli altri per avere il cibo devono urlare. Ma se urli ti fanno stare zitti, a meno che non ti trovi in cella con la persona giusta (conoscenti, paesani). Il problema del mangiare però, si sente molto di più alla domenica quando per il pranzo preparano poca roba (minestrone sempre minestrone!).
Per la cena invece ti devi arrangiare: se hai soldi puoi comprarti qualcosa, ma la maggior parte delle persone, che non hanno niente, rimangono senza cena… è per questo che l’estate scorsa si era scatenata la rivolta.
In cella puoi tenere il fornello da campeggio (se non c’è già in cella quando arrivi, te lo devi comprare di tasca tua) per cucinare, ma la roba te la devi comprare con lo spesino e costa un bordello: 50 euro non ti bastano nemmeno per una settimana. Oppure, se sei fortunato, ti portano da fuori qualcosa, ma solo scatolette sotto vuoto, carne cotta senza condimento, e prodotti così, ma solo quelle cose che non rientrano nello spesino.
Se ti si rompe qualcosa devi aspettare almeno un mese: anche se le forniture ci sono non te le danno. Ogni tre mesi arrivano le nuove forniture per i sanitari, per il vitto, ma nel magazzino non è che non ci siano, anzi, lo fanno apposta per crearti disagio o per farti una ripicca se ti sei comportato male, secondo loro.
Dopo pranzo, le 13.00-13.15, si va all’aria pomeridiana fino alle 14.45, quando si torna in cella perché c’è il cambio delle guardie. Dopo che si torna dentro, alle 16.00, passa la spazzatura e si può scegliere se andare in saletta oppure in socialità, dove tutta la sezione può andare. L’unica cosa, è che, a differenza delle altre carceri, in socialità in cella ci possono stare al massimo 5 persone e le celle sono chiuse e non aperte; quindi tu entri e il secondino richiude dietro di te la cella a chiave, perché ancora le celle sono manuali e non automatiche.
Dalle 16.30-17.30 si rientra in cella e ci si rimane fino all’indomani.
Alle 18/19 passa la cena. Da quel momento stai chiuso con i tuoi pensieri, nella tua cella 3×4, con altre tre persone se sei in sezione (quando la stanza è stata costruita solo per una persona) e, mano a mano che i detenuti aumentano, si aggiungono letti a castello e si mettono brandine a terra. Se invece sei in osservazione (e quella è la sezione peggiore) stai in sei per cella, con tre persone a terra, senza avere nemmeno lo spazio per muoverti; se tutti e sei stanno in piedi è un casino, per cui devi fare i turni per poterti muovere e anche per alzarti.
Poi quando vengono i politici nel carcere (mi ricordo che una volta sono venuti i radicali) gli fanno vedere l’aula colloquio, la falegnameria e la sezione più bella, cioè la IV, che è anche la più tranquilla, dove se chiedi una cosa all’appuntato questo te la fa avere. Quindi non vedono i reali problemi che ci sono dietro le sbarre.
Ci sono troppe cose che non funzionano, soprattutto a Monza. Per primo c’è il lavoro che è un problema forte: quattro persone riescono a lavorare nel carcere (lavori come scopino o porta carrelli) e dallo “stipendio” guadagnato ti tirano via una grossa fetta per la manutenzione del carcere. Ad esempio se sei definitivo prendi 90 euro e te ne tirano via 50 e prima di averli devi aspettare almeno 20 giorni, se va bene.
La chiamata telefonica dura 10 minuti (che in realtà non sono mai 10, ma 5/8) e per prassi devi portare il contratto del ricevente. Si ha diritto a sei ore di colloquio mensile: un giorno a settimana più il primo o il terzo sabato del mese.
Poi ci sono la biblioteca e la scuola di cui puoi usufruire in base al comportamento che tieni; per i libri puoi fare domanda, così come per andare in biblioteca, ma quando fai la domandina i secondini te la strappano, perché leggono “biblioteca” e dicono “che cazzo ci vai a fare in biblioteca?” .
In palestra ci vai solo una volta al mese e anche quella volta non è sempre garantita, dato che dipende dalle guardie che trovi e dall’umore che hanno.
La condizione sanitaria è pessima: se stai male devi aspettare almeno un mese prima che ti visitino e nel frattempo ti somministrano analgesici e tranquillanti (Aulin, Valium, Aspirina, Voltaren). Il problema è che te li danno anche se sei allergico a qualcosa contenuto all’interno di questi farmaci. Io, ad esempio, non posso prendere alcun tipo di antibiotico. Ai medici non interessa: ti danno il farmaco e ti dicono “prendilo”.
Per capire la situazione sanitaria basta pensare a quello che è successo ad Hassan Ghoia. Lui era nella IV sezione, e un giorno è stato male nella moschea (ci hanno dato una sala abbastanza grande dove andiamo il venerdì un’ora e mezza per pregare).
Erano già 40 giorni che accusava dei malori, ma i medici continuavano a somministrargli farmaci e psicofarmaci senza visitarlo realmente. Hassan è stato portato all’ospedale, o meglio è stato trasferito, ma quando è arrivato in ospedale è morto.
Anche a un altro ragazzo, Karim, che si è impiccato, le guardie che l’hanno trovato morto hanno detto “guarda avanti”, come se nulla fosse, fregandosene, anche se i detenuti minacciavano di impiccarsi veramente se non dovessero arrivare medicine o visite o altro. Non ti prendono sul serio, se non sei nella sezione IV o VIII, quella degli infami…
Alla fine il carcere è una brutta storia: non ti serve a niente, se non a peggiorarti e a farti star male.
L’unica cosa che ti insegna è di essere solidali con gli altri detenut i- perché in fondo siamo tutti nella stessa barca - e di vivere sempre sull’attenti, come facciamo, dormendo sempre attrezzati, con le lame accanto al letto.


lettera dal carcere di Saluzzo (cn)
Ciao, spedisco questa lettera per farvi avere mie notizie.
In questo carcere le cose vanno sempre a peggiorare. Non c'é nessuna vivibilità.
Da circa un mese ho visto un altro carcere nuovo al posto del campo sportivo, subito hanno fatto un'altra struttura.
Ma in Italia è tutto così breve? Processo breve, soltanto la galera è lunga. Sono da 3 anni e 7 mesi in carcere. Non ho mai avuto i diritti di un essere umano. Al carcere di Saluzzo il problema non è il sovraffollamento; il problema è che non funziona niente. Gli educatori sono scomparsi, la fornitura non c'è più, si trovano soltanto i farmaci per calmare i detenuti. Una cosa che mi fa piangere il cuore. Il mio personale parere è che tutte le carceri devono essere distrutte e che gli uomini devono vivere liberi. Si parla di civiltà, ma in una società civile, il carcere si dovrebbe concepire come momento per il recupero e il reinserimento della persona. Ciò non può avvenire in una società che non mette coscienza sulle proprie radici; la società è piena di ingiustizia, non sa guardare il suo lato migliore. Quello della gente che lotta per sopravvivere con dignità. La giustizia richiede obiettività, imparzialità, una visione universale. Gli orgogliosi hanno cura dei propri interessi personali, vivono alla giornata; chi lotta per i propri diritti costruisce e partecipa al dolore e alle sofferenze degli altri.
Se nella tua mente c'è attenzione non puoi che ricevere rispetto ed attenzione.
Voglio dare il mio appoggio per la solidarietà a tutti quelli che si mobilitano, che resistono e lottano contro tutte le ingiustizie; un saluto particolare ai compagni.
Qui salutano tutti. Ciao, ciao e a presto.

26 maggio 2011
Lettera dal carcere di Poggioreale (na)
Carissimi compagni/e, ancora una volta è necessario affrontare l’argomento salute-sanità all’interno delle carceri. E soprattutto di un carcere in particolare, il famigerato carcere-lager di Napoli-Poggioreale.
Vi ricordate che in un mio articolo scrissi: solo alcuni giornalisti, animati di buon “senso” e solo quando se ne ricordano, evidenziano i gravissimi problemi che affliggono le carceri, e solo in parte. Ascoltate cosa dice un articolo: “Terapie somministrate in ritardo, ma anche liste di attesa record per banali interventi”… (tipo il mio, ernia inguinale. E’ un anno che attendo l’intervento chirurgico… e in questi casi come si dice? Campa cavalo che l’erba cresce!) “Esami clinici rinviati, un dirigente afferma: la settimana scorsa non si sono potuti effettuare 12 prelievi ematici programmati in mattinata, per mancanza di infermieri nei reparti Milano e Napoli… mentre nel reparto Salerno le terapie intramuscolari sono slittate dalle 16 alle 18”… stesse difficoltà nel rispettare gli orari di somministrazione delle terapie orali e, ad esempio, quelle per il trattamento del diabete.
Ascoltate cosa dice ancora costui: “Nel carcere di Poggioreale, ci sono ammalati afflitti da patologie severe, con cardiopatie, malattie epatiche, AIDS. Per questi pazienti è fondamentale che le terapie siano assunte nei tempi regolari”. E invece, può pure accadere che alcuni farmaci non siano disponibili anche per mancanza di tempo nel ritiro delle scorte.
E udite, udite, capita che un detenuto, colpito da infarto o da altre patologie acute, debba essere portato con urgenza al pronto soccorso interno, ma l’infermiere è impegnato in altri padiglioni.
La sanità in carcere e solo un killeraggio. Oggi a dirlo non sono io, ma chi “lavora” dentro questo sistema marcio, perverso, dove gli esseri umani vengono trattati peggio delle bestie. (Oggi certe morti non fanno più notizia). Oggi fa più notizia Berlusconi con il suo bunga-bunga ecc. ecc. ecc.
La libertà non è un frutto proibito
PS: un saluto particolare a Madda

5 giugno 2011
Giuseppe Trombini, v. Nuova Poggioreale, 177 – 80143 Napoli


Lettera dal carcere di Siano (cz)
Ho conosciuto Luigi Fallico qui nel carcere di Catanzaro dove si trovava per una di quelle inchieste su reati “presunti”, assemblando brani di conversazioni e telefonate carpite furtivamente e poi degnamente argomentate da qualche Pubblico Ministero in calore.
Accusato di “terrorismo” da un regime che, oggi come ieri, fa di questa pratica un valido sostegno al suo potere.
Mi ricorderò di lui e del suo accentuato accento romano, delle conversazioni sui pittori preferiti, un po’ al di fuori della routine carceraria, del suo tono, perennemente canzonatorio. L’unico cruccio era che non godesse di buona salute, era stato operato da poco, ma sicuramente non ne hanno avuto riguardo, i nostri carcerieri. Comunque efficienti: la condanna è stata eseguita prima della sentenza. Non è il primo e non sarà l’ultimo. Il regime in via di putrefazione ha bisogno di sangue per mantenersi giovane.
Ricordo con rabbia.

29 maggio 2011
Bruno Ghirardi, v. Tre Fontane, 28 – 88100 Siano (Catanzaro)


Gigi Fallico: 15 giugno, tutti in tribunale
Per Gigi, morto di carcere
Gigi è morto di carcere, luogo dove la violenza e il sopruso diventano norma.
Il carcere dove era rinchiuso Gigi è il famigerato Mammagialla di Viterbo dove in cinque stavano seguendo il processo a loro carico che si svolge al tribunale di Roma e dove non è disponibile una sezione AS2, il regime di alta sicurezza previsto per chi è accusato di associazione sovversiva.
Per questo erano detenuti in un reparto insieme ai comuni, ma senza poterli né incontrare e comunicarci, né accedere con loro agli spazi comuni. Secondo il regolamento carcerario, avrebbero quindi dovuto fare l’aria a turno, o i politici o gli altri; così, per evitare di gravare, loro cinque, su varie decine, ci hanno rinunciato, con il risultato che passavano le loro quattro ore quotidiane di socialità in un’unica cella, ma in quattro, escludendone uno a rotazione perché non è consentito, in ogni caso, starci in più di quattro alla volta.
In quello stesso carcere, il medico ha ritenuto che un infarto si curasse con un diuretico, un infarto, peraltro, dai sintomi tipici (dolori alla parte sinistra del petto e pressione arteriosa molto elevata).
Si potrebbero aggiungere al quadro molti altri elementi ed episodi quotidiani che fanno capire quanto il Mammagialla, come tutte le carceri, siano luoghi di tortura e che spesso non sono noti perché semplicemente compongono la materialità della vita dentro una prigione.
Per questo la morte di Gigi non è un fatto che interessa solo gli amici, ma colpisce tutti, consapevoli del fatto che il carcere, nato per nascondere alla società democratica le sue contraddizioni, è un luogo dove ogni giorno si perpetuano abusi e vessazioni, dove lo Stato esercita la sua violenza più pura, senza nemmeno tentare di nasconderla, annientando i pensieri e riducendo le volontà al silenzio, generando quell’abbrutimento per cui spesso nemmeno ci si batte di fronte alla bestialità.
Di tutto questo si nutrono quanti collaborano a questo sistema, di tutto questo sono complici. E la nostra incapacità di reagire agli attacchi della repressione, non aiuta chi è dentro ed anzi ne facilita l’isolamento in cui la prevaricazione viene perpetrata senza conseguenze, se non per i detenuti.
Per Dino, Massimo, Gianfranco e Bruno, come per tutti coloro che devono passare una parte della loro vita rinchiusi, la condizione non è cambiata.
La scorsa udienza, i coimputati di Gigi non hanno voluto partecipare al rituale farsesco del processo, per protesta e per dolore.
La prossima si terrà il 15 giugno presso il tribunale di Roma in piazzale Clodio. Per chi volesse portare la propria solidarietà e la propria vicinanza con la presenza in aula, l’appuntamento è alle ore 9 davanti al tribunale.

