indice n.98

IRAK: GUERRA INFINITA (PARTE PRIMA)
IL CONFLITTO IN UCRAINA
AGGIORNAMENTI DALLA LOTTA DENTRO E CONTRO I CIE
DALLE CARCERI GRECHE: SOFFOCARE PER UN SOFFIO DI LIBERTÀ
IL TRIBUNALE FEDERALE NEGA A MARCO CAMENISCH LA LIBERTÀ
MILLIONS MARCH: In MIGLIAIA IN PIAZZA CONTRO LA POLIZIA
USA: RILASCIATO L’ANARCO-ECOLOGISTA ERIC MCDAVID
CON I PRIGIONIERI PALESTINESI IN LOTTA
NOTE TRATTE DALLA DENUNCIA DI CARLOS GOLA
REPRESSIONE IN SPAGNA: OPERAZIONE PANDORA
RETATA DI AVVOCATI BASCHI, SEDICI ARRESTI PER TERRORISMO
LETTERA DAL CARCERE DI CALTANISSETTA
PRESIDIO ALLA SEDE DEL DAP DI ROMA
PRESIDIO AL CARCERE DI SPOLETO (PG)
LETTERE DAL CARCERE DI SPOLETO (PG)
DAL PROCESSO CONTRO MAURIZIO ALFIERI
LETTERA DAL CARCERE DI REBIBBIA (RM)
LETTERA DAL CARCERE DI VERCELLI
LETTERA DAL CARCERE DI FROSINONE
INIZIATIVA CONTRO IL CARCERE a CATANIA 14-16 NOVEMBRE 2014
PRESIDIO AL CARCERE DI BELLUNO
BREVI DALLO SCIOPERO GENERALE DEL 12 DICEMBRE IN QUEL DI MILANO
SCIOPERO AL CAAT DI TORINO
DaLL’ASSEMBLEA SU CARCERE E DINTORNI DEL 13/12 A BOLOGNA
DAI PROCESSI CONTRO I NO TAV PER TERRORISMO
FERMARLI È POSSIBILE… CORTEO POPOLARE NO TAV A ROMA!!!
BANDITI DA SARONNO: SORVEGLIARE È PUNIRE
UN CRIMINE CHIAMATO ANTIFASCISMO
AGGRESSIONE FASCISTA A CREMONA
SUL PROCESSO PER “RISSA” IN STATALE (milano)
DAL PROCESSO PER I FATTI DEL 15 OTTOBRE 2011 A ROMA
ULTIM’ORA: DAL PROCESSONE CONTRO I NOTAV



Irak: guerra infinita (parte prima)
La milizia jidahista, lo “Stato Islamico”
L’8 agosto 2014 i caccia USA sono ricomparsi nei cieli del’Irak dopo una pausa di due anni e mezzo. In pochi giorni circa 3.000 soldati USA sono tornati ad essere operativi nel paese che si erano lasciati alle spalle alla fine del 2011. In alleanza con altri stati-NATO e con le monarchie del Golfo arabico, stavolta hanno esteso gli attacchi allo “Stato Isslamico” sul territorio siriano. La Siria, dopo Afghanistan, Pakistan, Yemen, Somalia, Libia e Irak è così divenuto il settimo paese del mondo islamico che il presidente degli USA Barack Obama, giunto al sesto anno di presidenza, premio Nobel per la Pace, ha deciso di bombardare.
A differenza del suo predecessore, George W.Bush, Obama dispone per l’intervento in guerra di ampio sostegno nella sinistra. Le notizie sulle crudeltà compiute dalla milizia “Stato Islamico”, penetrata in Irak fino al limitare del confine con il territorio kurdo, non lasciano dubbi sulle conseguenze. Di nuovo si parla di “genocidio”.
Chi da qualche anno agiva nella regione caratterizzandosi come “Stato Islamico in Irak e nel Levante” (abbreviazione: ISIL, in arabo DAISH), non è una nuova comparsa di Al Qaida. Fino a quando l’ISIL ha lasciato tracce di sangue in Siria, nel mondo occidentale veniva condannato soltanto a parole, poiché sostenuto in quanto parte della “giusta alleanza” contro il governo di Assad. L’ISIL divenne bestiaccia da combattere soltanto dopo i suoi assalti minacciosi ai campi petroliferi e del gas.
Con l’intervento militare diretto e il rinnovato stazionamento di proprie truppe in Irak il governo di Obama non vuole soltanto stabilizzare il regime di Bagdad e mettere il guinzaglio alla milizia sciolta, ma anche tornare a rafforzare l’influenza nel paese. I partiti iracheno-kurdo utilizzano l’occasione per spingere avanti l’indipendenza effettiva dei territori da essi controllati. Inoltre, come durante l’occupazione USA, quel che accade viene ridotto a scontro con le truppe terroriste islamiche. La lotta di ampi strati di popolazione contro il regime creato dall’occupazione viene taciuta assieme alla violenza brutale delle forze armate del governo e delle milizie che causano senz’altro più vittime dell’ISIL venuta dopo. Attraverso l’incarnazione di ISIL come “il cattivo”, negli USA è stato raccolto il consenso pubblico per l’attacco militare in Siria, tenuto in disparte appena un anno prima da un’ampia opposizione.
I bombardamenti in Siria sono compiuti dagli stati – la “coalizione dei colpevoli” - principali responsabili della scalata della violenza, allo stesso tempo sostenitori delle milizie islamiche che combattono contro il regime di Assad. A riguardo, la Turchia, stato membro della NATO, tiene aperti i confini anche ai combattenti dell’ISIL e al loro rifornimento come pure al vasto contrabbando di petrolio siriano.
Anche il governo tedesco naviga in questo mare. I partiti di governo CDU (democristiano) e SPD (socialdemocratico) utilizzano il voto per consegnare 600 t. di armamenti al partito kurdo-iracheno (KDP), che governa il territorio autonomo kurdo in Irak. Con questa offerta di armi ad un attore non-statale in un territorio di crisi, la Germania interviene nel mezzo di un conflitto armato, mettendo in disparte tre autolimitazioni fino ad oggi osservate dalla politica tedesca.

Un prodotto dell’occidente
L’ISIL ha iniziato a prendere forma a cominciare dal 2003 – nell’Irak occupato, quando sunniti estremisti presero ad affluire da diversi territori di guerra in Irak, paese in cui non esisteva allora nessuna base per gruppi jidahisti. Osservatori occidentali collocavano il gruppo in Al Qaida a partire dalla considerazione che alla sua testa ci doveva essere il giordano Abu Mussab Al-Sarqawi noto per i suoi rapporti con Al Qaida. Questa conclusione venne presto adottata con gruppi islamici iracheni, tipo il “Consiglio dei mujaheddin in Irak”, che nel 2006 proclama la fondazione di un “emirato islamico” (cioè “Stato”) in Irak. Quei gruppi già allora erano sostenuti, armati, innanzitutto da danarosi delle monarchie del Golfo.
Benché la loro ideologia non abbia nulla in comune con il concetto di religione dei sunniti iracheni, chi formava quei gruppi venne salutato come combattente senza compromessi, pronto alla lotta e ben armato. Per tanti giovani cresciuti nelle condizioni della guerra e dell’embargo la loro radicalità ed anche i pagamenti in denaro erano assolutamente attraenti. Innanzitutto l’ISI fece propria la strategia settoriale-federalista dell’occupante perseguita dalle forze al vertice del nuovo regime, per contro invece combattuta, per neutralizzarla, dai sunniti nazionalisti con ogni tipo di violenza.
In breve tempo chi si opponeva all’occupazione giunse alla conclusione che i sunniti estremisti erano dediti ad utilizzare lo scenario di guerra iracheno soltanto per il loro scopo universale, vale a dire: la costruzione della teocrazia islamica, impugnando mezzi considerati assolutamente inaccettabili e dannosi alla resistenza. Quando le milizie dell’ISI cercarono di imporre con la violenza le loro regole medioevali lo scontro esplose apertamente.
I gruppi di resistenza più importanti nel 2006 dettero vita ad un’alleanza proprio contro l’ISI. In parallelo nacque “Al-Sahwa”, “Movimento del Risveglio”, cioè: milizie sunnite formate da guerriglieri già temprati, da combattenti delle tribù, che avevano ricevuto dagli USA occupanti, denaro e addestramenti per la lotta contro i gruppi jidahisti. Così alla fine del 2010 le forze del’ISIL erano state ridotte ad un massimo di 1.000 armati.
La guerra della NATO contro la Libia e l’insurrezione armata in Siria incitata dall’estero, in ogni caso, facilitaarino la ricomparsa dell’organizzazione, che, adesso si estendeva come ISIL verso la Siria. Già nel 2006 gli USA avevano iniziato a costituire assieme alle monarchie del Golfo gruppi di sunniti estremisti allo scopo di indebolire i “cattivi sciiti” diretti in Siria e a infoltire gli Hizbollah in Libano provenienti dall’Iran. Nella guerra di assoggettamento della Libia, scatenata nel 2011, gli islasmici armati e in parte anche addestrati da USA, Inghilterra e Francia erano almeno 10.000; con il crollo dello stato libico caddero nelle loro mani quantità considerevoli di armi. Una grossa parte di queste raggiunse, via Libano-Turchia, la Siria. La stessa via fu percorsa da migliaia di combattenti, provenienti da Afghanistan, Irak, Cecenia e da tanti altri paesi, diretti ad abbattere assieme agli islamici locali l’odiato regime secolare (laico). Denaro, Armi e altro materiale fluirono a questi gruppi anche dagli USA e dagli stati del Golfo. Ufficialmente questi carichi erano destinati agli “insorti moderati”, in ogni caso sul luogo, non esisteva nessuna chiara divisione fra islamici “moderati” e radicali. La maggior parte, come anche un considerevole numero di combattenti, entrò nelle unità, che si mostravano capaci e finanziariamente forti – e queste erano quelle del Fronte al Nusra e dell’ISIL.

Ritorno nel Medioevo.
Scopo dell’ISIL è la riproposizione del califfato, cioè, la dissoluzione del sistema di stati creato dal colonialismo nel Vicino e Medio Oriente dopo la prima guerra mondiale e la ricostruzione di un regno islamico unitario sotto la direzione di un califfo. La proclamazione di un califfato è connessa alle aspirazioni riemerse negli ultimi secoli, animate dal desiderio di spezzare il predominio dell’occidente sul mondo islamico, per fare in modo che questo faccia ritorno al Grande passato. Con i crimini compiuti dagli stati occidentali nei paesi arabi negli ultimi decenni è cresciuta considerevolmente l’attrattiva verso simili piani.
L’ISIL non aspira al rapido abbattimento dei governi attuali, ma bensì all’estensione costante del suo dominio sul territorio. Suo scopo prioritario è la sottomissione della popolazione nei territori conquistati, incluse le minoranze, e non il loro annientamento o la loro espulsione. Chi oppone resistenza all’ordine medievale viene condannato pesantemente, spesso massacrato in modo esemplare. (…)
Negli ultimi mesi l’ISIL e gli stati aggressori lavorano, mano nella mano, a favore dell’inasprimento della guerra. Mentre i media occidentali diffondono immagini e notizie sulle “crudeltà” islamiche… l’ISIL trae forza dai bombardamenti della NATO in quanto gli consentono di mettere in confronto diretto i suoi combattenti con i “crociati” occidentali. Siccome gli attacchi aerei non riescono a procurare grossi danni alle unità mobili delle milizie, le perdite vengono in gran parte compensate dall’arrivo di nuovi martiri. Oltre a ciò, i gruppi rivali, come il Fronte al-Nusra, di fronte al nemico comune sono pronte a mettere da parte lo scontro con l’ISIL.

