indice n.73

Siria: LA GUERRA DI ALEPPO (prima parte)
Sul ruolo della Turchia
Tunisia: sciopero dei trasporti a sorpresa
AGGIORNAMENTI DALLA LOTTA DENTRO E CONTRO I CIE
lettera dal carcere di san vittore (milano)
Lettere dal carcere di Tolmezzo (ud)
ancora un “suicidio”, nel carcere di biella
Contro le nuove privazioni per i detenuti a regime di 41-bis
lettera dal carcere di Velletri (roma)
lettera dal carcere di Prato
lettere dal carcere di Perugia
20 ottobre: presidio al carcere Bassone (como)
Roma: repressione per manifesti sulla morte di Luigi Fallico
Resoconto del presidio del 6 ottobre da Serravalle a Arquata
resoconto del corteo del 13 ottobre a ravenna contro la c.m.c.
milano: Il Presidio Martesana non si sgombera
No Tav: nuovi indagati
Trieste: Denunce per mobilitazioni No Tav
torino: UN CORTEO CONTRO GLI SFRATTI
milano: Processo ai sostenitori degli operai INNSE
piacenza: IN SOSTEGNO ALLA LOTTA DEI LAVORATORI IN APPALTO IKEA
milano: APPELLO AI LAVORATORI DELLA SANITÀ
La lotta degli operai sardi per la sopravvivenza

Siria: LA GUERRA DI ALEPPO (prima parte)
Pubblichiamo in due parti alcuni estratti di un reportage realizzato a metà di ottobre in Siria e pubblicato sul sito Fortress Europe dal quale abbiamo attinto spesso preziose informazioni sulle condizioni di sopravvivenza nei CIE, sulle lotte che vi si portano avanti dentro e anche approfondite analisi sulle politiche dell’ “emergenza” che caratterizzano la gestione imperialista dei flussi migratori. Nonostante siamo convinti che la guerra civile in Siria sia principalmente il prodotto dei tentativi di destabilizzazione dell’area da parte degli USA, così come accaduto recentemente in Libia o negli anni passati in Iraq, abbiamo deciso di riportare questi estratti perché oltre a fornire informazioni dirette su quanto sta accadendo in Siria danno conto di una realtà sociale e politica complessa nella quale insieme al ruolo dell’imperialismo statunitense emergono anche le tensioni rivoluzionarie, anche se contradditorie, in seno al popolo siriano.

Aleppo. […] L'eco degli spari e delle esplosioni va avanti incessantemente giorno e notte. I combattenti dell'esercito libero si danno il turno su camionette e furgoncini scassati che fanno avanti e indietro dal fronte. Sono soprattutto ragazzi delle campagne di Aleppo. Mostafa faceva il commerciante, Yusef il falegname, Ahmed l'informatico, Abu Malek il rivenditore di auto. Sono quasi esclusivamente arabi musulmani, salvo qualche raro caso di ex ufficiali cristiani e drusi dell'esercito che hanno disertato per unirsi alla rivolta.
Molti di loro nel 2011 erano scesi in piazza durante i sei mesi di proteste pacifiche. Fino a quando, abbandonati dalla comunità internazionale e sottoposti ogni giorno a omicidi, arresti e torture, hanno aderito all'Esercito libero formato da un gruppo di ufficiali disertori. Era l'agosto dello scorso anno. All'inizio si limitavano a proteggere le manifestazioni dagli attacchi delle forze di sicurezza e degli sgherri del regime. Poi una parte dell'opposizione siriana - sostenuta dal Qatar, dall'Arabia Saudita e dagli Usa - ha scelto la soluzione militare, iniziando ad attaccare le forze del regime nelle campagne e in città.
Le armi nel paese sono arrivate velocemente. Le brigate più vicine ai fratelli musulmani siriani e ai salafiti hanno ricevuto fondi dai paesi del Golfo. Altri carichi sono arrivati dalla Libia o semplicemente sono stati razziati dalle caserme del regime durante gli scontri. La maggior parte dei combattenti però, le armi le ha comprate di tasca propria, spesso vendendo casa e proprietà perché ormai i costi sul mercato nero della mafia turca sono aumentati di cinque volte. Un anno fa un kalashnikov si comprava con 300 dollari. Oggi non si trova a meno di 1.500 e i proiettili costano due dollari l'uno.
I principali teatri di battaglia tra l'esercito regolare e l'esercito libero sono la città di Aleppo e le campagne di Damasco, Idlib, Homs, Hama, Deraa, Dair El Zur e Rastan.
Ad Aleppo la situazione è un inferno. I punti di contatto tra i due eserciti sono una decina lungo una linea che divide in due la città. L'esercito libero ne controlla la zona sudorientale e tutte le campagne fino alla frontiera con la Turchia di Azaz e Bab Hawa. Mentre il regime ha in mano la zona nordoccidentale della città e l'aeroporto. Lo stesso da dove decollano gli aerei che bombardano giorno e notte i civili rimasti in città.
Al pronto soccorso dell'ospedale di Sukkari ad Aleppo, i feriti arrivano ininterrottamente. I cadaveri ancora caldi vengono lasciati sulle barelle, mentre il sangue gocciola sul pavimento. Medici e infermiere non hanno il tempo di pulire. C'è da pensare agli anziani, alle donne, ai bambini piccoli. Che arrivano con le facce imbiancate dai calcinacci caduti sotto le esplosioni dei colpi di mortaio. […]
Non tutti i cittadini delle zone libere di Aleppo appoggiano l'esercito libero. In particolar modo i meno coinvolti nelle manifestazioni, che giudicano un errore l'aver puntato tutto sulla guerriglia urbana. Perché così facendo hanno portato la guerra in città e alla fine - come in tutte le guerre - il conto più salato in termini di morti lo stanno pagando i civili.
Ahmed però la pensa in modo opposto. È un ragazzo di 25 anni di Damasco. Ha una kefya nera avvolta intorno alla testa e i pantaloni mimetici militari. Dice che l'esercito libero non ha munizioni né armi pesanti, e che l'unico modo per battere le forze armate del regime è la guerriglia urbana. […] Fino all'anno scorso Ahmed viveva negli Emirati Arabi, dove aveva una ditta di informatica. In Siria era tornato per le manifestazioni, a Damasco, ma era finita con 45 giorni di galera. Appena è uscito ha preso il primo aereo per la Libia, dove ci sono dei campi di addestramento per i siriani, a Misrata. E da là è tornato con un fucile in mano, dice, per liberare il paese dalla dittatura.
Oggi la brigata di Ahmed ha fatto esplodere due carri armati e tre blindati del regime. Ma le perdite umane tra le fila dei combattenti sono altissime. Statistiche attendibili non ce ne sono, ma per farsi un'idea bastano i numeri di Abu Malek.
Abu Malek un anno fa faceva il rivenditore di automobili. Le armi le ha prese quando la polizia gli ha ammazzato il fratello in una manifestazione. E oggi è a capo della brigata dei martiri di Salah Ed Dine, tutti ragazzi dell'omonimo quartiere popolare di Aleppo. Dei 115 uomini che aveva a disposizione un mese fa ne ha già persi 40: dodici sono morti in battaglia e altri 28 sono gravemente feriti. Le vittime della guerra ad Aleppo però sono soprattutto civili. L'ultimo martire è un uomo di mezza età colpito alla testa da un cecchino dell'esercito di Assad. […]
Improvvisamente uno stormo di uccelli neri attraversano il cielo. Questa volta l'esplosione è molto più forte delle precedenti. È un bombardamento aereo. L'ennesimo. Da una strada non lontana si leva una colonna di fumo. Seguono altre esplosioni, saranno a un chilometro di distanza, in mezzo a una zona abitata, lontano da qualsiasi obiettivo militare.
Intorno a noi la gente fa finta di niente. Nessuno fugge in cerca di un riparo. Sollevano per un attimo lo sguardo per scorgere la sagoma degli aerei militari, e poi ritornano a parlare. È come se ormai avessero imparato a convivere con la guerra. O forse semplicemente si arrendono alla sorte. Perché la verità è che è impossibile prevedere dove gli aerei colpiranno la prossima volta. Bombardano a caso i quartieri liberati con l'unico obiettivo di terrorizzare e punire la popolazione che è rimasta in città.
Intanto da Aleppo sono fuggite migliaia di persone. Dati non ce ne sono, ma basta guardare le strade semivuote e le serrande chiuse dei negozi per farsi un'idea. Eppure, nonostante tutto, Aleppo è tutt'altro che una città fantasma. Certo, l'acqua e la corrente elettrica vanno e vengono, i prezzi dei generi alimentari sono raddoppiati, la benzina scarseggia e le piazze sono diventate discariche dove brucia la spazzatura raccolta per le strade. Ma per chi rimane la vita va avanti lo stesso. I negozi hanno iniziato a riaprire, nei mercati è tornata la frutta e la verdura, e la gente fa la fila davanti ai pochi forni aperti per comprare il pane. A ricordare la guerra sono soltanto i boati delle continue esplosioni e le macerie delle case crollate sotto i bombardamenti aerei.
Contro l'aviazione militare del regime, l'esercito libero non può fare niente. Servirebbero dei missili antiaerei terra-aria. Ma i contrabbandieri siriani ce lo hanno detto chiaramente: sulle armi pesanti c'è il veto assoluto degli americani. La prova è che il cargo di missili partito dalla Libia a inizio settembre, è stato sequestrato dalle autorità turche nel porto di Iskenderun. La paura di tutti infatti è che quelle armi finiscano nelle mani sbagliate. Ad esempio nelle mani di quel migliaio di mujahidin islamisti giunti in Siria a combattere al fianco dell'esercito libero siriano.

Avevo conosciuto Abu Abed la sera prima, all'ospedale Zarzur, insieme ad Abu Moaz e Abu Zeid. […] Ad unire Abu Zeid, Abu Moaz e Abu Abed è la bandiera sotto cui combattono. La bandiera nera del jihad. La stessa che da un mese sventola sopra la scuola di Sukkari, che ad Aleppo è la sede di una delle più importanti brigate rivoluzionarie islamiste: gli Ahrar Al Sham, i Liberi del Levante. Sopra c'è scritto in arabo "La ilaha illa allah wa Mohammad rasul allah". “Non c'è altro dio all'infuori di dio e Mohammad è il suo profeta”.
Per anni quella bandiera nera è stata usata da una miriade di sigle del terrorismo islamico. Nella Siria di oggi però è diventata il simbolo dell'internazionalismo islamista. Sì perché nella scuola di Sukkari fanno base combattenti di mezzo mondo. Libici, sauditi, ceceni, tunisini, afghani, ma anche francesi e australiani.
Hanno le barbe lunghe, il turbante nero, pantaloni mimetici militari, e un kalashnikov in spalla. Tra di loro ci sono alcuni veterani della guerra, come i ceceni, i libici e gli afghani. Altri invece sono ventenni alla prima esperienza. Non tutti hanno una formazione islamista radicale. Tanti sono venuti semplicemente per seguire un grande ideale di solidarietà con la comunità musulmana sunnita siriana, a cui sentono di appartenere al di là delle frontiere. Né più né meno come i comunisti italiani che nel 1936 andarono in Spagna a combattere contro il fascismo.
Per la loro partecipazione alla guerra, non otterranno niente in cambio. Al contrario, sanno che la maggior parte di loro morirà presto in battaglia. Quello che non sanno è che chi si salverà, non riuscirà a conservare il proprio idealismo. Perché come tutte le guerre, questa è una guerra sporca. […]
Un recente rapporto dell'Istituto svedese di affari internazionali, stima che i combattenti internazionali presenti in Siria siano tra gli 800 e i 2.000, circa il 5% delle forze dell'esercito libero siriano. Le principali brigate jihadiste che accolgono i combattenti internazionali sono il Jabhat el Nusra e gli Ahrar el Sham. Il Jabhat el Nusra (Fronte della vittoria) è la più piccola, ma è quella più vicina ad Al Qaeda, almeno a giudicare dal grado di popolarità che gode sui siti internet vicini all'organizzazione terroristica.
La brigata degli Ahrar Al Sham (I liberi del Levante) è invece una delle più importanti fazioni non solo dei mujahidin ma di tutto l'esercito libero. [...]
In questo momento in cui la partita si gioca tutta con le armi, i mujahidin sono i benvenuti in Siria. Sul lungo termine però, la presenza di milizie armate di islamisti radicali rischia di diventare un serio problema. Ne sono convinti i ragazzi siriani della brigata Al Faruq dell'esercito libero.
Ammar è uno di loro. Ha 25 anni e prima della guerra faceva il muratore. Si considera un buon musulmano, e proprio per questo rigetta ogni forma di estremismo: “I siriani non condividono il pensiero dei mujahidin. Questa è una guerra di liberazione. Non vogliamo uno stato islamico, vogliamo una democrazia. E i mujahidin devono capirlo prima possibile, altrimenti rischiano di fare tutti la fine di Absi”. Cittadino britannico, Mohamed Shami El Absi era a capo del “Mujahidin Shura”, un battaglione internazionalista che aveva portato in Siria una cinquantina di mujahidin, soprattutto britannici di origini asiatiche, ma anche canadesi e australiani. Il battaglione di Absi aveva partecipato nel giugno 2012 alla liberazione di Bab el Hawa, un posto di frontiera con la Turchia a nord di Idlib. Subito dopo però erano iniziati i problemi con la brigata locale dell'esercito libero, Faruq.
“Prima i mujahidin volevano issare la bandiera nera di Al Qaeda e fondare un emirato islamico – racconta Mohamed, un vecchio marinaio siriano della brigata Faruq -. Poi hanno sequestrato due giornalisti. A quel punto dovevamo fare qualcosa e li abbiamo attaccati”. Era la fine di agosto, lo scontro si è concluso con l'omicidio di Absi e di quattro dei suoi uomini, e con un deciso ridimensionamento della sua brigata. Episodi come questo sono destinati a ripetersi. Anche perché il ruolo dei mujahidin in Siria sta crescendo.
I finanziamenti e l'esperienza militare che hanno a disposizione infatti, danno loro un peso crescente all'interno di un esercito libero siriano sempre più a corto di soldi e di munizioni. Lo stesso succede dal punto di vista ideologico. Perché la repressione del movimento civile, democratico e non violento che aveva animato la rivoluzione siriana diciotto mesi fa, ha lasciato il vuoto. Le teste pensanti del movimento sono scomparse. Chi è morto, chi è stato arrestato e chi è fuggito all'estero per salvarsi la vita. E ormai sul terreno parlano soltanto le armi e gli uomini di religione. E intanto la gente comune continua a fuggire.

ATMA (IDLIB) […La frontiera con la Turchia] é lì davanti, a quattrocento metri di distanza. Ha la forma di una rete di ferro che percorre il crinale della collina come la cicatrice di una vecchia ferita. Ma vista dagli oliveti di Atma assomiglia di più a una gabbia. Sì perché nell'ultimo paese siriano prima del confine turco di Rihanli, migliaia di civili in fuga sono intrappolati in mezzo ai campi.
Vengono da Rastan, Jebal Akrad, Homs, Hama, Aleppo e persino Damasco. Sono soprattutto donne e bambini. Scampati ai bombardamenti aerei sui civili e ai massacri commessi dal regime nelle campagne insorte. Negli occhi hanno la paura di chi ha visto scorrere troppo sangue e ha deciso di andarsene prima che sia troppo tardi. Ma sulla loro strada hanno trovato una porta sbarrata.
Dalla fine di agosto infatti la Turchia – che già ospita 98mila profughi siriani - ha chiuso la frontiera a tutti i siriani senza regolare passaporto. In attesa di allestire nuovi campi e smaltire il malcontento della sinistra turca e della minoranza alawita di Antakya che chiede l'espulsione di tutti i profughi siriani accusati di coprire un complotto islamista contro Assad. Gli ingressi sono contingentati: poche centinaia di persone a settimana.
E così nella sola Atma, in un mese si sono accumulati più di 25mila rifugiati a fronte dei 7mila abitanti del paese. Circa 15mila sono ospitati nelle case della gente, non c'è famiglia che non si sia fatta carico di altre due o tre famiglie di sfollati. Cinquemila persone sono ospitate nelle scuole del paese. E altre cinquemila sono letteralmente accampate in mezzo a un uliveto, lungo la frontiera. I più fortunati dormono nelle tende spedite dalle associazione turche. Gli ultimi arrivati invece hanno soltanto dei teli stesi tra un ulivo e l'altro per creare un minimo di intimità.
A fronte di cinquemila presenti, ci sono soltanto due bagni chimici e una cisterna d'acqua, talmente calcarea che è bianca come il latte. Ma alternative non ce ne sono. E i bambini la bevono lo stesso, prima di andare a giocare intorno ai fuochi dell'immondizia. Gli abitanti di Atma si adoperano per fare il possibile, ogni sera passa un camion di volontari a distribuire cibo e coperte, ma il problema è ben oltre la loro portata.
Intanto i massacri in Siria non conoscono fine. L'ultima strage di civili è accaduta a Kafr Awid, un paesino sulle montagne del Jebal Akrad, tre giorni prima del mio arrivo ad Atma. Nel giro di mezz'ora gli aerei di Assad hanno scaricato 12 barili-bomba imbottiti di tritolo sulle case del paese. Nel bombardamento, che ha distrutto decine di case e provocato decine di feriti, sono morte venti persone, tutti civili. […]
In fondo sono loro, i civili, le prime vittime di questa guerra. Come di ogni guerra. Perché è vero che tra i rifugiati di Atma ci sono attivisti della rivoluzione e disertori delle forze del regime. La maggioranza di chi fugge però, non ha mai preso posizione. Né per la rivoluzione, né contro il regime. Scappano soltanto perché sanno di appartenere alle città sbagliate. Scappano perché sanno che nella Siria di oggi, a decidere la vita o la morte di una persona può bastare una carta di identità. L'ultima volta ad Aleppo è successo il 13 settembre 2012. Durante un rastrellamento, i militari del regime hanno arrestato 17 persone, comprese due ragazze di cui una incinta. Vivevano in un quartiere controllato dal regime, ma sui documenti avevano la residenza nei paesi insorti della campagna di Aleppo, adesso controllati dall'esercito libero. È bastato questo per accusarli di essere spie. Il resto è successo nel giro di pochi minuti. Li hanno messi in fila davanti a un muro, le mani legate dietro la schiena, e quindi hanno aperto il fuoco.
Fuggono da tutto questo i siriani. E non solo quelli di Atma. Da giugno a settembre il numero dei rifugiati è triplicato passando da 100mila a 300mila. Oltre ai 98mila profughi registrati in Turchia infatti, altri 200mila siriani si trovano nei campi profughi in Giordania, Iraq e Libano. Senza contare che si stima che almeno un milione di siriani abbiano lasciato il paese senza mai registrarsi nei campi profughi. E che almeno altrettanti siano sfollati all'interno del paese.
Tuttavia, lasciare la Siria sta diventando più difficile. Soprattutto per chi non ha un passaporto. E allora non resta che affidarsi ai contrabbandieri. Prima per entrare in Turchia e poi per continuare il viaggio. Magari verso la fortezza Europa. Dove l'asilo politico te lo danno ma devi prima giocarti la vita in mare, visto che viaggiare con i visti è un privilegio di pochi benestanti. Le rotte sono le stesse di sempre. Portano dalla Turchia in Grecia e da lì in Italia, dove soltanto tra agosto e settembre sono sbarcati centinaia di siriani tra la Puglia e la Calabria. Altri continueranno ad arrivare nei prossimi mesi. E come vanno a finire queste storie lo abbiamo imparato da tempo: con altri morti e altro dolore.
L'ultimo drammatico naufragio è avvenuto lo scorso 6 settembre 2012 al largo delle coste di Izmir, in Turchia. La barca stava tentando di raggiungere la Grecia. Sono annegati 58 dei 100 passeggeri. Tutti siriani, soprattutto donne e bambini. Anche loro martiri di una guerra che ha già fatto almeno 30mila morti e centinaia di migliaia di feriti. […]