6 giugno 2011
Assemblea contro il carcere e la repressione


Resoconto sulla mobilitazione del 18 giugno a L’Aquila
La mobilitazione di sabato 18/06/11 nasce da una proposta lanciata da alcuni imputati nei due processi che si sono svolti in questa città e che hanno coinvolto oltre 20 compagni.
Nel giugno del 2007 a L’Aquila si è tenuta una manifestazione per le vie della città e un presidio sotto al carcere in solidarietà ai rivoluzionari prigionieri, contro il carcere, la differenziazione e l’articolo 41 bis.
A L’Aquila proprio perché in questo penitenziario è detenuta una militante rivoluzionaria sottoposta al carcere duro e come tappa di un percorso di lotta cominciato sotto al carcere di Biella, poi Parma e L’Aquila, tutte carceri in cui erano e tutt’ora sono detenuti prigionieri politici e con sezioni di isolamento e a 41 bis.
Come risposta: 24 compagni di diverse città sono stati denunciati.
Dalle denunce si è poi aperto il processo, che è stato diviso in due filoni a seconda dei reati imputati. Alcuni compagni sono stati condannati a due anni ciascuno per aver urlato lo slogan “la fabbrica ci uccide, lo stato ci imprigiona che cazzo ce ne frega di Biagi e di D’Antona”. Altrettanti compagni sono stati condannati a pene dai sette agli otto mesi e ad una sanzione pecuniaria di 1.000 euro ciascuno, per l’imbrattamento dei muri, il danneggiamento della rete e l’invasione dell’area circostante al carcere.
Per tali ragioni abbiamo deciso di tornare a L’Aquila.
Qui è dove si sta svolgendo il processo e qui dobbiamo far sentire la nostra voce per dire che queste condanne non passeranno sotto silenzio e soprattutto non fermeranno la lotta contro il carcere e per la solidarietà ai detenuti e ai compagni rinchiusi! Il percorso e la mobilitazione del giugno 2007 sono parte integrante del nostro impegno politico e di quello di tutti coloro che vi hanno partecipato. Da qui nasce il percorso che ha coinvolto diverse realtà e singoli compagni per la preparazione di questa giornata, con la consapevolezza e la determinazione di rivendicare contenuti e pratiche della manifestazione del giugno 2007.

Per esprimere il senso generale di come è andata lo titoliamo così: “Nonostante il sabotaggio predisposto dallo Stato”
Il corteo nella via principale di una città morta, manifestazione che vuole unirsi a chi cerca da anni di ridare vita alla città colpita prima dal terremoto dell’aprile 2009, poi dalla militarizzazione posta a sostegno della speculazione… e il presidio attorno al carcere locale, erano stati segnalati dall’organizzazione della mobilitazione alla questura aquilana, sin dal 9 maggio. Fino alla vigilia, il 17 giugno, tutto è filato via liscio; anche la “visita” del direttore generale del DAP, Franco Ionta, al carcere di L’Aquila a fine maggio, almeno in apparenza, non aveva portato contrordini. Quel giorno, alle compagne e ai compagni che avevano messo il loro nome sulla segnalazione del corteo e del presidio viene comunicato che il percorso del corteo e il luogo del presidio non possono essere quelli indicati; in quella comunicazione vengono fissate altre strade.
Nonostante questo manifesto tentativo di farci desistere, di scoraggiare le adesioni, i pullman delle compagne e dei compagni partono da Napoli, Milano, Padova-Bologna, assieme a pulmini e macchine da Lecce, Foggia, Roma, Teramo… e anche una delegazione di alcuni giovani compagni dalla Svizzera! Così all’appuntamento a L’Aquila si è in oltre 200 compagn*. Viene compiuta una ricognizione sul percorso indicato dalla questura; le strade controindicate sono tutte interne ad un parco. Impossibile accettare un’imposizione, tanto meno quando con ipocrisia cerca di prendersi gioco dell’intelligenza. Ai responsabili in strada della polizia vengono perciò prospettate due alternative: o la possibilità di compiere il percorso richiesto o un altro. Ci si accorge bene di trovarci di fronte ad una “tarantella” voluta e pianificata “in alto” per sabotare l’intera mobilitazione; questo fare formale, burocratico, lento, paralizzante cercherà per tutta la giornata, inutilmente di paralizzarci. “Nessun vero aquilano”, questa l’esortazione di un giornale locale, “deve prendere parte al corteo di anarchici, brigatisti”… per parte loro, inoltre, la polizia invita … o meglio obbliga i commercianti “a tener chiusi gli esercizi”.
Nonostante questo, il corteo parte aperto dallo striscione “Contro carcere – Isolamento - 41bis – Uniti nella lotta”, lo stesso del 2007. Il percorso alternativo ci permette di incontrare, non i pochi turisti presenti in centro, ma gente di L’Aquila, non molta a causa del clima di terrorismo creato dalla polizia, ma curiosa a gruppetti ai margini della strada, vicino ai locali aperti o sulle finestre delle case, gente probabilmente segnata dalla gestione militare della città e dei suoi dintorni. Molte persone chiedevano i volantini che i compagni diffondevano. Significative sono state le parole di un anziano cittadino a margine del corteo che ci ha detto “fate bene, non ci rimane altro che lottare perché qui a L’Aquila Bertolaso e lo Stato italiano hanno sperimentato il fascismo”. Negli interventi al microfono, nel volantinaggio, si riesce a costruire un senso di condivisione, di chiarezza fra corteo e gente in strada. In particolare l’intervento di una compagna del luogo che in rapida successione ripercorre l’odissea del terremoto riservata alla popolazione di L’Aquila, sollecitandola a mobilitarsi, viene accolto con sentita emozione.
Oltre a questo intervento, l’intero corteo è stato caratterizzato da slogans, numerosi interventi e letture di volantini. Si sono spiegate le ragioni per cui si è tornati a L’Aquila, si è portata la solidarietà ai 22 compagni processati, si è spiegato il significato e la valenza dello slogan “la fabbrica ci uccide, lo stato ci imprigiona, che cazzo ce ne frega di Biagi e di D’Antona”. A questo proposito si è detto che vogliono che piangiamo i loro morti e se non lo facciamo ci condannano, ma che noi teniamo le nostre lacrime per i 1.000 operai che la fabbrica uccide ogni anno, per gli oltre 1.660 morti negli ultimi 10 anni uccisi dal carcere e per tutti gli altri morti provocati dalle guerre e dallo sfruttamento.
Si è parlato inoltre del carcere a 41 bis che c’è nel capoluogo abruzzese, attraverso vari interventi e slogan si è portata solidarietà alla compagna delle Br – pcc Nadia Lioce, a tutti i prigionieri rivoluzionari e in ricordo del compagno Luigi Fallico, ennesimo omicidio di stato, essendo stato Gigi, militante comunista e prigioniero nel carcere di Viterbo, lasciato morire senza alcuna cura il 23 maggio 2011.
Si è informato sulle ultime inchieste che ci sono state in Italia negli ultimi mesi, in particolare si è data solidarietà ai compagni di Bologna arrestati il 6 aprile. Infine si è parlato anche della militarizzazione del luogo, fornendo dati e smascherando la figura di Franco Gabrielli, successore di Guido Bertolaso. Abbiamo chiarito bene che noi siamo contro lo stato dei padroni, della corruzione e delle mafie (tema attuale si vedano le recenti indagini per la P4), ma siamo anche contro il 41bis!
Con la carica sotto i piedi suscitata dal corteo, ora ci rivolgiamo al carcere. L’Aquila è una città militarizzata per davvero e tale dovrebbe restare, ma fino a quando? La mobilitazione del 18 giugno è un’occasione ghiotta per lo stato in cui mettere in mostra il proprio potere. Raggiungeremo il carcere, distante una decina di km, in pullman scortati dai mezzi militari. Lo strano convoglio viene dirottato in un luogo isolato, distante diverse centinaia di metri dal prato accanto al carcere da noi richiesto (lo stesso luogo del 2007). Come il percorso del corteo dettatoci dalla questura era un’offesa-impedimento alla sua anche minima riuscita, così è il luogo scelto per il presidio sotto il carcere. Ai dirigenti della questura che ci stanno di fronte, diciamo che quanto cercano di imporci lo rifiutiamo, che non ce ne andremo fino a quando non giungiamo nel luogo da noi indicato.
Ancora lungaggini noiose, irritanti. L’avvicinamento al carcere infine viene accettato, il convoglio di pullman e mezzi militari arriva sul posto, ma… “dovete fermarvi sulla strada”, così dice la polizia. La risposta a questa ennesima provocazione non si fa attendere: si apre un varco nella siepe che corre attorno al prato, si entra dentro, sorprendiamo gli sbirri che con scudi e manganelli cercano di fermarci, partono le manganellate, gli atterramenti… alla fine conquistiamo un pezzo del prato e da lì salutiamo le persone rinchiuse, che rispondono con fazzoletti bianchi e rossi usciti per miracolo dalle bocche di lupo. Ce l’abbiamo fatta. Gli interventi, fra cui molto significativo, quello dei “Disoccupati organizzati di Napoli”, riescono a comunicare solidarietà mista a complicità, a far sentire a chi da anni (e chissà per quanto tempo ancora?) non può leggere e ascoltare della realtà altro dalle sue versioni istituzionali e che invece fuori cresce la coscienza della necessità di conoscere e lottare contro il carcere. Anche davanti al carcere sono stati molti gli slogan e i riferimenti al compagno Gigi e si é manifestata frequentemente attraverso gli interventi la solidarietà di classe verso la prigioniera politica Nadia Lioce e tutti i prigionieri politici.
La mobilitazione è riuscita a smitizzare il carcere, il 41bis - che oggi ne è il suo pilastro - ha consolidato rapporti vitali alla continuità della lotta contro il carcere e la società che lo crea e usa.
Ha ribadito che la solidarietà di classe nei confronti dei prigionieri che lottano e dei prigionieri rivoluzionari non deve essere criminalizzata e la sua repressione può diventare occasione per nuova determinazione alla lotta come hanno mostrato i condannati dal tribunale di L’Aquila che hanno saputo trasformare un processo alle lotte in un processo di lotta rilanciando la mobilitazione per cui erano stati inquisiti.
Possiamo certamente dire che a dispetto dell’enorme lavoro fatto contro il corteo e il presidio gli è andata male. Perché noi non abbiamo desistito ed eravamo in quantità sufficiente per farlo e gli aquilani non ci hanno certo isolato, ma ci hanno volentieri ascoltato.
Il diniego della questura ed in particolare le forcaiole motivazioni che, guarda caso sono le stesse della campagna stampa contro di noi gestita nei giorni precedenti con il delirante comunicato del Comitato città nuove - 99 ( che sembra essere il portavoce della questura) non sono riuscite nel loro intento! La nostra determinazione è stata più forte.

22 giugno 2011
Assemblea per la giornata di lotta del 18 giugno, aquila11giugno@autistici.org


Lettera dal carcere di Como
Cari compagni e compagne, vi scrivo per informarvi che stasera nel carcere di Como è nata una battitura di tutte le sezioni che è durata circa un’ora.
Invece da domani, giovedì 26 fino a sabato 29, tutto il carcere entra in sciopero della fame. I motivi non li conosco in quanto sono appena arrivato, ma posso immaginare che siano: la mancanza di libertà, il sovraffollamento e tutte quelle condizioni miserabili con cui i detenuti devono confrontarsi all’interno di questi posti.
Un saluto caloroso e ribelle.

25 maggio 2011


Lettere dal carcere di Opera (mi)
[…] Nel reparto isolamento è concentrato un alto numero di 14-bis e non garantiscono le due ore d’aria consentite dal Dap. In tre del reparto “normale”, assieme ad altri del reparto isolamento, siamo ora in sciopero della fame in solidarietà con quelli del 14-bis e rifiutiamo la tv [così la solidarietà è più completa dato che all’isolamento la tv non c’è, ndc] e contro il visto di controllo sulla corrispondenza ingiustamente rinnovato. Ci tengono 23 ore al giorno rinchiusi in gabbia, pensando di essere superiori a ogni forma di vita… [La lettera è stata spedita il 14 aprile ma è arrivata in casella soltanto il 3 giugno].