L’insurrezione nelle province sunnite
All’inizio di giugno 2014 l’ISIL entra in azione in Irak. In una guerra lampo conquista Mossul e ampie parti delle province a maggioranza sunnita, Ninive, Salahaddin e Anbar poste nel nord-ovest del paese. In pochi si pongono la questione: come un’organizzazione la cui forza allora veniva stimata in 10-15 mila massimo combattenti dislocati in Siria e Irak, possa da sola espugnare una città come Mossul abitata da circa tre milioni di persone e subito dopo una serie di altre grosse città situate lungo i fiumi Tigri e Eufrate.
Vero è che a Mossul e in ante altre città in quei giorni esplode l’insurrezione, dove i 1500 combattenti dell’ISIL si perdono di fronte agli oltre 30.000 schierati dal governo. La battaglia nei seguenti tre giorni costringe alla fuga un numero considerevole di resistenti sunniti. Le persone insorte quei giorni nelle città del nord Irak sono riunite nel “Consiglio militare generale dei rivoluzionari iracheni” (AMRIR). Il “Consiglio…” costituito nell’estate 2013 come reazione alla repressione dei movimenti di protesta; solo nel gennaio 2014 diffonde il suo primo comunicato ufficiale. Nel “Consiglio…” si trovano riuniti i consigli militari regionali e cittadini organizzati per respingere le truppe governative… in gran parte formati da persone che hanno combattuto nel 2003 l’occupazione USA…
La critica al corso autoritario del governo e la rabbia scatenata dal netto rifiuto sempre del governo nei confronti della ricostruzione delle infrastrutture e dei servizi statali ecc., spinge l’intero paese a scendere nelle strade. I territori abitati in maggioranza da popolazione sunnita sono doppiamente colpiti. Negli ultimi anni questa popolazione ha ricevuto soltanto unna piccola quota degli introiti statali; la sua gran parte era e rimane disoccupata, anche perché esclusa dai posti di lavoro pubblici.
Nei primi giorni della protesta (aprile 2013) sono state uccise da colpi di fucile sparati dalle truppe governative almeno 50 persone fra i manifestanti, 110 quelle ferite.
Anche se la rivolta è stata portata avanti in gran parte dai sunniti ed è diretta contro il governo dominato da sciiti, in nessun caso si tratta di conflitto confessionale. All’inizio è esistito addirittura un ampio sostegno proveniente dal sud. Le tribù e le organizzazioni sciite, fra le quali il movimento della guida spirituale Muqtada Al-Sadr, hanno solidarizzato con il movimento di protesta attivo nel nord. Questa situazione è mutata quando è comparso l’ISIL, e perché i gruppi sunniti non hanno mai chiaramente preso le distanze. Ancora nel luglio 2014 l’ajatollah Mahmud Al-Hassani Al-Sarkhi, un capo spirituale sciita, promosse il sostegno alla protesta dei sunniti.
L’area delle persone insorte politicamente è molto eterogenea. Lo spettro si estende dalle forze avverse da anni agli USA; ma anche da forze progressiste fino a quelle religiose-conservatrici semplicemente lontane da ogni inquadramento predisposto dall’Iran. Siccome l’Iran è la potenza protettrice delle Siria, di conseguenza gran parte dell’insurrezione in Irak è contro il regime di Assad in Siria.. Tante persone irachene ricevono anche la richiesta di andare a lavorare all’estero, in particolare negli stati del Golfo arabico, i quali in questo modo stabiliscono contatti innanzitutto coi capi tribù – che possono influire su quanto accade e può accadere in Irak.

L’assedio di Falluja
Quando le truppe del governo iracheno presieduto da Maliki (sciita da anni in carica) nel dicembre 2013 penetrarono in Mossul gli abitanti eressero le barricate e spinsero così fuori dalla città l’esercito e la polizia nazionale. Un capo tribù, ex ufficiale dell’esercito, personalità religiose formarono il “Consiglio militare, che assunse il controllo della situazione.
Quel che accadde successivamente è semplice. I combattenti dell’ISIL impiegarono la situazione, penetrarono in città e proclamarono con la loro usuale sfacciataggine di averne assunto il controllo. Le foto di bandiere dell’ISIL innalzate su edifici pubblici fecero il giro del mondo. Per il vero quella situazione durò appena qualche minuto. Le forze locali spinsero rapidamente fuori dalla città gli invasori. Anche nei mesi successivi l’ISIL non riuscirà a occupare niente. I media internazionali hanno diffuso notizie false per offrire al governo di Bagdad il necessario sostegno, cioè il bombardamento aereo e di artiglieria contro Falluja, presunta “roccaforte dei terroristi”.
In ogni caso gli USA ne fecero occasione per vendere armi all’Irak e alla missione ONU dislocata in quel paese. Gli USA si resero così diretti e interessati sostenitori dell’assedio di Falluja, sebbene già nel gennaio 2014 le morti, 109, causate dall’artiglieria assediante si sommavano ad almeno 632 persone ferite…
Le bombe su Falluja scatenarono l’indignazione in tutte le province sunnite. I massicci bombardamenti aerei sui quartieri e sull’ospedale centrale compiuti nel maggio 2014 hanno portato l’odio al colmo. Le tribù di Ramadi che sin dall’inizio avevano combattuto attivamente la presenza dell’ISIL in città e nei dintorni, da quel momento esse e la maggioranza della popolazione sunnita considerò che il regime di Maliki costituisse il male minore. Questa situazione venne utilizzata dall’ISIL per la sua avanzata.
La sollevazione nei mesi seguenti comunque si estese. La gran parte di città come Ninive, Sahaddin e Anbar situate nel nord e nell’ovest dell’Irak, ampie parti di Kirkuk, di Diyala se Babilonia situate nel nord-est, cioè a sud di Bagdad, nel frattempo sono cadute sotto il controllo dell’ISIL e di gruppi di insorti. La situazione in questi territori è davvero poco chiara. Anche la vera forza dei gruppi locali come la ripartizione del potere e lo stesso grado della cooperazione fra loro e jidhaisti sono difficili da valutare…i temuti jidhaisti, come a Mossul, e in altre città, certamente avviano l’offensiva, ma raramente riescono ad assumerne il controllo da soli; nella realtà devono condividerlo con i consigli militari e tribali o lasciarlo completamente nelle loro mani. Patto con il diavolo?
Mentre il governo centrale di Bagdad descrive il suo avversario riferendosi ad una stretta alleanza fra l’ISIL e “forze baassiste” (il BAAS era il partito socialista al potere dal 1960 fino al 2003), la gran parte dei gruppi di opposizione nega una diretta collaborazione con i jidhaisti e parla di attacchi paralleli, ma non coordinati, contro lo stesso nemico. Lo sceicco Baschar Al-Faidhi, portavoce degli insegnanti musulmani riferendosi all’ISIL dice: “Noi abbiamo paura di loro. Loro sono un problema. Ma noi abbiamo delle priorità. Combattiamo l’ISIL, ma non ora. Combattiamo contro un regime sostenuto da USA, Iran e dalla stessa Russia. La resistenza ha poche braccia e gambe. Loro combattono anche contro il mio nemico. Dunque perché io, adesso, dovrei combattere contro l’ISIL?”
In ogni caso l’ISIL è forte e i suoi spazi di potere sono maggiori di quello che vogliono lasciar credere i gruppi insorti. Anche a Mossul la sua presenza è sufficientemente forte da terrorizzare i gruppi di popolazione cristiani. Già prima delle elezioni l’ISIL si era posta il compito di sottomettere i cristiani alla Dhimma, cioè alle direttive religiose che sottomettono chi non islamico al pagamento di tasse particolari oppure di convertirsi all’islam o di finire decapitato. Gli altri gruppi islamici condannano questi ed altri procedimenti criminali, non vogliono o non possono avere nulla da contrapporre, rimangono fermi alla decisione della completa espulsione delle unità dell’ISIL da Mossul, dunque allo scontro diretto con esso.
La presenza dell’ISIL stimata in settembre 2014 dalla CIA in 32.000 combattenti dislocati fra Irak e Siria, attrae l’attenzione di Washington. Gli scontri duri fra ISIL e gruppi di resistenza sono perciò soltanto una questione di tempi. Le prime avvisaglie si sono manifestate in primavera.
L’ISIL essenzialmente è meglio armato, dispone di grosse risorse e con il terrore e l’estorsione può costruirsi un seguito forzato. Le tribù e i gruppi insorti in ogni caso sono numericamente più forti e ben ancorati nella popolazione. L’AMRIR stima in 75.000 il numero dei combattenti associati ad esso…
Coerentemente gli attacchi aerei della NATO vengono concepiti dall’opposizione sunnita come aggressione nei suoi confronti. Il paese attraversa giorni decisivi e si troverebbe di fronte a una nuova sanguinosa guerra, che durerà anni e richiederà tutte le attenzioni alla popolazione irachena, scrive in una dichiarazione del 20 settembre 2014 l’AMRIR, considerando la riassunzione delle azioni di guerra in Irak da parte degli USA.
di Joachim Guillard (Forum contro il militarismo e la guerra di Hheudelberg), dicembre 2014


IL CONFLITTO IN UCRAINA
L’attuale conflitto in Ucraina ha generato un ampio dibattito e una grande mobilitazione nella galassia della sinistra, con diverse organizzazioni che si sono mobilitate in difesa del Donbass. Non solo la Banda Bassotti, insieme ad altri compagni ha organizzato la Carovana Antifascista, recandosi in quelle zone nel mese di settembre, ma anche altri compagni dalla Russia, dalla Spagna, dalla Moldavia e da altri luoghi europei hanno deciso di unirsi ai combattenti antifascisti della Novorossija.
In questo conflitto le ingerenze esterne e le ambizioni geopolitiche che accompagnano la crescente competizione globale tra poli imperialisti giocano un ruolo fondamentale. L’Ucraina è, infatti, al centro dell’espansione a Est delle potenze europee, Germania in testa, delle ambizioni della sfera di influenza storica della Russia e delle interferenze statunitensi negli affari europei. Ma in questa molteplicità di interessi geostrategici mondiali, cosa pensa e come si sta organizzando il proletariato ucraino? E come è possibile, per noi compagni, portare loro solidarietà? Non sarebbe male cercare di dare risposte concrete a queste domande…
L’economia del capitalismo ucraino ha preso forma dal collasso del complesso economico dell’Unione Sovietica, dalla privatizzazione della proprietà collettiva e dall’integrazione nel mercato globale. Questi processi hanno portato al degrado della struttura economica della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, che era al decimo posto nella classifica mondiale dello sviluppo economico. L’integrazione nel mercato globale ha portato innanzitutto al crollo dei settori di alta tecnologia. Successivamente, il ruolo giocato dal settore delle materie prime destinate all’esportazione, in particolare industria chimica ed estrattiva, ha guadagnato un’importanza catastroficamente elevata. Gli imprenditori di questi settori hanno costituito un nuovo livello di oligarchia ucraina che, non solo si è disinteressata allo sviluppo del mercato interno, ma, in molti casi, ha anche avuto un atteggiamento predatorio nei confronti delle sue stesse attività produttive, preferendo esportare capitali verso i paradisi fiscali anziché usarli per sviluppare la produzione. Col declino della produzione nazionale nei comparti diversi da quello delle materie prime destinate all’esportazione, è cresciuta la dipendenza dall’importazione. Fino a che con la crisi globale cominciata nel 2008 la domanda rispetto alle esportazioni ucraine è tendenzialmente caduta, mentre il prezzo delle importazioni è cresciuto. Di conseguenza, il modello di capitalismo ucraino è crollato.
La crisi crescente ha creato una grave lotta interna alla classe dominante. In quel momento il gruppo di punta – una dozzina di miliardari – era già pronto all’integrazione nelle élite mondiali e cercava un modo per “accreditare” i suoi capitali in occidente. Il mezzo usato per legittimare questo passaggio è stata la cosiddetta “Eurointegrazione”, senza minimamente preoccuparsi del fatto che il prezzo sarebbe stato la distruzione di vari settori produttivi e una spirale di deindustrializzazione, con un’inevitabile crescita della disoccupazione e di altre problematiche sociali. Gli oligarchi di medio e basso livello, che vedevano ancora l’Ucraina come un’arena in cui poter fare affari e che non avevano capitali sufficienti all’integrazione nelle élite mondiali, svilupparono una tiepida resistenza a questo processo. Per un certo periodo il presidente eletto nel 2010, Victor Yanukovich, ha oscillato tra il “partito dei miliardari” e il “partito dei milionari”. L’esito è stato che Yanukovich fu costretto a respingere un accordo con l’Unione Europea sulla creazione di una zona di libero scambio, poiché minacciava gli interessi economici di un’importante parte della borghesia ed avrebbe avuto conseguenze sociali catastrofiche. La reazione del “partito dei miliardari”, che avevano scommesso sull’integrazione con l’Europa, è diventata Euromaidan.
Nella fase iniziale di Euromaidan la partecipazione delle masse popolari era minima. I primi giorni erano presenti principalmente impiegati ed attivisti delle Ong filo-occidentali e membri di gruppi neonazisti (l’organizzazione Svoboda ,“Libertà”, ed altre forze che in seguito avrebbero formato il Settore Destro). Euromaidan ha assunto un carattere di massa solo dopo che i dimostranti sono stati sgomberati da piazza Maidan la notte del 30 novembre 2013. L’assalto dell’esercito fu mostrato dal vivo su tutti i canali televisivi controllati dagli oligarchi, imponendo una “disinformazione” provocatoria finalizzata a indurre i cittadini di Kiev a partecipare alle proteste. È stata condotta anche una campagna di agitazione ampia e ben finanziata per mobilitare la gente. La forza egemone di Maidan, presente costantemente e attiva negli scontri armati con le forze dell’ordine, era costituita da militanti neonazisti (provenienti soprattutto dalle curve degli stadi di calcio) e da gente proveniente dalle regioni centrali e occidentali del paese che per diversi mesi ha vissuto a Maidan, dove gli venivano forniti cibo e denaro. Questo testimonia il finanziamento ben organizzato di Maidan da parte dell’oligarchia ucraina aiutata dalle Ong. Già a dicembre la tendenza nazionalista e ideologica del movimento di Maidan era chiaramente visibile. Mentre gli altri partiti di opposizione semplicemente non sono stati capaci di avere una linea politica chiara e slogan forti. Euromaidan è quindi un movimento avviato e controllato dagli oligarchi. La sua base politica è costituita da nazionalisti radicali ed in misura minore da liberali filo-occidentali, mentre la sua base sociale è formata da piccolo-borghesi e da elementi sottoproletari. Infatti, tra coloro che hanno risposto ad un sondaggio, di quelli che stavano costantemente in piazza il 17% era imprenditore, un numero esageratamente alto. Esageratamente pochi, invece, erano i russofoni, il 16%, rispetto al loro 40-50% di presenza nella società ucraina.
Al contrario, il movimento di resistenza che si è sviluppato ad Est, nella regione del Donbass, è più proletario nella sua composizione. Non è un caso che la resistenza alla giunta di oligarchi e nazisti che ha preso il potere grazie a Maidan sia maturata nelle regioni ad Est, più sviluppate dal punto di vista industriale, dove la maggioranza della popolazione è costituita dalla classe operaia.
Qui sono sorte le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk che si sono unite nell’Unione delle Repubbliche Popolari della Novorossija, un progetto che ha come obbiettivo la costituzione di una confederazione delle città a sud-est dell’Ucraina dove è forte la presenza di ucraini di lingua russa. Le Repubbliche Antifasciste sono nate nei territori in cui la presenza dei comunisti è forte, così come l’influenza all’interno del proletariato di vari movimenti anticapitalisti e organizzazioni comuniste, come Borotba (“Lotta”), l’Unione dei Comunisti Ucraini e il Fronte dei Lavoratori Ucraini. La mobilitazione della classe operaia locale ha infatti radicalizzato il movimento antifascista: oltre alla nazionalizzazione delle grandi imprese si è deciso di chiamare il parlamento Soviet, viene tutelato il diritto allo sciopero e si cercheranno di garantire alloggi ai non abbienti e i profitti delle imprese statali finanzieranno l’assistenza sociale. Anche se attualmente i maggiori sforzi sono ovviamente rivolti allo svolgimento dei compiti di guerra, che per molti combattenti e abitanti di questi territori assumono un carattere di liberazione dall’oppressione nazionale, dal fascismo e di reazione alle politiche criminali di guerra della giunta. In una recente intervista così si esprime Alexander, combattente e rappresentante del gruppo “Guardie Rosse del Donbass”: “La milizia è stata formata da volontari per proteggere la loro patria, senza pensar troppo alle questioni più grandi. Ma un processo di domande e risposte alla fine ci ha portato a una comprensione di classe degli eventi che si svolgono sul nostro territorio. Abbiamo identificato le forze a cui ci opponiamo, ossia magnati e oligarchi di tutte le bande: russo, ucraino, internazionali, a prescindere. Una volta, molto tempo fa, si diceva che c’erano due classi: proletariato e borghesia. Non importa quanto tempo è passato, solo la forma è cambiata; l’essenza rimane la stessa. Noi che stiamo prendendo parte agli eventi che si svolgono a un ritmo così rapido, i poveri della milizia, abbiamo posto la questione di alzare la bandiera rossa […]”.
7 gennaio 2015, Milano