Ottobre 2012
da fortresseurope.blogspot.it


Sul ruolo della Turchia
Pubblichiamo alcuni estratti del documento “Sul ruolo della Turchia e i sempre più forti venti di guerra in Medio Oriente” redatto dal Collettivo Tazebao che precisa appunto il ruolo e gli interessi della Turchia nello scenario mediorientale e in particolare in Siria.
Chi volesse ricevere il documento integrale può richiederlo al:
Collettivo Tazebao, via Varese 10 - 35138 Padova

“Una volta che lo spazio economico tra Siria, Turchia, Iraq e Iran sarà integrato, potremo collegare Mediterraneo, Caspio, Mar Nero e Golfo [Persico]...non saremo importanti solo nel Medio Oriente... ma una volta che avremo collegato questi quattro mari, diventeremo un passaggio obbligatorio nel mondo per gli investimenti, i trasporti e altro ancora” (Bashar al Assad, “The Weekly Middle East Reporter”, 1 agosto 2009).
Sul piano dell'analisi materialista, questa citazione appare fortemente chiarificatrice ai fini di illustrare la contraddizione reale che divide il governo di Damasco con l'imperialismo atlantico a guida Usa, nell'ambito degli scenari della crisi economica internazionale e dunque nell'inasprirsi della lotta per la ripartizione delle aree di approvvigionamento energetico, per il controllo dei mercati e dell'arena economica globale. […]
La citazione, però, non appare chiarificatrice su un punto, quello del ruolo della Turchia, che, come si può leggere, nonostante solo tre anni prima, fosse considerata da Assad come facente parte della stessa area di interesse economico-politico, ora non solo è uno dei più accaniti sostenitori dell'insurrezione sunnita ma, dal quattro ottobre, è entrata direttamente in guerra contro la Siria, bombardandone il territorio e prospettando la possibilità di invaderlo. Quella Turchia che, contrassegnata da una crescita del proprio capitalismo nazionale, ha trovato nel neo-ottomanesimo islamista di Erdogan il principale esecutore politico di una necessaria espansione economico-politico a livello regionale, e la quale, per questo, negli anni passati, si è scontrata con mire e interessi israeliani, americani ed europei, pur rimanendo parte integrante della Nato. Quella Turchia che, come risulta dal brano del discorso di Assad sopra riportato, aveva dato segni, negli ultimi quindici anni, di dialogo e apertura, e sopratutto di integrazione economica, con rivali storici come l'Iran e con nemici tradizionali come, per l'appunto, la Siria: a partire dal 1996, con i primi accordi in materia di gas naturale, sfociati nell'apertura, nel 2001, un anno prima della vittoria elettorale degli islamisti dell'Akp in Turchia, dell'importante gasdotto Tabriz-Erzurum, collegante il territorio turco a quello persiano. Da allora, Teheran si era progressivamente avvicinata ad Ankara, divenendone quello che gli analisti internazionali definivano come una sorta di partner strategico. In particolare, nel 2010, essa si imponeva come primo fornitore energetico, in tutto il Medio Oriente, della crescita industriale ed economica della Turchia e, nello stesso anno, il volume commerciale tra i due paesi superava del 100% quello del 2009. Non a caso, proprio nel maggio 2010, il governo Erdogan aveva votato, in sede Onu, contro le sanzioni economiche all'Iran, proponendo, con il sostegno dei Brics [paesi in via di sviluppo: Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, ndc] un arricchimento in “casa propria” del nucleare iraniano; posizioni che sarebbero state “pagate”, a breve distanza di tempo, con il massacro sionista dell'equipaggio turco della Freedom Flotilla, recante aiuti per i palestinesi di Gaza.
Ad una prima occhiata superficiale, questo idillio tra due paesi storicamente rivali - che il ministro degli esteri turco Davutoglu aveva significativamente paragonato allo stretto rapporto attuale tra Francia e Germania in Europa, pur dopo secoli di guerre per il predominio nel continente - si interrompe con il precipitare della situazione in Siria nel 2011: la Turchia si schiera con la rivolta sunnita che gli permette di allargare la propria influenza sull'area e l'Iran con il governo sciita di Assad, l'unico paese mediorientale che gli è alleato. […]
Nel solo giro di un anno, di fatto, la tendenza delle relazioni fra i due paesi era sostanzialmente mutata. Ciò era avvenuto principalmente a causa della forsennata ricerca, da parte della borghesia turca, di spazi di profitto e di rendita a livello regionale e della conseguente spregiudicatezza nell'espansione e crescita dei rapporti economici e politici, al fine di sfamare la poderosa crescita capitalistica interna, stimata, secondo gli indicatori internazionali, con un'ascesa tendenziale del PIL superiore all'8% all'anno. Innanzitutto, stante tale spinta economica interna, le dichiarazioni di Erdogan sulla cessazione dei rapporti commerciali con Israele, si rivelavano un'ipocrita bufala, dato che, nel 2011, addirittura erano aumentate di poco meno che del 30% ed erano state persino confermate le forniture militari all'esercito turco da parte dell'industria bellica sionista (sopratutto droni, per i bombardamenti sul Kurdistan, per il valore di 190 milioni di dollari). Inoltre, Ankara approfondiva i suoi rapporti a livello finanziario ed energetico con le petromonarchie sunnite, con le quali iniziava a una comune campagna su più piani (economico, culturale, politico, militare) per egemonizzare l'area araba a seguito delle rivolte popolari della cosiddetta “primavera”, ispirandole ideologicamente all'islamismo e promuovendone la direzione in capo al partito internazionale della Fratellanza Mussulmana. In particolare, il governo dell'Akp avviava con il Qatar il progetto di costruzione di un nuovo gasdotto strategico per l'approvvigionamento energetico dell'Anatolia, passante nientemeno per l'Iraq. Rispetto a quest'ultimo paese bisogna inoltre registrare due paradossi che ci fanno capire quanto esso rientri appieno nelle contraddizioni Turchia-Iran. La prima è che esso è paradossalmente caduto sotto una sempre maggiore influenza iraniana dopo l'abbattimento del regime sunnita di Saddam Hussein a causa dell'invasione americana del 2003, che ha aperto le porte all'affermazione di una nuova classe dominante sciita. La seconda è che, per interessi petroliferi nella regione settentrionale del paese, Ankara iniziava a sostenere paradossalmente le tendenze autonomiste-separatiste delle autorità del Kurdistan iracheno rispetto al governo di Bagdad filoiraniano, ricevendone in cambio non solo i contratti petroliferi, ma anche una serrata collaborazione nella lotta contro i “terroristi” del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk)1.
Insomma, la Turchia, determinata a giocare su più tavoli dalla propria necessità di accumulazione e valorizzazione capitalistica interna, se da un lato si riavvicinava all'Iran, dall'altro finiva per confermare e approfondire le relazioni con i nemici strategici di quest'ultimo, Israele e i paesi della penisola arabica e a mettere le mani nella Mesopotamia, che la borghesia persiana riteneva oramai annessa alla sua area di influenza. Se a ciò aggiungiamo che, agli inizi del 2012, la Turchia, come membro della Nato, ha dato il via all'installazione dei primi radar per l'impianto di scudo spaziale, struttura bellica chiaramente rivolta in chiave antiiraniana, si comprende la decisione di Teheran di avviare nuovi accordi per il trasporto di gas verso ovest e il Mediterraneo che puntino, stavolta, non su alleanze contraddittorie come quella con Erdogan, ma con i paesi della cosiddetta “mezzaluna sciita”, ovvero Iraq, Siria e Libano, dove, giova ricordarlo, attualmente il governo è appoggiato da Hezbollah2. […]

Note
1. Il tentativo di annientamento da parte dello stato turco nei confronti del Pkk tocca anche direttamente la questione siriana. Il primo agosto scorso, nella sua ultima visita a Erbil, capitale della regione autonoma del Kurdistan iracheno, il ministro degli esteri turco Davotoglu e il presidente kurdo Barzani hanno espresso la comune volontà di prevenire ogni rafforzamento del gruppo nel vuoto di potere aperto dalla guerra civile in Siria e di evitare che esso possa disporre di basi d'appoggio nel paese arabo per condurre attacchi in Turchia o riparare dalle offensive di Ankara. Del resto, la presenza di forze politiche e militari del partito in Siria era già stato il motivo per cui, nel 1998, fra i due paesi mediorientali si era rischiata la deflagrazione di un conflitto diretto, prospettiva che Damasco evitò portando avanti una pesante stretta sulle attività del Partito dei Lavoratori nel proprio territorio nazionale, concordata diplomaticamente con lo stato turco (accordi di Adana del 20 ottobre 1998). Oggi che invece quel conflitto è divenuto realtà, appare naturale che il Pkk tenda a schierarsi contro la ribellione da essi sostenuta e contro, ovviamente, l'intervento diretto di Ankara, così come gli imperialisti americani e gli espansionisti turchi stanno gridando ai quattro venti, ostentando propagandisticamente la convergenza del "despota" Assad con i "terrroristi" del Pkk.
2. Il 26 luglio 2011, Iran, Iraq e Siria annunciavano l'accordo per il cosiddetto "Gasdotto islamico", un'imponente linea energetica della lunghezza di circa 6 mila chilometri, per trasportare circa 120 milioni di metri cubi di gas a partire dal giacimento di South Pars in territorio iraniano, il più grande al mondo, fino all'Europa, attraverso il Libano. Il progetto si pone in diretta ed evidente concorrenza con quello turco-qatariota di cui dicevamo prima, che dovrebbe partire dalla parte qatariota del giacimento di South Pars, transitare anche in questo caso per l'Iraq e arrivare in Europa attraverso la Turchia e nel Meditteraneo attraverso la Giordania.

5 ottobre 2012
Collettivo Tazebao – per la propaganda comunista
collettivo.tazebao@gmail.com

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Turchia, il popolo non vuole la guerra
Nella giornata di ieri [4 ottobre] buona parte della società turca è scesa in strada per protestare contro il possibile intervento militare da parte della Turchia in territorio siriano. Sono migliaia le persone che ieri sera alle ore 19 si sono riunite a piazza Taksim (Istanbul) per marciare con cartelli e striscioni contro la guerra: “No alla guerra!” – “USA assassini” – “Viva la fratellanza dei popoli” – “Giù le mani dalla Siria!”. A portare in piazza migliaia di turchi a manifestare, l'approvazione del disegno presentato dal premier turco con urgenza ieri in Parlamento: Erdogan ha ottenuto da quest'ultimo il nulla osta per andare in guerra in Siria per almeno un anno.
La notizia che sta rimbalzando in queste ore sulla maggior parte dei quotidiani e delle agenzie di stampa, arriva in seguito all'uccisione di una famiglia ad Akcakar, vicino alla frontiera tra i due paesi. In seguito a questo episodio, il governo turco ha in un primo momento, risposto con rappresaglie contro Damasco - autorizzate dal parlamento - e successivamente ha dichiarato un possibile intervento militare nel caso in cui la Siria continuasse con operazioni di questo tipo sul confine. La situazione è decisamente controversa: da una parte dichiarazioni che portano a pensare a possibili operazioni militari da parte della Turchia - che peraltro troverebbe l'appoggio della Nato - e dall'altra la Siria - già in una situazione difficile dal punto di vista interno - che quasi come se fosse in un brutto sogno afferma che quella di Ankara non è una vera e propria mozione, e ne approfitta per porgere le sue scuse per “l'incidente” di mercoledì. A giocare un ruolo fondamentale sono sicuramente gli interessi strategici e geopolitici, ma le manifestazioni a cui hanno partecipato migliaia di persone dimostrano come un intervento militare non sia di fatto gradito. Da parte sua, il governo di Ankara risponde al dissenso della popolazione con cariche, idranti e spray urticanti, lasciando un bilancio di numerosi feriti.
Intanto nelle ultime ore un colpo di mortaio proveniente dalla Siria è caduto in territorio turco e la risposta non ha tardato a farsi sentire: Ankara ha infatti deciso di colpire obiettivi siriani. Di certo un episodio che aumenta la tensione tra i due paesi dove i soggetti coinvolti sono molti. Se la Turchia può pavoneggiare un appoggio incondizionato della Nato, c'è chi - come la Russia - che per altrettanti interessi strategici, preferirebbe che il governo di Assad non ne uscisse sconfitto da un possibile conflitto, o perlomeno riuscire a limitare i danni se questo accadesse. Dal punto di vista interno invece, probabilmente l'esercito siriano preferirebbe aumentare la tensione esterna per allentare quella interna al paese, così come è da tenere in considerazione l'opinione pubblica turca che conferma con le numerose manifestazioni, la netta contrarietà ad entrare in conflitto contro la Siria; elemento di fronte al quale Erdogan difficilmente potrà chiudere gli occhi, soprattutto se punta, come si vocifera, alla presidenza della Repubblica. Un quadro che risulta quindi essere piuttosto complesso; e se il tempo dimostrerà la natura delle dichiarazioni (seguite dalle azioni) che si stanno dando in questi giorni, una cosa è certa: la popolazione turca una guerra non la vuole.

5 ottobre 2012
da infoaut.org


Tunisia: sciopero dei trasporti a sorpresa; scontri nella capitale
Uno sciopero dei trasporti pubblici non annunciato ha paralizzato ieri l’intera città di Tunisi. La protesta dei lavoratori si è scatenata per chiedere la liberazione di un loro collega che era stato arrestato nella giornata di martedì dopo un incidente stradale avvenuto mentre era in servizio.
Lo sciopero, proclamato ad oltranza dai lavoratori fino alla liberazione del collega, ha raggiunto l’obiettivo, ottenendo la scarcerazione dell’uomo nel pomeriggio di ieri.
Alcuni gruppi salafiti hanno invece deciso di osteggiare lo sciopero non annunciato (che già il Ministero dei Trasporti aveva bollato come 'illegale') e hanno cercato di attaccare la sede del sindacato Ugtt che invece appoggiava la protesta, causando l'intervento della forze dell'ordine che hanno cercato di impedire lo scontro tra le due parti.
Nel frattempo, però, la fiammata di rabbia si era velocemente estesa dal settore dei trasporti al resto della popolazione, che nelle ultime settimane è scesa più volte in piazza contro le politiche del governo e contro la situazione di povertà e disoccupazione che continua ad affliggere buona parte del paese.
Ne sono nati violenti scontri con la polizia che sono proseguiti per diverse ore in diversi quartieri di Tunisi, sfidando anche gli orari del coprifuoco.
La situazione è poi tornata alla normalità ma il clima di tensione nel paese permane e nuovi scioperi sono previsti per le prossime settimane.

11 ottobre 2011
da infoaut.org


AGGIORNAMENTI DALLA LOTTA DENTRO E CONTRO I CIE
CIE di Pian del Lago (Caltanissetta)
24 settembre. Otto prigionieri sono riusciti a fuggire dal Cie scavalcando la recinzione. Purtroppo altri due prigionieri che hanno contrastato l’intervento delle forze dell’ordine, utilizzando oggetti contundenti, sono stati arrestati per resistenza e lesioni, un ragazzo di 19 anni e l’altro di 26.

Trapani, CIE di Milo
Il 24 settembre un centinaio di reclusi tenta la fuga ma nessuno riesce.
Nella notte del 27 settembre un’ottantina di reclusi si arma con tondini di ferro, smontati dalle scale interne, scagliandosi contro gli agenti di guardia e scavalcando le recinzioni, ma solo tre hanno effettivamente fatto perdere ogni traccia.
Il 2 ottobre un ragazzo tunisino, tentando la fuga, si frattura i talloni, viene portato in ospedale ed operato. Gli hanno messo dei tutori alle gambe e non è autosufficiente, ma naturalmente deve essere dimesso e riportato al CIE, ma un gruppo di solidali evita le dimissioni, in attesa che si trovi un centro idoneo dove possa avere la giusta assistenza medica. Armati di telecamere e macchine fotografiche sono rimasti a piantonarlo in ospedale, dando vita ad una simbolica staffetta e riuscendo a convincere anche un avvocato trapanese a seguire il caso. Speriamo facciano sparire ogni sua traccia!
11 ottobre. Dopo controlli nel CIE di Trapani si cercano eventuali irregolarità nell’appalto per la gestione della struttura.

Chiuso il CIE di Lamezia Terme (CZ)
27 settembre. In questo CIE l’ente gestore “Malgrado Tutto” ha aggiunto un ulteriore gabbia, dotata di un piccolo lavello in acciaio, dove i migranti si possono radere. La gabbia è posizionata su un montacarichi e può essere all'occorrenza spostata. E’ una gabbia, quindi priva di qualsiasi privacy ed esposta alla vista dei prigionieri, del personale dell'ente gestore e delle forze dell'ordine. Il recluso, prima di uscire dall'abitacolo, deve depositare la lametta in un apposito contenitore.
La notizia di questa sconcertante pratica è stata scoperta, fotografata e denunciata dall'Ong Medici per i Diritti Umani (Medu) dopo una visita al CIE. Inoltre hanno scoperto un disabile che faceva fisioterapia con una bottiglia d’acqua legata al piede e una cella di isolamento terapeutico chiusa da lucchetti e filo spinato. Gli aguzzini si giustificano precisando che questo accorgimento è per evitare atti di autolesionismo! Mentre le forze del manganello hanno voluto precisare che questi metodi servono per evitare che eventuali lesioni auto-provocate possano servire alle persone recluse nei Centri per accusare e denunciare i loro vigilanti! Metterli così in condizione di radersi e di provvedere all'igiene personale in un luogo pubblico e visibile scongiurerebbe denunce ingiuste! Aberrante e assurdo a dir poco!
In questo CIE la capienza è di 60 persone, al momento sono presenti 10 persone.
Il costo complessivo della struttura è di almeno 600mila euro l'anno. I torturatori sono in 60 tra esercito e polizia, oltre ai 15 operatori dell'ente gestore.
Il 19 ottobre dopo la denuncia di violazione del team Medu, il CIE di Lamezia Terme è stato chiuso, sigillato per decisione della Prefettura di Catanzaro, su disposizione del Viminale. Ufficialmente la motivazione della chiusura è la mancanza di un ente gestore. Lo scorso 22 giugno, la gara di appalto, alla quale aveva partecipato solo la cooperativa Malgrado Tutto, attuale gestore e anche proprietario della struttura, è fallita per irregolarità con la concessione edilizia. Di fatto da giugno ad oggi il CIE ha “funzionato” senza appalto, con relativi problemi di fondi. Si auspica che la chiusura provvisoria diventi definitiva.
Purtroppo i reclusi non sono stati rilasciati, alcuni sono stati rimpatriati, compreso il ragazzo disabile, contro la sua volontà e nonostante le precarie condizioni di salute, altri sono stati trasferiti ed internati in altri CIE, tra cui quello Sant’Anna di Isola Capo Rizzuto, nel crotonese, riaperto da poco tempo, al termine di una chiusura di due anni per i danni provocati dalle rivolte.