***
Ciao a tutti/e, vi mando questo scritto per informarvi riguardo alla situazione attuale nel carcere di Opera: in data 27 maggio abbiamo iniziato uno sciopero della fame e della spesa, durerà una settimana, almeno così dicono. La decisione di scioperare, in tutto il reparto comuni, nasce a seguito delle dichiarazioni di Pannella: uno sciopero per chiedere l’amnistia; sappiamo che altre carceri hanno aderito all’iniziativa, ma quello che tanti non sanno è che tale sciopero non risolverà il sovraffollamento. Ciò che mi fa rabbia è il fatto che lo sciopero della fame lo si sta facendo perché lo ha detto Pannella. Sto aderendo solo per solidarietà. Osservando l’evolversi della situazione posso dirvi che stiamo dando un po’ di fastidio alla direzione (non perché mangiamo), ma perché non facciam o la spesa. Saluti ribelli William

28 maggio 2011
William Pilato, v. Camporgnago 40 – 20090 Opera (Milano)


lettera dal carcere di vercelli
Considerazioni per affinare e rilanciare la lotta nelle carceri
Ci rivolgiamo ai detenuti, ai familiari, alle persone a loro vicine ed ai solidali con la proposta di continuare, se entro il 25 giugno nulla si sarà mosso, la lotta contro le intollerabili condizioni che viviamo nelle carceri italiane. Condizioni che, con l’arrivo dell’estate, si aggraveranno.
La lotta che si è sviluppata chiedendo l’amnistia e denunciando il sovraffollamento non sta elemosinando diritti, ma ponendo al sistema della giustizia italiano una questione semplice e chiara e cioè di attenersi alle sue stesse regole.
Nel mese di maggio abbiamo dato una prima prova di determinazione e la lotta si è diffusa in tantissime carceri anche con modi e tempi diversi. Pensiamo che per essere efficace una lotta riguardo al carcere debba partire dai detenuti e che, come ogni sciopero, sia vincente quando riesce ad incidere sui profitti.
A partire da queste considerazioni lanciamo la proposta di uno sciopero della spesa in quanto diretto a pesare sui guadagni di queste aziende che hanno gli appalti per il sopravvitto in carcere (spesso, come qui a Vercelli, esso ha dei prezzi esorbitanti) e, se si riesce, anche in uno sciopero dei lavoranti. Se, come a maggio, a lottare saremo in molti e se, da fuori i solidali appoggeranno questa campagna di pressione, una lotta di questo tipo si potrà protrarre per più tempo di uno sciopero della fame (che ci debilita), superando la dimensione simbolica di uno sciopero del carrello (che finisce per essere discriminante verso chi non ha i soldi per fare la spesa).
Facciamoci sentire! Se entro il 25 giugno la situazione sarà immutata, proponiamo uno sciopero della spesa comprando solo i “beni di prima necessità” come sigarette e caffè per un massimo di 10 euro. Ovviamente meno soldi gli diamo meglio è!
Ricordiamo che da sabato 25 luglio a sabato 2 luglio ci sarà la settimana di iniziative in solidarietà alle lotte nelle carceri nei c.i.e negli o.p.g lanciata dall’assemblea regionale contro carceri e c.i.e della Lombardia.

Alcuni detenuti del carcere di Vercelli
10 giugno 2011
da informa-azione.info
milano: Resoconto del presidio itinerante attorno a S. Vittore
La giornata di mobilitazione di sabato 2 luglio a Milano è il frutto di una discussione sviluppatasi nei mesi scorsi dentro e fuori dalle carceri, per dare voce e forza alle proteste, alle richieste provenienti da tempo da moltissime carceri. Come era detto nello scritto in cui era sintetizzata la proposta “l’intento è quello di costruire, ognuno a partire dalla propria specificità, un’incisiva mobilitazione in tutto il paese, nell’arco di una settimana, davanti a carceri, CIE e OPG”…
Come si è concretizzata l’intenzione? Nella corrispondenza, ostacolatissima, fra prigionieri e collettivi di diverse città, nella comunicazione (soprattutto volantinaggi) con i parenti che si recavano ai colloqui, nei volantinaggi e attacchinaggi in città. E infine nei presidi. Così in una decina di città è stato possibile costruire dei presidi davanti alle carceri contro l’isolamento, il 41-bis, l’aggravamento delle pene, la censura, le spaventose condizioni igienico-sanitarie…
Questo lavoro preparatorio è stato compiuto anche a Milano, dove ha trovato ulteriore spinta dall’arresto di tre compagni, tuttora in carcere, avvenuto a metà giugno.
Va subito detto, inoltre, che l’appello proveniente dalla val di Susa in quelle stesse giornate ha fortemente condizionato il presidio, in parte anche caratterizzandolo. Unire, per rafforzarla, la protesta, la lotta, dentro le carceri con quanto avviene nei territori (TAV, rifiuti in Campania...), nei quartieri (occupazioni, sgomberi…), nei luoghi di lavoro (licenziamenti, picchetti, attacchi della polizia durante i momenti di sciopero e agitazione), nelle scuole e università è ormai ineludibile oltreché possibile.
La contemporaneità della mobilitazione in Val di Susa non ha perciò impedito la riuscita del presidio, anzi. Un centinaio di compagni e compagne, la presenza di qualche familiare, per due ore con urla, botti, battiture, unendosi a quelle interne, ha costruito una forte comunicazione. Alle sbarre delle finestre delle celle è stato appeso uno striscione con la scritta “Libertà”. Attraverso le casse, oltre alla musica, è stata più volte letta la lettera di solidarietà inviata “dagli ergastolani di Spoleto” al movimento NoTav in Val di Susa; sempre da quella valle sono state riportate testimonianze sugli avvenimenti di quei giorni; sono state lette lettere di prigionieri arabi particolarmente colpiti dalla condizione della prigionia di guerra; è stato ripetuto il significato della settimana di mobilitazione…
La censura, l’isolamento che lo stato continuamente eleva attorno alle persone arrestate, soprattutto se ribelli, per due piccole ore non ha funzionato. Siamo convinti che comunicare con ogni mezzo questa coscienza all’interno è il presupposto di ogni sviluppo dei rapporti fra interno e esterno.

Milano, 4 luglio 2011


como: sul presidio sotto il carcere
Il presidio di ieri pomeriggio al carcere “bassone” di Como, inscritto nella settimana nazionale di mobilitazione anticarceraria, ha dato sicuramente nuovi stimoli e nuova spinta alla lotta contro questa struttura. Fin dal nostro arrivo i/le detenuti/e hanno iniziato ad urlare nel tentativo di comunicare coi solidali, improvvisando battiture che si sono susseguite per tutte le 2 ore del presidio, scrivendo cartelli e striscioni contro la direttrice del carcere e inneggianti alla libertà. La musica ha spesso lasciato spazio alla comunicazione tra il dentro ed il fuori ed in vari momenti solidali e detenuti hanno scandito gli slogan assieme, abbiamo sentito chiaramente anche le donne detenute poi una voce che siamo riusciti a distinguere chiaramente ha detto che avrebbero iniziato lo sciopero della fame e che noi saremmo dovuti tornare il giorno seguente per sostenerli. Infatti il collettivo Dintorni Reattivi tornerà oggi pomeriggio dalle 19 alle 21 con il presidio voluto dai detenuti per sostenere la loro lotta.

30 giugno 2011
da informa-azione.info


roma: sulla giornata di mobilitazione sotto le carceri
In occasione della settimana di mobilitazione nei Cie nelle Carceri e negli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari), domenica 26 giugno sotto un sole cocente, un centinaio tra compagni e compagne ha portato una presenza solidale sotto le infami mura del Cie di Ponte Galeria e sotto a quelle del carcere di Rebibbia.
All'arrivo al lager sulla portuense, i ragazzi del maschile erano già sul tetto con tanto di striscioni e col loro impeto urlavano: "libertà! libertà!". Ciò era successo già nel precedente presidio e ovviamente riempie i cuori di gioia. E' importante sottolineare la forza e la determinazione delle recluse del femminile che questa volta sono riuscite a salire anche loro! Purtroppo i servi in divisa hanno fatto il loro sporco compito e riportandole giù e pestandone tre.
L'invito è quindi a far sentire la solidarietà nei loro confronti come meglio si crede, e intanto, per chi ne avvesse voglia, a chiamare il numero del lager [06 65854224] e dell' Auxilium [0665854228 oppure 4215 finale], ditta che gestisce il Cie per far capire agli aguzzini che le ragazze non sono sole.
Il gruppo si è poi spostato verso il carcere di Rebibbia, precisamente davanti alla sezione femminile, in modo che le recluse potessero sentire con l'amplificazione, la musica e gli interventi al microfono la nostra avversione per quelle sbarre.
Anche qui le donne recluse hanno salutato i manifestanti e scambiato due urla, esprimendo la rabbia per un sistema fondato sullo sfruttamento, che rinchiude e tortura.
Ogni occasione è buona per portare solidarietà a chi lotta dentro una di queste gabbie che perpetuano l'oppressione e le ingiustizie di questo come di ogni Stato.
Ogni occasione è buona per sostenere le lotte degli sfrutatti.
LIBERTA' PER TUTTE E TUTTI. BASTA CIE, CARCERI E OPG!

27 giugno 2011
da www.ondarossa.info


Lettera dal carcere di Carinola (ce)
Carissimi compagni, […] il vostro lavoro è molto importante soprattutto in questo periodo in cui la repressione è sempre più feroce, come testimoniano anche gli ultimi arresti dei compagni di Bologna del 6 aprile. Vogliamo dare tutta la nostra solidarietà e vicinanza.
La situazione qui è un po’ complicata a causa dei continui soprusi e delle negazioni dei più basilari diritti dei detenuti. Qui manca tutto. Non esiste il magistrato di sorveglianza, tutte le istanze presentate vengono rigettate; l’assistenza medica è limitata, il medico passa una volta al giorno, quando trova il tempo; il dirigente sanitario non viene mai, così i medici specialisti, per esempio, non c’è l’ortopedico, mentre tanti carcerati, invece, hanno problemi ossei.
Purtroppo nelle carceri italiane ci sono diversi problemi e tanti carcerati devono subire sofferenze senza nessun aiuto o assistenza.
Per questo la solidarietà è una cosa importante che aiuta tutti quelli che si trovano in questi posti di sofferenza. E la vicinanza dei compagni non ci fa mai sentire soli. Con forza si continua a lottare contro tutte le ingiustizie, per un mondo di uomini liberi.
Con questo vi salutiamo e vi inviamo a pugno chiuso un abbraccio a tutti e tutte.
Mario, Antonino

3 giugno 2011
Antonino Faro, v. S. Biagio, 6 – 81030 Carinola (Caserta)


lettera dal carcere di bologna
Qualche considerazione dallo zoo
Ci risiamo, prima, i nostri arresti a Bologna, dopo, lo stesso copione con gli arresti a Firenze. Ai compagni colpiti dall’ennesima inchiesta della procura fiorentina va tutta la mia solidarietà. Tutto questo suscita rabbia ed indignazione ma non stupisce. Non stupisce perché la repressione “anti-anarchica” e contro quei compagni e quelle situazioni di lotta che si pongono in una prospettiva rivoluzionaria, non si è mai placata. Non stupisce perché per chi comanda non esistono - e non potrebbero esistere - né “una gestione accettabile della crisi”, né, tantomeno, un’uscita da essa. Difficile pensare a una supina accettazione del costante peggioramento delle condizioni di vita di tutti e dell’irreversibile rovina del pianeta. Non può quindi stupire che il potere, temendo le rivolte dei sudditi, giochi d’anticipo accanendosi con ogni mezzo contro le situazioni di dissenso che, di volta in volta, reputa particolarmente scomode. Comunque va detto, quello che spaventa non è la “forza” del movimento anarchico, con buona pace di quei compagni che in qualche proclamo, tra uno slogan truculento e l’altro, se ne fregiano. Quello che turba i sogni di politici, padroni e sbirri è ciò a cui le idee e soprattutto le pratiche degli anarchici alludono, il loro potenziale, la loro diffusione tra arrabbiati ed esclusi: l’universale linguaggio della rivolta di cui in Italia si è avuto un assaggio il 14 dicembre a Roma. Spaventano l’ostilità e il rifiuto di riconoscere - e farsi riconoscere - dalle istituzioni, la conflittualità permanente. Spaventano l’autogestione e l’orizzontalità che caratterizzano le nostre lotte e l’informalità che caratterizza i nostri rapporti. Spaventa il fatto che vengano riportate le notizie di quegli attacchi al dominio che, coscienti o meno che siano, suscitano simpatia in molti, ma di cui solo in pochi parlano pubblicamente. Pubblicazioni di articoli di giornale che, per qualche alchimia poliziesca, diventerebbe acrobaticamente una “prova” del coinvolgimento nei fatti riportati, poco importa se, ad un più attento esame la cosa finisca per non stare palesemente più in piedi anche per i professionisti del sospetto. Del resto a vacillare è l’imputazione stessa che ci colpisce qui come a Firenze (e prima a Lecce e a Torino): l’associazione a delinquere strutturata (con tanto di capi, luogotenenti e soldati semplici), rigida, con spazi aperti che diventano covi clandestini “perché solo i gestori ne hanno le chiavi” (per logica potrebbe derivare, allora, che per essere davvero pubbliche biblioteche e scuole dovrebbero distribuire le chiavi a tutti), ed il cui scopo sarebbe “compiere reati”. Anche qui, purtroppo, non c’è da stupirsi. Leggendo alcuni articoli di Malatesta (sì, qui ho tempo…), ho trovato un passaggio in cui già lui faceva considerazioni sull’uso dell’associazione a delinquere per reprimere gli anarchici: evidentemente non è una trovata innovativa.
Mentre scrivo queste righe apprendo dal telegiornale locale (purtroppo in carcere la televisione è sempre accesa) dell’ennesimo danneggiamento della sede bolognese della lega. Di ieri la notizia dell’imbrattamento della sede della UIL nel quartiere di San Donato. Per fortuna che ci dipingono una città pacificata in cui l’unica “voce fuori luogo è quella degli anarchici insurrezionalisti”… Eppure poco importa agli inquirenti se inchieste come questa finiscono in un nulla di fatto, poiché il loro vero scopo è soprattutto fiaccare i compagni con custodie cautelari, divieti ed obblighi di dimora, intimidire chi si avvicina agli anarchici, stringendo al contempo sempre più la morsa, provando a cercare dei precedenti per schiacciare ogni forma di dissenso un domani. Credo che quest’ultimo aspetto meriti particolare attenzione essendo di portata generale per chiunque porti avanti dei percorsi di lotta. Questi tentativi non vanno lasciati passare sotto silenzio. Di fronte ad attacchi di questo tipo, più ci si lascia spaventare, più si arretra, più il nemico avanza e guadagna terreno. Credo che la scelta migliore di fronte all’incalzare della repressione sia quella di rilanciare le lotte ed allargare la solidarietà .Da questo punto di vista, rispetto all’operazione “outlaw” (fà troppo ridere sto nome per non citarlo almeno una volta) non ci si può certo lamentare. Ringrazio con tutto il cuore per le lettere, l’affetto e soprattutto la solidarietà che arrivano da Bologna, dall’Italia e da oltre i confini di questo maledetto paese. A testa alta a dispetto di tutto. Per l’anarchia.