AGGIORNAMENTI DALLA LOTTA DENTRO E CONTRO I CIE
Torino, CIE di C.So Brunelleschi
24 novembre. Un recluso tunisino ingoia due lamette e si cuce le labbra per protestare contro la sua permanenza al CIE. Portato urgentemente all’ospedale, il recluso rifiuta le cure, quindi viene riportato al CIE, dove le forze dell’ordine gli intimano di scucirsi le labbra, ma davanti al rifiuto del ragazzo, lo portano in isolamento con la forza e non danno nemmeno le coperte per dormire.
17 dicembre. Un guasto alla caldaia ha tenuto al gelo i reclusi per più di una settimana. I ragazzi rinchiusi hanno cominciato ad agitarsi e a minacciare di non rientrare dal cortile; per protesta, nell’area viola, per un giorno il cibo servito è stato rimandato indietro. Dopo la visita di due politici, esponenti di Sel, la caldaia è stata riparata, ma da dentro fanno sapere che la situazione è ancora insostenibile. Al momento il CIE è ancora gestito dalla Croce Rossa, ma a breve subentrerà la solita francese Gepsa, che ormai detiene i CIE rimasti aperti in Italia. All’interno ci sono 20 reclusi.
21 dicembre. Presidio davanti al CIE. Di seguito il volantino.
“Dal 25 novembre è entrata in vigore la nuova legge che riduce a 90 giorni il tempo massimo di permanenza all’interno del CIE. Questa legge salutata da associazioni umanitarie e da tutta la sinistra come garanzia dei diritti dei reclusi, è una beffa. L’unica cosa ad essere garantita saranno i guadagni dei gestori come Gepsa, il colosso francese del business penitenziario, futuro gestore del CIE di Torino. Dall’entrata in vigore della legge il flusso in entrata e in uscita dal CIE è vertiginosamente aumentato, così come le retate di polizia, militari e vigili urbani nelle piazze e nelle strade. Il CIE di Torino, negli ultimi anni, è stato quasi completamente distrutto dai reclusi in rivolta. L’unico modo per opporsi alla macchina delle espulsioni è lottare organizzandosi assieme all’interno come all’esterno dei CIE. I CIE non vanno riformati, vanno distrutti.”
12 gennaio. Nelle aree distrutte dal fuoco delle rivolte sono iniziati i lavori di ristrutturazione.

Trapani, CIE di Milo
24 novembre. Il CIE di Milo finora era stato temporaneamente gestito dalla Croce Rossa, dopo la fallimentare gestione della Cooperativa Oasi, il cui contratto era stato revocato dal Prefetto a settembre dell’anno scorso. Alla cooperativa erano state contestate gravi carenze nella conduzione della struttura. Ora il CIE sarebbe stato assegnato in gestione alla cooperativa Badia Grande, molto vicina alla Diocesi trapanese, che aveva già avuto in gestione il CIE da luglio del 2011 ad agosto del 2012. Questa cooperativa ha numerose denunce, giunte perfino dall’Unione Europea, per la sua gestione del CARA di Salinagrande, che doveva chiudere in settembre, oltre che l’accusa infamante di quello che era il principale referente delle strutture gestite dalla Diocesi, Don Librizzi. Il sacerdote direttore della Caritas di Trapani, approfittando del suo ruolo di membro della commissione territoriale per il rilascio dello status di rifugiato politico, estorceva prestazioni sessuali ai richiedenti asilo.
Presso il CIE di Milo inoltre di recente si sarebbero svolte anche le operazioni di prima accoglienza dei migranti, che inizialmente venivano svolte al porto. Per queste ultime sarebbero in fase di allestimento due nuove strutture apposite. Non sappiamo però quando è prevista la loro apertura.
La cooperativa Badia Grande al momento risulta già impegnata nella gestione di vari centri di accoglienza per migranti nella stessa provincia.

CIE di Ponte Galeria
14 dicembre. Cambio di gestione del CIE, che dalla cooperativa Auxilium passa al raggruppamento temporaneo di imprese formato dalla francese Gepsa, affiancata dall’associazione culturale Acuarinto. La cifra quotidiana a disposizione dall’ente gestore è stata quasi dimezzata: da 41 a 28,8 euro al giorno. Il criterio per selezionare l’organizzazione aggiudicatrice è stato quello dalla migliore offerta con il prezzo più basso. La Gepsa, grazie alla sua ventennale esperienza negli istituti penitenziari d’Oltralpe, è piuttosto esperta nel far calare i costi delle strutture che gestisce. Ad esempio, a quanto risulta da un sopralluogo al CARA romano di Castelnuovo di Porto effettuato a settembre, gestito da Gepsa e Acuarinto dalla fine del 2011, il numero dei pasti preparati ed erogati è inferiore al numero dei richiedenti asilo, non vi è corrispondenza tra le ore di pulizia richieste dall’appalto e quelle che risultano dal calcolo delle ore effettivamente lavorate dal personale, né è mai stata comprata l’ambulanza prevista dal bando. Attualmente ci sono una ottantina di reclusi. Da una testimonianza di un recluso, sembrerebbe che durante questa prima giornata, Acuarinto e Gepsa abbiano passato il tempo a sfondare le porte degli uffici in quanto qualcuno deve essersi dimenticato le chiavi in tasca. Lo stesso dev’essere capitato per scope, fax e strumenti da lavoro di cui non si trova più alcuna traccia. Il risultato è la sporcizia ovunque e l’impossibilità di spedire documenti per ricorsi e comunicazioni per la difesa legale, tramite fax.
Come se non bastasse, per opprimere ulteriormente le vite delle persone internate, l’effetto di questo “maldestro passaggio del testimone” si fa sentire con conseguenze pesantissime: un’intera notte con l’illuminazione accesa in ogni cella, l’impossibilità di ricevere l’assistenza medica, il cibo, inaccettabile per molti, con carne di maiale, la mancata consegna delle sigarette. Per capirci qualcosa, la nuova direzione sembrerebbe avvalersi della gestione militare di tutte le forze dell’ordine presenti nel lager.
Mentre sembra cambiato l’intero personale (operatori, medico e direzione), la tensione è alle stelle tra tutte le persone imprigionate. Nel Cie di Ponte Galeria sono attualmente reclusi/e circa 60 uomini e 25 donne.

CARA di Mineo
1 gennaio. Un Nigeriano di 31 anni è stato arrestato con l’accusa di aver organizzato una rivolta, durante la quale sono state date alle fiamme alcune vetture della Croce Rossa ed è stato saccheggiato un magazzino di distribuzione di vestiario, sigarette e altri beni.
La rivolta sarebbe scoppiata a seguito del diniego dello status di rifugiato politico da parte della commissione territoriale. Alla rivolta hanno partecipato una decina di persone. La folta comunità nigeriana presente nel centro ha preso le distanze dai fatti. Altre persone sono in corso d’identificazione. Dovranno rispondere di reati di devastazione e saccheggio, danneggiamento seguito da incendio, resistenza a pubblico ufficiale e altri reati. L’uomo arrestato è stato rinchiuso nel carcere di Caltagirone.

Gradisca, il CIE adibito a CARA
13 gennaio. La struttura del CIE, chiusa dal 2013 a seguito dei danni subiti dal fuoco delle rivolte, verrà provvisoriamente utilizzata per i richiedenti asilo. A Gradisca c’è già presente un CARA con una capienza di 200 persone.
Venezia
30 novembre. Ogni settimana a Venezia viene emanato un bollettino col bilancio delle “operazioni di controllo del territorio”. Caccia alla persona senza documenti, che acciuffati vengono o rimpatriati direttamente o trasportati in un CIE.

Padova
11 dicembre. 54 siriani, tra cui 8 bambini, sono rimasti per 11 ore nel parcheggio della Questura di Padova. Gli stranieri rifiutavano di fornire le loro impronte, mentre la polizia aveva l’obbligo di raccoglierle, anche con la forza. Da varie informazioni sembrerebbe che tutti gli stranieri erano in possesso di passaporto, quindi non rifiutavano di essere identificati, ma non volevano rilasciare le impronte. Le impronte servono per inserire i dati nel sistema Eurodac, il quale è collegato con il regolamento di Dublino, che obbliga gli stranieri a restare nello stato europeo al quale hanno richiesto asilo.
Gli stati membri dell’Unione Europea, nel corso dell’estate, hanno chiesto all’Italia di intervenire proprio per mettere fine all’afflusso di richiedenti asilo verso il nord Europa. Queste procedure vengono attuate per chi vuole chiedere asilo in Italia, ma sembrerebbe che gli stranieri in questione sarebbero diretti verso la Germania e la Svezia. La polizia non ha lasciato che attivisti e cronisti interferissero con le procedure in corso. Gli stranieri sono poi stati portati a Monselice, in un centro di “accoglienza”.


Trieste
15 dicembre. Nell’ambito di una manifestazione antirazzista organizzata dal centro sociale occupato Casa delle Culture, una quarantina di persone ha cercato di avvicinarsi alla sede della Lega Nord. I poliziotti hanno sbarrato loro la strada, ne è nato un tafferuglio in cui due agenti son rimasti feriti, a quanto pare colpiti da alcuni carrelli che i manifestanti avevano usato per trasportare l’amplificazione. Numerosi manifesti son stati affissi sui muri della città con i dati reali e le verità sui migranti.

Milano
7 gennaio. Nei primi sei giorni dell’anno quasi 800 profughi sono transitati nella stazione centrale di Milano, poi smistati nei vari centri di “accoglienza” del Comune. Il Comune gestisce al momento cinque centri: in Via Salerio, Viale Isonzo, Via Aldini, Via Saponaro e Via Corelli (ex CIE).

Germania, Austria e Italia lanciano “controlli trilaterali” per affrontare “il crescente numero di rifugiati”
6 dicembre. Il 13 novembre il Ministero degli Interni tedesco ha annunciato l’inizio di quello che è definito “il pattugliamento trilaterale”: pattuglie di polizia nelle zone di frontiera che coinvolgono agenti provenienti da Germania, Austria e Italia. L’operazione “potenzierà in maniera significativa” i controlli, soprattutto sui treni. Le nuove misure sono state pubblicizzate col termine “trilaterali”, tuttavia sembra che i controlli si svolgeranno principalmente sul territorio italiano.