CIE di via Mattei (Bologna)
Il 29 settembre la prefettura di Bologna ha sospeso l’assegnazione della gestione del CIE di via Mattei al consorzio Oasi di Siracusa per accertamenti sul presidente del consiglio di amministrazione, Daniele Midolo. Oasi aveva vinto una gara fondata sul massimo ribasso per 28 euro al giorno per detenuto, una cifra ridicola a fronte dei 69 euro spesi dalla gestione attuale, la modenese Misericordia, che comunque già non garantisce condizioni minime di vivibilità ma garantisce continue torture legalizzate.

CPSA di Lampedusa
Per quanto riguarda Lampedusa, la struttura è stata appena ristrutturata e quindi non chiuderà, purtroppo. In questi giorni sull’isola ci sono state proteste di chi da più di un mese attende il trasferimento. Inoltre sono stati soccorsi in mare decine di migranti, su almeno due diversi barconi. Peccato che dopo essere soccorsi vengono reclusi e privati di ogni dignità.
Nel mese di settembre, una cinquantina di giovani tunisini, superstiti del naufragio del 6-7 settembre, sono stati detenuti nel centro di “accoglienza” e di primo soccorso di Lampedusa, nonostante lo statuto di questo tipo di struttura preveda una permanenza dalle 48 alle 96 ore. Le autorità hanno giustificato questa privazione di libertà con l’apertura di un’inchiesta che chiarisca le circostanze del naufragio, inchiesta che ha reso necessaria la permanenza di queste persone in uno stesso centro: questo non sarebbe infatti stato possibile seguendo le normali procedure, visto che un trasferimento in Sicilia dei superstiti avrebbe comportato, per motivi di spazi disponibili, lo smistamento degli stessi. Durante questi 31 giorni, i superstiti del naufragio sono quotidianamente “scappati” dal centro.
Il 7 ottobre un recluso si è provocato profonde ferite al braccio, dopo essere stato portato all’ospedale è riuscito a fuggire. Horria!

CIE di C.so Brunelleschi (Torino)
Il 10 ottobre un recluso dell’area blu è stato pestato dai poliziotti e portato in isolamento: aveva protestato con troppa foga per essere stato preso pur essendo in possesso della ricevuta della domanda di regolarizzazione. Nell’area rossa, invece, un recluso di ritorno dall’infermeria ha deciso di non tornare in cella e di tentare la strada più breve verso la libertà, ma è stato riacciuffato mentre scavalcava il muro di cinta.
Il 18 ottobre un prigioniero è salito sul tetto del CIE per resistere all’espulsione in Marocco. In Italia da 13 anni, ha sempre lavorato come pizzaiolo finchè avendo perso il lavoro è finito al centro con i documenti scaduti. Dopo otto mesi di detenzione, in attesa dell’udienza di proroga in cui il giudice di pace deve decidere se prolungare o meno la reclusione, gli ispettori di polizia gli hanno annunciato il probabile rimpatrio nonostante abbia qui una figlia di quasi quattro anni e una sorella cittadina italiana. Infine è sceso dal tetto, ma è pronto a risalirvi se le cose si mettono male per opporsi in qualche modo, a testa alta, alla cieca prepotenza della macchina delle espulsioni.

CIE di Ponte Galeria (Roma)
Il 12 ottobre Gabriele Del Grande e Stefano Liberti hanno realizzato un documentario che mostra l’interno del CIE di Ponte Galeria, Roma, e fa ascoltare le voci dei trattenuti. Il filmato si intitola “In Nome del Popolo Italiano”, riprendendo la formula che viene recitata dal giudice per convalidare la reclusione degli stranieri nei centri di espulsione. E’ solo il primo di una serie di documentari, realizzati per essere diffusi sul web, o nell’ambito di campagne di sensibilizzazione, aggirando le abituali semplificazioni giornalistiche.

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CONTOLLI NEI CIE E “TUTTO FUNZIONA”
10 ottobre. Il sottosegretario all’Interno con delega all’immigrazione Saverio Ruperto è impegnato in un tour nei diversi Centri di Identificazione ed Espulsione italiani, per accertarsi che “tutto funzioni come di dovere”. Ha cominciato il 4 ottobre con una visita al CIE di Roma-Ponte Galeria, dove ha riscontrato “un buon livello organizzativo” e alcune “best practices da poter applicare anche in altri centri”. Quali siano queste best practices è una cosa che rimane abbastanza nel vago.
In questi giorni ha visitato il CIE di Lampedusa ed il CARA di Mineo.
Sia a Modena che a Trapani Milo ci sono due inchieste aperte per eventuali irregolarità nell’appalto per la gestione della struttura. Indagato è il Consorzio Oasi di Siracusa ed il nuovo presidente della cooperativa, l’avvocato Siracusano Emanuele Midolo, che risulta condannato a quattro mesi per falso in atto pubblico. Anche per il Cara di Mineo, che è proprio un villaggio detentivo per richiedenti asilo politico con un totale di 2.000 prigionieri di oltre 50 nazionalità, c’è un’inchiesta aperta sollevata dall’Avvenire, quotidiano cattolico. Sulla struttura erano stati sollevati interrogativi a proposito di un anomalo numero di interruzioni volontarie di gravidanza forse collegate, sostengono alcuni operatori del volontariato, ad un giro di prostituzione interno alla struttura. Naturalmente Ruperto dice che tutto funziona bene e sarà migliorato con nuove disposizioni non ancora chiarite.

Milano, ottobre 2012

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LA GRANDE BURLA DELLA SANATORIA
Il 7 settembre il Governo ha varato il decreto attuativo che spiega, o che dovrebbe spiegare, le procedure della sanatoria; insieme al decreto, è uscita una circolare interministeriale che entra, o dovrebbe entrare, nei dettagli più tecnici e controversi. In realtà molti punti restano oscuri. La normativa sull’immigrazione chiede requisiti impossibili. Per entrare in Italia, l’aspirante lavoratore straniero deve disporre, prima ancora della sua partenza, di un datore di lavoro che effettui una vera e propria “assunzione a distanza” in suo favore. E quale datore deciderà di assumere una persona mai vista, che abita a migliaia di chilometri? Per entrare in Italia regolarmente bisogna avere un permesso di soggiorno e per ottenerlo, gli immigrati sono costretti ad esibire requisiti improbabili, irrazionali, spesso impossibili o contraddittori.
La legge sarebbe pensata proprio per mettere in regola i lavoratori, coloro che sono impiegati “al nero” presso aziende o famiglie, ma gli immigrati irregolari disoccupati non possono invece accedere alla procedura, rimangono esclusi.
Non vengono ammessi stranieri colpiti da provvedimento di espulsione per motivi diversi dal mancato rinnovo del permesso di soggiorno e quelli che hanno riportato condanne per uno qualsiasi dei reati previsti negli articoli 380 e 381 del codice di procedura penale. Potranno far domanda i datori di lavoro, e solo loro: gli immigrati irregolari, cioè i “diretti interessati”, non potranno procedere autonomamente alla richiesta di regolarizzazione. Potranno far domanda coloro che abbiano assunto irregolarmente lavoratori stranieri almeno tre mesi prima dell’entrata in vigore della legge, quindi dal 9 Maggio 2012, e che abbiano ancora in corso il rapporto di lavoro.
I datori possono essere famiglie (per il lavoro domestico), oppure ditte (per qualunque tipo di impiego subordinato), e il rapporto di lavoro può essere a tempo indeterminato o determinato. Non è ammesso invece il part-time, e solo per i domestici è possibile un’assunzione per un minimo di 20 ore settimanali. Possono accedere alla procedura anche i datori stranieri, purché abbiano la cosiddetta “carta di soggiorno C.E. di lungo periodo”. Sono esclusi i lavoratori e i datori di lavoro condannati per alcuni tipi di reato (anche se hanno patteggiato), e i datori che, nelle precedenti sanatorie o nei decreti flussi, abbiano presentato domanda ma non siano andati in prefettura per la firma del contratto di soggiorno.
Il costo della regolarizzazione per il datore di lavoro è di 1.000 euro all’atto di presentazione della domanda. In più, se l’iter burocratico si conclude positivamente (a decidere è la prefettura), il datore deve regolarizzare la sua posizione retributiva, fiscale e contributiva relativa ad almeno 6 mesi: il che significa, in soldoni, altre centinaia o migliaia di euro, a seconda della tipologia di lavoro e dei relativi oneri.
Queste cifre, teoricamente a carico del datore di lavoro, verranno, di fatto, pagate dagli stessi migranti: ma quale straniero irregolare può permettersi un esborso così oneroso? La sanatoria è riservata a datori di lavoro molto ricchi e molto generosi.
Ricchi, perché per poter fare domanda è necessario disporre di redditi relativamente alti (dai 20 ai 30.000 euro annui a seconda dei casi). Per le ditte, il reddito o il fatturato deve essere di 30.000 euro l’anno. Per il lavoro domestico, il reddito minimo è fissato in 20.000 euro l’anno, se nella famiglia vi è una sola persona che percepisce un reddito, e in 27.000 euro in caso di nucleo famigliare che percepisce più di un reddito. Mentre non serve il reddito se il datore è “affetto da patologie o handicap che ne limitano l’autosufficienza”. In questo caso, serve naturalmente idonea certificazione medica.
Generosi, perché l’accesso alla procedura ha costi proibitivi: tra “contributo forfettario” (le famose 1.000 euro), arretrati dovuti all’Inps, oneri fiscali e trattenute, la cifra minima per poter regolarizzare un lavoratore si aggira sulle 5mila euro, che pagherà immediatamente il lavoratore. Ma quale lavoratore in queste condizioni potrà avere subito questa liquidità? Il flop della sanatoria 2012 era largamente annunciato, con buona pace del Governo che potrà fare cassa in modo molto ridotto.
Le domande del 2012 sono circa un terzo di quelle della regolarizzazione del 2009, secondo una recente indagine dell’European Migration Network gli irregolari in Italia sarebbero circa mezzo milione: se questa cifra fosse realistica, solo un quinto dei potenziali beneficiari della “sanatoria” sarebbe riuscito a presentare la domanda. Ma il mercato nero dei permessi di soggiorno però non si è fermato. Il prezzo medio di vendita, in questa edizione, sembra essere stato di 7.000 euro, in genere con i contributi esclusi. La procedura di emersione prevista dal decreto legislativo 109 del 16 luglio 2012 non fa sconti. Anzi, tutto l’impianto dell’articolo 5 del medesimo decreto sembra ruotare intorno all’idea di "far cassa" piuttosto che alla volontà di far emergere le condizioni individuali costrette all’ombra dell’irregolarità.
La norma più vessatoria è quella che riguarda la cosiddetta “prova di presenza”. La domanda di regolarizzazione può essere infatti presentata solo se il lavoratore straniero è presente in Italia, senza interruzione, almeno dal 31 dicembre 2011. Il richiedente deve presentare idonea documentazione che dimostri la presenza in Italia, e questa documentazione è valida solo se proveniente da “organismi pubblici”. Ma se lo straniero era irregolare quale ente pubblico può certificare la sua presenza in Italia? Un immigrato irregolare, infatti, non ha alcun contatto con gli “organismi pubblici”. Essendo privo di permesso di soggiorno, l’immigrato non poteva andare negli uffici (con il reato di clandestinità rischiava di essere denunciato ed internato in un CIE). In queste condizioni, le uniche “prove” valide sono i decreti di espulsione, o al massimo i ricoveri ospedalieri (gli irregolari hanno diritto all’assistenza sanitaria, ma con molte avversità). Molte controversie sono nate in merito alle prove della presenza ininterrotta in Italia riguardo gli abbonamenti dei mezzi pubblici, dopo vari chiarimenti solo successivamente si è concluso, quando ormai era troppo tardi, che a rilasciare la certificazione fosse anche un ente del privato sociale. Tra gli esempi di “prove di presenza” si aggiungono la “titolarità di schede telefoniche di operatori italiani (quali Tim, Vodafone, Wind, 3 ecc.)” e la documentazione proveniente da “centri di accoglienza e/o di ricovero autorizzati o anche religiosi”.
Inoltre questa sanatoria risulta un condono per il datore di lavoro, in quanto nella dichiarazione di emersione deve fare una vera e propria autodenuncia, dichiarando di aver assunto in modo irregolare, a partire almeno dal 9 Maggio scorso, uno o più lavoratori stranieri. Nella maggior parte dei casi, si tratterà di lavoratori privi del permesso di soggiorno. Tuttavia, la legge di regolarizzazione è pensata appositamente per “condonare” questo tipo di reati. Dunque, chi farà domanda non verrà perseguito, ma anzi avrà l’occasione per mettersi in regola senza subire conseguenze. Insomma si viene “perdonati”, non solo per le violazioni di natura penale, ma anche per quelle fiscali e contributive (cioè per il fatto di non aver pagato tasse, trattenute, ritenute e contributi previdenziali). Non vi è dubbio che la regolarizzazione sia una grande opportunità in primo luogo per i datori di lavoro.
Nessuno ufficio chiederà di dimostrare l’avvenuta assunzione, ma chiederà solo al lavoratore la prova di presenza continuativa sul territorio nazionale dal 31 dicembre 2011. Se la domanda non va a buon fine per cause che non dipendono dal datore, quest’ultimo viene comunque “sanato”. Lo straniero non avrà il permesso di soggiorno, ma il datore non incorrerà in alcuna sanzione. Un ultimo dubbio riguarda i possibili controlli che potrebbero essere innescati dalla domanda di sanatoria.
Controlli e ispezioni sono sempre possibili, indipendentemente dalla sanatoria. Non c’è invece alcuna ragione di ipotizzare un particolare accanimento rivolto contro i datori di lavoro che abbiano presentato la domanda. Il decreto, infatti, è pensato appositamente per far emergere situazioni di irregolarità, “condonando” le relative violazioni: e consentendo allo Stato (e all’INPS) di incassare i relativi lauti proventi. La “persecuzione” sistematica dei datori di lavoro sarebbe non solo impossibile (si tratterebbe di allestire controlli straordinari su decine di migliaia di persone), ma anche contraria allo spirito della norma. Che non è quello di “sorvegliare e punire”, ma piuttosto quello di “perdonare e incassare”… L’ostatività delle segnalazioni Schengen, l’illegittimità della previsione di un reddito minimo per presentare la domanda, la discriminazione ancora una volta proposta nei confronti dei datori di lavoro stranieri privi di permesso da lungo periodo, la contorta previsione della necessità di provare con documenti pubblici la presenza in Italia antecedente il 31 dicembre 2011, l’automatismo ostativo non esplicitamente escluso per le condanne per i reati di cui all’art 380 del cpp, delineano le ulteriori criticità che ancora una volta si presentano come formalità dovute, più politiche che tecniche, quando in campo c’è una norma per l’emersione dei cittadini stranieri che la stessa legge ha consegnato all’ombra dell’irregolarità.

24 settembre 2012
da www.corriereimmigrazione.it


lettera dal carcere di san vittore (milano)
[…] Qui la situazione è la stessa, anzi un po’ cambiata, cambiata al peggio, hanno portato altri agenti “guardie” e gran parte di loro non sanno fare altro che provocarci. Anche gli infermieri si comportano in maniera equivalente, meno male che io non chiedo mai niente a loro, io ci tengo tanto alla mia dignità ma soprattutto ho un carattere forte e continuo a difendermi bene.
Guarda, per causa di altri, mi trovo sempre più spesso in discussione con le guardie ….
Comunque, preferisco stare alla larga, perché da un po’ ormai mi hanno messo sott’occhio e come rispondo non gli va mai bene. Ti confesso che io non ho paura di nessuno, anzi ho tanta energia e voglia di lottare e ribellarmi contro tutti quelli che mi hanno tolto quello che avevo e sinceramente sto provando sempre più rabbia […]

ottobre 2012


Lettere dal carcere di Tolmezzo (ud)
Ciao ragazzi siamo appena tornati dal consiglio disciplinare per aver appoggiato un nostro compagno che aveva avuto un sacrosanto diverbio verbale con uno ripieno di sterco che si fa chiamare brigadiere. Gente come quello, in divisa e tra queste mura, hanno tutta la possibilità di scaricare le loro frustrazioni; gente come quello pensa che la divisa possa significare timore e rispetto, solo perché nella loro vita quotidiana sono derisi; gente come quello sono i peggiori laureati e carnefici, perché pensano che quello che fanno sia giusto e soprattutto perché gli da’ piacere, quel piacere che non potranno avere mai in nessun altro campo della vita. In cinque anni di esercito gente del genere ne ho vista, sono contento di essermene andato.
Purtroppo a 33 anni mi sono ritrovato ad avere a che fare di nuovo con questo tipo di persone. Un comandante a fine discussione mi ha riaccompagnato in cella e con voce melliflua mi propinava consigli paternalistici, in modo da conquistarsi la fiducia del neo carcerato. Il puzzo del compromesso miscelato di legittimità, usciva dalla sua bocca di fogna, forse credeva di trovare un ragazzetto spaurito! Voleva convincermi che i sobillatori sono dannosi per la carcerazione. I rotti in culo come quel brigadiere sono dannosi per la mia carcerazione! Ho apprezzato molto la vostra manifestazione ed il vostro appoggio morale; non soffro per i 5 mesi d’isolamento, soffro per le iniquità che vedo scorrermi davanti come un fiume in piena, credono che con le minacce dette o bisbigliate possano piegare la volontà, anche se fossi il peggior carnefice sulla terra, con questi metodi non potrebbero certo redimermi, non hanno ancora capito che un uomo non si migliora per la paura dell’inferno, ma si migliora contemplando il paradiso. Nonostante tutto noi dell’isolamento riusciamo a rimanere uniti anche se ci troviamo in questa cloaca montana. Un abbraccio a tutti voi.