Dozza, 7/5/2011
Trevisan Martino, via del Rollone 19 - 13100 Vercelli
da informa-azione.info


NUOVI ARRESTI A FIRENZE
Non si ferma l'ondata repressiva nei confronti delle realtà politiche e sociali fiorentine. Questa mattina, esaurita la cosiddetta “operazione “400colpi”, la Digos ha proceduto all'arresto di 7 compagni/e e l'obbligo di firma per altri 9. Di questi uno è stato rinchiuso nel carcere di San Vittore, e gli altri 6 agli arresti domiciliari.
Le motivazioni sono riconducibili ai comportamenti tenuti durante le manifestazioni in risposta agli arresti del 4 maggio.
Non vogliamo stare qui a disquisire sulla entità dei fatti per i quali sono state emesse le custodie cautelari, o se siano o meno troppo pesanti, ma ci interessa rilevare il quadro repressivo che da troppo tempo impunemente si dispiega su tutte le componenti sociali e politiche nella nostra città.
Il clima è cambiato e non ci vuole molto a capirlo, ma nemmeno può essere una facile semplificazione o una sua inconscia accettazione.
Hanno iniziato con gli avvisi orali per gli studenti, hanno proseguito con 6 mesi di arresto per un semplice petardo, con gli arresti della famosa operazione 400 colpi, con gli obblighi di firma, con la presunta associazione a delinquere per giustificare le misure cautelari, per arrivare poi agli arresti di oggi. 35 compagni/e tra studenti, militanti di centri sociali sono attualmente sotto misure restrittive, ovvero resi inoffensivi, privati della libertà individuale, ma allo stesso tempo privati della loro possibilità di essere in prima persona dentro le lotte di cui sono parte, e continuano ad esserlo al nostro fianco.
Firenze città aperta! Questo era lo slogan con cui veniva elogiata la Firenze del social forum. Se non pensavamo che lo fosse allora, è ben chiaro a tutti che ancor meno possa descrivere quella attuale.
Firenze città della repressione, degli spazi chiusi, delle piazze blindate, degli sgomberi dei richiedenti asilo, delle operazioni mediatiche ben funzionali alle strategie repressive verso le legittime richieste degli studenti. La città dove anche l'Ataf partecipa attivamente alla repressione con le denunce verso i manifestanti per interruzione di pubblico servizio.
Un clima in cui sarebbe un errore non sentirsi direttamente coinvolti per chiunque pensi che sia necessario non sottacere davanti alle ingiustizie, non fermarsi davanti ai divieti o alle nuove disposizioni restrittive quando le ragioni di chi lotta sono quelle della “giustizia”, quella vera. La giustizia che non nasce dai tribunali, dalle divisioni investigative, ma quella che da sempre anima le istanze di chi lotta in una fabbrica come in una scuola, nelle carceri e in quartiere.
SOLIDARIETA' A TUTTI/E COLPITI DALLA REPRESSIONE


Centro Popolare Autogestito Firenze Sud, Cantiere Sociale K100, Collettivo Politico Scienze Politiche, Collettivo di Lettere e Filosofia


Una brutta storia che ci riguarda tutti
Comunicato di solidarietà per Antonella, Paolo e Ivano
Giovedì 16 giugno, a Roma, verrà discusso il ricorso in Cassazione presentato dalla difesa di Antonella Lai e Paolo Anela, dopo la vergognosa sentenza emessa esattamente un anno fa dalla Corte d‘Appello di Cagliari:7 anni e 10 mesi invece dei precedenti 3 anni e 2 mesi, pena ritenuta troppo lieve. Ivano Fadda ha rinunciato al ricorso ed è attualmente in carcere. Non permettiamo che ci rubino la vita. Rivendichiamo la loro e la nostra libertà.

Antonella Lai, Paolo Anela e Ivano Fadda vengono arrestati il 31 marzo 2006 con l’accusa di essere gli autori del fallito "attentato" del 22 marzo contro una sede di Alleanza Nazionale a Nuoro. Sin dal primo mese vengono deportati nelle galere del continente, Antonella a S. M Capua Vetere, Paolo a Palmi e Ivano a Palermo.
A gennaio 2009 la Corte d'Appello, sulla base dell’Art. 280 bis "atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi", li condanna a 3 anni e 2 mesi con multa di 3.000 € per aver posto l'ordigno, chi materialmente, chi moralmente, nella sede elettorale di A.N., facendo cadere l’accusa di associazione sovversiva.
Contro la sentenza di II grado il pubblico accusatore ha ricorso in Cassazione facendola annullare, da cui la nuova condanna nel giugno del 2010.
Questo processo è un processo politico perché politico é il tipo di accusa e la motivazione che spinge gli inquisitori a perseguitarli. A causa del loro attivismo politico i tre compagni erano da tempo seguiti e spiati dalla Digos, hanno dovuto subire il carcere duro e pressioni psicologiche. Quel genere di rappresaglie che il potere riserva da sempre ai suoi nemici. Le accuse nei loro confronti sono infatti basate esclusivamente su intercettazioni telefoniche e ambientali manipolate e reinterpretate in modo tendenzioso ed arbitrario e sostenute da indizi risibili.
Tra il loro arresto e il processo di primo grado ci fu persino la confessione di un minorenne che ammise di essere stato l’autore della rivendicazione del fallito attentato alla sede di An. Ma questa confessione, mettendo in crisi il delirante impianto accusatorio orchestrato dal p.m. Paolo De Angelis, fu deliberatamente ignorata. Il suddetto personaggio, spinto da personali ossessioni e ambizioni, si è reso inoltre protagonista di numerosi altri fallimentari tentativi di confermare il cosiddetto teorema Pisanu, quello per cui l'allora Ministro degli Interni sollecitò varie azioni repressive, sostenendo che in Sardegna si fosse creata una "centrale del terrore" composta da anarchici, indipendentisti e marxisti-leninisti. Questo è uno dei tanti casi della repressione che dilaga ogni giorno in tutta Italia con perquisizioni, misure restrittive, arresti.
Qualunque sarà il verdetto INGIUSTIZIA è FATTA! Non lasceremo soli Antonella Paolo e Ivano, né altre/i compagne/i cheogni giorno subiscono la repressione. LiBerEtuTTi

16 giugno 2011
da infoma-azione.info

I giornali riportano che il 17 giugno Antonella Lai è stata arrestata e portata nel carcere di San Sebastiano Sassari. Sabato 25 giugno 2011 Paolo è stato trasferito ad Alessandria, ora in quel braccio sono in 4!

Antonella Lai, via Roma 51 - 07100, Sassari (SS)
Ivano Fadda, Paolo Anela, Strada Casale 50/A - 15040 San Michele (AL)


Sardegna: Aggiornamenti sulla lotta contro
il Poligono Interforze del Salto di Quirra
riceviamo e diffondiamo: infine la magistratura ha deciso: gli elementi raccolti dai suoi consulenti circa la nocività del Poligono Interforze del Salto di Quirra (PISQ) dimostrano che l’attivitá militare inquina suolo, acqua, aria, ed é causa di malattie e malformazioni tra animali ed esseri umani. La conclusione di ció é che viene ordinato l’allontanamento di animali ed esseri umani dall’area mentre si lascia che l’attivitá del Poligono prosegua! Come da tempo avevamo paventato: ancora una volta si preserva il Poligono sopra qualsiasi altro interesse! L’attuale presa di posizione della magistratura segna inequivocabilmente un nuovo punto di inizio sotto molti punti di vista:

Aspetti sanitari
La popolazione chiede giustamente di conoscere gli elementi che hanno portato il magistrato a prendere decisioni gravissime, ma deve essere chiaro che, a questo punto, é inutile pensare che nuove indagini da parte di nuovi esperti possano contrastare o confermare quanto emerso nel corso dell’indagine: ormai la sede del dibattito é il tribunale. Ció che appare evidente é piuttosto che piú si indaga piú la gravità del problema é destinata ad estendersi. Per esempio, non si é ancora affrontato il problema dell’inquinamento del Flumendosa (ma anche del rio San Giorgio e del rio Quirra) che raccoglie le acque provenienti dalle discariche di armamenti non diversamente dalla sorgente di "Sa Maista". C’é, anzi, da chiedersi come mai questa sia stata sequestrata e non sia stato bloccato anche l’acquedotto del Flumendosa!

Ruolo delle amministrazioni
Dopo anni che sindaci, ASL, ARPAS hanno ignorato o minimizzato le denunce e i ripetuti allarmi relativi alla situazione del Poligono, una autoritá terza, estranea e superiore ad essi, ha autonomamente preso in mano la faccenda. Quale dovrebbe essere ora il compito della politica? In questo momento l’amministrazione é svuotata di ruolo! Chi, fino ad oggi, ha omesso il proprio dovere di controllo, difendendo il poligono e negando ogni evidenza, non può rappresentare la parte di popolazione vittima della presenza della base. Costoro, che oggi sono parte del problema e rischiano di doverne rendere conto in tribunale, domani saranno pronti a cedere il territorio a dei nuovi padroni, pronti per nuovi affari!
Aspetti economici
Oggi non ha piú senso ragionare sui posti di lavoro degli addetti al poligono in un ipotetico futuro senza base, visto che al momento sono messi in discussione non i loro, ma quelli dei contadini e degli allevatori, ed a seguire di tutti gli operatori economici del territorio mortificati dalle attivitá militari. Ormai non ci si puó fare illusioni in merito: arance, agnelli e turismo torneranno ad essere vendibili solo il giorno in cui i giornali titoleranno “il poligono chiude, inizia la bonifica!”

Un domani senza poligono
Se qualcuno va dicendo che il poligono puó continuare ad operare ma dovrá essere sottoposto a monitoraggio ambientale, questa é una assurditá. Infatti una simile struttura ha senso solo se le si garantisce segretezza: dunque, o il monitoraggio sará finto ed ingannevole o il poligono cessa il suo motivo di essere. A questo punto é bene che si sappia che le immobiliari giá puntano gli occhi sull’area... e potrebbero anche avere legami con esponenti di governo! Sará dunque il caso di smettere di difendere a priori una attivitá nociva a se stessi ed agli altri e cominciare a pensare al futuro...

La situazione è gravissima: si ordina a contadini ed allevatori di abbandonare un territorio senza dare loro alternative su dove andare, dove portare il bestiame e senza sapere per quanto tempo saranno allontanati dalle loro aziende; alla perdita economica legata alla sospensione delle attivitá agropastorali la Regione risponde con una elemosina, ne’ appare realistico che qualche altro ente possa risarcire adeguatamente. Ma la cosa piú provocatoria ed assurda é che le attivitá militari ed industriali del Poligono possano continuare, caricando cosí ancor piú di veleni un territorio già saturo! Mentre la consapevolezza dell’enormitá dei rischi legati alle attivitá militari é sempre piú forte nell’intera popolazione della zona, mentre le ricadute sanitarie ed economiche si abbattono pesantissime sulle comunitá, la risposta é ancora una volta preservare il Poligono e colpire i civili. Visto che le amministrazioni locali, prive ormai di autoritá e credibilitá, non possono avere alcun ruolo nella faccenda, é necessaria una mobilitazione popolare che, nel rivendicare la tutela della salute e dell’ambiente e la salvaguardia delle attività agropastorali, pretenda l’immediata cessazione delle attività del Poligono e la bonifica dell’area!