Bolzano
16 dicembre. Un gruppo di donne di origine siriana si sono rifiutate di scendere dal treno a Bolzano, come ordinato dai poliziotti austriaci saliti sul convoglio nell’ambito delle “operazione trilaterali”, il cui obiettivo dichiarato è quello di bloccare i richiedenti asilo che viaggiano sui treni in Italia. Le donne viaggiavano su in intecity per Monaco e si sono aggrappate ai propri figli rifiutandosi di scendere dal treno. I testimoni parlano della solita arroganza poliziesca e riferiscono che il messaggio alla comitiva di siriani era chiaro: “in Austria voi non ci dovete mettere piede”. La polizia di fronte alle donne strette ai figli, fa ripartire il treno, ma purtroppo ad Innsbruck sono state fatte scendere, fotosegnalate e rispedite in Italia, come prevede il regolamento di Dublino.

La fortezza europea e la cooperazione con Angola e Egitto nella guerra contro i migranti
19 dicembre. Il governo dell’Angola ha lanciato un’operazione di polizia contro i migranti senza documenti. 3045 persone di diverse nazionalità (congolesi, cinese, gambiani) sono state fermate nella capitale Luanda e in altre 17 città angolane, 884 persone sono state poi trattenute nei centri di reclusione. Le retate poliziesche sono avvenute nelle strade, davanti alle moschee, in alcuni luoghi di lavoro e anche nelle case. Molti fermati sono stati portati nei centri di reclusione per migranti (Cafunfu, Kisingili, Saurimo, Luanda, Trinita) e alcuni sono stati forzatamente rimpatriati. Organizzazioni come Amnesty International , la Federazione Internazionale per i Diritti Umani (FIDH) e alcuni governi dei paesi di provenienza dei fermati hanno reagito chiedendo alle autorità angolane “di porre immediatamente fine alla pratica di arresti e detenzioni arbitrarie da parte delle forze di sicurezza”, denunciando le condizioni del centro di detenzione di Trinita, a 30 chilometri da Luanda, dove i migranti arrestati “sono tenuti in condizioni crudeli, disumane, umilianti e degradanti, stipati in celle minuscole e privati di acqua e cibo. Alcune donne in stato di gravidanza (di cui due provenienti dal Mali e dalla Guinea) hanno dovuto partorire in queste condizioni deplorevoli. Sono stati riportati anche atti di tortura e di estorsione di denaro.” Quello che sta avvenendo in Angola e in altri paesi africani, come ad esempio in Egitto rientra nella strategia europea di delegare ai paesi africani il controllo dei flussi migratori e al tempo stesso creare nuovi mercati per la vendita di armamenti. Non a caso qualcuno esulta definendo l’Angola come il “nuovo eldorado per le aziende italiane della difesa”.

Francia, Calais
22 dicembre. Una “manifestazione contro il “muro della vergogna”, fatto di griglie e di filo spinato che recinta il terminal d’imbarco del porto di Calais e finanziato in gran parte dalla Gran Bretagna, ha visto la partecipazione di 2000 persone che si sono radunate nelle strade della città. Da Melilla a Calais, le barriere vengono erette per impedire alla gente di circolare liberamente. La costruzione di questa barriera è il risultato di un lungo processo di negoziazione tra il sindaco, il governo francese e il Regno Unito, che ha stanziato 15.000.000 euro in tre anni, per rafforzare i controlli nel porto di Calais e per fare la sua parte nella guerra ai migranti. Per i migranti e i solidali la situazione si sta complicando e la repressione è in atto. Dopo arresti nei pressi di accampamenti e di squat, il 16 dicembre ha avuto luogo un nuovo raid che ha portato decine di migranti agli arresti, imprigionati nei diversi centri di detenzione francesi per immigrati (Rennes, Vincennes, Nîmes). Così una ventina di solidali ha presidiato davanti al CRA (centro di detenzione amministrativa) di Rennes, dove son riusciti a parlare coi reclusi, che hanno raccontato come si svolgono le espulsioni da parte della polizia che arriva di notte, del rifiuto dei reclusi a salire sull’aereo, delle deportazioni violente. In seguito tutte le persone che erano state rinchiuse nel CRA di Rennes sono state liberate.
Italia – Egitto contro i migranti e traffico di armi
27 dicembre. Si rafforza la partenership militare tra Italia ed Egitto. La ministra Roberta Pinotti e il ministro della difesa della Repubblica Araba d’Egitto, generale Sedki Sobhi, hanno siglato a Roma una dichiarazione congiunta in materia di cooperazione tecnico-militare, a cui seguirà il prossimo anno la stipula di un accordo intergovernativo generale nel campo della difesa e dell’import-export dei sistemi d’arma. Il Reparto addestramento controllo spazio aereo (RACSA) di Pratica di Mare (Roma), dipendente dalla 9^ brigata Area Intelligence, Surveillance, Target acquisition and reconnaissance-Electronic Warfare, è l’ente addestrativo dell’aeronautica militare italiana che ha il compito di formare personale ufficiale e sottoufficiale preposto al controllo del traffico e della difesa aerea. Un mese fa la holding francese DCNS ha ufficializzato l’ordine di quattro sistemi di puntamento 76/62 “Super Rapid Multi Feeding (SRMF)” prodotti da Oto Melara (Gruppo Finmeccanica) per armare le nuove corvette d’attacco “Gowind 2500” acquistate dalla Marina militare egiziana.
Ma è nel settore della produzione e vendita di armi e apparecchiature belliche che si focalizzerà maggiormente la partnership tra Italia ed Egitto. Nel dicembre 2010 era stata l’azienda statunitense DRS Technologies, intermante controllata dal gruppo Finmeccanica, a sottoscrivere con l’esercito Usa un contratto di 65,7 milioni di dollari per fornire alle forze armate egiziane veicoli, sistemi di sorveglianza e altre apparecchiature elettroniche. A fine 2012 AgustaWestland (azienda di Finmeccanica) aveva consegnato all’Egitto due elicotteri AW139 in configurazione ricerca e soccorso (SAR). Nel 2013 sempre AugustaWestland si è assicurata un contratto del valore di 17,3 milioni di dollari per fornire i servizi di manutenzione e assistenza al parco elicotteri delle forze armate egiziane. Il “preoccupante e costante aumento” delle esportazioni militari italiane all’Egitto è stato denunciato in un rapporto pubblicato lo scorso anno dall’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (Opal) di Brescia. Nel 2012 il valore delle esportazioni ha raggiunto i 28 milioni di euro e ha riguardato fucili d’assalto e lanciagranate della Beretta, munizioni della Fiocchi, blindati della Iveco e apparecchiature specializzate per l’addestramento militare. Nel 2011, l’anno delle violente repressioni popolari in Egitto, il governo italiano ha autorizzato l’esportazione alle forze armate egiziane di 14.730 colpi completi per carri armati, prodotti da Simmel Difesa. Sempre nel 2011, è stata autorizzata l’esportazione di 355 componenti per la centrale di tiro “Skyguard” per missili Sparrow/Aspide a cui sono seguiti, nel 2012, altre 1.000 componenti e corsi d’addestramento per la stessa centrale di tiro prodotta dalla Rheinmetall Italia.

Carabiniere spara e uccide tunisino
19 dicembre. Alba Adriatica (Teramo). Si chiamava Akim Hadyi ed aveva 37 anni il tunisino morto nel pomeriggio ad Alba Adriatica. Stando alla ricostruzione dei fatti, il carabiniere che ha esploso il colpo mortale aveva fatto irruzione, insieme ad un collega, nell’appartamento di Hadyi dove quest’ultimo viveva con un connazionale. Alla vista dei militari, che stavano effettuando un controllo antidroga, il tunisino ucciso, che pare non avesse il permesso di soggiorno, avrebbe preso un coltello da cucina e si sarebbe scagliato contro i carabinieri. Uno dei due militari ha estratto la pistola ed è partito un colpo. Il pm che seguirà il caso è Davide Rosati, lo stesso che ha che ha provato a dare l’associazione a delinquere e devastazione e saccheggio per gli scontri tra antifa e fasci a Teramo.


Dalle carceri greche: soffocare per un soffio di libertà
Nikos Romanòs, il 10 novembre comincia uno sciopero della fame per rivendicare il suo diritto allo studio.
Nikos ha 21 anni, è anarchico e fra le sue braccia morì il 6 dicembre 2008 Alexis Grigoropoulos ucciso dalla polizia ad Exarchia.
Dopo qualche mese dall’omicidio di Alexis, Nikos prende parte ad un attentato dinamitardo ai danni di un deposito di filobus. Cinque anni più tardi, ormai ventenne, viene arrestato con l’accusa di aver preso parte a due rapine e al rapimento di un dentista a Velvendòs, in Macedonia. Nikos non nega le sue responsabilità, rifiuta però l’accusa di essere membro dell’organizzazione “Cospirazione delle Cellule di Fuoco”. Le fotografie del suo arresto insieme ad altri tre coetanei accusati come lui di organizzazione terroristica, fanno il giro del mondo per le ferite e le tumefazioni che riportano sul volto. Altrettanto impressione suscitano le immagini di questo ragazzo giovanissimo incatenato, strattonato, col volto gonfio e tumefatto per le botte ricevute, scortato da decine di agenti di polizia che a testa alta grida “Viva l’Anarchia bastardi! ”. Tramite il suo avvocato rilascia la seguente dichiarazione: “Le mie motivazioni sono politiche. Mi ritengo prigioniero di guerra. Non mi considero una vittima. Non sporgerò denuncia nei confronti dei poliziotti che mi hanno picchiato. Vorrei che i maltrattamenti che ho subito sensibilizzassero l’opinione pubblica. Accetto l’accusa di rapina e nient’altro. Seguirà una mio comunicato politico, perché solo io, e nessun altro, rappresento me stesso”.
Nikos decide di rimettersi a studiare per poter dare gli esami di ammissione all’università che in Grecia sono particolarmente difficili e selettivi. Supera brillantemente gli esame tanto da meritare l’encomio ed un premio in denaro dallo Stato, premio che rifiuta perché in contrasto con i suoi valori.
Nikos inizia lo sciopero della fame perché a dispetto dell’attuale legislazione greca, gli viene negata la licenza studio per il pericolo di fuga.
Di seguito il suo comunicato:
Asfissia per un soffio di libertà
La scorsa primavera ho sostenuto l’esame d’ammissione dall’interno del carcere e sono stato ammesso all’università di Atene. In base alle loro leggi, quindi, dal settembre 2014 sono idoneo al permesso formativo per poter frequentare i corsi. Come previsto, le mie richieste sono finite nella catasta delle cose indesiderate, un fatto che mi ha portato a pretendere questi permessi utilizzando il mio corpo come una barricata.
A questo punto sento la necessità di chiarire il mio ragionamento politico per contestualizzare la scelta che sto portando avanti.
Le leggi oltre ad essere gli strumenti di controllo e oppressione, contemporaneamente servono a mantenere l’equilibrio o quello che noi in modo sommario chiamiamo contratto sociale, riflettono le associazioni politiche e sociali e parzialmente formano certe posizioni per la condotta della guerra sociale. Per questo motivo voglio che la scelta che ho fatto sia più chiara possibile: non sto difendendo la loro legittimità, al contrario, sto mandando un ricatto politico per conquistare qualche soffio di libertà dalla schiacciante condizione della carcerazione.
A questo punto si solleva una questione riguardo le nostre rivendicazioni in stato di prigionia. È un dato di fatto che le contraddizioni sono sempre esistite, e sempre esisteranno in tali condizioni. Noi, ad esempio, abbiamo partecipato allo sciopero della fame di massa dei detenuti contro la nuova legge sulla carceri di massima sicurezza, anche se siamo dei fanatici nemici di tutte le leggi, e allo stesso modo molti compagni hanno usato i propri corpi come delle barricate per negoziare le condizioni della propria reclusione (detenzione preventiva “illegittima”, rifiuto della perquisizione corporea, permanenza in un particolare carcere), e quello che hanno fatto era positivo.
La conclusione è, perciò, che in tali circostanze siamo spesso costretti ad entrare in una guerra strategica di posizione, la quale è il male necessario nella nostra situazione. Con questa mia scelta, le cui caratteristiche politiche sono specificate nel titolo stesso del testo, viene offerta la possibilità di creare un fronte di battaglia in un momento che è particolarmente critico per tutti noi.
“Precisamente, la poesia è l’arte della purezza. È quel che rimane insubordinato, quando l’ordine della trasparenza sottomette tutti gli altri strumenti della parola. Quando le parole vengono accuratamente disinfettate e adornate come marchese a corte, per finire nel letto del principe, e quanto ciò li potrebbe spaventare, essi dipingeranno se stessi come dei modesti, e fingeranno di possedere delle virtù che hanno da tempo perso nella fogna di compromessi e di prostituzione. La poesia o è intransigente o non è nulla”.
(Jean-Marc Rouillan)
Compagni, siamo stati murati ormai da tempo. Dai blocchi polizieschi e pogrom antiterroristici, fino ai consigli degli economisti che sterminano coloro che non rientrano nelle loro statistiche; dagli industriali greci che resistono all’ assalto dei conglomerati multinazionali sostenendo il tardo socialismo del partito di Syriza, fino allo Stato di emergenza dove i politici cercano la mano degli ultra-patrioti, sempre servili per il bene del paese; dagli sbirri e dall’ esercito che sono stati equipaggiati con le armi all’ avanguardia per sopprimere la ribellione, fino alle carceri di massima sicurezza.
Chiamiamola con il proprio nome: se lo Stato sfrutta tutto, non è altro che inerzia quella che è stata istituita come condizione naturale. Presto sarà troppo tardi, e l’autorità si dimostrerà clemente solo verso coloro che si inginocchiano obbedienti di fronte alla sua onnipotenza. Il sistema prevede un futuro in cui i rivoluzionari saranno sepolti vivi nelle “strutture di correzione per trattamento intensivo”, nelle quali attenderanno la loro distruzione fisica, mentale e morale. Un museo innovativo dell’orrore umano, dove i viventi in mostra sono esposti con dei cartelli appesi con su scritto “un esempio da evitare”, delle cavie umane sulle quali saranno testate tutte le intenzioni sadiche dell’autorità.
Ognuno può arrivare ad una risposta ai dilemmi e fare le proprie scelte. Sia gli spettatori seduti in poltrone isolate che conducono una vita castrata, che gli attori degli eventi che modellano il corso della storia.
Quella notte abbiamo tenuto lo sguardo fisso sull’orizzonte e abbiamo visto molte stelle cadenti disegnare le proprie traiettorie caotiche. E le abbiamo contate ancora e ancora, abbiamo espresso desideri, abbiamo calcolato le probabilità. Sapevamo che il nostro desiderio di vita libera doveva passare sopra tutto quello che ci opprime, ci assassina, ci distrugge, così ci siamo immersi nel vuoto proprio come le stelle cadenti che stavamo osservando. Da allora innumerevoli stelle sono cadute; forse è il momento che cada anche la nostra stella, chi lo sa? Se avessimo avuto le risposte pronte non saremmo diventati quello che siamo, bensì dei bastardi egoisti che vogliono insegnare alle persone come diventare dei roditori che si mangiano a vicenda, come loro lo fanno oggi. Perlomeno rimaniamo ancora implacabili e testardi, come le persone della nostra specie. E quelli di noi che hanno chiuso gli occhi nella sofferenza e sono andati lontano, continuano a mantenere i loro occhi fissi su quel cielo notturno che anche noi abbiamo osservato. E ci guardano cadere, stelle meravigliose e splendenti. Adesso è il nostro turno. Adesso, senza esitazione, cadiamo.
Da lunedì, 10 novembre 2104 inizio lo sciopero della fame senza fare neanche un passo indietro, con l’anarchia sempre nel mio cuore.
Responsabile per ogni giorno di sciopero della fame, e qualunque cosa accada da questo punto in avanti, è l’amministrazione del carcere, vale a dire il PM Nikolaos Pimenidis, il direttore Charalabia Koutsomichali, come anche gli assistenti sociali.
SOLIDARIETÀ SIGNIFICA ATTACCO
P.S. A tutti i “combattenti” da salotto, agli umanisti di professione, agli intellettuali “sensitivi” e personaggi spirituali: anticipatamente a mai più.
Nikos