13 settembre 2012

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Ciao a tutti e grazie di cuore per quello che fate per noi contro questi assassini del carcere di Tolmezzo, con il loro potere fanno quello che vogliono. Ho letto oggi le lettere e cartoline che avete mandato al mio compagno di cella e mi hanno fatto sentire che noi detenuti non siamo soli.
Oggi sono andato al consiglio disciplinare ed il commissario e comandante mi hanno minacciato, che io prima sono un morto di fame e se hai quattro anni di galera noi te ne facciamo prendere 30 di anni, e che ammazziamo uno al passeggio, ti diamo la colpa a te adesso, te la facciamo pagare, e quando arriva quel giorno ti faccio vedere chi sono io, alla fine mi dice che non vogliono che io mi presenti a piangere per chiedere lavoro (per fortuna ho la mia famiglia che mi aiuta). Amici, qui non c’è un intervento del magistrato di sorveglianza e le denuncie che facciamo contro questi assassini rimangono qui dentro, amici noi abbiamo bisogno del vostro aiuto per far sapere a tutta l’Italia quello che succede nelle carceri italiane e che questi assassini devono pagare tutto, anche di più per tutti gli abusi che fanno a noi.
Un brigadiere qui picchia tutti i detenuti senza nessuno motivo, ad un prigioniero gli han fatto cadere un dente, perché voleva essere trasferito in un altro carcere, così ha fatto lo sciopero della fame, in più si è fatto 35 giorni d’isolamento senza vestiti e prodotti per l’igiene personale.
Un ragazzo di 18 anni che necessita cure psichiatriche, è da quando è in arresto che lo picchiano, questo brigadiere lo picchia sempre, adesso è circa un mese che sta isolato in infermeria con il blindo chiuso.
Un altro picchiato con pugni e calci perché chiedeva la sua terapia.
Un altro picchiato e denunciato da questo brigadiere, lo hanno ammazzato e buttato in una cella nudo senza materasso, ne bagno, ne finestra.
Amici la realtà che viviamo noi è fuori dal normale, qui cercano di rovinare i detenuti. Noi siamo fuori legge e stiamo pagando, ma questi assassini anche loro sono fuori legge, ma chi li fa’ pagare? Amici un grande saluto a tutti voi.

13 settembre 2012

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Carissimi amici e compagni, proprio adesso ho finito di leggere tutte le lettere e cartoline che mi avete spedito, devo dirvi che mi avete fatto commuovere... e vi voglio bene...
Sono appena ritornato da un consiglio di disciplina che per la prima volta ho voluto presenziare, e vi racconto subito gli abusi e la falsità che hanno scritto oggi in una “Denuncia”, non solo a me, ma anche ad altri quattro miei compagni.
Dopo che sabato siete venuti qui fuori e avete letto la mia lettera del brutale pestaggio di un prigioniero, che addirittura avevano legato con le manette all’inferriate del passeggio e massacrato con i manganelli, però alcuni detenuti affacciandosi alla finestra hanno visto tutto ed hanno iniziato la battitura e a minacciare gli agenti… così un brigadiere ha promesso che avrebbe fatto slegare il prigioniero e così è stato, solo che (i vigliacchi) lo hanno portato in un altro passeggio per picchiarlo tutta la notte e bagnarlo con gli idranti (bastardi)…
Ho preparato la denuncia circostanziata con tutto quello che sto scrivendo a voi, da far firmare in tutte le sezioni, non mi darò pace finchè questi vigliacchi non pagheranno per i loro crimini…
Ieri abbiamo fatto casino in isolamento per far mettere la branda, materasso etc., sempre allo stesso prigioniero, e questa mattina gli hanno dato tutto. Vi posso dire che venerdì, scusate, martedì 11 settembre, è venuto il barbiere per tagliare i capelli e si è spaventato per tutte le croste di sangue che aveva in testa… Ogni giorno io gli mando il tabacco, una bottiglia d’acqua, perché gli hanno tolto anche il lavandino e il wc, adesso ha tutto, ma se non gli mandavo anche i piatti usa e getta non gli avrebbero dato neanche da mangiare (carogne).
Al mio compagno che è appena tornato, è stato minacciato dal comandante e commissario, che appena partirà verrà picchiato, gli hanno detto che è un morto di fame e altre offese, con me sono stati educati perché io non ci metto tanto a mandarli affanculo (scusate il termine).
Oggi mi sento un leone con tutte le vostre lettere e cartoline che mi avete scritto, io ringrazio dio che mi sta ripagando per tutte le sofferenze che sto passando, per aiutare i poveri, gli indifesi e gli oppressi, e tutti voi siete il segno divino di dio (grazie fratelli).
Chi ha denunciato a me e tutti i ragazzi che vi ho scritto all’inizio della lettera, è un brigadiere che comanda tutta la squadretta, a me lunedì non mi ha fatto telefonare ai miei famigliari perché ha detto che sono stato io ad organizzare la manifestazione di sabato. Nella denuncia ha scritto che lo farò ammazzare, perché so dove abita, che macchina ha, etc. Ecco di cosa è capace questo bugiardo, falso e impotente frustrato… di scrivere menzogne.
Sono felice che pubblicherete le mie lettere sul web, così l’opinione pubblica verrà a conoscenza di cosa succede qui a Tolmezzo. Non immaginate oggi la gioia che ho nel cuore per le lettere e cartoline ricevute, con un grande abbraccio vi stringo tutti al mio cuore.
Le minacce di questi burocrati non mi hanno mai spaventato, certo a volte mi sono trovato da solo in isolamento, ma non ho mai avuto paura, a volte ero preso dallo sconforto, ma quando vedevo che picchiavano detenuti, allora in me scattava quella forza di ribellione contro i “Tiranni” e così da 18 anni combatto contro di loro, senza mai aver preso un solo semestre di buona condotta, e quando uscirò sarò al vostro fianco a lottare... Ancora mi restano sette anni da scontare, ma oggi voi avete liberato il mio cuore dalle sbarre. Pensate che per denunciare me come promotore della vostra manifestazione, mi dispiace che hanno denunciato quattro miei compagni, perché devono avvalorare le menzogne scritte da quel brigadiere.
Ragazzi l’isolamento si trova nel lato sinistro del carcere, proprio sotto i vetri blindati, noi siamo ancora senza voce per sabato, abbiamo gridato, sono venuti a minacciarci, ma non abbiamo avuto paura…
Dimenticavo di dirvi che hanno detto ai miei compagni che mi manderanno al 14 bis in AS2, non ho paura delle loro minacce, per aver denunciato la morte di un detenuto pestato e ucciso a colpi di estintori (assassini vigliacchi) a Frosinone; per aver denunciato l’episodio mi hanno applicato 6 mesi di 14 bis. Per la denuncia di un pestaggio al carcere di Opera, avevano massacrato un povero uomo sulla sedia a rotelle poliomelitico e paraplegico, mi hanno trasferito a Monza senza vestiario e nulla, per poi massacrarmi e trasferirmi a Viterbo… ecco cosa sono capaci questi vigliacchi, è da sette anni che non mi fanno aggiustare i denti, adesso con tutti voi mi sento antiproiettile e non darò più pace a tutti questi porci vigliacchi assassini dello stato. Un abbraccio a tutti voi con ogni bene.

13 settembre 2012

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Chi scrive è un ragazzino di 19 anni, di origine colombiana adottato da una famiglia italiana, ogni settimana viene picchiato nel reparto infermeria e chiudono il blindato. Qui succedono pestaggi che non si vedono neanche nei film, chi ordina i pestaggi sono il comandante e la direttrice.

Il 27 marzo stavo discutendo con una guardia e lui mi ha detto che sono un maiale e che è un maiale chi mi ha messo al mondo, non mi devi rompere i coglioni. Io non ho detto niente e neanche lo conoscevo e non mi importa. Sempre lo stesso giorno io non ho reagito e mi hanno insultato, dato sberle, calci e una guardia mi ha detto che sono una merda.
Il 24 maggio é entrata una guardia assieme ad un’altra, quello che mi ha messo le mani addosso aveva guanti neri, io non ho toccato nessuna guardia, si è inventato tutto.
28 settembre. In questo giorno è successo che un detenuto era andato in socialità da un altro detenuto ed io sono andato in bagno per farmi una sega… dopo di ché è ritornato e ha detto le bugie, che io non me l’ero fatta in bagno ma sul tavolo dove si mangia e per terra, bugie perché io ero andato in bagno e non avevo sporcato niente. Poi sono arrivate le guardie e hanno chiamato prima lui e dopo me, io ho spiegato i fatti. Poi mi hanno fatto prendere le mie cose, mentre mi davano sberle, per portarmi nella saletta telefonica, io piangevo e chiamavo l’agente piangendo, così l’agente è entrato e mi ha fatto male all’occhio con un pugno e mi ha dato pugni nelle costole e nelle gambe ed io non ho reagito, mi aveva fatto male.
Mi picchiano sempre senza motivo, vi chiedo di aiutarci che qui ci ammazzano. Aiutateci e facci trasferire.

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Il giorno 4 maggio 2012 alle ore 9.30, in uno degli scatti d’ira non motivati ma non razionali sono giunti davanti alla mia cella un ispettore, un brigadiere e altri agenti, prelevandomi dalla cella e trasportandomi con forza, senza il mio volere in una stanzina che non poteva tenere più di tre persone. Non capendo cosa volessero farmi, rimasi perplesso ed in panico. L’ispettore ha fatto sfoggio della sua conoscenza in arti marziali in un senso non compreso di tale esibizione, mi ha fatto spogliare togliendomi anche gli occhiali e il brigadiere nella sua mole da gorilla con uno schiaffo mascellare mi ha spostato di un metro intontendomi; contravvenzione dell’art. 5 nei diritti dell’uomo, che ribadisce che nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamenti o punizioni crudeli inumane e degradanti. Secondo l’art.27 dovremmo essere rieducati nel sistema e in esso integrati, decorso il tempo detentivo e allora se dovessi uscire domani l’insegnamento assimilato nel carcere è di picchiare, maltrattare e degradare.
I detenuti lavorano 6-7 ore e sono pagate 2 ore in busta paga regolare, è qui l’insegnamento all’evasione fiscale.
Quindi denuncio il brigadiere e l’ispettore per percosse immotivate, sottolineando la mia invalidità civile al 100%, più chiedo inderogabili danni morali, psichici, fisici e degradanti.

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Cari mi hanno convinto a denunciare tutto, vi racconto tutti i fatti e sono pronto a dirlo al giudice perché questa è la verità. Sono un prigioniero marocchino, ho 35 anni e la mia condanna inizia dal 2009 fino al 2018 per un motivo banale, g. 1,9 di hashish trovati da un carabiniere nelle mie tasche.
Nel 2008 sono stato fermato per tre giorni. Nel 2009 sono stato arrestato la seconda volta per l’hashish e condannato in contumacia, senza che io lo sapessi. Così é iniziata la mia vita in carcere, prima a Padova fino al 2012 poi trasferito a Tolmezzo.
E’ un carcere punitivo e ha un regolamento di merda. Dopo che ho conosciuto questo carcere di Tolmezzo, ho iniziato a fare lo sciopero della fame, per mancanza di un posto di lavoro e mancanza dei diritti dei detenuti. Ho fatto domandina di trasferimento e dopo otto domandine, non ho mai avuto risposta, così ho iniziato lo sciopero della fame e dopo 15 giorni mi hanno spostato all’isolamento, perché non volevo smettere lo sciopero della fame. Sono rimasto in isolamento un mese e 5 giorni, la polizia penitenziaria mi ha picchiato e minacciato, un brigadiere ogni sera da le botte a tutti i detenuti in isolamento, a me mi hanno fatto cadere un dente. Sono rimasto troppo male ed hanno negato la visita medica. Mi bagnavano e picchiavano. Per g.1,9 di hashish sto pagando per sbaglio, chiedo il vostro aiuto per poter essere trasferito in un altro carcere, qui sto troppo male ed ogni volta penso di farla finita con questa vita. Io voglio scrivere a voi ma in questo carcere è difficile mandare una lettera a voi. Cordiali saluti.

7 giugno 2012

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Oggetto: Denuncia violazione art.27. O.P.; art. 3; art. 69 C. 2 e 5
I detenuti firmatari ristretti presso la C.C. di Tolmezzo espongono quanto segue:
Si chiede alla S.V. Ill.ma, che venga aperta un’inchiesta verso la direzione dell’Istituto di Pena sito in Tolmezzo, affinché venga ripristinata la legalità e i diritti dei reclusi come previsto dall’art.27 O.P. Esempi della violazione:
1) In questo Istituto ogni giorno vengono lesi i nostri diritti. Sono avvenuti tantissimi pestaggi e ogni giorno qualcuno viene picchiato, anche senza giustificato motivo, il magistrato di sorveglianza non interviene, nonostante l’art.69 C. 2 e 5, specifica chiaramente che dovrebbe garantire lo svolgimento e la tutela dei nostri diritti contravvenendo ad ogni forma di legalità;
2) Le celle sono state costruite con il criterio di ospitare un solo detenuto, invece viviamo in 3 persone per 8 metri quadri, senza tener conto dei mobiletti, tavolo e brande, così la soglia scende ad un metro quadro a persona, quando il cedu dice chiaramente che devono garantirci minimo 3 metri a persona. Il bagno è di un metro quadro con un lavabo di cm 40 di diametro e non ci consente di lavare nemmeno un piatto. La terza branda si trova a meno di cm 50 dal soffitto, illegale come da sentenza del Mag. di sorveglianza di Lecce in data 17/06/2010, che condannò la direzione a risarcire il detenuto, sentenza emessa dal Dott. Luigi Tarantino del Tribunale di Lecce.
3) La TV comprende solo sei canali, si trova incastonata in una specie di blindatura con vetro antisfondamento, che risulta fuori dalle norme legali come dal D.L. 2000.
4) Riguardo l’area sanitaria non veniamo curati adeguatamente, per ogni patologia c’è sempre la solita pasticca. Molti di noi con gravi patologie sono abbandonati a se stessi. Per il medico dentista passano mesi e anni, per l’emergenza si torna al punto 1 di codesto foglio.
5) Il sopravitto attua prezzi raddoppiati a confronto di altri istituti, pertanto chiediamo che i prezzi siano rilevati ogni due mesi, come previsto dall’ordinamento penitenziario D.P.R. 30/06/2000 n°230 ossia che siano introdotti generi alimentari scontati
6) I bagni dei passeggi sono fatiscenti e fuori uso, sia nell’area infermeria, comuni, isolamento, dove non esistono wc e lavandini per potersi risciacquare. Soprattutto in questo periodo estivo.
7) Il vitto è scarso e chi non ha possibilità finanziarie può solo sopravvivere. Per ogni singolo ristretto vengono spesi euro 3, quando i canili municipali per ogni singolo animale ne vengono spesi euro 5, non tenendo conto che il vitto qui a Tolmezzo è immangiabile.
I detenuti firmatari hanno citato soltanto alcuni esempi di come siamo costretti a vivere. Se per un caso fortuito arrivasse qualcuno dei rappresentanti a cui abbiamo inviato il nostro esposto, può constatare di persona la situazione che abbiamo stilato, così fiduciosi che possa essere aperta l’inchiesta verso la Direzione dell’Istituto, perché tra maltrattamenti, odio razziale, abusi e coercizioni, siamo uomini con dignità e diritti.
Nell’attesa di un vostro urgente intervento, porgiamo i più doverosi ossequi.

***
lettera dal carcere di Frosinone
C/O La Procura di Frosinone, C/O La Procura di Roma, Per conoscenza al garante Dott. Maroni.
Noi sottoscritti detenuti della C.C. di Frosinone, con la presente intendiamo portare chiarimento per il grave episodio accaduto ad un nostro compagno, Joanna Orazio, deceduto il giorno 30 aprile 2012.
Vogliamo smentire l’articolo apparso sul quotidiano Corriere della Sera, in riferimento al suo decesso avvenuto per percosse causate da “esso stesso”. Facciamo presente di aver saputo che il nostro compagno è stato pestato dagli agenti penitenziari perché causava disturbo in isolamento. Chiediamo che venga aperta un’inchiesta, che salti fuori la verità affinché tutti noi detenuti possiamo dimostrare alla famiglia di Joanna, di non aver abbandonato il nostro compagno con i suoi aguzzini. Chiediamo che venga fatta luce sulla responsabilità della sua morte.
In attesa che venga aperta un inchiesta, porgiamo doverosi ossequi.

Lettera firmato da 40 prigionieri
ancora un “suicidio”, nel carcere di biella
Dall'inizio del 2012 sono 118 i morti in carcere, 41 per suicidio,: il 41° riguarda il carcere di Biella dove un detenuto di 51 anni, che si trovava in isolamento nonostante avesse da scontare una pena residua di poco meno di due anni, si è tolto la vita nella notte di giovedì 27 settembre.
E' questa una strage che merita giusto qualche riga sui giornali locali, un articolo e poi ci si dimentica del problema fino al prossimo suicidio.
I carcerati sono gli ultimi degli ultimi e non vale la pena di sprecare tempo e inchiostro: né un nome, né una storia.
La condizione disumana degli istituti penitenziari italiani è stata più volte denunciata dalle associazioni che lavorano con i detenuti all'interno del carcere. Sovraffollamento, edifici che cadono a pezzi, un aiuto psicologico e umano che quando non è inesistente rimane comunque al di sotto dei bisogni reali. Una condizione che porta troppi detenuti a gesti estremi come il suicidio.
Il carcere, da sempre considerato “discarica sociale” cioè luogo di repressione ed esclusione sociale e umana, lo diventa maggiormente nei momenti di crisi e economica e sociale, configurandosi sempre più come il contenitore entro cui “neutralizzare” gli espulsi dal ciclo produttivo a vario titolo, e gli individui che, in qualche modo destabilizzano l'ordine e la tranquillità della comunità, cercando di opporsi alla “rapina” di diritti e di territorio.
Alla sottrazione di diritti lo stato non ha saputo rispondere che con la mano forte. A chi, spinto dalla fame e dalle guerre, senza lavoro, arriva nel nostro Paese, lo stato risponde chiudendolo nelle nuove galere chiamate CIE.
Leggiamo i commenti degli “addetti ai lavori” sui giornali locali: la colpa non è delle leggi liberticide di questi ultimi anni che hanno pure inventato reati ex novo, tipo quello di clandestinità, secondo loro il problema delle drammatiche condizioni delle carceri italiane si risolverebbe semplicemente aumentando il numero delle guardie e costruendo nuove galere.
Esprimiamo la nostra solidarietà a tutti coloro che lottano dentro e fuori le galere.

ottobre 2012
Rete biellese “Sprigioniamodiritti”


Contro le nuove privazioni per i detenuti a regime di 41-bis
Lo scorso novembre il DAP ha emanato una circolare che limita le possibilità di accesso all’informazione e alla lettura nelle sezioni a 41-bis (circolare DAP 16/11/2011 n. 8845/2011). Ne siamo venuti a conoscenza solo recentemente tramite alcune lettere che ci hanno informato dell’applicazione di questa disposizione che si è concretizzata attraverso l’affissione di “ordini di servizio” all’interno delle sezioni a 41-bis, diversi da carcere a carcere, recanti una sintesi delle disposizioni contenute nella circolare e non mediante la distribuzione del testo integrale della circolare. Inoltre il “reclamo” presso il magistrato di sorveglianza contro quanto disposto dalla circolare può essere fatto solo a seguito di una limitazione cui si è stati sottoposti e cioè su base individuale e su una o più questioni specifiche. Ciò comporta che anche in presenza di “reclami” accolti la circolare non decade ma può venir applicata a chi non a fatto il “reclamo” o a chi non è stato accolto introducendo così ulteriori margini di discrezionalità e differenziazione.
Il testo che segue contiene alcune nostre prime valutazione sulla questione insieme agli stralci più significativi dell’ordinanza del tribunale di sorveglianza competente che ha accolto il reclamo presentato da un compagno sottoposto al regime carcerario del 41-bis nel carcere di Terni ed anche stralci di un appello inviato da un gruppo di avvocati di Roma all’Unione Nazionale delle Camere Penali. Continueremo ad affrontare la questione nei prossimi numeri dell’opuscolo.