Villaputzu, 23 maggio 2011
ATOBIU dei gruppi autogestiti per lo smantellamento del PISQ
da smantellamentopisq.blogspot.com, info e contatti: 340 3543499


DUE PAROLE SULLA CASERMA MILITARE IN PROGETTO A NUORO
Nuoro, città militarizzata sin dagli anni del “banditismo” e dei sequestri, non solo da sbirri, carabinieri e guardia di finanza, adesso anche dai militari… e non militari qualsiasi, ma addirittura dagli infami sassarini “dimonios” che spesso vanno a fare le “missioni di pace” nei posti dove, la democratizzazione americana impone la propria libertà e uguaglianza con le bombe!!! E che cosa ci vengono a fare qui a Nuoro? Verranno ad imporci a suon di bombe e proiettili la loro “pacifica” visione della legalità e del dovere patriottico? O verranno a liberarci dalla “delinquenza”… in un territorio che rifiuta l’ideologia del potere statale in tutte le sue forme da sempre? Verranno ad arruolarci con banchetti d’ informazione alla mitica giornata dell’Europa… e noi nuoresi, come imbecilli, per un buon lavoro e uno stipendio sicuro ci faremo incantare? O ancora questi “mitici” 400 dimonios verranno a farsi un po’ di cultura in scienze forestali e rafforzare la loro stupida sete di dominio iscrivendosi all’università di Nuoro? Per la “popolazione” nuorese e per chi li rappresenta statalmente è un successone!!! Finalmente dopo più di 13 anni di attese e ansie per i vari consigli comunali che si sono avvicendati, il demanio militare ha ridato le “chiavi in mano” al comune di Nuoro, di un’area vicino alla zona industriale di prato sardo di 4 ettari e mezzo, dove per parecchi anni, sino agli anni 90, vi era un reparto di artiglieria campale. Ovviamente cosa fa il comune di Nuoro? Ridà le “chiavi” alle servitù militari per poter iniziare i lavori e poter costruire una caserma che prevede 27mila metri cubi tra alloggi, uffici, auditorium, mensa e officina per 400 militari e 100 civili. In cambio, il ministero della difesa (che gentili questi militari, hanno ripristinato anche la cultura del baratto…) darà al comune l‘area di viale Sardegna, dove ora sorge l’artiglieria, e diventerà il tanto agognato campus universitario. Si, bravi… eh… ma a cosa serve un campus universitario se l’università di Nuoro sta fallendo e sta per chiudere? I signori politici di Nuoro non si sono accorti delle manifestazioni degl’iscritti alla facoltà di scienze forestali, per la catastrofica condizione dell’università? Si sono messi i tappi nelle orecchie e i prosciutti negli occhi durante tutte le proteste, che non sono durate un paio di giorni, ma durano almeno da un paio d’anni? Non si sono neanche accorti che il consiglio comunale non ha un progetto e non si è fatta ancora nessuna discussione sul campus universitario e sul futuro dell’università nuorese? Ma chi se ne frega se l’intera operazione caserma-campus costerà 12 milioni e mezzo di euro… l’importante è che i dimonios siano pronti ad arrivare in Barbagia con un loro reggimento, poi tutti i problemi di Nuoro possono aspettare…
Dalle dichiarazioni del figliol prodigo di Cossiga, (tale padre, tale figlio) la presenza militare darà una svolta all’indotto economico del nuorese… (soprattutto nella zona di prato sardo dove la maggior parte delle aziende stanno fallendo…) Forse il signor Giuseppe Cossiga non sa che dentro le caserme esistono gli spacci, e sicuramente un caffè o una pizza in più (augurando che gli vada di traverso…) consumati dai 400 militari al centro commerciale, a noi non ci arricchiscono di sicuro!!! Sicuramente il signor Giuseppe Cossiga vorrà eguagliare il padre a livello di strategia!!! I militari arriveranno a Nuoro per poter attuare il controllo sociale e la strategia della paura e della repressione con la forza e con la loro asfissiante arroganza!!! Rastrelleranno a tappeto tutte le campagne di quei territori considerati ad alto rischio e imporranno la galera come salvaguardia della democrazia, e per il benessere di quei quattro ricchi e potenti del nuorese!!!
Come ciliegina sulla torta mettiamo le splendide considerazioni fatte dal nostro carissimo primo cittadino Sandro Bianchi, che ovviamente rappresentandoci parla a nome di tutta la popolazione nuorese, giusto per renderci conto da chi ci facciamo rappresentare e per farci due belle risate… «La consegna dell'area - dice - rappresenta, dopo una trafila di oltre tredici anni, il passo fondamentale per dare il via ai lavori. Conferma inoltre la volontà del ministero della Difesa di portare a Nuoro un reggimento della Brigata Sassari, sposando così le esigenze militari con quelle del territorio. La nuova caserma rappresenta una nuova qualificante presenza dello Stato a Nuoro e potrà inoltre offrire l'occasione a tanti militari sardi di fare ritorno nella loro terra». Bene, noi auguriamo a tutti i militari sardi di fare ritorno nella loro terra da eroi in un baule!!!
Lunedì 13 giugno è stata messa simbolicamente la prima pietra, con la presenza di rappresentanti statali sia nuoresi che continentali, chiesa, ed esercito che tra applausi e champagne hanno festeggiato l’evento. Tu non sei stato invitato? Non preoccuparti, non fai parte del loro salotto, sei solo un numero come tanti altri! Se non vuoi continuare a essere nessuno, prendi una posizione e fai sentire la tua contrarietà alla caserma di prato sardo. Fra una ventina di giorni, cioè verso gli inizi di luglio, iniziano i lavori. Se veramente hai coscienza e orgoglio, svegliati e protesta nella maniera che più ti è congeniale per bloccare i lavori, parla con chi ti è affianco ed informa più gente possibile di ciò sta accadendo, non lasciare che Nuoro continui a sperperare soldi in lavori che poi durano vent’anni e non servono a niente! Libera la tua testa e il tuo corpo dalla repressione!!!

f.i.p. viale Europa n.1 - Nuoro
15 giugno 2011, da informa-azione.info


Afghanistan: Perché i civili vengono uccisi?
Una guerra di popolo e non una “guerra al terrore”
Introduzione
Il recente aumento di uccisioni di civili da parte delle forze NATO nell’Afghanistan occupato solleva diverse questioni di fondo: perché gli USA - Le forze aeree della NATO e di terra uccidono tanti civili, in modo costante, per lunghi periodi di tempo, nelle regioni in tutto il paese? Perché il numero di civili uccisi è aumentato nel corso del conflitto? Perché gli aerei NATO e USA continuano a bombardare le abitazioni civili e i luoghi di riunione nei villaggi, mentre le truppe di terra attaccano indiscriminatamente case e luoghi di lavoro? Perché le suppliche del presidente collaborazionista NATO Karzai affinché cessino i bombardamenti sulle abitazioni civili rimangono lettera morta? Infine, sapendo che l’uccisione di civili, di intere famiglie, compresi bambini, donne e anziani aliena la popolazione locale e genera una profonda e diffusa ostilità, perché i militari NATO-USA si rifiutano di modificare le loro tattiche e strategie?

Spiegazioni e scuse per le uccisioni di civili
Gli apologeti della NATO sono tanto abbondanti quanto le loro spiegazioni per le uccisioni di civili sono prive di sostanza: i portavoce del Pentagono parlano di “incidenti”, “errori di guerra”, “effetti collaterali”; gli esperti dei media incolpano i guerriglieri di ingaggiare battaglia nelle aree popolate da civili; gli accademici neo-conservatori e i loro colleghi “think tank” incolpano il fondamentalismo islamico di convertire gli abitanti dei villaggi alla loro causa e “forzare” la NATO ad uccidere civili, al fine di creare martiri e utilizzare la loro morte come dispositivo di reclutamento.
Queste spiegazioni palesemente superficiali sollevano più domande che risposte o, in alcuni casi, inavvertitamente respingono la giustificazione per tutta la guerra. L’argomento degli “errori di guerra” esige domande più precise: in quale tipo di guerra sono impegnati USA e NATO per trovare costante “promiscuità” tra guerriglieri e popolazione, quando le forze di occupazione sfondano le porte e percepiscono ogni singola abitazione come un possibile santuario o avamposto della resistenza? Che tipo di azione militare si basa sull’utilizzo di aerei da caccia di alta quota e aerei senza pilota comandati a distanza per attaccare i centri abitati, coinvolgendo le attività commerciali, agricole e domestiche della popolazione? Chiaramente solo un esercito di occupazione, un esercito imperiale, è disposto a sacrificare ripetutamente una moltitudine di civili per uccidere un singolo o pochi sospetti combattenti. Solo operazioni militari in un ambiente civile ostile assumono l’opzione che dietro la porta di ogni casa ci sia un “nemico”, che in ogni famiglia si nasconda un combattente, che è meglio “sparare” piuttosto che rischiare una pallottola in pancia. Gli “incidenti di guerra” non “capitano” solo da un intero decennio, investendo un paese intero. L’uccisione di civili è il risultato di una guerra di conquista imperiale contro un intero popolo che resiste all’occupazione, in qualsiasi forma adeguata alle circostanze. I piloti e le truppe di terra riconoscono di essere una forza aliena ostile, la cui presenza è diretta dall’alto da generali e politici immersi in schemi astratti su “terroristi legati ad Al Qaeda”, che non hanno attinenza con la fitta rete di legami personali di solidarietà tra combattenti della resistenza e civili in Afghanistan.
Lavorando con queste categorie astratte, gli strateghi etichettano i grandi complessi famigliari come “nascondigli”, le riunioni di famiglia come “riunioni di terroristi”, le carovane commerciali come “contrabbandieri della guerriglia”. Gli interessi contrastanti dei politici, generali, strateghi e ufficiali militari imperiali da un lato e popolazione civile e resistenza dall’altro, generano una distanza immensa. Maggiore è il numero di civili/combattenti uccisi, più veloci sono i progressi di carriera per gli ufficiali imperiali, smaniosi di promozioni e laute pensioni. Il “successo”, secondo la visione del mondo imperiale, è misurato internazionalmente dal numero dei governanti clienti, a livello nazionale dal numero “città sicure” sulle mappe di guerra e localmente dal numero delle famiglie massacrate.
Sul terreno, tra i milioni nelle famiglie e nei clan, in cui dolore e rabbia coesistono, la resistenza si dispiega in tutte le sue molteplici forme: voti sacri e promesse laiche di “combattere” sono alimentate dalle milioni di umiliazioni quotidiane che colpiscono giovani e anziani, mogli e mariti, nelle case, nei mercati, per le strade e sulle vie. Lo sguardo ostile di una madre che ripara un bambino dai soldati che fanno irruzione in una camera da letto è rivelatore quanto il crepitio degli spari di un cecchino nascosto nel crepaccio di una montagna.

Una guerra di popolo e non una guerra al terrore
L’uccisione di civili non è “accidentale”. La ragione fondamentale per cui tanti civili vengono uccisi, ogni giorno, in ogni regione da oltre un decennio, è che civili e combattenti sono indistinguibili. L’immagine dei combattenti afgani come una sorta di professionisti indipendenti del lancio terroristico di bombe è completamente fuori luogo. La maggior parte dei combattenti afgani hanno una famiglia, coltivano terreni agricoli e allevano bestiame, crescono famiglie e vanno in moschea, sono “civili part-time” e combattenti part-time. Solo nella mente schematica dei “grandi strateghi della guerra” nel quartier generale del Pentagono e della NATO esistono queste distinzioni. La loro mortale missione militare di “salvare il popolo dai terroristi fondamentalisti”, un auto-inganno egocentrico, è, di fatto, una scala gerarchia politico-militare. Ogni avanzamento dipende dal condurre una “guerra giusta” verso una conclusione positiva.
Il civili-combattenti sono un fenomeno popolare di massa. In quale altro modo possiamo spiegare la loro capacità di sostenere la resistenza armata per oltre un decennio, anche progredendo con il passare del tempo? Come possiamo spiegare il loro successo militare contro le forze armate e i consiglieri militari provenienti da 40 paesi, compresi Stati Uniti, Europa e un gruppo di mercenari afro-asiatico-latinoamericani? Come possiamo spiegare la crescente resistenza, nonostante l’occupazione militare sostenuta dai più avanzati strumenti tecnologici di guerra? Come possiamo spiegare il declino del sostegno popolare per la guerra nel paese “Conquistatore” e il numero crescente di affiliati alla Resistenza? I combattenti hanno la lealtà del popolo afgano, non hanno bisogno di spendere miliardi per comprare la spuria “fedeltà” di mercenari che possono e devono in ogni momento “rivolgere le armi altrove”.
Le feste di matrimonio sono bombardate perché i combattenti frequentano i matrimoni - insieme a centinaia di parenti e amici. I villaggi vengono bombardati perché le coltivazioni dei contadini contribuiscono alla resistenza. Rifugi civili diventano santuari militari. L’Afghanistan è polarizzato: i militari statunitensi contro un popolo in armi. Di fronte a questa realtà, la vera politica di NATO e Pentagono è di dominare e/o distruggere. Ogni bomba che uccide decine di civili alla ricerca di un cecchino approfondisce l’isolamento e il discredito del governo fantoccio. Il “Presidente” Karzai ha visto la sua missione di costruire una “base civile” per ricostruire il paese, completamente screditata. Le sue lamentele impotenti alla NATO perché cessino i bombardamenti contro gli obiettivi civili cadono nel vuoto, perché il comando NATO sa molto bene che “i civili” sono la “resistenza profonda” - la vasta riserva di supporto per i combattenti, i loro occhi e orecchie superano di gran lunga tutti i dispositivi di spionaggio elettronico dell’occupante. Proprio come Karzai non riesce a convincere i civili a rivoltarsi contro i combattenti, allo stesso modo non riesce a convincere gli eserciti imperiali a fermare i bombardamenti su case e raduni civili.
Washington sa che ad ogni ritiro (o ritirata), il terreno, le città ed i villaggi sono occupati da combattenti della resistenza che emergono da ogni dove. Il meglio che i politici USA-NATO sono in grado di negoziare è una partenza sicura e ordinata. Il meglio che essi possano sperare è che i loro collaboratori locali non disertino o fuggano all’estero prematuramente abbandonando miliardi di dollari di ordinativi militari alla resistenza. Il meglio che i collaborazionisti possono sperare è la garanzia di una via d’uscita, di un visto, un conto all’estero e una confortevole seconda casa all’estero. Ciò che è assolutamente chiaro è che gli Stati Uniti, la NATO ed i loro collaboratori non avranno alcun ruolo da giocare nel nuovo Afghanistan indipendente.