La solidarietà nei confronti di Nikos e la sua lotta non manca sia con l’adesione allo sciopero della fame di numerosi compagni chiusi nelle galere greche, sia nelle strade di mezzo mondo dove con azioni dirette e cortei determinati si pratica una solidarietà d’attacco.
Dopo 3 settimane di sciopero della fame le condizioni di Nikos si aggravano pesantemente: ha perso 17 chili ed accusa una tachicardia con 170 battiti al minuto. Viene trasferito in ospedale ma i medici si rifiutano di praticargli l’alimentazione forzata che considerano una forma di tortura.
A 30 giorni dall’inizio dello sciopero della fame, Nikos aggiunge anche lo sciopero della sete, rischiando la propria vita per l’affermazione di un diritto di tutti/e.
Finalmente dopo 31 giorni dall’inizio della sua protesta lo stato greco decide che probabilmente è meglio non uccidere questo ragazzo e così viene approvato un emendamento che autorizza il braccialetto elettronico per tutti i detenuti che hanno seguito due mesi di corsi di studio a distanza.
Si tratta di una vittoria collettiva per la difesa dei diritti di tutti i prigionieri greci, vittoria ottenuta solo grazie alla lotta ed al coraggio di Nikos e di quanti lo hanno sostenuto non solo a parole.
Di seguito le righe con cui Nikos ha annunciato la fine della protesta:
Dopo 31 giorni di lotta dura e tenace, finisco il mio sciopero della fame, dopo aver segnato una vittoria importante. L’emendamento votato in Parlamento, che aveva me, come il suo unico destinatario, secondo quanto affermato dal Ministro della Giustizia, cosa invece fasulla, è finalizzato comunque a soddisfare le mie richieste “indosserò un braccialetto elettronico”.
L’unica cosa certa è che questa vittoria è stata il risultato della pressione politica del popolo in lotta e dell’Anarchia, che sono indiscutibilmente i grandi vincitori morali, politici e pratici. La lotta rivoluzionaria multiforme e noi, come prigionieri politici, riemergono da questa lotta più forti di prima.
Alzo il pugno, invio i più cari saluti e il mio amore senza limiti a tutti i compagni che stavano al mio fianco. Con tutti i mezzi! SOLIDARIETà PER I PRIGIONIERI POLITICI Viva l’anarchia
PS: Un testo dettagliato seguirà nei giorni a venire.
PS2: Vorrei ringraziare anche i medici ospedalieri che si sono rifiutati di piegarsi alle pressioni fatte dalla giustizia per quanto riguarda la mia alimentazione forzata, e che mi ha supportato al massimo delle loro possibilità.


Il Tribunale federale nega a Marco Camenisch la libertà
Dopo oltre un anno di riflessioni, il Tribunale federale di Losanna ha rifiutato di concedere la libertà condizionale a Marco, basandosi (come fatto dai precedenti funzionari) su un principio politico secondo cui, non dissociandosi Marco dalla sua posizione politica, la libertà condizionale gli va negata. La Corte suprema della Svizzera ribadisce pure la posizione politica per non farlo uscire di prigione.
Diamo un rapido sguardo alla storia delle istanze presentate, perché Marco potesse ottenere la libertà condizionale:
Da maggio 2012 Marco poteva essere liberato con la condizionale avendo già scontato i 2/3 della pena. Una domanda, presentata all’Ufficio per l’amministrazione penitenziaria di Zurigo, veniva respinta il 13 aprile 2012. Contro tale decisione veniva opposto il ricorso, rifiutato anzitutto dalla “Direzione per la giustizia e gli interni del cantone Zurigo”, prima che il “Tribunale per l’amministrazione cantonale” approvasse il ricorso e rimandasse il caso all’Ufficio per l’amministrazione penitenziaria posto in Feldstrasse a Zurigo. Si arriva nuovamente a un’audizione di Marco, ma nel febbraio 2013 gli viene impedita l’uscita uscire dal carcere con la condizionale. La motivazione addotta è ancora di denuncia della sua “violenza cronica e concezione del mondo che promuove la delinquenza”, il cui senso va ben inteso e pone l’accento sul perché a Marco è negata la libertà. Sarebbe stato meglio (anche più breve) che i funzionari avessero potuto scrivere semplicemente che Marco rimane un rivoluzionario anarchico.
Nella formulazione data dal Tribunale federale sul rilascio si afferma dell’altro, di uguale contenuto. La ragione per la quale Marco non deve essere liberato è la mancanza di “una rinuncia credibile rispetto alla precedente violenza e di una chiara presa di distanza dall’uso della violenza come mezzo di scontro politico”. Ora, data la realtà globale caratterizzata dalla grave crisi e dalla tendenza alla guerra, è un’incredibile ingenuità fare così, come se la violenza non sia un mezzo della politica o anche motivato politicamente. Escluso che al Tribunale ci siano solo giudici ingenui, ci rimane unicamente la ragione politica. Marco non deve uscire, perché sostiene una posizione integra, contro la violenza del Potere. Evidentemente questo alla giustizia di classe non va, lo vogliono chiaramente vedere dietro le sbarre.
Su un punto però si manifesta una contraddizione fra l’ “Ufficio competente per le carceri” di Zurigo e l’ “Autorità di controllo della giustizia borghese” di Losanna, cioè riguardo alle agevolazioni di pena che, secondo il Tribunale federale, sono da garantire subito. Così, il Tribunale federale scrive che la liberazione sia da stimare al massimo per maggio 2018. Ciò vorrebbe dire far scontare a Marco l’intera pena, allusione non particolarmente strana su ciò che il tribunale pensa di una prematura libertà con la condizionale. Dato che ora “obiettivo del carcere” in Svizzera è che ogni prigioniero/a a fine pena deve poter vivere impunito/a e ciò comprende un graduale riaccostarsi alla vita fuori dal carcere, il tribunale scrive che “ormai devono essere verificati seriamente i passi tesi “all’ammorbidimento delle condizioni detentive”. L’Ufficio competente per l’amministrazione penitenziaria” fin’ora ha impedito il realizzarsi di ogni passo in tale direzione, il che sta a dimostrare il significato di questa sentenza per le condizioni detentive inflitte a Marco. Marco libero!
11 dicembre 2014, Soccorso Rosso Svizzera


MILLIONS MARCH: IN MIGLIAIA IN PIAZZA CONTRO LA POLIZIA
In molte città statunitensi il fine settimana appena concluso sono scese in piazza migliaia di persone per opporsi all’impunità della polizia. Dopo le rivolte di Ferguson, Missouri, dove quest’estate Michael Brown è stato assassinato da un poliziotto con un colpo di pistola, e le proteste dei giorni scorsi, dopo che l’agente è stato giudicato non perseguibile dalle istituzioni giudiziarie, è stata la volta della grande mobilitazione nazionale, da Los Angeles a San Francisco, fino a Chicago.
Imponente il corteo di New York, che ha superato le aspettative degli stessi organizzatori, raggiungendo 25.000 persone, che come una grande fiumana hanno attraversato Manhattan. Pochi giorni fa è arrivata la notizia che non sarebbe stato processato il poliziotto che a luglio ha ucciso a sangue freddo Eric Garner, un signore nero che stava vendendo sigarette di contrabbando. Aggredito alle spalle e compresso a terra da diversi agenti, è morto soffocato urlando “Aiuto, aiuto, non respiro!”. Per questo molti manifestanti hanno intonato provocatoriamente il coro: “Can’t breath, can’t breath!”.
Il giornalista e attivista L.A. Kauffman ha dichiarato: “Ho seguito le proteste antirazziste negli ultimi trent’anni, e non ho mai visto qualcosa come ciò di cui New York ha fatto esperienza nell’ultima settimana”. Hasan Jeffries, storico dei movimenti per i diritti civili: “Ciò che sta accadendo è qualcosa in più di ciò che abbiamo visto nel passato, quando la gente rispondeva a un evento traumatico, e poi tutto finiva. Credo che questo processo organizzativo radicale e genuino, questi piccoli gruppi funzionali alla mobilitazione che stanno emergendo – credo che in futuro ci guarderemo indietro e vedremo tutto questo come l’inizio di un movimento sociale”.
Nonostante la presenza massiccia della polizia, alcuni manifestanti sono riusciti a effettuare blocchi stradali a sorpresa, mentre una parte del corteo ha occupato il ponte di Brooklyn (come era accaduto già nel 2011, nei primi giorni di Occupy Wall Street). Durante l’occupazione del ponte la polizia di New York ha lamentato due agenti feriti, uno con il naso rotto. Secondo la versione accreditata dal NYPD alla stampa, i due agenti sarebbero stati malmenati mentre cercavano di impedire a un uomo di gettare un bidone della spazzatura sopra alcuni poliziotti nella rampa sottostante.
A Boston, Massachusetts, la manifestazione ha cercato di dirigersi verso una delle carceri cittadine e ha dovuto per questo scontrarsi con la polizia, che ha effettuato una quarantina di arresti. A Nashville, Tennessee, i manifestanti hanno inscenato la propria morte lungo le strade, sdraiandosi a terra. Un simile atto simbolico è stato compiuto a Berkeley, dove migliaia di persone hanno sfilato. Alle manifestazioni erano presenti i genitori dei ragazzi uccisi in questi mesi e quelli di Taryvon Martin ucciso in Florida da un vigilante privato nel 2012, ma anche di vittime che risalgono a molti anni fa. Imponente è stata la partecipazione nera, ma anche molti giovani bianchi e ispanici hanno partecipato ai cortei.