E’ l’eterna lotta fra chi finisce in carcere e vuole mantenere, consolidare le proprie libertà-capacità di giudizio, di scelta in tutti i campi e lo Stato che vuole invece ridurti a burattino. In Italia questo scontro ha conosciuto nel passato momenti estremamente violenti nel periodo delle carceri speciali (1977-1987) e più recentemente (inizio 2005) nel tentativo dell’allora ministro della Giustizia Castelli di limitare la ricezione e la presenza di libri e riviste nelle celle delle sezioni ad Elevato Indice di Vigilanza (EIV). Immediata fu allora la risposta apportata da fuori attraverso la campagna di solidarietà e sensibilizzazione “un libro di Castelli” e una partecipata manifestazione sotto il carcere di Biella che riuscì a far rientrare tale provvedimento.
Anche oggi all’origine c’è la “circolare ministeriale” contro il loro eterno nemico “il libro”, essenza della memoria, della riflessione, del libero rapporto tra individui. L’attacco al libro è esclusivamente diretto a costruire isolamento, rapporto individualizzato, scopo primo di ogni carcere.
Al DAP (Direzione dell’Amministrazione Penitenziaria, in particolare del “trattamento” da riservare a chi finisce dentro) conoscono fin troppo bene la funzione del libro, come si dice, ci passano le notti per trovare il modo di spezzarla.
In questi ultimi anni, p. es., hanno lasciato prendere il largo alla distribuzione serale - gratuita - della “Terapia” (sonniferi e dintorni). E’ un rito angosciante il passaggio puntuale del carrello infermieristico, atteso, invocato, che distribuisce sedativi; in carcere, il sedativo è sì gratuito ma viene dato solo a chi è passato dalla visita medica e sotto l’obbligo di trangugiarlo davanti a infermiere e guardia. Sottomissione. Altra conseguenza è che larga parte di chi è dentro, soprattutto giovani, dorme i 2/3 della giornata l’altro terzo lo passa davanti al sonnifero televisivo, recandosi raramente all’aria, riducendo così spaventosamente le possibilità di rapporto.
Ecco il prodotto del DAP, dello Stato: larve, vegetali. Non è una tendenza, è la realtà di oggi rafforzata da un’ulteriore scelta dei carcerieri. Nelle carceri di questo paese, ormai abitate per una metà da prigionieri di origine estera, non sono acquistabili riviste estere come non sono accessibili agganci a reti estere satellitari. Niente, solo: La stampa, Il corriere della sera, Rai, Mediaset, qua e là Sky, basta. Così le “limitazioni all’informazione”, alla cultura e altre belle parole, vengono ogni giorno e notte imposte a oltre la metà della “popolazione” carceraria.
Ad oggi ci risulta che siano stati fatti molti reclami contro questo ennesimo provvedimento di limitazione della lettura ovvero contro l’annientamento politico-fisico cui il DAP, lo Stato mirano. Noi siamo con tutti coloro che nelle carceri di ogni tipo tengono alta la testa, che si ribellano.
Cos’è accaduto? In seguito alla “circolare ministeriale” del 16 novembre 2011 (riguardante limitazioni su libri, quotidiani, riviste nella sez. 41 bis), della quale i prigionieri hanno visto solo la versione ridotta redatta dalla direzione locale del carcere, alla fine del dicembre 2011 viene inviato un “reclamo” all’Ufficio di Sorveglianza di Spoleto, competente nel carcere di Terni.
La risposta del magistrato di sorveglianza (Fabio Gianfilippo) arriva un mese dopo, il 31 gennaio 2012. Nella sua “ordinanza” il giudice “osserva”: che “il reclamante si duole dei divieti impostigli dall’istituto penitenziario in ottemperanza a circolare DAP di cui non conosce gli estremi […] in particolare si duole delle limitazioni impostigli nella ricezione di libri e stampa dall’estero, nonché del divieto di passaggio di tali libri tra componenti del medesimo gruppo di socialità ed ancora dei limiti al numero di testi che si possono tenere [in cella,…] chiede che siano rimossi tutti i divieti imposti”. L’“ordinanza” passa poi in rassegna le “restrizioni” su acquisto, possesso e circolazione di libri, stampe riportando per intera la considerazione del DAP sulla circolare emanata, secondo cui le sue “disposizioni non incidono sulle possibilità offerte ai detenuti dall’O.P. [ordinamento penitenziario], poiché vengono cambiate le modalità di acquisto ma rimane garantito il diritto all’informazione”.
Il giudice giunge così a dichiarare che le “indicazioni” contenute nella circolare ministeriale, “mossa da dichiarate ragioni di prevenzione”, comporta “innanzitutto una incisione del diritto costituzionale alla libertà di corrispondenza”, una materia “regolata dall’art. 18-ter dell’O.P. [introdotto nel 2004] anche a seguito di alcune condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”. In quell’articolo “si esplicita come tanto le limitazioni quanto le sottoposizioni a visto di controllo, possono avvenire con decreto motivato emesso dall’autorità competente in presenza di richiesta da parte della direzione dell’istituto penitenziario o del Pubblico Ministero procedente, per esigenze attinenti le indagini o investigative o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto, per periodi non superiori a mesi sei non prorogabili”.
L’“ordinanza” prosegue affermando che sulla materia esistono molteplici sentenze della Cassazione sempre rimandanti all’art. 18-ter dell’O.P. il quale fissa che ogni scritto spedito o ricevuto da chi è sottoposto a censura, dopo essere stato censurato deve essere consegnato a chi destinato, salvo intervento contrario dell’autorità giudiziaria.
Questo è anche il caso del reclamante “sottoposto a visto di controllo” però non dall’“autorità giudiziaria” ecc., in quanto già definitivo, ma perché sottoposto al 41-bis quindi a tutte le costrizioni legiferate dal Parlamento in cui viene sancito l’isolamento, il processo in video conferenza, il colloquio con i familiari diviso dal vetro, il tempo dell’aria ridotto ad una sola ora al giorno…
Per chi è sottoposto al 41-bis vale la legge valida in ogni circuito carcerario e cioè che “il trattenimento di libri – provenienti dall’esterno – è consentito solo se i libri nascondono al loro interno qualcosa o contengono scritti pericolosi per la sicurezza”. Tuttavia “trattenimento” o “sequestro” di libri e lettere “possono essere emessi esclusivamente dall’autorità giudiziaria” (sent. cass. 16926/2010). Questo nei casi in cui libri e lettere insomma vengono connesse a possibili “reati” per cui interviene il p.m. ecc. Nel circuito 41-bis “trattenimento” e “sequestro” di libri, lettere ha maggiori possibilità di accadere soltanto perché quegli oggetti sono sottoposti a strettissima censura, così come nel circuito AS2 (Alta Sorveglianza 2).
Data la legge descritta il giudice di sorveglianza conclude che “non può quindi essere imposta mediante circolare ministeriale nessuna limitazione alla ricezione della stampa e alla sua trasmissione all’esterno, deve dunque disapplicarsi la circolare ministeriale in tutte le parti in cui impone alla C.C. di Terni di limitare, mediante divieto, il diritto del detenuto di ricorrere tramite corrispondenza a qualsiasi stampato”. Inoltre l’ordinanza dichiara “illegittima” la circolare DAP anche quando insiste nel far “obbligo” a chi sottoposto al 41-bis “di contrarre gli abbonamenti alle riviste mediante l’istituto penitenziario perché non precisa quali rischi comporta per l’ordine e la sicurezza, e quali vantaggi di prevenzione, derivino da tale limitazione”.
Prosegue, esortando il medesimo carcere ad astenersi da “imposizioni restrittive” sul numero dei libri da tenere in cella così da non ledere i “diritti soggettivi” allo studio, alla “piena informazione”. “Dovrà - scrive il giudice - inoltre conservarsi comunque la facoltà di detenere [in cella] un congruo numero di testi di mera lettura anche su ossequio ad un principio generale, evincibile dall’o.p. tutto, di favor per la lettura”.
Per quanto riguarda il “divieto di scambio di riviste […] non può che riferirsi, univocamente, al medesimo gruppo di socialità (essendo da sempre vietato lo scambio fra appartenenti a gruppi di socialità diversi”. In questo, sottolinea il giudice, l’ordine di servizio emesso dal carcere di Terni è andato persino oltre la circolare “che ribadiva il comprensibile [proprio così] divieto di passaggio tra detenuti appartenenti a diversi gruppi diversi”. Anche su questo aspetto il giudice accoglie il reclamo. C’è da precisare che al 41-bis la socialità non esiste se non all’aria dove si concentrano un massimo di quattro prigionieri e solo in quel momento può avvenire il passaggio di libri e riviste, comunque solo fra quei prigionieri, forse per il tramite della guardia o simili.

L’origine del “reclamo” del compagno risale alla circolare del DAP diramata il 16 nov. 2011. Di questo informa l’appello del 14 febbraio 2012 dell’avv. Caterina Calia rivolto all’Unione Nazionale delle Camere Penali, al ministro della Giustizia, a Rita Bernardini deputata del Partito Radicale.
Scrive l’avvocatessa che il 23 novembre 2011 la direzione del carcere di Parma informava i prigionieri della sez. 41-bis che da quel giorno in seguito ad una “circolare” del DAP venivano introdotte nuove regole riguardo a libri e stampe. Ai prigionieri la direzione non consegna la “circolare” ma gliela interpreta con un suo “ordine di servizio”. Eccolo: “In ossequio a disposizioni ministeriali […] si comunica […] che qualsiasi tipo di stampa autorizzata (quotidiani, riviste, libri) deve essere acquistata esclusivamente nell’ambito dell’istituto penitenziario, tramite l’impresa di mantenimento. Parimenti, eventuali abbonamenti a giornali e riviste autorizzate dovranno essere sottoscritte dalla Direzione per la successiva distribuzione ai detenuti che ne abbiano fatto richiesta. Per gli abbonamenti in vigore si attenderà la scadenza. E’ […] fatto divieto ricevere dall’esterno, dai familiari anche tramite pacco colloquio o postale, libri, riviste e quotidiani. E’ inoltre fatto assoluto divieto di consegnare tale materiale all’esterno”.
Nell’esposto l’avv.ssa mette in luce alcuni aspetti che chiariscano le mire annientatrici del DAP delle “nuove disposizioni” in quanto rendono “più difficile reperire materiale proveniente da piccole case editrici, specializzate in particolari materie o determinati argomenti. L’attribuzione alla Direzione del carcere del potere di sottoscrivere gli abbonamenti a giornali e riviste autorizzate rappresenta una nuova forma di censura, oltre a quella già esistente”.
Definisce giustamente “gravoso l’obbligo di non poter consegnare all’esterno i libri o i periodici [che] nonostante siano stati acquistati con i soldi del detenuto, diventeranno proprietà del carcere; non lo seguiranno nei suoi trasferimenti né potranno essere riconsegnati ai familiari e né rimarranno a sua disposizione all’interno della cella”. In tal modo, sottolinea l’avv.ssa Calia, vengono colpite “prerogative intangibili [quali] il pensiero e la sua estrinsecazione naturale attraverso la scrittura, la lettura e la comunicazione”.
Infine conclude con una esortazione politica: “si chiede che l’Unione delle Camere Penali voglia intervenire su questa vicenda che riguarda tutti i detenuti in regime di 41-bis”.
Non solo loro - aggiungiamo noi - ma, in un modo o nell’altro, tutti coloro che si trovano o verranno portati in carcere e non solo riguardo a libri e stampe ma anche per quanto riguarda i controlli, le perquisizioni, la disposizione di videocamere all’interno delle sezioni, le limitazioni delle cose possibili da tenere in cella. Ciò vale soprattutto per le carceri in cui ci sono sezioni 41-bis (Cuneo, Novara, Tolmezzo, Rebibbia, Terni, Ascoli P., Parma, L’Aquila…)
Milano, ottobre 2012


lettera dal carcere di Velletri (roma)
Carissime/i compas, ho sempre più l'impressione di trovarmi rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Purtroppo la relativa mia giovane età, non permette un oggettivo confronto con la realtà carceraria degli anni scorsi, per esempio quelli della contestazione, mi vengono però in aiuto i "sentito dire" e qualche vecchi galeotto irriducibile.
Tanto mi fa supporre che le cose stessero diversamente da oggi.
Mi pare di comprendere che il risentimento sociale fosse più generalizzato e che tra i fattori di devianza, si potessero includere anche soggettivismi socio-culturali non in linea con la crisi del capitale. L'atto delinquenziale era fine a se stesso, politico ed il contenitore carcere ne rispecchiava l'essenza. Come atto politico vigevano quindi regole e rituali ben interiorizzati, caratterizzati dal senso di ribellione istituzionale.
Ora tra i corridoi delle sezioni vedo deambulare persone imbottite di farmaci e non solo, prive della capacità logica d'analizzare le dinamiche che muovono la quotidianità, ferma alla pseudo-convinzione di uno stato-società capace di risolvere i loro problemi.
Quindi persone dissociate con la realtà troppo evoluta e tecnologica, non quindi ancora in grado di conservare in seno un confronto come nell'alienazione.
Il nesso tra uomo e natura è perso, rimane un mondo innaturale, tecnologico ed urbanizzato perché quella è la cultura dominante [...] anche le quotidiane ingiustizie diventano prassi da accettare.
Per questi motivi riconduco le carceri ad ospedali psichiatrici abitati da una moltitudine di soggetti relegabili nel mondo della discarica sociale.
O sei "IN" od "OUT" e tutto ciò ha un costo sociale più in termini umani che di destabilizzazione. Profitti invece per quelle ditte farmaceutiche e combriccola bella che risolvono così un proprio problema che andrebbe risolto diversamente, non certo richiudendo una persona fra quattro mura in tre metri quadri. [...]
Comunque ci sono e sono vivo. Un abbraccio fraterno a tutti/e voi.

30 settembre 2012
Andrea Orlando, via Campo Leone, 97 - 00049 Velletri


lettera dal carcere di Prato
Amici/he compagni/e, scusatemi se da molto tempo non mi faccio più sentire ma purtroppo, e vi garantisco che non è una giustificazione, questo ultimo periodo trascorso non è stato uno dei migliori. Sia per quanto riguarda il mio stato di salute sia per il resto. Sono quasi 13 anni che mi trovo sequestrato da uno stato dittatoriale che è solo buono a mettere in atto la legge del taglione occhio per occhio dente per dente quindi il resto si commenta da solo.
Questo stato è buono a guardare la pagliuzza nell'occhio dell'altro e peccato che non guarda mai la trave che si trova e perfora le loro pupille.
Amici/he compagni/e chi avrà mai il coraggio di rendere visibile e civile questi campi di concentramento chiamati carceri? Chi avrà il primato storico di arginare questo degrado, questo scempio umano?
Nelle carceri italiane lo stato realizza e persegue l'avvilimento morale delle persone, il suo deperimento fisico, le sue precarietà sanitarie, frutto di non curanza e insensibilità. E non per ultimo calpesta completamente la dignità umana dell'individuo. La privazione della libertà prevede anche questo?
Tanti sanno ma si girano dall'altra parte in primis i così detti magistrati di sorveglianza, volontari, cappellani, assistenti sociali, educatori, psicologi, dottori, direttori delle carceri. Tutti colpevoli nessuno escluso di calpestare la dignità umana ma tutti tacciono. È finita al contrario. Spesso si dice che i detenuti sono omertosi ma in questo caso l'omertà regna su queste persone perché tutti complici tra di loro.
Non vado più avanti mi fermo qui ok.
La libertà non è un frutto proibito! Sempre per una piena libertà! Viva l'Anarchia.

26 settembre 2012
Giuseppe Trombini, via La Montagnola, 76 - 59100 Prato

***
Ciao, io sto in ottima forma e di buon umore. Ora mi trovo in isolamento per scontare un rapporto disciplinare. In realtà questa é la posizione ufficiale del direttore Vincenzo Tedeschi perché se mi trovo in isolamento il motivo reale é un altro. Un po' di giorni fa un ragazzo é stato pestato dalle guardie in seguito ad una discussione animata che aveva avuto con una di queste. A tutta la sezione é stata levata la socialità. Qui a Prato per provare a metterci uno contro l'altro, carcerati contro carcerati, tolgono la socialità a tutti, anche se a far casino é uno solo.
Da quando sto qui ho fatto un solo giorno di socialità. Comunque siamo scesi all'aria e non siamo risaliti per protesta, abbiamo ribadito che non tolleriamo di essere sfiorati, e che la socialità ci deve essere restituita. Come sempre capita di fronte alla determinazione, gli ufficicali che dirigono la sezione, riescono solo a balbettare frasi inconsulte.
Comunque la mattina dopo sono stato convocato nell'ufficio dell'ispettore, che mi ha detto di prepararmi la roba che per motivi di sicurezza venivo trasferito in un'altra sezione. Ho fatto fatica a trattenermi dal ridere. Quando i portachiavi reagiscono così é segno che stai intaccando la loro pretesa di controllo. Ovviamente non mi sono spostato. Ho avuto un violento battibecco con l'ispettore Salvatore Fiorenzano che esasperato mi ha urlato che mi avrebbe portato di peso in un'altra sezione lui stesso sottolineando che pesa 30 kg più di me. Stavolta non ho trattenuto una risata. Ovviamente non si é presentato nessuno. Sanno fino a dove possono tirare la corda.
Sono assegnato qui dal D.A.P. a Prato e istruiscono che posso creare problemi continui.
E così mi hanno montato un consiglio disciplinare che mi punisce con l'isolamento. Per condotta irriguardosa dell'O.P. Un po' di giorni di vacanza.
Anche se proveranno dopo l'isolamento a non farmi rientrare in III sezione. Durante il tempo avuto a disposizione ho stretto bei rapporti, ed anche se ora sono in isolamento, riesco a comunicare con tutti urlando dalle grate. Sono fermamente intenzionato a rientrare in III sezione anche se mi costerà altri giorni di isolamento. Sti cazzi. Anche se a mangiare roba dal carrello ci vuole più coraggio di quanto ne ho. Oggi mi hanno portato un pezzo informe di carne completamente abbrustolita. L'ho buttata direttamente nel cesso.
Ho sentito dire che ci sarà una tre giorni di discussione a breve. Dio impalato quanto vorrei esserci pure io per trovare tra compagni un modo per rintuzzare questa società di miseria e infamità sbirresche. Vabbuò, fammi una cortesia, sto' piombo a bolli visto che il flusso di posta in arrivo a Prato é il doppio di quello a Torino, che in molti che mi scrivono, non mettono dei bolli, e non passano neanche la colla sul bollo affrancato. Con che cosa gli rispondo non lo so. Comunque fai girare che mi spedissero qualche bollo.
Ti allego anche un listino dei prezzi qui a Prato. A presto. Alessio.