9 giugno 2011
Prof. James Petras, da www.globalresearch.ca, tradotto in resistenze.org


“Oggi ho finito l'apprendistato”
Un resoconto dalla mobilitazione generale del 3 luglio 2011 in Val di Susa
La violenza dispiegata dallo stato a L’Aquila nella gestione degli effetti del terremoto dell’aprile 2009, da oltre 20 anni nei comuni vesuviani rispetto al trattamento dei rifiuti e da circa 15 anni cerca di avere ragione della popolazione della val di Susa, ha sempre avuto la presunzione assassina di annichilire l’autorganizzazione e l’autogestione dal basso. La lotta in quella valle è realtà radicata nella gente che, quasi all’unisono, ringrazia in tantissimi modi i manifestanti per il sostegno espresso: dal saluto all’offerta di pane e di indicazioni, le più diverse e necessarie.
La considerazione dello stato, nelle sue conseguenze pratiche che (anche) le popolazioni siano burattini manovrabili dai pretendenti “tirafili” ai vertici dello stato e del suo governo, stavolta è stata respinta, attaccata dalla mobilitazione generale chiamata in Val di Susa dai comitati NoTav per domenica 3 luglio 2011. Una risposta diretta in particolare alle grandi società private finanziarie, immobiliari, edili che vorrebbero ridurre il territorio e chi ci vive in semplice oggetto dei propri interessi economici e guerrafondai, alle forze politiche che le sostengono e a chi dirige le forze armate e le diverse polizie.

Gli antefatti più recenti
Negli ultimi mesi i comitati, l’assemblea permanente NoTav, la gente della Val di Susa, in particolare, ha visto che in valle erano in corso preparativi per installare un cantiere in località La Maddalena (comune di Chiomonte) il cui compito dovrebbe essere quello di compiere dei “carotaggi” nel ventre della montagna. Questo per definire, fra l’altro, se la presenza di uranio e amianto nel terreno riguardino percentuali pericolose per la vita in generale.
L’andirivieni di camion, unito a dichiarazioni ufficiali, al blocco di una galleria dell’autostrada del Frejus in cui sono state nascoste carotatrici, perforatrici e macchinari simili, agli arrivi delle polizie per proteggere il cantiere che dovrebbe sorgere su un’area di migliaia di svariati km quadrati… tutto ciò è stato osservato e ha mobilitato la resistenza contro l’autoritarismo dello stato, del suo governo e dei progetti che ne dovrebbero conseguire.
Così è nata, nel presidio NoTav avviato sul territorio della Maddalena (un sito archeologico risalante al paleolitico), un’esperienza di vita collettiva anche quotidiana che si è espressa nella consapevolezza generale sullo scopo: respingere l’occupazione politica-economica e militare assieme all’autoritarismo che la pervade.
Il presidio vissuto da diverse persone, da compagne e compagni ha consolidato i rapporti nella costruzione delle barricate, nello studio del territorio in vista di altre mobilitazioni, nel trovare vie sicure per i rifornimenti, nella quotidianità. “La libera repubblica della Maddalena” ha avuto vita breve ma comunque ha dato tanto a tutti e tutte, in particolare ai giovani che in gran numero le hanno dato forza. Ha creato una memoria di vita che potrà essere in futuro un concreto punto di riferimento.

I giorni di battaglia
Lunedì 27 giugno ai primi chiarori del giorno migliaia e migliaia di sbirri si sono presentati a La Maddalena per consegnarla alle società devastatrici del territorio, per cacciare via quindi i presidi, abbattere le barricate, distruggere una socialità lontana mille miglia dall’esistenza burattina a cui lo stato vorrebbe consegnarci. Fra le armi e i mezzi adoperati dagli sbirri, oltre a quelli usuali, è stato di importanza strategica lo sparo dei “lacrimogeni cs, cr, cn” i quali non si limitano, come i loro antenati, a urticare gli occhi, anche se appena respirati, entrando nello stomaco e nella testa, contraggono entrambi gli organi generando in pochi secondi e per la durata di diversi minuti conati di vomito, perdita di orientamento, persino depressione, insomma pallottole paralizzanti piuttosto che semplici “lacrimogeni” e capaci di lesionare gravemente l’organo colpito dalle capsule sparate ad altezza della persona, ciò che è accaduto molto spesso, specie nei momenti di panico delle forze occupanti. Pur con queste armi, con le ruspe, con i getti d’acqua montati sui camion-cisterna, con gli elicotteri, alle migliaia di sbirri sono occorse oltre 4 ore per averla vinta su qualche centinaio di persone che coraggiosamente contrattacavano. Tutte però coscienti che quel territorio prima o poi sarà riconquistato.
Così, appena 6 giorni dopo, domenica 3 luglio, oltre 70 mila persone organizzate in tre cortei (uno era composto anche da bambini e persone anziane) si sono diretti verso l’area della Maddalena, cercando di penetrarla da tre punti diversi. Erano provenienti in particolare dal nord Italia ma anche dalla Toscana, dagli Abruzzi, da Roma, Napoli, da Lione (città francese dove dovrebbe transitare il TAV proveniente dall’Italia e viceversa; nella stessa città da anni è attivo un movimento contro le devastazioni) hanno risposto a quell’appello e messo in campo una rinnovata e cosciente resistenza alla pratica totalitaria dello stato.
Tutti i cortei nell’avvicinarsi alla recenzione dell’area innalzata a tempo di record, sono stati accolti dall’immancabile e copioso uso di gas sparati come proiettili, dal lancio di sassi e di getti d’acqua, dalle ruspe, dai volteggi dell’elicottero importanti sia per la conoscenza delle mosse dei manifestanti che per la direzione di mezzi e sbirri, nelle fasi di attacco come nelle ritirate e per premere l’aria venefica gassata sulle teste dei compagni e delle compagne.
Le tre polizie (di stato, finanza e carabinieri) per un totale grosso modo di 1.500 sbirri, divisi rispettivamente sui tre punti di accesso, si sono alternate per le oltre 5 ore di durata della battaglia. Dei cortei si è detto, ma va precisato che le loro parti capaci, pronte, attrezzate a sostenere l’impatto con le polizie e i loro mezzi, a conquistare terreno, erano solo pochissime centinaia, gli altri, le altre, si muovevano, per così dire, nelle “retrovie”. Le “armi” adoperate dai manifestanti, erano sul terreno, cioè i sassi, i bastoni e qualche petardo. Il territorio di “confine” è stato conteso in innumerevoli avanzate e ritirate, da una parte e dall’altra; l’esito della battaglia è rimasto sempre incerto. La battaglia è infatti avvenuta su un terreno montagnoso ricoperto di alberi, roccioso in cui gli sbirri, attestati su un pianoro sgombro, non potevano certamente penetrare in profondità. Quando lo hanno fatto, in un momento di relativa tregua, venendo meno ad una legge della guerra, si sono sgranati fino a ridursi a un gruppetto di 20-30, divenuto facile preda del contrattacco di compagni e compagne che lo ha messo in fuga. L’ultimo della fila inciampando è rimasto a terra ed è stato circondato e reso inoffensivo. Dopo un certo lasso di tempo un funzionario della digos, a mani alzate, si è fatto avanti per avere indietro lo sbirro perso nel bosco, in cambio dell’interruzione degli spari e degli avanzamenti.
La capacità offensiva e di tenuta dei compagni e delle compagne è emersa da un’intesa sentita sulle finalità della lotta in Val di Susa, così come in tutto il paese contro le “manovre” repressive, guerrafondaie o economiche che siano. In queste giornate di lotta aperta una nuova generazione “ha finito l’appredistato”, come, riassumendo la propria esperienza di quelle giornate, si è espresso un compagno giovane; una conclusione che si proietta nel futuro del processo rivoluzionario recandogli una notevole forza.

Pestaggi e arresti
Degli arresti avvenuti in particolare nelle prime ore della battaglia le informazioni sicure erano quasi nessuna. E’ stato necessario sentirsi tutte e tutti per ricomporre il quadro. Gli e le arrestat* erano 7 forse 8, picchiati duramente al momento dell’arresto (ad una compagna è stato procurato un trauma cranico, ad un compagno hanno rotto un braccio, ad un altro ancora il naso e le costole) e trasferiti nella caserma dei carabinieri di Bardonecchia, un paese dove non esiste neppure un Pronto Soccorso. Dopo medicazioni sommarie le compagne e i compagni arrestat* sono stat* trasferit* nel carcere Le Vallette di Torino. Lì attenderanno il verdetto del tribunale della convalida dell’arresto.
La sera di lunedì 4 luglio un gruppo di solidali si è portato sotto Le Vallette con urla e lancio di botti a cui ha risposto con una battitura tutto il carcere all’urlo di libertà, libere tutte e tutti. L’arrivo di diverse “gazzelle” dei carabinieri non ha fatto che prolungare il tempo del saluto a tutte le persone in carcere.

***
Uno dei pulman che rientrava dalla Valle con compagni di Milano, del Cremonese e di Parma è stato intercettato ad Arluno verso le 00:30 da pattuglie dell'autostradale. Lo aspettavano dietro indicazioni della digos di Milano e lo hanno scortato fino al casello autostradale. Li erano presenti 50-70 sbirri di ogni tipo, incluse 3 camionette di celere e carabinieri. Il comitato di accoglienza comprendeva operatori fotografici, cameramen. Coloro che trascrivevano i dati dei presenti sul pullman. Hanno controllato i zaini dei passegeri, riprendendo e fotografandone i contentuti e poi hanno controllato l'interno dell'autobus in presenza di un compagno.
Il 6 luglio si è tenuta invece l'udienza di convalida degli arresti per cui il giudice deciderà nei prossimi giorni. Il clima anche in aula era pesante con domande provocatorie da parte del p.m. e del giudice agli imputati, l'intenzione è di punire con fermezza chiunque abbia anche solo partecipato alla manifestazione.
Per poter scrivere loro:

Marta Bifani, Roberto Nadalini, Salvatore Soru, Giancarlo Ferrari
viale Pianezza, 300 - 10151 Torino

Milano, 4 luglio 2011


lettera dal carcere di spoleto
“L'ingiustizia in un luogo qualunque è una minaccia per la giustizia ovunque” (Martin Luther King)
Il mondo ci ha rifiutato, ma noi non abbiamo del tutto rifiutato il mondo. Molti di noi non hanno più né sogni né speranze, ma sperano lo stesso in un modo migliore per i propri figli e nipoti. Per molti di noi il mondo non va oltre il confine della propria cella, ma non rinunciamo lo stesso a interessarci del mondo. Molti di noi si sono piegati, ma non si sono ancora spezzati e hanno ancora la forza di amare il mondo là fuori. Molti di noi vivono di poco e di niente, ma sognano lo stesso un modo migliore per tutti gli altri.
Ormai nelle carceri italiani ci sono suicidi, morti, autolesionismi, disumanità, violenze ed illegalità istituzionale, ma non vogliamo che là fuori diventi un luogo infame come da noi.
Molte volte comunisti e movimenti extraparlamentari ci hanno dato solidarietà.
Questa volta è il mondo carcerario che vuole dare sostegno al mondo esterno.
Solidarietà al movimento No TAV, a tutti gli abitanti della Val Susa e a chi li sostiene.

giugno 2011
Gli ergastolani e i detenuti del carcere di Spoleto


Perquisizioni all'alba contro i NoTav
Questa mattina intorno alle 6 agenti della digos torinese hanno perquisito le abitazioni di alcuni notav tra cui Alberto Perino, e il centro sociale Askatasuna di Torino sfondando con un ariete la porta d’ingresso.
Con in mano un avviso di garanzia da recapitare agli indagati e l’ordine di perquisizione, gli agenti hanno compiuto un blitz degno di una missione militare. I fatti contestati sono relativi alla notte del 23 maggio a Chiomonte, quando il movimento respinse il primo tentativo di presa del cantiere della Maddalena. La questura su ordine della procura torinese ha eseguito un’operazione in tempi fulminei come non avviene per nessun’altra inchiesta, il tutto teso a mettere pressione e paura nel movimento notav.
Alle luci dell’alba mentre avvenivano le perquisizioni le notizie sono iniziate a circolare e siccome sembrava, vista la contemporaneità delle perquisizioni e il dispiegamento di forze, il preludio a degli arresti è scattata la mobilitazione. Un presidio si è formato a Condove sotto casa di Alberto Perino per denunciare il fatto e portare solidarietà.
A Perino viene contestato un reato d’opinione (istigazione a delinquere) relativo al comizio finale della manifestazione Rivalta-Rivoli del maggio scorso e un video su Youtube; agli altri: due studenti universitari del Collettivo Universitario Autonomo, uno dei comitati no nuclere di Saluggia e uno del CSOA Askatasuna, vari capi d ‘imputazione relativi alla prima notte di resistenza alla Maddalena. Una logica perversa da parte degli inquirenti che vorrebbero Perino ispiratore e gli altri esecutori. Un’ennesimo atto, a cui siamo sicuri ne seguiranno altri, che vede la firma del Procuratore Giancarlo Caselli, che dopo i suoi nemici storici, terrorismo e mafia, ha ora individuato nel movimento notav l’ennesimo avversario da sconfiggere. Per la mattinata è prevista una conferenza stampa. Seguiranno aggiornamenti.