***
Nella mattinata del 15 dicembre, circa 250 manifestanti hanno circondato la questura di Oakland per protestare contro le decisioni dei grand jury di Ferguson, Missouri, e Staten Island, New York che nelle scorse settimane hanno deliberato la non perseguibilità dei poliziotti colpevoli delle uccisioni di Michael Brown ed Eric Garner.
La protesta è iniziata intorno alle 7:30 del mattino, quando alcuni manifestanti hanno formato una catena umana di fronte ai quattro ingressi dell’edificio; nel frattempo un attivista si è arrampicato su di un palo fuori dal commissariato per appendere un cartello con le foto delle vittime della polizia e la scritta “Black Lives Matter”, lo slogan che sta accompagnando le proteste. Contemporaneamente diverse persone si sono incatenate ad un altro palo, il tutto sotto una pioggia battente.
Gli organizzatori della manifestazione hanno dichiarato che la protesta era stata programmata per una durata di quattro ore e 28 minuti. Quattro ore come il tempo in cui Michael Brown è giaciuto a terra il 9 agosto scorso, dopo che il poliziotto Darren Wilson lo aveva ucciso colpendolo alle spalle e disarmato; i 28 minuti avrebbero invece rappresentato l’intervallo di tempo - 28 minuti appunto – in cui un uomo di colore viene ucciso negli Stati Uniti, secondo lo studio di Malcom X conosciuto come “Operazione Ghetto Storm".
La manifestazione, però, si è interrotta prima del previsto a causa di un massiccio intervento della polizia locale, evidentemente disturbata da un’azione che colpiva nel vivo un’istituzione ormai considerata da molti razzista e violenta. Mentre gli attivisti proseguivano il blocco al grido di “No justice, no peace, no racist police” e “End the war on Black People” gli agenti hanno infatti proceduto nello sgombero coatto del presidio sollevando da terra persone inermi ed arrivando infine ad arrestare più di 20 manifestanti.
Nel frattempo centinaia di studenti delle scuole superiori si sono radunati sia ad Oakland che a San Francisco nell’ottica di proseguire le mobilitazioni contro gli abusi di polizia; nei prossimi giorni sono attesi diversi altri momenti di lotta, compreso un “die-in” a New York il 17 dicembre per commemorare i 5 mesi dall’uccisione di Eric Garner.
dicembre 2014, da infoaut.org


USA: RILASCIATO l’anarco-ecologista ERIC MCDAVID
Dopo 9 anni di carcere, l'8 gennaio 2015 Eric McDavid ha ricevuto l’ordine di scarcerazione. Era stato arrestato il 13 gennaio 2006 ad Auburn, CA, e la data prevista della sua uscita era febbraio 2023, essendo stato condannato a quasi 20 anni di carcere.
Eric è un anarchico ecologista che insieme ad altre due persone (che hanno poi deciso di collaborare con le autorità in cambio di sconti di pena) fu incastrato da un’agente dell’FBI che il suo gruppo frequentava da un paio di anni, e accusato di cospirazione a commettere attacchi esplosivi di matrice ecologista, attacchi mai realizzati.
Il suo rilascio è avvenuto in seguito a una richiesta di revisione del caso effettuata da lui e dal suo avvocato nel maggio 2012, secondo cui documenti importanti della difesa erano stati ritirati dal governo durante il processo. Eric patteggiò poi per un’accusa minore, che prevedeva un massimo di cinque anni di carcere, ma venne comunque condannato a quasi 20 anni. Il giudice ha ammesso oggi l’errore e il fatto che Eric abbia scontato 4 anni in più di quanto era previsto, 4 anni della sua vita che comunque non gli verranno mai restituiti, ordinando il suo rilascio immediato.
In questi anni Eric ha resistito all’isolamento, alla separazione dai suoi cari che si trovavano a centinaia di chilometri di distanza, alle mura fredde della prigione, rimanendo sempre forte, integro e coerente con sè stesso e con quello in cui crede, grazie anche al forte supporto che ha ricevuto dal movimento fuori.
Ora è uscito dal carcere di Sacramento County ma dovrà subire altri due anni di libertà vigilata, in cui sarà sottoposto al controllo delle autorità. Uscire dal carcere è un viaggio lungo e difficile, ma la libertà è adesso molto più vicina!
Ricordiamo che in carcere rimane ancora Marius Mason, condannato a 22 anni per azioni dell’ELF sempre nell’ambito della “green scare", la dura repressione del governo statunitense contro gli anarchici ecologisti.
12 gennaio 2015, da informa-azione.info


CON I PRIGIONIERI PALESTINESI IN LOTTA
Il 15 gennaio del 2002 Ahmad Sa’adat, leader palestinese e Segretario Generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, e molti dei sui compagni vennero catturati dai servizi di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese per volere delle forze di occupazione israeliane. Il 14 marzo 2006, la prigione fu attaccata e i detenuti furono sequestrati dalle forze militari sioniste.
Il rapimento e la detenzione di Ahmad Sa’adat e dei suoi compagni sono solo alcune delle conseguenze della cooperazione per la sicurezza tra l’Occupazione e l’Autorità Palestinese in Cisgiordania. L’intelligence dell’ANP e i servizi di “sicurezza preventiva” interrogano ed incarcerano centinaia di Palestinesi nell’interesse della “sicurezza” dello Stato di occupazione, mirando alla Resistenza e contro i diritti e gli interessi del popolo palestinese. Tutto ciò può continuare grazie anche al diretto coinvolgimento di Stati Uniti, Canada e Unione Europea che forniscono formazione e milioni di dollari.
Laddove non siano sufficienti la reclusione in sé, la tortura e l’isolamento, con il “gioco” della detenzione amministrativa (senza né accusa né condanna) e della “porta girevole” tra le forze di occupazione sioniste e l’ANP (i detenuti rilasciati dagli uni vengono arrestati nuovamente dagli altri) si tenta di escludere il prigioniero dal suo ruolo all’interno della società civile.
Storicamente i prigionieri rappresentano il seme di ogni lotta di liberazione, la loro libertà rappresenta uno dei punti cardine intorno a cui si uniscono le forze della Resistenza. Ricordiamo Georges Ibrahim Abdallah, rivoluzionario comunista libanese che ha sempre lottato per la causa palestinese. Aderente al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), militante delle Frazioni Armate Rivoluzionarie Libanesi (FARL), ha combattuto in prima linea nel corso della lotta politico-militare condotta nelle metropoli imperialiste. Arrestato nel 1984 a Lione è tuttora detenuto in Francia. Il dovere di tutte e tutti deve essere quindi quello di sostenerli, senza esitazioni. 13 anni dopo il rapimento di Ahmad Sa’adat diciamo:
LIBERTÀ PER AHMAD SA’ADAT E PER TUTTI I PRIGIONIERI POLITICI! FINE DELLA COLLABORAZIONE SULLA SICUREZZA TRA L’ANP E L’OCCUPAZIONE SIONISTA!
Siamo qui all’EXPO Gate per denunciare la complicità del nostro e di tutti gli stati imperialisti con il sionismo internazionale, che non si concretizza solo con la colonizzazione della Palestina e con l’oppressione e la pulizia etnica della sua popolazione, ma passa per l’esportazione in tutto il mondo della sua tecnologia, dei suoi modelli e delle sue logiche carcerarie e di controllo.
Il “made in Israel” non riguarda solo gli attivisti per la Palestina ma anche persone impegnate nelle lotte sociali e contro gli apparati repressivi dello Stato. La presenza sionista all’EXPO non è pericolosa solo perché tenta di ripulire l’immagine di Israele agli occhi del mondo nascondendo la natura genocida del suo progetto coloniale ma è pericolosa perché rappresenta la vetrina del modello carcerario in Italia e nel resto del mondo: la tecnologia repressiva sionista viene acquistata dai nostri stati e impiegata dalle polizie nel controllo e nella repressione sociale, politica, etc.
Invitiamo quindi tutte le realtà e le organizzazioni contro la militarizzazione e le guerre, contro gli apparati repressivi dello Stato e le carceri, solidali con i lavoratori e con le lotte sociali a non considerare la questione palestinese solo come un conflitto coloniale, distante da noi e che non ci riguarda direttamente nel quotidiano. È necessario considerare il regime israeliano all’interno del più ampio quadro dell’internalizzazione delle pratiche e strategie di controllo, sorveglianza e repressione, non solo delle popolazioni indigene ma di tutti i fenomeni migratori, dei movimenti studenteschi, di contestazione e delle lotte sociali.
NON C’È APPOGGIO ALLA RESISTENZA SENZA IL SOSTEGNO AI SUOI PRIGIONIERI!
13 gennaio 2015, Fronte Palestina, Assemblea di Lotta Uniti Contro la Repressione


Note tratte dalla denuncia di Carlos Gola
Ecco un caso di tortura documentata avvenuta nel carcere di Asti ai danni di un detenuto, Gola Mohammed Carlos Eduardo, e che ci sembra importante far conoscere per mettere in evidenza quanto sia estesa e vigliacca questa pratica attuata nelle carceri.
Carlos era in carcere ad Asti dal 2008 e lì ha iniziato a studiare l’Islam e ad apprezzarlo. Ad Asti, in quegli anni, c’era una sezione speciale per i detenuti accusati di “terrorismo islamico” e per questo tenuti separati e in condizioni molto simili a quelle del regime di 41 bis. Seguendo i loro processi si era venuti a conoscenza, ad esempio, che proprio in quel carcere veniva servito loro del maiale da mangiare, oppure veniva gettata dell’acqua nei luoghi dove i detenuti pregavano, ed altre violenze simili. A queste provocazioni i carcerati hanno risposto con iniziative di protesta anche forti. A seguito di questi fatti diverse guardie sono state condannate e quindi sono scomparse.
Carlos ha denunciato le violenze subite. Dalle carte si legge che la mattina del 27 maggio 2010 doveva andare in infermeria per una puntura di Interferone. Le guardie avevano notato che Carlos aveva iniziato a studiare l’Islam e che si era fatto crescere la barba. All’interno dell’infermeria, un brigadiere cerca di stuzzicarlo sull’argomento Islam, in particolare sui motivi per cui si tingono le barbe di rosso. Carlos non ci sta e si accorge del tono “canzonatorio e strafottente” dello sbirro. Ad esempio, “Il vostro Profeta aveva la barba che puzzava, Maometto puzzava tutto!”. Carlos tira un calcio ad una scrivania. Lo sbirro gli intima “Metti a posto immediatamente quella scrivania… Muoviti bastardo”. E Carlos risponde “Non c’è niente da mettere a posto”. Quindi lo sbirro gli si getta addosso e lo prende a pugni. Mentre succedeva il fatto, arrivano un secondo e un terzo sbirro che iniziano a colpire Carlos su tutto il corpo. Il brigadiere invita uno dei colleghi a prendere un paio di forbici per tagliare la barba “a questo stronzo” e urla a Carlos: “Ma come? Non sei contento? Ti stiamo trattando come i tuoi fratellini delle carceri di Abu – Grajb!”. Due guardie lo bloccano e la terza gli taglia dei pezzi di barba. Mentre si svolge l’aggressione Carlos recita ad alta voce dei brani del Corano. Allora il brigadiere, per farlo tacere, gli sferra un calcio sulla trachea, che Carlos sta già curando da mesi. Nell’infermeria era presenta anche un’infermiera che viene fatta uscire dalle guardie stesse assieme al lavorante. Ad un certo punto, entra un quarto sbirro in borghese con un passamontagna in testa ed urla “Abbiamo 5 minuti di tempo, non più di 10!”. In una mano tiene una radio e nell’altra una corda, un sacco nero dell’immondizia e un bavaglio. Gli altri sbirri mettono il bavaglio sulla bocca di Carlos e gli infilano la testa nel sacco. Carlos non vede più nulla, si sente spostare verso la finestra, riceve ulteriori bastonate all’addome e alle gambe; gli vengono legati i polsi e le caviglie alle sbarre della finestra. Ad un certo punto si sente penzolare e viene lasciato in quella condizione per alcuni minuti. Poi lo rimettono con i piedi per terra, gli tolgono il sacco dalla testa e il bavaglio dalla bocca e, mentre lo portano fuori dall’infermiera, gli fanno degli sgambetti e lui riesce a dire: “Poi la gente muore come Stefano Cucchi a Roma” e il brigadiere gli risponde “Ma ne moriste di più in quel modo!”. Mentre lo riportano in sezione, viene spintonato e gli urlano “Muoviti, cammina, vai su, togliti dai coglioni!... Cammina, non rompere i coglioni, guai a te se ne parli!... Collega, apri sta’ porta e fai entrare sto’ stronzo...”.
Va detto che la sezione di Carlos era la B2 nella quale sono stati inseriti tutti i prigionieri che non hanno mai subito rapporti…
Subito dopo il pestaggio Carlos urinava sangue ma per tre giorni non è stato accompagnato in infermeria. Solo il 1 Giugno ha potuto vedere l’avvocato a cui Carlos ha mostrato le lesioni più che evidenti sulla schiena, alla gola oltre che le legature ai polsi e alle caviglie.
In conclusione, l’avvocato ha nominato un medico di fiducia che ha riscontrato ecchimosi diffuse, sfumature giallastre e lesioni in tutto il corpo.
Carlos ha quindi fatto denuncia di quanto subìto; ne è seguito un processo che si è aperto nell’aprile 2014 per lesioni aggravate, abuso di autorità, ingiurie. Il processo si è concluso ai primi di dicembre 2014 e nei giorni successivi Carlos è stato scarcerato.
Fine Dicembre 2014