7 ottobre 2012
Alessio Del Sordo, via La Montagnola, 76 - Loc. Maliseti - 59100 Prato


lettere dal carcere di Perugia
Cari compagni e compagne di Ampi Orizzonti, è con molto piacere che ricevo il vostro opuscolo (di cui conoscevo già l'esistenza) e non posso che condividere il vostro nobile strumento che rompe l'isolamento e amplifica gli atti di solidarietà all'interno di questo vergognoso luogo chiamato carcere, ovvero una delle cose più abominevoli che la mente umana possa aver mai partorito. Come uno degli "autori" di Scarcerandia, l'agenda autoprodotta da più di 12 anni contro ogni carcere, giorno dopo giorno, ho da sempre cercato di contestare questo mostro, ed ora sono stato divorato da esso con l'assurdo reato di devastazione e saccheggio, un reato risalente all'epoca fascista e rispolverato chissà da quale archivio solamente per "noi", per "noi" dieci che in quel 2001, a Genova, assieme a tantissime altre persone, abbiamo osato ribellarci a quello sporco gioco di dominio e sottomissione.
Sempre più convinto che a devastare e saccheggiare sia il potere e i suoi apparati e il paese, il mondo malato nel quale viviamo, ne è una chiara dimostrazione.
Ringrazio tutti e tutte per la solidarietà ricevuta, il miglior mezzo per trasmetterci quella forza necessaria per poter resistere e non farci sentire soli, cosa questa che continuo a scrivere e ripetere (in modo ormai quasi "meccanico") e che non mi stancherò mai di fare. Un forte abbraccio e, con la stessa intensità, un augurio di buona libertà a tutti e tutte.

1 ottobre 2012
Alberto Funaro, via Pievaiola, 252 - 06132 Perugia

***
Ciao amici di Ampi Orizzonti, mi chiamo Marco Luca e sono detenuto (prigioniero) dal 2007, prima mi trovavo al carcere di Rebibbia, poiché sono di Roma ed il fantomatico reato d'associazione a delinquere è stato commesso lì, poi un bel dì precisamente il 9 febbraio del 12 mi hanno deportato dove mi trovo ora e cioè al carcere di Capanne in Perugia... Questo senza darmi nessuna spiegazione ed ovviamente vi lascio immaginare quali conseguenze mi hanno forzatamente comportato...
Faccio il previsto colloqui famiglia, un mese si, l'altro no, poiché la mia compagna e mamma della nostra bambina di dieci anni non è automunita e comunque non ha denaro per affrontare la trasferta, qui mi è capitato il vostro opuscolo e l'ho letto, ne sono rimasto affascinato, ed in me ne è nata una fierezza, quella di non sentirmi solo nei miei pensieri e che c'è al mondo chi la pensa come me... Ho fatto molti anni di prigionia intervallati da sprazzi di "libertà" i miei momenti belli da "libero" sono stati quando ho incontrato la mia compagna Paola nel 2000 e quando è nata la nostra bimba nel 2002 Maria Laura, altre cose non sono degne di nota, o magari per il momento non interessano a nessuno... Anche se non mi sono mai schierato politicamente in politica, io sono per il giusto e per le cose giuste, ma sono un prigioniero dei lager di stato per cui mi piacerebbe ricevere il vostro opuscolo e poi una volta letto, farlo girare, mi pare che è così che si fa no? E poi mi metto a disposizione, ovviamente con la mia esperienza, altro non posso... Se qualcuno vuole mettersi in contatto con me lascio in calce il mio indirizzo, non ho timore di tirar fuori la mia voce e "denunciare" cose che anche in questo istituto non vanno, ma voglio essere anche propositivo, non voglio solo limitarmi a puntare il dito...
Sono d'accordo con chi afferma che il carcere deve essere abolito, ma chi è d'accordo è anche consapevole che rimarrà un'utopia, siamo gocce in mezzo al mare... la speranza però è una cosa buona... e le cose buone non muoiono mai!! Mi fanno sorridere quei ben pensanti che comodi dietro le loro poltrone esordiscono, a volte di fronte ai mass-media, che le condizioni cui versano i detenuti/e nelle carceri italiane sono disumane... la maggior parte parla per sentito dire, o se hanno messo piede in un carcere, sono stati a visitare bracci, sezioni, padiglioni preventivamente "riassettati" "resuscitati" il tutto opportunamente pilotato da direttori d'istituto compiacenti e opportunisti, come mai, non si vede mai in TV una "bella" sezione di transito? O/e celle d'isolamento dotate di tutti i loro confort? A fine settembre hanno parlato tutte le reti televisive in orari più disparati di PRIGIONE, AMNISTIA, INDULTO, siamo arrivati ad ottobre... risultati? Accenni ad iniziative parlamentari? Non se ne parla più... Ha ragione quel ragazzo dell'opuscolo che ho letto, bisognerebbe "cappottarlo" il carcere altro che scioperini, scioperetti... Via il caffè, via lo zucchero, via le sigarette e via il sopravvitto (spesa) guarda che danno alle imprese che hanno l'appalto... Stipendi da miseria? Che i lavoranti si chiudano e l'amministrazione chiami una ditta esterna, ma quanto gli costa? Finisco qui, anche se avrei molto altro da dire... La richiesta dell'opuscolo ve l'ho fatta se mi vogliono contattare l'indirizzo è questo

18 ottobre 2012
Marco Luca Furciniti, via Strada Pievaiola, 252 - 06132 Perugia


20 ottobre: presidio al carcere Bassone (como)
LIBERARSI DAL CARCERE PER LIBERARSI DELLO STATO
Negli ultimi mesi tra scioperi, proteste e accenni di rivolta, i detenuti hanno dimostrato quanta forza possano mettere in gioco restando uniti. Rifiutarsi in quasi 200 di rientrare nelle celle dopo l’ora d’aria, portare avanti scioperi del carrello e della spesa interna, sono azioni che hanno dimostrato che per vincere una lotta bisogna essere uniti e determinati.
Questa situazione di crisi che mette in luce l’inevitabile fallimento del sistema capitalista, non fa altro che portare in carcere sempre più persone.
Si può finire in carcere perché quando non si arriva alla fine del mese e non si hanno i soldi per mangiare ci si ingegna compiendo reati per sopravvivere. Si può finire in carcere perché anziché sottomettersi alla terribile routine del quotidiano PRODUCI-CONSUMA-CREPA, dove le vite vengono trascorse sul posto di lavoro in attesa di una pensione che non arriverà mai, si decide di non alimentare questo sistema e di trovare un’alternativa nella delinquenza non solo per sopravvivere, ma per una vita dignitosa costruita sulle spalle di chi si è sempre arricchito sul lavoro degli altri.
Il carcere è anche lo strumento principe dello Stato per cercare di soffocare i consapevoli moti di ribellione che sempre più nascono contro le sue politiche a favore delle speculazioni ai danni dell’uomo e dell’ambiente. Molti nostri compagni e compagne si trovano ora in galera perché si sono opposti senza compromessi al sistema di sfruttamento e coercizione dello Stato (di cui il carcere è tassello fondamentale), al TAV e imposte e a tutte le nocività o perché non hanno accettato a testa bassa di vivere in base a leggi dettate dal capitale dallo stato. Per tutti questi motivi le porte del carcere sono e saranno sempre più aperte per chiunque.
Negli ultimi tempi abbiamo assistito in più occasioni a dichiarazioni pubbliche in cui il Presidente Napolitano ha parlato di indulto e amnistia per alleggerire il problema del sovraffollamento delle carceri. Capiamo bene che il miraggio di questi due provvedimenti possa a volte rappresentare l’unica speranza di un detenuto ma ci piace ricordare che la legge Turco-Napolitano, poi ulteriormente peggiorata con la Bossi-Fini che ha introdotto il reato di clandestinità, ha contribuito notevolmente a riempire le carceri.
Noi crediamo che finché ci si trova in galera l’unica cosa su cui contare e sulla quale spendersi sia l’unione tra i prigionieri per imporre alla direzione carceraria le proprie volontà senza sperare inutilmente nella bontà delle istituzioni che hanno invece interesse nel mantenere inalterato lo stato di cose.
Abbiamo aperto, come sapete, una casella di posta per agevolare le comunicazioni tra noi e i prigionieri a cui però non fanno arrivare lettere spedite dall’interno del Bassone, è molto importante che questa venga riattivata ma perché ciò avvenga è necessaria una pressione sia dall’interno che dall’esterno del carcere. Vogliamo proporre ai detenuti di mettere in atto forme di protesta (in qualsiasi forma) al fine di poter riutilizzare questo strumento contro l’isolamento tra dentro e fuori che ci vuole divisi e quindi più deboli.
Sabato 20 ottobre, dalle 9 alle 12, presidio al carcere Bassone di Como (Via Alpiano 11, Albate Como) in solidarietà a tutti i detenuti, a tutte le detenute ed alle loro lotte.

18 ottobre 2012
Collettivo Dintorni Reattivi e Associazione oltre le sbarre
Contatti: dintornireattivi@autistici.org - c.p. 86 - 22077 Olgiate Comasco


Roma: repressione per manifesti sulla morte di Luigi Fallico
Il 1 ottobre a Roma si é compiuto l’ennesimo atto repressivo ai danni di alcuni compagni. Alle 6 di mattina la DIGOS é piombata a casa di cinque compagni sequestrando agendine telefoniche, computer e riviste di movimento. Le accuse notificate ai compagni per aver espresso solidarietà al prigioniero politico Luigi Fallico (attaccando un manifesto per le vie di Roma in suo ricordo) vanno dalla cospirazione, attentato alla costituzione, il solito 270 bis, all’insurrezione armata contro lo stato!
Risulta sempre più evidente la strategia dello stato tesa a reprimere e isolare i movimenti di lotta, dalla No Tav alle mobilitazioni studentesche passando per quelle dei lavoratori. Allo stesso modo viene repressa qualsiasi forma di solidarietà che appoggi la lotta dei prigionieri politici, anche se, come in questo caso, viene espressa nel ricordo di un compagno, purtroppo morto durante la detenzione.
Attraverso le denunce e i processi, lo Stato vorrebbe allontanare i compagni trasformando la solidarietà in un’accusa di complicità. Ci sentiamo da sempre complici con chi ogni giorno combatte questo sistema e ancora una volta riaffermiamo che la solidarietà è un’arma che continueremo ad usare.
Terrorista é lo Stato e non chi ogni giorno lotta per un futuro e una società migliore!
Contro la repressione uniti si vince! Libertà per tutti i detenuti!

16 ottobre 2012
da www.zetanapoli.org
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L’ 1 ottobre 2012 alle ore 6.00 circa del mattino venivano compiute dalla d.i.g.o.s. di Roma 5 perquisizioni nei confronti di altrettanti compagni e familiari dei medesimi. Nel corso dell’operazione poliziesca, ordinata dai giudici D’Amelio e Tescaroli, venivano sequestrate le solite agendine telefoniche, i soliti computer, le riviste di movimento, con particolare interesse verso quelle che esprimevano solidarietà ai compagni detenuti. Dopo di che veniva notificato un avviso di garanzia per una lunga serie di reati puniti con l’ergastolo. Nello specifico l’art.302 cospirazione, l’art. 283 attentato alla costituzione, il solito 270bis adatto a tutte le occasioni e dulcis in fundo l’art.284 che poi sarebbe insurrezione armata contro lo stato! Tutto ciò sostanziato dall’ipotesi d’aver affisso un manifesto che ricordava un militante comunista , lasciato morire in carcere per mancanza di cure mediche; il compagno Luigi Fallico 59 anni; artigiano corniciaio, proletario di casal bruciato. Il manifesto e la sua affissione (così recita l’ordinanza) fanno parte di un disegno strategico diretto dai “terroristi” detenuti. La verità è che la borghesia, i padroni, il governo delle banche e dei grandi gruppi finanziari, oramai ha paura persino dei morti; di quelli cioè, che Mao-Tze-Tung definiva pesanti come montagne. E in questi anni, sui posti di lavoro, nelle carceri ne hanno prodotti veramente tanti;troppi! Essi sono direttamente proporzionali all’intensificazione dello sfruttamento operaio, ed all’aumento della repressione necessaria a mantenere l’attuale ordine basato sul profitto di pochi parassiti. LA VERITA’ E’ CHE I TERRORISTI SONO LORO. La verità è che dietro il grigio governo Monti, voluto da tutti i partiti politici, si nasconde la volontà di annichilire qualsiasi istanza di classe, qualsiasi lotta sui posti di lavoro. Gli agenti della repressioni stanno pesantemente affondando il piede sul pedale dell’acceleratore. I raid repressivi che hanno colpito i compagni anarchici dalla primavera di questo anno a oggi, le pesanti ed esemplari condanne per il g8 di Genova e per il corteo del 15 ottobre a Roma sono gli indicatori che il clima si stia facendo davvero pesante. E questa condizione la subiscono coloro che non intendono chinare la testa di fronte allo stato dei padroni. Il quartetto delle barbarie (Merkel-F.M.I.-B.C.E.-U.E.) sta preparando per noi piatti a basa di pane e acqua e non ha nessuna intenzione di ritrovarsi l’unione europea “impestata” di conflitti sociali. Per questo danno indicazioni ai loro governi-fantoccio di estirpare alla radice qualsiasi graminaceo, la tendenza e’ arginare il virus zombiesco,di Romeriana memoria, al fino di circoscriverlo alla sola Grecia. E così, dopo le parole “solidali” con i lavoratori dell’alcoa, del “nostro” presidente della repubblica arrivano le manganellate, e così dopo le accorate parole dei vari cardinali e prelati tarantini; le alternative degli operai ilva rimangono sempre 3: scannarsi tra poveri-rimanere disoccupati-continuare a lavorare e morire di tumore. La spada di Damocle di un eventuale processo penale che minaccia condanne più che pesanti, dovrebbe nelle intenzioni di lor signori indurci a non pensare, a non lottare, a non dare la nostra solidarietà ed il nostro impegno militante per la classe a cui apparteniamo: il Proletariato! NOI NON ABBIAMO PAURA. Ma il punto non e’ questo! Chiediamo con forza a tutte le situazioni di lotta, al sindacalismo di base, alle radio, di pronunciarsi aderendo a questo comunicato, respingendo questo attacco, arrogante e scomposto, non a tizio e Caio, ma a tutto il corpo di classe. Nessun sincero compagno può far finta di non vedere, che questa deriva potrebbe cadere adosso come un macigno su tutte le istanze di liberazione dallo sfruttamento da parte dei padroni. A CHI TOCCHERA’ DOMANI SE NON LI FERMIAMO ORA?

“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare”.

12 ottobre 2012
Alcuni compagni di Roma


No Tav, tra Val Susa e Val Polcevera
Resoconto del presidio del 6 ottobre da Serravalle a Arquata
“La geografia sovversiva scaturita dalla lotta No Tav va arricchendosi di nuovi toponimi. L’estate appena terminata ha visto muovere i primi passi contro il Terzo Valico, la linea ferroviaria ad alta velocità Genova-Milano, segmento italiano del ‘Corridoio 24’. La Val Polcevera, coinvolta direttamente dal progetto, è una di quelle valli limitrofe su cui la ‘Superba’, nel corso degli anni, ha allungato la sua lingua di ferro e cemento”. (Estratto dal foglio Lavanda n.3)
Questa estate il COCIV (consorzio costruttore del Tav-Terzo Valico) ha tentato di eseguire centinaia di espropri nei comuni di Serravalle, Arquata, Gavi, Carrosio, Voltaggio, Fraconalto, Borgo Fornari, Genova, Campomorone e Ceranesi, ma la presenza lucida e determinata di decine di persone che abitano quei luoghi, unitamente a quella di vari compagni/e, ha, di fatto, impedito che si svolgessero gli espropri previsti di case e terreni. Le prime opere di viabilità funzionali al progetto del Terzo Valico sono state tutte rinviate a data da destinarsi. Queste piccole vittorie hanno dato fiducia nelle proprie potenzialità ai presenti e fatto crescere la partecipazione e il consenso alle iniziative di un movimento in crescendo.
Da qui la chiamata per una grande manifestazione per il 6 ottobre, pubblicizzata su vari siti internet e appoggiata dai no-tav riunitisi a Bussoleno il 26 settembre. Durante quest’assemblea, che ha visto la partecipazione di circa 500 persone, si è anche spinto il corteo del 13 ottobre contro la CMC a Ravenna; ricordato l’importanza di una forte presenza sotto il Tribunale di Torino per l’inizio del processo ai no-tav arrestati il 26 gennaio di quest’anno; il presidio sotto il carcere di Cuneo dove fino a un paio di giorni dall’iniziativa (7 ottobre) era detenuto Maurizio Ferrari, comunista, no-tav, arrestato anch’esso il 26 gennaio (ricordiamo che di quell’operazione, ordinata dal boia Gian Carlo Caselli, restano ancora imprigionati Alessio nel carcere di Prato e Juan agli arresti domiciliari in provincia di Trento). Naturalmente è stata rilanciata la lotta al TAV, e a tutte le aziende collaborazioniste, Banca Intesa compresa.
Il 6 ottobre si è svolto il corteo popolare da Serravalle ad Arquata composto di circa 3.500 persone giunte da vari luoghi della penisola. Si è percorso il centro cittadino di Serravalle per poi transitare per il sobborgo di Libarna, il luogo dove ha avuto inizio la battaglia degli espropri da cui il COCIV è uscito sconfitto senza essere riuscito a espropriare un solo centimetro di terra. Per tutto il percorso ci sono stati slogan e cori che, andando a pescare nel repertorio partigiano, ultras o tra le hit della musica pop, davano il giusto ritmo alla marcia anticipando ciò che in Val Susa è già passato.
Ad Arquata c’è stata una meravigliosa accoglienza da parte della popolazione locale, bandiere no-tav ovunque, cartelli scritti a mano e attaccati sulle vetrine dei negozi (“grazie ragazzi - No Tav”), gente di tutte le età che applaudivano e ringraziavano, nonostante noi si fosse lì per un obiettivo comune.
L’iniziativa si è conclusa con gli interventi di due donne che dovrebbero subire espropri da parte del COCIV, una di Serravalle e una di Campomorone. Entrambe hanno rilanciato la volontà degli abitanti interessati dal progetto del Tav-Terzo Valico di resistere alla costruzione dell’opera e all’esecuzione degli espropri, invitando tutti/e a partecipare ai prossimi momenti di resistenza:
- mobilitazione domenica 21 ottobre in Val Lemme;
- a novembre, con data ancora da fissare, si terrà invece una nuova manifestazione in Val Polcevera sul versante ligure;
- sempre a novembre, con molta probabilità, andranno in scena nuovamente i tentativi di espropri da parte del COCIV.
Siamo ancora molto distanti dalla resistenza offensiva praticata nei boschi della Val Susa, ma da cosa nasce cosa e i valsusini ci hanno insegnato che c’è un tempo per grossi cortei con anziani e bambini, pacifici ma determinati, e un tempo in cui anche i passeggini s’incazzano e non ce n’è più per nessuno. Anche in Val Polcevera, la distruzione delle falde acquifere e degli acquedotti, lo spargimento di amianto per tutta la provincia di Alessandria e Genova sono alcune delle principali ragioni per cui il popolo No Tav-Terzo Valico ha deciso di non arrendersi, approcciandosi a sperimentare una lotta da vivere insieme.
Anche qui “vale quanto è stato detto per la Val di Susa: non è la “comunità”, come supposta condizione ereditata dal passato, a rendere possibile una lotta; è piuttosto quest’ultima a dischiudere nuove possibilità del vivere in comune.” (da Lavanda 3)