17 giugno 2011, da notav.eu, in piemonte.indymedia.org


Perquisizioni ed arresti
in merito agli scontri con Casapound a Cuneo
Nelle prime ore della mattina di venerdì 27 maggio, le forze della repressione agli ordini della questura di Cuneo hanno arrestato due compagni e somministrato diverse misure cautelari, tra arresti domiciliari e obblighi di dimora a diversi compagni e compagne. L'operazione e le perquisizioni hanno riguardato Cuneo, Torino e diverse abitazioni tra Canavese e Astigiano. Le indagini riguardano gli scontri avvenuti a Cuneo il 26 febbraio scorso, contro l'apertura di una sede di Casapound. Le informazioni diffuse sono per il momento frammentarie, ma sappiamo che Guido e Luca sono stati tratti in arresto (non è ancora certo se a Cuneo o alle Vallette di Torino), mentre Fabio e altri quattro compagni sono ai domiciliari.
GUIDO LUCA E FABIO LIBERI! SOLIDARIETA' E COMPLICITA' CON TUTTI GLI INQUISITI!

27 maggio 2011

Dopo 2 settimane di detenzione nel carcere di Cuneo, Luca è tornato a casa, anche se nuovamente trasformata in luogo di reclusione per la misura cautelare degli arresti domiciliari con l'aggiunta di diverse restrizioni.

***
Libertà per i prigionieri, viva l’Antifascismo, no al TAV
Lo scorso venerdi, 27 di maggio, la polizia italiana ha compiuto una retata contro 20 compagni, mandando in carcere sette di loro. Alla fine, un compagno è in carcere, altri due sono in arresto domiciliare e altri due non sono stati trovati a casa.
L’accusa è stata questa: partecipare e provocare casini nella manifestazione contro l’inaugurazione della nuova sede neofascista del movimento Casa Pound nella città di Cuneo. Non è la prima volta che utilizzando argomenti così per reprimere i militanti antifascisti, e gli attivisti contro le grandi opere. Anche all’inizio di quest’anno abbiamo avuto la notifica di un’altra retata del genere. Adesso sono andati un’altra volta contro alcuni di loro.
Pare che il fatto di aver partecipato alla manifestazione contro Casa Pound possa essere solo una scusa. Infatti, non è casuale che gli arrestati siano quelli che lavorano e lottano nella Val di Susa contro il distruttivo progetto del Treno di Alta Velocità.
Il 31 maggio scadeva per lo stato Italiano la data d’inizio per i lavori del TAV, oltre la quale avrebbero dovuto perdere l’aiuto economico della Comunità Europea, ma ancora una volta la data è stata prorogata a causa dell'opposizione popolare. Queste operazioni contribuiscono a “ripulire” l’opposizione.
Askapena denuncia le retate arbitrarie e preventive dello stato Italiano contro qualsiasi movimento ribelle. Denunciamo il carattere repressivo dello Stato, perché invece di ascoltare la parola dei cittadini e le idee del suo settore più consapevole, la polizia difende ciecamente l’interesse del capitale, utilizzando giudici e leggi contro i militanti e lottatori.
Definitivamente, chiediamo di lasciar liberi i prigionieri, lasciare in pace i repressi, negare la protezione politica al fascismo e fermare i progetti distruttivi.
Viva la lotta dei popoli, viva l’antifascismo.

Euskal Herria, 1 giugno 2011
Askapena, da indymedia.piemonte.org


la spezia: APRE CASAPOUND FERMI E DENUNCE
Ieri 18 giugno, a Spezia si è svolta l’inaugurazione della sede di casapuond proprio nel centro città. Verso le 17:30 una trentina di compagni antifascisti hanno dato vita ad un presidio, in opposizione all’apertura di sedi fasciste in città, nella zona vicina alla nuova sede, ribadendo l’importanza dei valori dell’antifascismo. Il presidio spontaneo ha poi dato vita al blocco stradale di Viale Italia, una delle principali strade della Spezia, bloccando energicamente il traffico stradale, ed esponendo uno striscione di protesta.
Ancora una volta sono prontamente intervenute le forze del dis-ordine con diverse pattuglie di polizia e digos, malmenando e fermando nove compagni che sono stati trattenuti in questura fino all’una di notte per l’identificazione seguita da una denuncia per manifestazione non autorizzata. Segue il comunicato dei militanti antifascisti.

***
Ieri abbiamo contestato l’apertura di casapound, che prova ad inserirsi in un contesto sociale pieno di contraddizioni, le loro, facendo proselitismi nel campo sociale quali il mutuo per la casa, pseudo lotte ambientaliste e nel mondo del lavoro.
Sappiamo bene che dietro alla loro maschera di zorro si nasconde un disegno ben preciso da parte dello stato borghese di finanziare gruppi xenofobi col solo intento di destabilizzare l’aspetto politico italiano e casapound è l’ennesima pedina all’interno di questo disegno. Disegno ben delineato all’interno del quale casapound prende finanziamenti dallo stesso governo che vuole combattere nel campo sociale. Questi finti proclami non sono altro che una maschera dietro al loro tentativo fascista e borghese di aggregazione.
Quello a cui ieri abbiamo assistito a Spezia è l’ennesima dimostrazione di questo disegno, nella quale gli antifascisti vengono fermati ed identificati a difesa di gruppi fascisti, xenofobi. Le forze di polizia hanno dimostrato ancora una volta quello che è il loro ruolo a guardia di questi vigliacchi.
Tutto questo non scalfirà la nostra determinazione nel voler chiuso questo covo, facendo capire che a Spezia non vi è alcuno spazio per questa feccia, portando avanti quei valori tramandateci dalle nostre famiglie facendo non un passo indietro!
Rilanceremo la lotta nei prossimi giorni con svariate iniziative.

19 giugno 2011
Assemblea permanente antifascista
da autonomiaspezzina.wordpress.com



LA SCINTILLA NEL VENTO: Solidarietà per Petone e Fede
“La ribellione trova in sé stessa la propria giustificazione” (A. Bréton-Peton)
“Ora fra il rogo ardente delle mie Idee anch'io son diventato di fiamma; e scotto, brucio, corrodo... A me devono accostarsi soltanto coloro che gioiscono contemplando ardenti vulcani che lanciano verso le stelle le lave sinistre esplodenti dal loro seno di fuoco [...] Io mi dichiaro in guerra aperta, palese e nascosta contro la Società: contro ogni Società!” (Renzo Novatore, 1920)
Qualche notte fa sono stati arrestati i nostri due compagni Mattia “Petone” e Fede, individui da molto tempo attivi in prima persona nelle lotte contro il sistema capitalista, tra cui quelle contro carcere e nucleare, e per l’occupazione di nuovi spazi. Lotte che aprono squarci di resistenza ai meccanismi di controllo sociale, che sempre più monitorano ogni aspetto della nostra esistenza. Telecamere “intelligenti”, soldati nelle strade, controlli di polizia sempre più frequenti, droni che ci spiano dall’alto e le nuove tecnologie che ci spiano dentro. E’ in questo clima di asfissiante mancanza di libertà che ogni individuo che non si adegua e sottomette è uno schiaffo all’autorità imposta, e che ogni atto ribelle acquisisce ancora più valore. Con altri due compagni sequestrati dallo Stato, non ci facciamo intimorire ma è con ancora più rabbia e passione che continueremo le lotte che loro con noi portano avanti.
PER LA DISTRUZIONE DI OGNI GABBIA E DI OGNI GALERA!
COMPLICITA’, SOLIDARIETA’, AZIONE DIRETTA! FEDE E PETONE LIBERI

18 giugno 2011
Villa Vegan occupata, da informa-azione.info

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I due compagni sono stati trasferiti in altre carceri prima del 2 luglio, giorno del presidio sotto il carcere di San Vittore dove fino ad allora erano detenuti. Seguono i loro attuali indirizzi.

Mattia Petit, Via Gravellona, 240 - 27029 Vigevano (PV)
Federico Buono, via Palosca 2 - 26100 Cremona


catania: La casa è di chi l’abita, la terra di chi la lavora...
La legalità è stata ripristinata. Queste le dichiarazioni del sindaco di Catania che si vanta, con lo sgombero del palazzo di cemento, avvenuto martedì 17 Maggio, di aver espugnato un bastione della criminalità ed estirpato l’abusivismo in città.
I soliti lacchè incoronano Stancanelli come paladino antimafia che, con il suo comportamento, si sarebbe così anche alienato i voti del grosso bacino della città satellite di Librino feudo del centrodestra.
Ma chi si muove oltre lo schermo della tv, percepisce immediatamente che la realtà è molto più complessa. Sono in tante le famiglie, i bambini, gli anziani che nel palazzo di cemento abitavano costretti da una speculazione edilizia che mette in ginocchio una popolazione di disoccupati, precari, lavoratori saltuari e occasionali, una non forza lavoro che nella provincia di Catania arriva al 52,3%. Mentre sono oltre 15.000 gli alloggi occupati abusivamente nel solo anello di Zia Lisa, Librino e San Giorgio, gestiti dai capisquadra dei quartieri che li distribuiscono in cambio di affiliazioni, favori o piccole somme di denaro. Non parliamo poi del mercato della droga che è di gran lunga il lavoro più facilmente reperibile e più remunerativo per una popolazione in gran parte analfabeta.
Una popolazione emarginata, isolata nel proprio quartiere ghetto dove manca qualsiasi servizio essenziale, dove nessuno era contento di vivere con le fogne in garage, i ratti sulle scale ecc.ecc. ma che almeno aveva un tetto sulla testa.
Una intera popolazione costretta appositamente alla lontananza dallo sfarzoso centro cittadino, una periferia nascosta dove rinchiudere gli abitanti, costringendoli ad una prigione mentale, ad una divisione classista e discriminatoria, dove la contaminazione e l’incontro con il resto del tessuto urbano diventano scontro e rabbia e dove condurre la propria esistenza diventa, in modo più evidente e lampante che in altri, mera sopravvivenza.
Si è tanto parlato in modo strumentale dello spaccio che nei piani bassi del palazzo di cemento sostituiva negozi e botteghe, ma sarebbero gli abitanti, vittime del disastro in cui versa il sistema, ad essere la causa del problema? Sarebbero loro, che vivono tra i rifiuti e i miasmi, i potenti boss della mala che si arricchiscono con la droga? Eppoi, sarebbe la droga un affare così grosso se lo Stato, con la scusa di tutelare la salute dei cittadini, non avesse appaltato il suo commercio al mercato nero delle mafie?
Stancanelli, esponente cittadino del clan dello Stato, con una strategia vincente è riuscito ancora una volta a farla franca, dividendo tutte le famiglie, ricattando e terrorizzando è riuscito a buttare in mezzo ad una strada gente che non ha raccomandazioni, influenza e denaro per far valere le proprie ragioni e nel contempo ad essere acclamato come paladino della giustizia.
Mentre lo spaccio, sotto accurate indicazioni, si sposta qualche via più in là, la gente non può che rivolgersi ai clan rivali per chiedere assistenza e protezione.
D’altronde si sa, gli Stati come le mafie trattano, prendono accordi e a pagarne le spese sono sempre i poveri e gli indigenti sulla cui pelle si guadagnano succosi profitti.
Ma questo non basta, l’arroganza del potere fascista non può permettere ai poveri di organizzarsi, magari di uscire dall’egida dei potenti per conquistare autonomamente con la lotta ciò che gli spetta. Quindi è necessario spaventare e reprimere per stroncare una riappropriazione che potrebbe rivelarsi ben più pericolosa di una supina richiesta alle istituzioni, ed è così che verso le 15.00 di giovedì 19 maggio la polizia municipale, milizia privata del capoclan Stancanelli, indossati guanti e caschi, con la forza smonta il presidio strappando brutalmente tende, gazebo e transenne dalle mani dei reduci della protesta. Questi sono colpevoli di aver contestato la loro nuova condizione di senza casa, colpevoli di non aver accettato di andare a stare negli alberghi ad ore utilizzati per la prostituzione, in colonia tra le spiagge della plaja o nelle camerate della Caritas vanno dispersi, altrimenti per ammissione dello stesso sindaco questa “sconcia rappresentazione del degrado” potrebbe saltare agli occhi di chi passeggia per il salotto buono della città. Ovviamente sono i tutori dell’ordine a lamentarsi di esser stati vittime di donne e anziani che hanno osato difendersi dalla “normale” violenza delle istituzioni, ma il capo mandamento Pdl in città, che osservava sorridendo compiaciuto lo sgombero in atto sotto il suo balcone, non s’illuda, lo sfruttamento e i soprusi sono già nel suo conto e prima o poi qualcuno sarà costretto a saldarlo.
SOLIDARIETÁ CON LE FAMIGLIE SENZA-CASA DEL PALAZZO DI CEMENTO!