Repressione in spagna: operazione pandora
Alle 5 di mattina del 16 dicembre circa 300 agenti del Mossos d’Esquadra (la polizia speciale spagnola) hanno fatto irruzione nella Kasa de la Muntanya, occupazione storica di Barcellona, contemporaneamente altre centinaia di sbirri irrompevano, sempre a Barcellona, nell’Ateneo Libertario di Sant Andreu e in quello di Poble Sec, entrambi a Barcellona mentre in altre dieci località catalane venivano invasi appartamenti e spazi abitativi. Si tratta dell’immediata applicazione della legge Mordaza, appena approvata, che incrementa in modo arbitrario i poteri giudiziari delle forze repressive.
L’operazione sbirresca, denominata Operazione Pandora, tristemente simile alle analoghe operazioni “anti-terrorismo”, porta in carcere 7 fra compagni e compagne accusati di terrorismo.
La solidarietà è stata immediata con decine di iniziative in tutta la Spagna ed in vari paesi europei. Per scrivere ai compas:
Beatriz Isabel Velazquez Dávila e Lisa Sandra Dorfer
C. P. Madrid VII – Estremera, Ctra. M-241, 28595 Estremera, Madrid
Alba Gracia Martínez - Noemí Cuadrado Carvajal - Anna Hernandez del Blanco
C. P. Madrid V – Soto del Real, Carretera M-609, Km 3,5 , 28791 Soto del Real, Madrid
Enrique Balaguer Pérez
C. P. Madrid VI – Aranjuez , Ctra. Nacional 400, Km. 28 , 28300 Aranjuez , Madrid
David Juan Fernández
C. P. Madrid III – Valdemoro , Ctra. Pinto-San Martín de la Vega, km. 4,5 , 28340 Valdemoro , Madrid
Note: per chi non conoscesse lo spagnolo sappiamo che Anna e Bea leggono il francese, Enrique l’inglese, un po’ tutti l’italiano. Non inviare loro direttamente libri (vengono conteggiati tra i pacchi), ma inviarli al seguente indirizzo: Local anarquista Poble Sec c/o Maria Hernandez del Blanco , Creu de Mollers 86 , Poble Sec Barcelona (España)
Di seguito il comunicato giunto dalle compagne in carcere:

LA TEMPESTA SCATENATA DI PANDORA
Alla nostra gente, a tutti i compagni conosciuti e sconosciuti che abbracciano le idee anarchiche e a tutti i solidali e interessati.
La mattina del 16 dicembre, un grande dispiegamento di polizia ha fatto irruzione nei quartieri Sant Andreu, Poble Sec e Gracia di Barcellona, Manresa, Sabadell e Carabanchel di Madrid, entrando nelle nostre case al grido di “Polizia!" e dopo meticolose perquisizioni ci hanno arrestati in 11. Allo stesso tempo sono stati perquisiti l’Ateneu Llibertari di Sant Andreu, l’Ateneu anarchico di Poble Sec, Kasa de la Muntanya e le abitazioni di alcuni amici, senza che ci fossero altri arresti.
Quando i poliziotti si sono stancati di frugare, registrare e raccogliere supposti indizi, noi arrestati in Catalunya siamo stati portati separatamente in diverse stazioni di polizia fuori Barcellona, con l’obiettivo di ostacolare qualsiasi gesto di solidarietà, e 48 ore più tardi siamo stati trasferiti di 600 km fino alla Audiencia Nacional a Madrid. Dopo lunghe ore di attesa nelle quali la reciproca ostilità si tagliava col coltello, 4 compagni sono stati rilasciati con altre misure cautelari e a noi 7 ci hanno messo in carcere preventivo senza cauzione con l’accusa di creazione, promozione, gestione e appartenenza a un’organizzazione terroristica, devastazione e possesso di esplosivi e ordigni incendiari.
All’inizio ci hanno portato tutti al carcere Soto del Real (Madrid) e ci hanno applicato il regime FIES 3, riservato ai reati di banda armata. A tutta la nostra corrispondenza viene applicata la censura e anche se non abbiamo alcun limite per il numero di lettere che riceviamo, ne possiamo inviare solo 2 a settimana. Il nostro arresto e la nostra detenzione si inquadrano nell’ “Operazione Pandora” orchestrata dalla Audiencia Nacional e dai Mossos d’Esquadra, contro un’organizzazione terroristica fittizia a cui attribuiscono la responsabilità di azioni che a noi sono ancora sconosciute.
Quest’ultimo colpo repressivo lo percepiamo come un attacco alle idee e alle pratiche anarchiche, in un momento in cui lo Stato ha bisogno di nemici interni per giustificare una serie di misure sempre più oppressive e coercitive per rafforzare le attuali forme di totalitarismo. Con il discorso della crisi e dell’insicurezza come sfondo, abbiamo assistito all’intensificazione del controllo delle frontiere, delle retate razziste, degli sfratti, della violenza etero-patriarcale e dello sfruttamento del lavoro e di un lungo eccetera che si traduce in condizioni sempre più infelici per la maggior parte della gente.
Queste pareti fredde dove oggi siamo rinchiusi hanno nascosto i sorrisi che si disegnano sui nostri volti quando veniamo a sapere che familiari, amici e compagni hanno trascorso ore e ore di fronte alle questure e alla Audiencia Nacional, prendendosi cura di noi nonostante il freddo e la distanza. Allo stesso modo, ci riempie di gioia sapere che c’è stata una grande manifestazione solidale e combattiva a Barcellona e anche altrove, gesti che ci colmano di forza e di coraggio per affrontare nel modo più dignitoso questa situazione.
Mandiamo un saluto sempre combattivo, sempre fraterno a Francisco Solar, Monica Caballero, Gabriel Pombo Da Silva e a tutti gli e le indomabili che oltre i confini imposti e nonostante la prigionia, l’oppressione e le difficoltà, non abbassano la testa e continuano a scommettere sulla lotta.
Il nostro cuore è con voi. Ora e sempre morte allo Stato e viva l’Anarchia.
Alcune anarchiche sotto rappresaglia dall’Operazione Pandora,Madrid, fine 2014


RETATA DI AVVOCATI BASCHI, SEDICI ARRESTI PER TERRORISMO
Lo Stato Spagnolo non ha mai avuto bisogno di qualche “11 settembre” – anche se certo, le Torri Gemelle e poi la strage alla stazione di Atocha e ora il massacro di Charlie Hebdo hanno fornito un sostanziale aiuto – per portare avanti una “lotta contro il terrorismo” che in realtà è un giro di vite continuo e inesorabile, contro i più elementari diritti politici e civili dei propri cittadini. Lotta armata o tregua, scontro frontale o negoziato non ha mai fatto alcuna differenza per le istituzioni ereditate dal franchismo. Che l’ETA sia da più di cinque anni inattiva e sul punto di consegnare le armi – manca un ok da parte di Madrid che evidentemente è il governo spagnolo a non voler dare per non perdere un succulente argomento, la “lotta al terrorismo” appunto – non sembra avere alcuna importanza per Mariano Rajoy e i suoi giudici.
Che stamattina, a poche ore dalla grande manifestazione che a Bilbao ha visto scendere in piazza circa 80 mila persone in una marcia che chiedeva, per l’ennesima volta, il rispetto dei diritti dei prigionieri politici – il rimpatrio, la scarcerazione di quelli gravemente malati e di quelli che hanno scontato i tre quarti della pena – hanno ordinato alla Guardia Civil di scatenare una maxioperazione che ha portato all’arresto di almeno sedici persone legate al movimento indipendentista e alle organizzazioni per i diritti umani. Pericolosi terroristi? Macchè, avvocati. Avvocati baschi però, e quindi per le istituzioni spagnole un po’ terroristi come in fondo in fondo lo sono tutti i loro concittadini. L’accusa nei confronti degli arrestati è proprio “appartenenza a organizzazione terrorista”. E poi i giudici hanno aggiunto anche le accuse di “riciclaggio di capitali” e altri reati di natura fiscale.
In certi contesti non serve neanche essere islamici per finire nel mirino di uno stato e dei suoi apparati repressivi.
Stamattina all’alba centinaia di poliziotti hanno letteralmente assaltato decine di abitazioni private e studi legali in diverse città basche (questi ultimi a Iruñea, Hernani e Bilbao) e si sono portati via sedici persone. Tra queste dodici avvocati attivi nella difesa dei militanti della sinistra indipendentista e quattro “tesorieri". Tra coloro che sono finiti in manette, secondo la stampa progressista basca, ci sono Arantxa Aparicio, Aiert Larrarte, Onintza Ostolaza, Ainhoa Baglieto, Atxarte Salvador, Kepa Manzisidor, Jaione Karrera, Ane Ituño, Amaia Izko, Haizea Ziluaga, Eukene Jauregi e Alfontso Zenon. Tanto per capire dove va lo stato di diritto europeo, al quale quello spagnolo potrà offrire sicuramente utili suggerimenti “post Charlie Hebdo”, da notare che Izko (che è anche una delle portavoci del partito di sinistra Sortu), Jauregi e Ziluaga sono stati arrestati a Madrid dove si trovavano per difendere 35 militanti baschi che a partire da oggi dovevano essere processati dall’Audiencia Nacional. Il passaggio a fine anni '70 dalla dictadura alla dictablanda è stato così indolore che il Tribunal de Orden Publico inventato da Francisco Franco non ha dovuto neanche cambiato il suo indirizzo. I 35 sotto accusa - il processo è stato sospeso vista l’assurda situazione determinata dalla maxiretata - sono tutti dirigenti politici ed ex eletti di Batasuna, del Partito Comunista delle Terre Basche e di Azione Nazionalista Basca, anche loro naturalmente accusati di “appartenenza a organizzazione terrorista".
Mentre scriviamo è arrivata anche la notizia che gli agenti con i passamontagna hanno anche perquisito la sede di Bilbao del sindacato Lab e da fonti di stampa si apprende che nel mirino della maxioperazione c’è anche Iñaki Goioaga, che però gli agenti non hanno potuto - ancora - arrestare in virtù dell’immunità che gli concede la sua condizione di senatore del Regno.
Dura la denuncia del parlamentare della sinistra basca al parlamento regionale di Gasteiz, e avvocato, Julen Arzuaga, che su Twitter ha scritto: “è una risposta miserabile alle richieste di rispetto dei diritti umani e alle ansie di libertà del nostro popolo”.
13 gennaio 2015, da contropiano.org


Lettera dal carcere di Caltanissetta
Salute a tutte/i! Mi è arrivato tutto. La vostra cartolina solidale con l’opuscolo…
Se l’ardente desiderio è quello di ridurre in macerie le galere, allora sappiamo che dar voce al dialogo delle azioni da entrambi i lati del muro è una necessità impellente per iniziare a ottenere dei risultati. Presumo che il “Coordinamento dei detenuti”, se ancora non si è fatto sentire, sarà perché non c’è più nessuno intenzionato a coordinarsi per rilanciare un’altra mobilitazione e i motivi sono sicuramente molteplici. Chi legge l’opuscolo da dentro, potrebbe darmi una smentita o una sua opinione in merito e lo invito a farlo, malgrado non nutra nessuna speranza a riguardo.
“Il problema” è trovare il modo di combattere il ristagno. Ma se ci rendiamo conto che solo andando alla radice dei problemi è possibile concretizzare un percorso stravolgente, è il motivo per cui non lo si fa che diventa una scelta non coerente rispetto alle nostre aspettative. Anche i sussulti di rivolta che ogni tanto avvengono in alcune sezioni brutalizzanti sono delle “scelte” su cui ci si ferma fin dall’inizio sulla pratica distruttrice e non si prosegue in una rivolta “vera e propria”. Non tanto per l’ennesima causa scatenante che ne determina la “spontaneità”, o perché ci si imbroglia in mediazioni e compromessi atti a stroncarla, o alla violenta repressione delle guardie ecc., ma perché si sceglie di non organizzarla prima. Si preferisce non cospirare per indicare quale sarà il miglior metodo organizzativo da porre in essere. Parlo di rivolta, quando in questo carcere non “osano” nemmeno fare una battitura per noi che siamo legalmente ridotti a bestie! Una scelta ignobile.
La mia situazione continua ad essere la stessa, con i cambi cella ogni 30 giorni e tutto il resto. Riguardo al processo in video conferenza che dovevo avere, non mi è arrivata nessuna motivazione giuridica che mi informasse della nullità della video/infamità, nessun atto giuridico in cui venga fissata la data del rinvio. Allora ho fatto un’istanza direttamente al cancelliere, pretendendo di sapere che fine ha fatto il procedimento penale contro di me. Dopo circa un mese mi risponde il cancelliere con un foglio che non ha nessuna rilevanza giudiziaria in cui mi informa che il processo è stato rinviato al 15 febbraio davanti ad un altro giudice. Non scrive una virgola di più! Quindi ancora non mi hanno scritto se posso presenziare o meno, continuando nel loro progetto di impedire che quella lotta per cui tanto vorrebbero cercare a loro modo di processarmi venga in qualsiasi modo deflessa.
Il carcere di Buoncammino (Cagliari), da dove “provengo”, è stato finalmente chiuso in concomitanza con l’apertura del nuovo carcere di Uta, dove i detenuti sono stati trasferiti. Questa nuova struttura ha come imperativo l’isolamento tra i detenuti e la differenziazione, il controllo e la gestione elettronica e capillare. Appena avrò una descrizione più approfondita, lo farò sapere.
Per ora un forte abbraccio a tutti quelli che non si piegano! A fogu sa presoni!