11 ottobre 2012
a cura di alcuni nemici di questo mondo


resoconto del corteo del 13 ottobre a ravenna contro la c.m.c.
In una città blindata, migliaia i manifestanti contro la Cmc di Ravenna. Dieci i pulman arrivati dalle principali province di Torino, Bologna, Vicenza, Milano e Cagliari. Bloccato ingresso principale della Cmc.
“Contro nocività e devastazione dei territori, lottiamo per la terra e la libertà”. Con questo slogan il corteo ha invaso le strade di Ravenna per protestare contro la Cmc, “cooperativa” edile con molti appalti di devastazione del territorio, complice dell'economia di guerra del governo che in nome del “lavoro” , distrugge i territori, costruisce basi di guerra (Sigonella in Sicilia e il Dal Molin a Vicenza) incassa ricchi profitti a scapito delle comunità in lotta che si battono contro le logiche affaristiche. Ma la Cmc non è solo devastazione... a tutto questo si aggiunge la vergognosa notizia, tenuta ben nascosta dall'impresa edile, della collaborazione nella costruzione, per l'80%, del muro di Gaza, il muro dell'apartheid. Sarebbe questa la funzione sociale della “cooperativa” Cmc?
Questo il senso della manifestazione di oggi in una città blindata, con misure di sicurezza eccezionali, dall'uscita anticipata per gli studenti delle superiori fino all'interruzione del trasporto pubblico dalle 12.30 fino alla fine della manifestazione, dalla piombatura dei tombini alla rimozione dei cassonetti e per finire un ingente dispiegamento delle forze dell'ordine. Il sindaco della città di Ravenna Matteucci, come molti suoi predecessori, ha toppato, perchè pur di demonizzare i Notav, senza fra l'altro riuscirci, non si è fatto nessun scrupolo verso i ravennesi (comitati locali hanno partecipato al corteo, fra i quali "Vitalaccia dura" che contesta la cementificazione tra Punta Marina e Porto Fuori) costretti a subire il fastidio per tutto il pomeriggio, dovuto alle misure eccessive di sicurezza. Il corteo si è svolto in modo pacifico ma determinato, riuscendo nel proprio intento, arrivando davanti ai cancelli della Cmc.
In migliaia i manifestanti per le vie di Ravenna, fra questi anche il Movimento Notav, il comitato dell'Ilva di Taranto, i NoDal Molin, NoPeople mover di Bologna, i NoMuos e i NoExpo di Milano, partiti alle 15 dalla stazione per arrivare sotto i cancelli della Cmc. Slogan e interventi contro i “devastatori della terra” per ricordare che c’é lavoro e lavoro, che dietro a qualsiasi appalto, dovrebbe esserci l'etica del lavoro e non solo il profitto.
Come al solito alla canea mediatica in sostegno alla Cmc, non poteva mancare il Pd che continua ad appoggiare politicamente progetti devastanti per l'ambiente e per chi lo vive, legittimando lobby finanziarie, speculazioni e malaffare.

13 ottobre 2012
da infoaut.org

***
C.M.C. devastatori della terra
In ogni parte del mondo le lobby finanziarie, politiche e mafiose aggrediscono, depredano e devastano usando l’ormai insostenibile alibi del progresso e la promessa di una “crescita del lavoro”, con la complicità dei governi. Accade in Centroamerica, in Africa, in Asia come qui in Italia. Le situazioni di attacco ai territori e alle loro ricchezze sono innumerevoli.
Da Nord a Sud non è possibile elencare tutti gli scempi. Dalla Valle di Susa, passando per il Mugello, arrivando fino in Sicilia i grandi affaristi violentano la terra cementificando, perforando, scavando e inquinando.
Calpestano la possibilità di una vita libera, felice e condivisa, sacrificandola alle logiche di poteri forti che muovono fili invisibili per asservirci ai loro scopi: i loro profitti, quelli che non bastano mai. Fra i responsabili spiccano Impregilo, Eni, Todini e non ultima la Cmc di Ravenna.
L’unico modo che abbiamo per contrastare queste mire rapaci e devastanti è costituire aggregazioni sempre più allargate e diffuse, rendendo evidenti le opposizioni e rendendoci conto che noi siamo più di loro e che solo uniti possiamo sconfiggerli.
Il primo appuntamento è per il 13 ottobre a Ravenna, dove manifesteremo contro la Cooperativa Muratori e Cementisti (CMC) che, dopo essere stata artefice in questi anni di numerose devastazioni sul territorio italiano, si accinge a realizzare il tunnel geognostico alla Maddalena di Chiomonte in Val di Susa. Un’azienda che fra i vari progetti distruttivi vuole realizzare un cantiere rifiutato da decine di migliaia di residenti nella Valle e da un Movimento che ormai è presente in tutta la penisola e oltre confine. In gioco non ci sono solo le spartizioni legate al Tav, ma soprattutto altre logiche decisionali e autoritarie come il dimostrare che se il Pd (che è dietro la Cmc) e qualunque altro partito politico decidono qualcosa, nessuno può permettersi di dissentire, di opporsi, di resistere.
L’azione di opposizione critica, di lotta e di disobbedienza delle comunità e dei territori infatti mette in discussione gli stessi meccanismi del potere, gli equilibri dello scambio clientelare e mafioso.
Queste le ragioni per cui è importante che tutte le persone che vogliono impedire la devastazione del pianeta Terra partecipino a questa prima manifestazione per rilanciare l’opposizione alla lobby trasversale degli affari.
LOTTIAMO PER LA TERRA E PER LA LIBERTA’
INDIVIDUI E REALTA’ IN LOTTA CONTRO NOCIVITA’ E DEVASTAZIONI DEI TERRITORI

milano: Il Presidio Martesana non si sgombera
Il progetto EXPO prova ad avanzare, la città vetrina cerca inesorabilmente di prendere forma. Di questo grande progetto la TEM rappresenta una piccola parte di tutte le grandi infrastrutture che entro il 2015 dovrebbero collegare Milano con il mondo.
Non importa se queste autostrade distruggeranno enormi porzioni di territorio, non importa se trasformeranno il tessuto produttivo incentivando la logistica e la precarietà ad essa connessa, non importa se speculatori e mafie troveranno guadagni facili. La TEM deve proseguire, così dicono.
Dopo oltre un anno di resistenza il terreno su cui sorge il Presidio Martesana deve essere espropriato. Almeno così vogliono il presidente di TEM, il presidente del consiglio provinciale Podestà, il presidente regionale Formigoni e tutto quel mondo finanziario (banca Intesa, CMC, impregilo,ecc) che elogia questo tipo di infrastruttura.
La lotta però non si può espropriare. Non saranno sgomberi, ordinanze e decreti ad impedirci di contrastare con tutte le nostre forze questo folle progetto di sviluppo che vuole seppellirci in debiti, cemento e precarietà per arricchire politicanti corrotti e banchieri.
La resistenza continua e anzi questo arrogante tentativo di fermare con la forza questa esperienza di conflitto territoriale ci spinge solo ad alzare ancora di più la testa.
GIOVEDI 11 OTTOBRE alle ORE 16.00 Tem verrà a prendere possesso legale del terreno su cui sorge il Presidio, di fatto espropriandolo, CHIEDIAMO A TUTTI coloro che hanno preso parte al movimento no tem DI ESSERE PRESENTI.
Dalla mattina di venerdì 12 ottobre LO SGOMBERO POTRÀ ARRIVARE IN QUALSIASI GIORNO; coscienti della difficoltà logistica di raggiungere il presidio all'alba, abbiamo deciso di indire un CORTEO ALLE ORE 18:30 DEL GIORNO STESSO, con concentramento alla fermata della metropolitana di Gorgonzola, MM2.
DOMENICA 21 OTTOBRE alle ORE 15 in presidio, ASSEMBLEA GENERALE DEL MOVIMENTO NO TEM. De chi se pasa no!
10 ottobre 2012
Presidio Martesana


No Tav: nuovi indagati per la resistenza dell'estate 2011 in Valle
Iniziano ad arrivare gli avvisi di chiusura delle indagini relativi al secondo filone repressivo sui fatti del 27 giugno e del 3 luglio 2011 avvenuti in Val Susa. Oltre a Luca ed Elena, raggiunti da misure repressive il 25 giugno 2012 (quasi a un anno di distanza dai fatti contestati), sono stati inseriti in questo secondo calderone altri sei compagni, alcuni dei quali già erano stati perquisiti il 26 gennaio scorso, ma i cui nomi sembravano essere scomparsi da ogni fascicolo.
Le accuse sono le stesse mosse agli altri 46 imputati: lesioni e violenza a pubblico ufficiale aggravate in concorso, danneggiamento aggravato in concorso, travisamento.
Al momento quindi le due inchieste, pur muovendo dagli stessi fatti e dalle stesse accuse, vengono condotte su binari separati.
Che i muri crollino e la libertà evada.
Libertà per Mau e Alessio ancora prigionieri nelle gabbie dello stato.

2 ottobre 2012
da piemonte.indymedia.org


Trieste: Denunce per mobilitazioni No Tav
LA REPRESSIONE NON DEVE FERMARE LA LOTTA NO TAV
In una delle ultime giornate di febbraio 2012 cade, da un traliccio dell'alta tensione, Luca Abbà, attivista no-Tav della Val di Susa, nel tentativo di convogliare su di sé l'attenzione delle guardie e facilitare le azioni di protesta degli altri compagni della valle in lotta contro i lavori di costruzione della linea ad alta velocità ferroviaria Lisbona-Kiev, “grande opera” all'insegna dello sperpero di denaro pubblico e della devastazione ambientale.
Nei giorni successivi le iniziative in solidarietà alla lotta no-Tav e a Luca Abbà (che riporta gravissime lesioni da caduta, tanto che in un primo momento si teme addirittura per la sua stessa vita) sono numerosissime: manifestazioni spontanee in tutto il paese bloccano il traffico cittadino, autostradale e ferroviario. Anche Trieste porta il proprio contributo; il traffico viene fermato per circa un'ora da un corteo spontaneo: circa una settantina di persone occupa le vie del centro, incurante del “normale” iter burocratico che prevederebbe il rilascio di un'autorizzazione.
L'urgenza della circostanza fa appello direttamente alle coscienze, senza passaggi intermedi. Quasi troppo bello per essere vero!
Il giorno prima, Moretti, amministratore delegato di FS è in città; all'incirca altrettante persone decidono di andargli incontro spostando il luogo del presidio da Piazza Unità, sito per cui veniva precedentemente chiesta l'autorizzazione (visto che era proprio lì che Moretti doveva incontrare il sindaco Cosolini), a palazzo Revoltella, dove, alla chetichella, l'amministratore delegato viene ricevuto. Il repentino cambio di sede mira evidentemente a proteggere Moretti dalle aspre critiche e feroci condanne che la sua politica gli procura, Tav in primis ma non solo: soppressione dei treni notte e dei regionali, aumento delle tariffe soprattutto per i pendolari, licenziamenti...
Sei mesi più tardi piovono denunce per il reato di manifestazione non autorizzata a circa 30 persone, alcune coinvolte in un solo procedimento, altre in entrambi; nell'insieme quasi un terzo dei partecipanti.
La forza con cui la repressione si abbatte su tale protesta non è inaspettata; la lotta no-Tav rappresenta oggi uno dei fronti su cui si decide se il potere continuerà a imporsi con la sua logica basata sullo sperpero, la speculazione, la devastazione e il profitto a vantaggio di pochi, o dovrà fermarsi di fronte all'opposizione e alla ribellione dei molti.

14 ottobre 2012
Alcuni inquisiti No-Tav


torino: UN CORTEO CONTRO GLI SFRATTI
Nel pomeriggio di sabato 13 ottobre, un corteo di un centinaio abbondante tra sfrattati e solidali ha attraversato le strade nella Barriera di Milano a Torino. Fermandosi nei punti più significativi della giornata di resistenza del 18 settembre, i manifestanti hanno scandito slogan come “Basta sfratti” e “La casa si prende, l’affitto non si paga”, distribuito volantini come quello qui sotto, e fatto diversi interventi al megafono di fronte ai passanti e agli abitanti del quartiere. Un corteo piccolo, se ci limitiamo all’aspetto quantitativo, ma importante. Perché la gran parte non era composta da militanti, ma da quegli sfrattati che in questi mesi stanno lottando per tenersi la casa, o per occuparne di nuove. Perché si tratta della prima vera e propria iniziativa della lotta contro gli sfratti in Barriera, Aurora e Porta Palazzo, al di là delle scadenze fissate dagli ufficiali giudiziari e dalle occupazioni. Perché non c’è stata alcuna indizione pubblica di questo corteo, ma una proposta, partita dall’assemblea contro gli sfratti di Porta Palazzo, che è corsa in giro per il quartiere con il passaparola, percorrendo quella rete concreta di rapporti reali che più di un anno di picchetti e occupazioni ha saputo tessere. E infatti, per una volta, niente camionette a ingrigire le strade, ma un quartiere libero di respirare, gente alle finestre e bambini a dettare gli slogan più belli.

Torino: aumentano gli sfratti, rinasce una resistenza
Più di duemila sfratti l’anno scorso, millecinquecento nei primi sei mesi di quest’anno. Italiani e stranieri, giovani e famiglie, truffati da banche e padroni o rimasti senza lavoro e senza soldi, sono migliaia le persone che ogni anno rischiano di perdere la casa. Mentre gli sfratti aumentano, in città rinasce una forma di resistenza: i picchetti. Una pratica di lotta vecchia di quarant’anni, semplice ma efficace, che si sta diffondendo velocemente. Negli ultimi mesi, a Torino, non c’è stata settimana senza picchetti anti-sfratto. Invece di subire passivamente e in silenzio, sempre più famiglie sotto sfratto hanno deciso di opporsi, chiamando amici, parenti e solidali per resistere insieme. Hanno imparato a difendersi da padroni e ufficiali giudiziari, ad affrontare qualche poliziotto in divisa o in borghese, e li hanno quasi sempre costretti a concedere un rinvio.

Padroni e polizia si organizzano: il terzo martedì del mese
Da tempo, soprattutto in alcuni quartieri di Torino, è diventato difficile eseguire uno sfratto. Padroni e polizia sapendo bene che in caso di emergenza ci sono un centinaio di persone pronte a mobilitarsi, non potevano restare a guardare. E così hanno pensato una strategia: concentrare tanti sfratti in una sola giornata, per ora il terzo martedì di ogni mese, sperando di disperdere le forze di chi resiste. Ci hanno provato il 19 giugno, il 17 luglio e infine il 18 settembre, mobilitando centinaia di poliziotti e carabinieri con caschi, scudi e manganelli. Ma l’idea, neanche poi così originale, non ha portato i risultati sperati.

Anche la resistenza si organizza: le barricate in strada
Il 18 settembre la Questura aveva concentrato, soltanto nei quartieri di Porta Palazzo, Aurora e Barriera Milano, almeno dodici sfratti. Per questo, dall’alba, almeno centocinquanta persone erano sveglie e pronte a lottare davanti alle case delle otto famiglie che avevano deciso di resistere. Cassonetti e catene per bloccare le strade, striscioni, volantini e megafoni per spiegare ai passanti cosa stava succedendo, fumogeni e petardi per tenere lontana la polizia. Tutte le famiglie che avevano deciso di resistere hanno ottenuto un rinvio di due o tre mesi. La polizia è riuscita a sfrattare soltanto case vuote o famiglie che avevano deciso di mollare tutto. Dove ha trovato le strade chiuse dalle barricate, la polizia non ha avuto il coraggio di attaccare e si è ritirata.
Nei prossimo mesi gli sfratti continueranno. Polizia e padroni hanno organizzato altre giornate come il 18 settembre e nel frattempo cercheranno di inventare altre strategie, per spaventare e colpire con più forza chi resiste agli sfratti. Ma anche chi resiste continuerà a lottare, giorno dopo giorno, cercando di organizzarsi al meglio. Perché in questi mesi in tanti hanno imparato che resistere ai padroni e alla polizia è possibile. Basta trovare la forza e il coraggio di cominciare.

15 ottobre 2012
da www.autistici.org/macerie

milano: Processo ai sostenitori degli operai INNSE
Venerdì 26 Ottobre inizia il processo contro cinque compagni accusati di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, nel corso della protesta sulla tangenziale avvenuta Domenica 2 Agosto 2009 per sostenere la lotta contro la chiusura della fabbrica che gli operai della INNSE portavano avanti da 14 mesi. In quell’occasione, la polizia sgomberò con la forza il presidio di fronte ai cancelli della fabbrica, mentre all’interno si procedeva allo smontaggio delle macchine. La reazione degli operai e dei loro sostenitori fu immediata, ogni ora che passava segnava la fine della fabbrica e del posto di lavoro dei 50 operai occupati.
La protesta sulla tangenziale fu il primo tentativo di attirare l’attenzione pubblica su quanto stava accadendo. Successivamente, la resistenza di alcuni operai saliti in cima ad un carroponte per 9 giorni contribuì a conseguire gli obbiettivi di quel lungo braccio di ferro: fu impedito lo smantellamento della fabbrica, la speculazione edilizia che ne sarebbe conseguita e salvati tutti i posti di lavoro. La fabbrica riprese l’attività ed è ancora attiva con nuove assunzioni.
Dopo i decreti penali di condanna per l’occupazione della tangenziale, caduti nel vuoto, e dopo un processo per un’altra resistenza allo sgombero della fabbrica del Febbraio 2009 che ha visto assolti tutti gli imputati. Il processo che va a cominciare è un nuovo tentativo per sanzionare i sostenitori degli operai della INNSE che avevano dimostrato di essere determinati a non far chiudere la fabbrica, non accettando di contrattare il prezzo della propria sconfitta: una scelta vincente.
Ovunque ci si lamenta della disoccupazione, della perdita di posti di lavoro, della chiusura delle fabbriche ma poi accade che si portano in tribunale, per fatti inesistenti, i sostenitori che assieme agli operai hanno lottato realmente per impedire chiusure di fabbriche e licenziamenti di massa. Perché?
Forse il reato vero è la solidarietà, l’unione che si è cementata in via Rubattino davanti alla INNSE, forse è questo il pericolo che va scongiurato?
Gli operai della INNSE sentono come primo dovere restituire la solidarietà a questi sostenitori, saranno presenti all’udienza del 26 Ottobre e invitano anche gli altri a presenziare. Nello stesso giorno altri operai, quelli della ditta di Basiano, saranno processati per aver difeso con accanimento il loro posto di lavoro, anche a loro deve andare la nostra solidarietà.
Processare e condannare persone che per un pezzo di pane difendono il loro posto di lavoro è forse un nuovo sistema per affrontare il problema della disoccupazione?
Facciamo sentire la nostra solidarietà.
Invitiamo a presenziare all’udienza di venerdì 26 ottobre alle h.9.30 al tribunale di Milano (sezione X, aula 10, piano terra).