25 maggio 2011
da cenere.noblogs.org


Cortemaggiore (pc): Report dallo sciopero alla Ceva logistica
Martedì 24 maggio ore 5,30: una quindicina di operai e altrettanti militanti del coordinamento di sostengo alla lotta delle cooperative si ritrovano a Cortemaggiore (PC), presso la Ceva Logistica, per dare inizio all'ennesimo sciopero con cui, da ormai tre anni, gli operai stanno cercando di fronteggiare il regime schiavistico imposto dala grande distribuzione attraverso il meccanismo della somministrazione di lavoro garantito dal sistema cooperativistico. Questa ulteriore puntata ha un significato particolare: è il prodotto della vittoria ottenuta a Brembio un anno e mezzo fa nei confronti della FIEGE Borruso essendo stati alcuni degli operai protagonisti di quella battaglia a fornire il contatto Il presidio, fortemente voluto dagli operai, si trasforma immediatamente in un picchetto che blocca le merci in entrata e convince la maggioranza degli operai ad aderire alla lotta; sul tappeto, come al solito, rivendicazioni economiche basilari, legate alla truffa perpetuata  tramite un sistema di pagamento (busta paga) che erode in maniera sistematica il loro salario (azzeramento scatti di anzianità, straordinari (sotto)pagati in nero, mancati passaggi di livello, negazione dell'indennizzo mensa) in misura di oltre 250€ mensili. Ma anche in questo caso, la molla che scatena la voglia di protagonismo degli operai, va aldilà dlle questioni economiche e coinvolge in maniera diretta la sete di dignità dei lavoratori, per il 99% immigrati. Da aggiungere, a mò di premessa, che gli operai dipendono, attraverso la cooperativa Asso srl, dal Consorzio CAL, lo stesso che impega la sua manodopera presso la Bennet di Origgio e Turate. La cronaca della mattinata rispecchia quanto già visto in altre occasioni; l'effetto sorpresa la fa da padrone, i camion cominciano ad ammucchiarsi all'ingresso dei cancelli picchettati. i caporali vanno in affanno, i potenziali crumiri per lo più non osano affrontare il picchetto, la produzione si blocca, il danno si accumula. Dopo un paio d'ore si contano tre macchine e un cellulare dei carabinieri che, in maniera piuttosto blanda, cercano di dissuadere gli operai dal continuare il picchetto intimando loro di lasciar passare i camion ma poi, di fronte al rifiuto di arretrare....enrtano in azienda a far finta di cercare lavoratori in nero regolarmente utilizzati dalla cooperativa per far fronte ai picchi di lavor di fine mese. Infine giunge sul luogo il responsabile della CAL (tal Chiari, già conosciuto ad Origgio tre anni fa) che si dichiara disponibile ad accogliere le richieste degli operai fissando quindi un incontro definitorio per giovedì-venerdì di questa settimana, senza rinunciare a segnalare le condizioni di difficoltà in cui versa il consorzio in relazione alla dichiarata volontà di Ceva di mollare l'impianto e trasefire la produzione altrove...causa crisi Non è dato sapere allo stato attuale come si "concluderà" la questione, ed è lecito pensare che la "trattativa" di oggi contenga un elemento di temporeggiamento finalizzato a garantire la ripresa dell'attività giornaliera (in ogni caso compromessa dallo sciopero). E tutto sommato non è nemmeno qui la questione fondamentale. Ciò che più conta è che, ancora una volta, si è espressa una precisa e determinata volontà di lotta da parted di una porzione di classe operaia i cuii collegamenti sociali sul territorio sono forieri di ulteriori evoluzioni deicisive per il futuro che tutti ci riguarda e che tracciano una prospettiva della massima importanza per le sorti dell'insieme dei lavoratori Seguiranno nei prossimi giorni comunicazioni dettagliate sull'esito sindacale della vertenza e, molto più probabilmente, sugli ulteriori appuntamenti di lotta che si renderanno necessari per piegare l'arroganza padronale e proseguire un percorso di costruzione che non accenna ad arrestarsi.

giugno 2011
fonte: info@antirazzistimilano.org


Bergamo: cariche con 5 feriti contro i lavoratori in lotta
Giungono notizie di pesanti cariche poliziesche a bergamo contro i lavoratori. Le notizie che arrivano sono convulse, l'ultima diretta è che non ci sono fermi, ma ci sono 5 operai feriti, portati in ospedale, qualcuno seriamente, testa spaccata, la tensione resta alta la mobilitazione resta. L'azienda ha chiesto di incontrare lo slai cobas per il sindacato di classe.

Blocco degli operai immigrati a Bergamo
Continua da ieri lo sciopero compatto dei 150 operai delle cooperative di Bergamo organizzati nello Slai cobas per il sindacato di classe, la stragrande maggioranza sono immigrati. Sono in lotta di fatto il 100% dei lavoratori (a parte 5/6). Dopo lo sciopero di tutta la giornata di ieri, questa mattina vi è il blocco totale dei camion.
Gli operai sono determinati a resistere fino in fondo.
Gli operai con la loro lotta hanno già imposto dei risultati, relativi soprattutto al rispetto del contratto; ma ora lo sciopero continua per la questione degli orari e organizzazione del lavoro e contro la politica aziendale di pretendere una conciliazione individuale dei lavoratori sulle somme non corrisposte in passato che però metta una pietra tombale su tutte le rivendicazioni dei lavoratori (anche infortuni, ecc.).
L'azienda in combutta con i sindacati confederali - che finora non avevano fatto nulla e assistito in silenzio al supersfruttamento e negazione dei diritti elementare degli operai immigrati e che si sono "svegliati" solo per bloccare la presenza dello slai cobas per il sindacato di classe, - ha già firmato un verbale, con il solo scopo di concedere solo qualcosa (a fronte delle tante irregolarità), ma soprattutto per far fallire la lotta degli operai e non riconoscere lo slai cobas per il sindacato di classe.
Per questo, il centro dello sciopero e del blocco di oggi è proprio il riconoscimento dello slai cobas per il sindacato di classe. Gli operai fin dall'inizio hanno detto che questa è una condizione essenziale per difendere realmente i loro interessi e su questo è giustissimo scioperare.
Questa lotta è importante e deve vincere, unisce la lotta contro lo sfruttamento alle logiche schiaviste e razziste verso lavoratori immigrati di padroni soprattutto al nord; in questa lotta si sta realizzando una unità di classe tra operai immigrati e operai italiani.

1 giugno 2011

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Dalle cariche alla vittoria, la lotta degli operai immigrati di bergamo
Conclusione positiva della lunga giornata di lotta degli operai, quasi tutti immigrati, delle cooperative Sirio e Prometeo operanti nella azienda Kuehne&Nagel di Bergamo organizzati nello SlaiCobas per il sindacato di classe.
Dopo il vano tentativo di soffocare la lotta con una brutale carica della polizia, che ha provocato 8 feriti tra gli operai, l'azienda ha dovuto fare un accordo con cui riconosce lo SlaiCobas SC, i suoi rappresentanti interni e la maggior parte delle richieste avanzate dagli operai. Ora gli operai si sentono ancora più forti. Questa lotta ha aperto una strada per tanti altri operai supersfruttati nelle cooperative della logistica di Bergamo. Pubblicheremo ora un'intervista al coordinatore provinciale dello SlaiCobas SC, Sebastiano Lamera, operaio Dalmine.
2 giugno
SLAI COBAS PER IL SINDACATO DI CLASSE - BERGAMO
redlush@alice.it - 3355244902 - 3935579856
Fincantieri: la lotta paga, ma non finisce qui
cronaca di una giornata di lotta
Venerdì 3 Giugno, si parte all'alba. Da Genova e Castellamare i treni speciali partono con a bordo 3.000 operai di Fincantieri e indotto. Con loro tante persone, studenti, compagni e compagne che seguono con attenzione le sorti dell'ultima industria italiana a maggioranza statale. Si aggiungono alla giornata delegazioni delle altre sedi sparse sul territorio italiano: Palermo, Porto Marghera, Trieste, Monfalcone e La Spezia.
Intorno alle 10 gli operai di Castellamare sono alla zona EUR, dove, per questioni di ordine pubblico, in una stanza del Ministero dell’economia, è stato spostato l’incontro tra il ministro dello Sviluppo economico Paolo Romani e le rappresentanze sindacali; il tema è il futuro di Fincantieri.
Nel frattempo 2000 lavoratori di Sestri Levante e Riva Trigosa, sfilano per le vie del centro, in barba alle questioni di ordine pubblico, all’origine dello spostamento del vertice. In un'atmosfera da Seattle, con cordoni delle forze dell'ordine che chiudono e direzionano il corteo metro per metro: l’apparenza deve essere salvata e i capi di stato ancora presenti a Roma dopo le celebrazioni del 2 Giugno, non devono percepire che l’Italia va in rovina mentre compie 150 anni; la rabbia di chi da una settimana non solo è senza un lavoro, ma con la prospettiva di non averlo più deve essere nascosta.
Si rincorrono le discussioni con i lavoratori dei vari settori e delle due città: “la crisi?”, chiediamo e la risposta è "sì, certo, ma una crisi ciclica di commesse è stata tramutata in una crisi strutturale, che necessità di un nuovo piano per Fincantieri e per i sui dipendenti". Si accusano le istituzioni locali, il governo centrale e chiunque non abbia a cuore il futuro delle aziende a rischio chiusura e dei suoi dipendenti, chi ha per anni gestito in modo scellerato Fincantieri ed ora ha come risposta solo piani lacrime e sangue per gli operai.
Si parla di dignità, la dignità di chi riconosce nel proprio lavoro non solo una fonte di reddito per se e per le proprie famiglie, ma anche un’ancora di salvezza, in un territorio, soprattutto quello di Castellamare, dove da venti anni a questa parte non è rimasto nulla, se non la scelta di emigrare: “non possiamo permettere che Fincantieri chiuda – ci dicono – non possiamo permetterlo per noi e per i nostri figli, per il futuro del nostro territorio”.
Alle 15 la riunione al ministero termina. Dall’Eur al centro di Roma rimbalza la notizia che l’amministratore delegato Fincantieri, Bono, ha ritirato il piano di chiusura. La palla passa adesso ai governi locali, alle regioni, per il rilancio, mentre Governo e UE intervengono con ammortizzatori sociali: la tregua è stata firmata. Si susseguono commenti e valutazioni, dopo ore i lavoratori dei due stabilimenti si ricongiungono alla stazione di Roma Ostiense, dalla quale partono i treni del ritorno.
Una cosa è certa: è stata una giornata di lotta ed è stata una giornata vittoriosa; adesso si comincia a programmare il futuro, senza abbassare la guardia e continuando a lottare.

5 giugno 2011
da clashcityworkers.org
fonte: Collettivo Autorganizzato Universitario - Napoli


manovra finanziaria, accordo contrattazione
APPELLO A TUTTE LE FORZE SINDACALI, SOCIALI E DI MOVIMENTO
La manovra finanziaria lanciata dal governo continua ad attaccare le condizioni di vita e di lavoro di tutti i lavoratori. Prevede: il blocco dei contratti nazionali del P.I., l’allungamento dell’età per la pensione a 65 anni per le donne che lavorano nel privato dopo quelle del pubblico, l’anticipazione al 2014 dell’allungamento dell’età pensionabile legato all’aspettativa di vita, aliquote irpef che favoriscono i ricchi, nuove tasse sulla rc auto (frutto del federalismo pagato dai lavoratori), i ticket sul pronto soccorso e sulle prestazioni specialistiche, ecc.
L'accordo sulla contrattazione siglato da Cgil-Cisl-Uil e confindustria priva definitivamente i lavoratori della possibilità di poter decidere su contratti e accordi (dove ci sono le RSU non sono previste le votazioni su accordi e contratti, mentre dove ci sono le RSA potranno chiedere le votazioni Cgil, Cisl Uil o il 30% dei lavoratori) , annulla ogni parvenza di democrazia alle rappresentanze sindacali aziendali, crea un vero e proprio monopolio dei sindacati firmatari, esclude tutti i sindacati di base dalle trattative.
Ma non solo, punta all'eliminazione del contratto nazionale e introduce, da subito, la possibilità di deroga ai contratti nazionali con gli accordi aziendali; getta le basi per una maggior subordinazione dei salari ai risultati aziendali e agli obiettivi definiti dalle aziende, limitando inoltre la possibilità di sciopero.
Manovra finanziaria e accordo sulla contrattazione richiedono una risposta immediata, che getti le basi per organizzare successivamente una risposta di massa a confindustria, governo e sindacati di comodo.
Per questo proponiamo a tutti una manifestazione di protesta a Milano come prima risposta alla “nuova” manovra del governo e all'accordo sulla contrattazione.
Ovviamente è necessario lanciare in tempi brevissimi una assemblea di tutto il movimento per organizzare la protesta.

4 luglio 2011
SINDACATO INTERCATEGORIALE COBAS MILANO
www.sicobas.org - news@sicobas.org