Milano, ottobre 2012
RSU INNSE Milano, Sostenitori degli operai che resistono ai licenziamenti


IN SOSTEGNO ALLA LOTTA DEI LAVORATORI DELLE COOPERATIVE
IN APPALTO AL DEPOSTITO CENTRALE IKEA DI PIACENZA
Prosegue lo sciopero ed il presidio dei lavoratori del consorzio CGS, consorzio di cooperative con circa 350 addetti che lavora in appalto presso il Deposito Centrale IKEA di Piacenza. Da mesi lavoratori lottano per rivendicare i loro diritti e giusti salari.
Rispetto dell’orario previsto dal contratto, riduzione dei carichi di lavoro, pagamento degli istituti al 100%, equa distribuzione del lavoro e degli straordinari, indennità mensa, sono le principali richieste. A queste si aggiunge ora il reintegro sul posto di lavoro dei colleghi che sono stati recentemente sospesi, con l'obiettivo di licenziarli, e che si trovano in presidio davanti al deposito.
E' cominciata una campagna di mobilitazione e denuncia in appoggio ai lavoratori in lotta. L’obbiettivo è quello di investire il maggior numero di punti vendita IKEA per sostenre la lotta in corso.
22 ottobre 2012
Sindacacato Intercategoriale Cobas


milano: APPELLO AI LAVORATORI DELLA SANITÀ
SCIOPERIAMO CONTRO LA DEVASTAZIONE DELLA SANITÀ PUBBLICA E PRIVATA CONTRO I LICENZIAMENTI, I TAGLI AL SALARIO, ALL'OCCUPAZIONE, AI SERVIZI
MERCOLEDÌ 24 OTTOBRE:
- La RSU aziendale del S. Raffaele, ha indetto uno sciopero per protestare contro i previsti 450 licenziamenti, la riduzione di salario e di diritti richiesta dal nuovo padrone dell'Ospedale.
- La RSU aziendale dell'A.O. San Paolo ha indetto uno sciopero contro il taglio ai salari, taglio dei posti letto e contro il licenziamento di 60 precari
- La RSU della ASL di Milano ha indetto uno sciopero contro l'atteggiamento vessatorio della Direzione Aziendale nei confronti dei lavoratori del comparto, contro la gestione dittatoriale delle relazioni sindacali e il taglio dei salari e dei diritti.
Nello stesso giorno il sindacalismo di base ha indetto uno sciopero regionale della sanità per l'intera giornata contro la distruzione del sistema sanitario in lombardia.
Il Coordinamento di base della sanità di Milano ritiene che i problemi che fino ad oggi hanno caratterizzato le singole mobilitazioni aziendali sono comuni a tutti i lavoratori delle ASL e degli ospedali pubblici e privati.
Non esiste struttura sanitaria che non stia riducendo i salari dei dipendenti, così come ovunque ai lavoratori vengono aumentati i carichi di lavoro, cancellati i piani di assunzione e ora arrivano addirittura le minacce di future mobilità e licenziamenti.
I tagli alla sanità previsti dalle varie manovre finanziarie “anti-crisi” stanno peggiorando le condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici ma anche la qualità dell'assistenza.
La spending review sta dando un colpo mortale alle strutture sanitarie, tagli ai servizi, accorpamenti e mobilità di personale.
I lavoratori non sono gli unici a pagare il costo salato di queste manovre: sono stati reintrodotti ticket odiosi per i cittadini e la riduzione dei posti letto.
L'epopea della sanità formigoniana del profitto volge al termine, travolta dalle mazzette, dal malaffare, dagli scandali, dagli arresti eccellenti e dalla commistione con la criminalità organizzata.
La crisi di rappresentanza dei partiti politici e dei sindacati ha impedito fino ad oggi ai lavoratori di esprimere il dissenso verso il governo della sanità regionale.
LO SCIOPERO DEL 24 OTTOBRE RAPPRESENTA IN QUESTO CONTESTO UNA PRIMA IMPORTANTE RISPOSTA A QUESTA IMMOBILITA'.
Partecipa anche TU al Corteo di protesta contro la devastazione dei diritti
MERCOLEDÌ 24 OTTOBRE 2012: SCIOPERO DEI LAVORATORI DELLA SANITÀ
Concentramento alle ore 9.30 in Piazza Duca d'Aosta
Manifestazione di protesta sotto il Palazzo della Regione

Milano, 19 ottobre 2012
Coordinamento di base della sanità di Milano


La lotta degli operai sardi per la sopravvivenza
Per i lavoratori ALCOA il tempo si sta esaurendo. Lo spegnimento dell’impianto e il relativo licenziamento di circa 1.000 operai (tra direttamente occupati e indotto) è fissato per il 31 di ottobre. Finora a nulla sono valse le continue proteste che si sono susseguite tra agosto e ottobre, culminate nell’assedio al Ministero per lo sviluppo economico e negli scontri con la polizia schierata a sua difesa.
Nonostante la manifestazione convocata a Roma per il 29 ottobre – e che forse sarà rinviata in vista della visita dei ministri in Sardegna del 13 novembre – i licenziamenti sono già cominciati per tutti i lavoratori precari dell’azienda, mentre gli operai degli appalti hanno manifestato a Cagliari esigendo che venga estesa anche a loro la cassa integrazione fino al 31 dicembre.
Questo succede nel Sulcis-Iglesiente, la provincia più povera della Sardegna e dell’Italia. Un territorio devastato dall’inquinamento e dalla disoccupazione. Oggi su 130.000 abitanti solo 30.000 hanno un impiego. Gli altri sono pensionati, cassintegrati o disoccupati. I mille operai dell’ALCOA, così come i minatori della Carbosulcis, lottano strenuamente per difendere il loro posto di lavoro, d’altronde dietro di loro ci sono altre diecimila persone che dipendono direttamente dai loro stipendi. Quando gli operi proclamano che dietro ognuno di loro c’è una famiglia, mentono, per pudore. Perché dietro di loro ci sono molte più persone, uno stipendio in una terra così povera di opportunità è un punto di riferimento per una famiglia sempre più allargata, che sopravvive grazie a prestiti ed aiuti di ogni tipo, e che deve vivere sempre a più stretto contatto. E nelle famiglie sarde la tensione è alle stelle, con episodi di violenza sempre più frequenti: figli contro padri, fratelli contro fratelli, tutti contro tutti. Ma si deve stare assieme amarolla, anche con le cattive, perché non ci sono alternative.
La sardegna sud-occidentale è sempre stata una terra di rapina, per secoli dal sottosuolo si sono estratte ricchezze. Metalli e carbone portati via dall’Isola in cambio di magri salari. Alla fine degli anni ’60 quasi tutto il comparto minerario venne smantellato, e nell’ambito del Piano di Rinascita venne impiantato nel Sulcis il polo industriale di Portovesme. A partire da quel momento la Società Mineraria Carbonifera Sarda inizierà a costituire il polo dell’alluminio di Portovesme. La Carbosarda verrà poi assorbita dall’EFIM (Ente Partecipazioni e Finanziamento Industrie Manifatturiere), che nel 1988 darà vita alla ALUMIX. Nel 1996 questa azienda aveva accumulato ingenti debiti e nell’ambito dello smantellamento delle partecipazioni statali venne (s)venduta ad ALCOA che prese possesso dello stabilimento di Portovesme.
L’ALCOA è una multinazionale americana che opera in 44 paesi, terza nel mondo per la produzione di alluminio. Si è distinta per aver avvelenato i territori e le popolazioni dove ha operato, e per essere stata implicata in vari colpi di stato, come quello in Cile contro il presidente Allende nel 1973, o in quello del 2011 in Paraguay contro il presidente Fernando Lugo. Entrambi i presidenti avevano nazionalizzato le miniere di bauxite sotto controllo dell’ALCOA, vitali per l’industria bellica americana.
Come si diceva, il comparto della grande industria in Sardegna è nato morto. A partire dal 1962 una serie di mega investimenti fecero nascere dal nulla vari poli industriali legati per lo più alla petrolchimica, un tipo di industria ad alta intensità di capitale, cioè che genera poco lavoro rispetto ai capitali necessari per la creazione e il funzionamenti dell’impianto . Già prima della crisi petrolifera del 1973 il Piano di rinascita della Sardegna si poteva considerare morto.
L’ALCOA ben rappresenta il comportamento neo-coloniale tenuto dalle multinazionali in Sardegna: dal 1995 al 2009 ha goduto di esenzioni sul costo dell’energia che ammontano a ben 3 miliardi di euro, come ha ammesso lo stesso ex ministro Sacconi, le risorse necessarie sono raccolte mediante un prelievo parafiscale applicato alla generalità delle utenze elettriche mediante la componente A4 della tariffa elettrica.
Con quei soldi si sarebbero potuti ripianare i debiti di Alumix. O se lo scopo era veramente quello di creare occupazione, se i soldi li avessero divisi tra gli operai, ora sarebbero tutti milionari. Invece il Sulcis resta la provincia più povera d’Italia, nonostante la pioggia di centinaia di milioni di euro di cui hanno beneficiato le multinazionali.
Il gioco molto semplicemente è “prendi i soldi e scappa”, lo stato e la regione sono stati complici di questi avvoltoi della finanza (e in passato anche delle aziende parastatali) che si sono avventati sulla Sardegna. Oggi restano solo macerie dell’epoca dell’assistenzialismo: e tutti i quei tirannos minores – i consiglieri regionali, gli assessori, i parlamentari sardi, i sindacati – in quest’epoca di tagli e di crisi non hanno più neppure le risorse da distribuire in maniera clientelare per garantire il loro personale consenso.
Così il giocattolo del consenso sardo si è rotto. Se prima l’erogazione di una cassa integrazione straordinaria per qualche mese, un contributo statale a un’azienda che minacciava riduzioni di personale o il dispensare qualche posto di lavoro hanno tenuto a bada una rabbia che covava sotterranea, oggi nulla può più arginare la frustrazione di chi è stato tradito dalle false promesse, come nulla potrà arginare la collera di tanti padri di famiglia che non hanno più alcuna fonte di sussistenza. Le lotte degli operai, dei minatori, dei pastori sono il segno di come in Sardegna, così come in Grecia, tra la popolazione e le istituzioni esista solo una barriera fatta di scudi e manganelli. Ad ogni corteo e manifestazione operaia si è risposto con crescente violenza, i politici nella loro inetta malafede hanno schierato sempre più carabinieri e poliziotti a difesa delle loro poltrone. I pubblici ufficiali hanno svolto con diligenza il loro lavoro, difendendo i corrotti e picchiando gli affamati. Ormai non ci sono più mediazioni credibili, o si sta con i tirannos minores e le loro guardie armate, o si sta con i tanti troppi affamati. In Sardegna neppure i quotidiani borghesi si azzardano più a dare solidarietà agli agenti feriti nelle manifestazioni. D’altronde per il potere anche i carabinieri sono sacrificabili.
Ma a nulla sembrano servire i cortei, gli assedi alle sedi istituzionali, i blocchi di porti, aeroporti e strade che si sono susseguiti in maniera impressionante, come neppure la salita su torri e tetti degli stabilimenti o gli scioperi della fame. È stato inscenato persino un falso attentato dinamitardo contro un traliccio. Ma nulla è più penoso dei pellegrinaggi a Roma. Recarsi dai propri carnefici chiedendo qualche forma di clemenza e venire per giunta picchiati e denunciati – o peggio ricaricati a viva forza sulla nave appena scesi al porto come è successo ai pastori – è il culmine del grottesco. E forse è ora di smetterla.
Per salvare l’ALCOA, ma anche l’Euroallumina o la miniera di Nuraxi Figus, così come per il polo petrolchimico di Porto Torres nel nord dell’Isola, si parla di miliardi e miliardi di euro. Non ci sono garanzie di ritorno economico da parte di queste aziende, ne tantomeno esiste un controllo sulle modalità di spesa dei soldi che stato e regione hanno più volte erogato. Le multinazionali e i soldi se ne vanno, l’inquinamento resta, tanto come a Taranto. I metalli pesanti hanno inquinato nei decenni l’aria, l’acqua e la terra. L’Asl 7 raccomanda agli abitanti di non somministrare ortaggi prodotti nella zona ai bambini di età compresa tra i 0 e i 3 anni.
Lo stato italiano e le multinazionali che hanno un debito con la Sardegna. Ed è giusto esigerlo. È necessario trasformare le singole vertenze in un’unica grande vertenza-sardegna. I miliardi di euro devono saltare fuori, dall’Italia, dalle multinazionali o dall’Europa, su questo non si discute, è una questione di sopravvivenza materiale. Ma i soldi, questa volta devono essere usati per rilanciare l’economia del Sulcis e della Sardegna e per bonificare i disastri ambientali, e non regalati alle multinazionali e alla finanza, nella vana speranza che lascino qualche briciola anche a noi. Dobbiamo prendere le redini del nostro destino, e costruirci faticosamente un nostro avvenire. Il tempo dell’assistenzialismo è finito, deve finire anche quello dei tirannos minores che ci hanno sguazzato e che sono stati i responsabili del tradimento e del disastro.

Cronologia
1996: la ALUMIX viene acquistata da ALCOA
19 novembre 2009: l’UE condanna come aiuti di stato le tariffe di favore sull’energia erogate ad ALCOA.
Maggio 2010: dopo la minaccia di chiusura e sette mesi di vertenza vengono ripristinati gli aiuti. Il 2010 è stato l’anno della collera in Sardegna, l’esplodere contemporaneo della lotta dei pastori e della protesta operaia ha bloccato l’isola per mesi.
9 gennaio 2012: la questione dell’ALCOA sembrava essersi stabilizzata con l’accordo del 2010. Ma l’azienda comunica nel suo sito che bloccherà la produzione in agosto e spegnerà gli impianti 31 ottobre, prevista una proroga fino al 31 dicembre in caso si presentino acquirenti interessati all’acquisto dello stabilimento.
Estate 2012: trattative e proteste. Il termine per lo spegnimento degli impianti è sempre più vicino. Inizia il balletto della Glencore e della Klesh, due multinazionali finanziarie svizzere in realtà strettamente legate ad ALCOA, che si fingono interessate a rilevare lo stabilimento.
24 agosto: alcuni operai si tuffano nel porto di Cagliari bloccando il traghetto “toscana”, salgono a bordo e issano lo stendardo dei quattro mori assieme a uno striscione. Solidarietà da parte del commandante e dei passeggeri. I loro compagni riescono a travolgere i poliziotti e le transenne e li raggiungono sul molo.
26 agosto: un centinaio i minatori sardi si sono barricati a circa 400 metri di profondità nella miniera Carbosulcis per fare pressione sul governo affinché garantisca il futuro del sito. I minatori hanno sequestrato 350 chili di esplosivo e si sono rinchiusi domenica sera all'interno della miniera a ovest di Cagliari, in vista della riunione del governo di questa settimana, dove verrà discusso il futuro della miniera.
8 settembre: una telefonata anonima all’Unione sarda segnala la presenza di un ordigno in uno dei tralicci vicini allo stabilimento. La bomba si rivela essere un falso, in quanto al posto dell’esplosivo dentro ai candelotti c’è solo mastice da carrozzieri. La tensione è alle stelle.
10 settembre: corteo a Roma. Gli scontri con le forze dell’ordine si protraggono per tutta la mattina, con lanci di bombe carta e pezzi di alluminio. Fassina responsabile lavoro del PD tenta di avvicinare gli operai, ma rischia il linciaggio.
25 settembre: manifestazione a Cagliari degli operai degli appalti sotto all’assessorato al lavoro. Scontri con la polizia: quattro feriti: due poliziotti e due manifestanti, una è una sindacalista della UIL che viene picchiata mentre è a terra.
2 ottobre: L'hanno attesa come una sentenza di morte. Oggi per i 67 lavoratori interinali dello stabilimento Alcoa di Portovesme é il giorno del licenziamento. Se avranno o meno un sussidio dallo Stato dipenderà dall'esito degli incontri di martedì a Cagliari, in Confindustria e in Regione. Di certo hanno in mano una lettera che comunica la fine del loro rapporto di lavoro.
20 ottobre: Disperati per il futuro incerto della loro azienda, il 29 gennaio 2010 alcuni operai dell'Alcoa manifestarono all'aeroporto di Elmas, riuscendo ad entrare nell'area di manovra degli aerei e invadendo la pista. Ora, dopo le indagini della Digos della Questura cagliaritana, il pm Marco Cocco ha chiuso l'inchiesta citando a giudizio 30 lavoratori per interruzione di pubblico servizio: processo fissata al 20 maggio 2014.
Vendola in Sardegna in vista delle primarie, nel Sulcis viene contestato dagli operai.
22 ottobre: a Cagliari circa 200 lavoratori delle ditte d'appalto che lavorano per Alcoa ed Eurallumina di Portovesme attendono gli sviluppi del vertice tra l'assessore Antonello Liori e i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil, per sapere se potranno godere della cassa integrazione fino al 31 dicembre prossimo. Anche Renzi passa in Sardegna a promuovere la sua candidatura alle primarie, a Iglesias però viene fischiato dagli operai, che dichiarano la loro sfiducia verso tutta la classe politica.
Nelle prossime settimane sono programma alcune manifestazioni:
29 ottobre: vertenza-sulcis, proclamato lo sciopero generale è indetta una grande manifestazione a roma di tutte le categorie in crisi della provincia.
7 novembre: manifestazione della Consulta Rivoluzionaria a Cagliari. La Consulta è nata di recente e riunisce al suo interno rappresentanze di varie categorie produttive, soprattutto pastori e artigiani, assieme ad alcuni partiti indipendentisti.
13 novembre: visita dei ministri di ambiente e sviluppo economico in Sardegna, probabilmente la manifestazione del Sulcis verrà rinviata a quella data.
Milano, ottobre 2012


Agosto 2012, Creta: Note di viaggio di una compagna
Ho passato qualche giorno in una comune in costruzione. Per ora hanno piantato un po’ d’ortaggi e vivono nelle tende. Hanno in programma di costruire delle casette in pietra per l’inverno e di allevare polli e conigli. Qui ci sono molti compagni che vedono la situazione a un punto tale che è necessario imparare a vivere senza il capitalismo. Altri invece rimangono nelle città perché credono importante essere presenti nei centri economici in crisi da cui partono le rivolte.
Atene si sta spopolando perché non c’è lavoro e chi lavora spesso non viene pagato. Quelli che lavorano prendono 400€ al mese, ma la vita costa poco meno che in Italia.
Qui a Creta ci sono molti problemi comuni al sud Italia, smaltimento dei rifiuti, mafia etc. Alle ultime elezioni nazionali il partito neonazista ha preso il 7%, voti determinati, dicono, da una sfiducia verso i governi precedenti. Però, la presenza in parlamento gli dà diritto a 4 milioni di euro di finanziamenti da parte dello stato all’anno. E questo gli permette di aprire sedi ovunque.
Sono arrivata ad Heraklion ieri, proprio quando si è saputo che i neonazisti hanno intenzione di aprire la loro sede a cento metri neanche dallo squat. Qui i compagni fanno attività antifascista anche con gli abitanti dei quartieri e la sinistra istituzionale, che si assumono l’antifascismo pure sul piano pratico, non solo d’opinione.
Le questioni dell’antifascismo e di come vivere senza capitalismo fanno pensare che in Italia a volte siamo talmente impegnati a far sì che i focolai di conflittualità si espandano e si radicalizzino che non si prendono minimamente in considerazione problemi che, in questo momento, non sono così attuali ma che saranno attuali tra breve.

Milano, ottobre 2012