Caltanissetta, 7 dicembre 2014
Davide Delogu, Via Messina, 94 93100 Caltanissetta

Da un articolo dell’Unione Sarda di fine novembre 2014, che ci ha allegato il compagno, prendiamo le seguenti note sulla chiusura del carcere di Buoncammino: sono stati trasferiti 340 prigionieri con pullman in un solo giorno verso il carcere di Uta. In precedenza erano sorte polemiche, soprattutto da parte del deputato di Unidos, Mauro Pili, che aveva denunciato che i lavori ad Uta erano indietro. Gli aveva replicato il direttore del carcere, Gianfranco Pala, dicendo che invece i lavori erano finiti. Mentre si sa che mancano ancora docce, riscaldamenti, acqua corrente, ecc. Comunque sembra che il carcere di Buoncammino sia destinato a divenire carcere minorile.


PRESIDIO ALLA SEDE DEL DAP DI ROMA
Il 28 novembre, in una trentina ci siamo incontrati davanti al palazzone di via Daga, per l’occasione accerchiato da sbirri, dove ha la sua centrale il Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), cioè chi direttamente in Italia pilota le carceri, tutte le carceri - esclusi i CIE.
Al Dap, la cui direzione è affidata a giudici e pm, sono affidati i compiti di controllo sulla gestione delle carceri svolti dai giudici di sorveglianza; insomma i controllori sono gli stessi controllati, cioè un insulto all’intelligenza. Da qui assoluzioni, sentenze offensive come quella riguardante gli assassini di Cucchi. «ASSASSINI» è stato l’urlo lanciato con le casse finalmente funzionanti in tutto il tempo del presidio (oltre 2 ore).
In particolare in questo pomeriggio ai signori nascosti dietro i vetri è stato ricordato l’assassinio di un prigioniero compiuto nel carcere di Terni nel giugno 2013 per risparmiare sicure rappresaglie a ragazzi che hanno visto tutto, che adesso sono fuori. Era successo che un uomo era stato visto dalle guardie a passare un orologio ad un amico della cella accanto con una cordicina. Le guardie oltre a riempirlo di botte lo minacciano di toglierli il lavoro (faceva il barbiere). Il ragazzo atterrito mentre ancora le celle sono aperte tenta di impiccarsi una prima volta, ma è salvato da vicini di cella. Alla chiusura delle celle ritenta il suicidio, le guardie non intervengono nonostante le urla degli altri prigionieri. In particolare due amici del ragazzo che protestano vengono portati alle celle, picchiati. Qui incontrano il compagno Maurizio (Alfieri, ora in carcere a Spoleto) che viene a conoscenza di tutto; promette loro il silenzio affinché non subiscano rappresaglie, senz’altro fino a quando non escono. Così è.
Negli interventi vengono inoltre letti i nomi delle persone morte nelle carceri, tante, comunque troppe nell’ultimo anno, indicando responsabili proprio chi siede dietro una scrivania in quel palazzone. Vengono dette funzioni e responsabilità del Dap rispetto alla quotidianità nelle carceri: dai pestaggi all’isolamento diffuso mediante il 14, all’estensione di misure quali la videoconferenza fino all’immiserimento dell’igiene, della qualità del cibo, all’applicazione della censura...
Come scritto in uno striscione e nei volantini distribuiti alle numerose persone passanti, è certissimo che: «SE LE GUARDIE SONO I RESPONSABILI DI QUESTE MORTI, IL DAP È IL MANDANTE - SOLIDARIETÀ A MAURIZIO ALFIERI».


Brevi sul DAP
Il Dap è un organo istituzionale estremamente importante al punto che il suo direttore generale viene nominato dal presidente della repubblica previa deliberazione del consiglio dei ministri e su proposta del ministro di Giustizia.
Competenza del Dap è: l'«attuazione della politica dell’ordine, della sicurezza degli istituti e del trattamento dei detenuti. Quali organi decentrati per esercitare il comando effettivo sulle carceri, in luogo degli Ispettorati Distrettuali, nel 1990 sono stati istituiti i Provveditorati, cui spetta dare attuazione ai programmi, indirizzi e direttive del Dap nelle rispettive Circoscrizioni Regionali per tenere i rapporti con gli enti locali e il Servizio Sanitario Nazionale; rapporti necessari nelle carceri alla cura della tossicodipendenza, all’insegnamento scolastico, al lavoro.
Dal DAP dipendono psicologhi, psichiatri, assistenti sociali... che agiscono nella realizzazione delle Misure di prevenzione.
Anche le guardie sono governate dal Dap, soprattutto il loro nucleo speciale, il Gom (Gruppo operativo mobile); dal 1990 le guardie sono stare rese Corpo Civile dipendente dal Ministero di Giustizia.
Il Dap , dal 1990-91, agisce assieme anche ai nuclei interforze antimafia (composti da oltre mille sbirri) DDA (Direzione Distrettuale Antimafia) e DNA (Direzione Nazionale Antimafia) i cui nomi dicono di più di mille parole riguardo al potere esercitato effettivamente. Per es., con il Dap questi apparati hanno definito intese specifiche per potere entrare nelle celle e portarsi via chi vogliono. Pratiche venute recentemente alla ribalta dopo le dichiarazioni dell’avvocato di B. Provenzano, appunto rapito dal carcere - sulla base di un «protocollo» fissato chissà quando tra Dap e Dna chiamato «Farfalla» - per essere sottoposto a interrogatorio. Il procuratore nazionale antimafia, spesso divenuto direttore generale del Dap (come Caselli), esercita funzioni di impulso nei confronti dei procuratori distrettuali, coordina le attività di indagine. Il governo Renzi nell’ottobre 2014 ha predisposto la formazione di una commissione alla quale ha affidato il compito di stilare un progetto di «riforma» dell’apparato carcerario comprendente il contenimento del «sovraffollamento». Alla testa di questa commissione è stato posto il pm Gratteri (proveniente dalla procura di Reggio Calabria) attivo da anni nella DNA, il quale ha esordito con il programma di estensione-applicazione della videoconferenza ad ogni processo.

Cenni sulla magistratura di sorveglianza
La Magistratura di Sorveglianza esiste fin dal 1931, con ruolo marginale, allora, per cui il magistrato di sorveglianza continuava ad esercitare come giudice istruttore.
Con la «riforma» del sistema carcerario del 1975 sono stati istituiti uffici autonomi del magistrato di sorveglianza, al quale è stato affidato il controllo della legalità relativamente al rispetto dei diritti dei detenuti.
I tribunali di sorveglianza vengono definiti «organi collegiali (cioè, composti gerarchicamente da più magistrati) istituiti presso ciascun distretto di corte d’appello. Compito del magistrato di sorveglianza è vigilare sull’attuazione del trattamento rieducativo... sull’esecuzione della custodia in conformità alle leggi...sulle decisioni da prendere sui reclami riguardo per es. al lavoro, all’ammissione all’art.21 (permesso di uscita dal carcere per lavoro e altro deciso dalla direzione del carcere)..sulla concessione dell’affidamento in prova... sulla trasformazione /revoca delle misura di prevenzione e sicurezza...
Sia chiaro: tutte le possibilità di uscita dal carcere vengono vagliate e decise in seguito ai rapporti dei consigli di disciplina attivati in ogni carcere da direzione, comando delle guardie, medici, psichiatra e psicologo... insomma fonti che trasformano la «rieducazione», l’uscita dal carcere a quello che è: smantellamento nel prigioniero di ogni spinta, pensiero di ribellione. Il giudice di sorveglianza è parte compresa di questa aggressione, la riveste di legalità, mette, per così dire, i fiori sulla bara.


Presidio al carcere di Spoleto (PG)
Sabato 29 novembre piovviggina, ci si trova in una ventina di compas di diverse città, compresa la vicina Perugia davanti al carcere di Spoleto.. Siamo qui per essere vicini a Maurizio trasferito da Terni dove teneva il dito puntato contro gli assassini di un ragazzo prigioniero in quel carcere (come raccontato nella cronaca sul presidio alla centrale del Dap). Il carcere non è grande, ci sono circa 500 prigionieri; non c’è il femminile.
Dapprima ci si mette su un lato da dove sentiamo risposta agli interventi, ma soprattutto ai saluti in coro, alle urla corali «Libertà», «Fuoco alle galere». Gli sbirri si sono messi su un torrione altissimo interno al carcere da dove ci riprendono alla grande. Andiamo avanti lo stesso.
Negli interventi raccontiamo del comportamento reciproco di Maurizio diretto a tenere la testa alta di fronte ai ricatti delle guardie, un atteggiamento tanto più necessario oggi proprio di fronte alla massiccia offensiva ricattatoria, eretta a sistema, per esempio, dal modo di condurre il recente pacchetto del governo chiamato «Svuotacarceri». Tanti che rientravano nei tempi previsti dal pacchetto, sono invece stati lasciati in galera per volontà contraria delle guardie, di chi le comanda e le asseconda.
In un secondo momento ci siamo spostati su di un lato che ci ha permesso di sentirci un poco più vicini ai prigionieri, soprattutto alla sezione 41bis, dove sono chiusi un centinaio di prigionieri. Sezione riconoscibile dalle bocche di lupo di ferro fissate alle finestre. Da questa posizione ci è stato possibile fare la battitura sulla cancellata e dunque comunicare più direttamente con l’interno. Da qui abbiamo anche inviato un saluto alla sezione del 41bis, dove è stato trasferito, anche lui da Terni, il compagno Roberto (Morandi) in carcere dal 2003.
Sulla strada del ritorno abbiamo lasciato scritte contro l’isolamento, il 41bis, per la solidarietà con i detenuti in lotta...


Lettere dal carcere di Spoleto (PG)
Carissime/i sorelle e fratelli, Con il presidio a Spoleto e al Dap avete scaldato il mio cuore vi amo tutti/e e i vostri cuori battono dentro il mio con eterno amore, sempre con tutti/e voi in ogni strada, piazza e in valle. Ovunque voi andrete sarò con voi, sarò sempre spalla a spalla con voi. Vi racconto le ultime novità di stamattina, dopo aver parlato con il direttore e comandante. Sarete già al corrente che mi hanno dato 55 giorni di isolamento. Nel primo consiglio di disciplina ho avuto 55 giorni di isolamento e tanti altri rapporti che avevo ancora da discutere, perché agli abusi e alle provocazioni ci sono state le mie reazioni, e come si sa, ad ogni provocazione corrisponde una reazione. Ebbene sono andato a parlare con il direttore, comandante ed educatore etc. Il colloquio si è svolto in un clima cordiale. Dopo aver detto che a me non mi sta bene che a mi hanno dato 55 giorni di isolamento e che sono pronto a prenderne 15 ogni giorno e che preferisco un 14 bis, perché sono stato lasciato senza vestiario, mi hanno vietato il passeggio, ho avuto provocazioni, abusi, etc. ed ho risposto a tutto questo. Allora, il comandante ed il direttore erano all’oscuro di tutti gli abusi; ho detto che volevo essere trasferito e che non mi interessava se il Dap mi mandava anche in Marocco, perché io quello che chiedo sono i miei diritti ad un trasferimento vicino alla mia famiglia, anche al 41 bis. Non mi serve un carcere come Bollate o un hotel. Se chiedevo quello, allora, sarebbe stata una pretesa, ma loro mi hanno detto che il Dap ha rifiutato il trasferimento, che sono incazzati per il presidio. Io ho risposto che sono felice, che amo tutti/e, le mie/i sorelle e fratelli che lottano insieme a me e quello che fa incazzare il Dap è fonte di gioia per me, perché non devono dimenticare che a mia madre paralizzata non potevano portarla ai colloqui. Con i certificati medici mi hanno rifiutato i trasferimenti e l’ho vista chiusa in una bara, non prima di scrivere, offendendo il capo del Dap Franco Ionta, che dopo 15 giorni mi mandò al 14 bis e mi fece fare nove mesi. Dopo tutto questo cosa pretendono, che io debba rispettare le regole, mentre loro violano tutti i diritti? Questo non glielo permetterò mai! Comunque alla fine il direttore ed il comandante mi hanno detto che il Dap non mi trasferirà perché a loro hanno rifiutato il trasferimento per ordine e sicurezza e che avevano deciso di sospendermi l’isolamento dopo 22 giorni; con l’articolo 80 op, mi hanno chiesto quale lavoro volessi etc. Io ho risposto di non voler niente. Alla fine mi hanno dimostrato di non avere colpe, ed è vero, così ho accettato di fare un corso di idraulica. Ci sono tanti amici che sono stati declassificati, così la direzione dopo il corso ed il trattamento possono dire al Dap di “finirla”, e trasferirmi vicino ai miei cari. Compagni/e, il mio non è un compromesso, volevo salire sul tetto dell’isolamento ed anche se fossi stato scortato, sarebbe stato facile per me, ma ho capito che la direzione non c’entra nulla in questa guerra. Così dopo tutti i consigli degli amici e di tutti quelli che qui mi vogliono bene, mi sono convinto di accettare i buoni propositi della direzione, che ho apprezzato. Posso dirvi che trovando per la prima volta onestà in questi luoghi, sono rimasto spiazzato. Non mi interessava dell’isolamento, anzi, ho il cuore spezzato perché laggiù ho lasciato amici a cui voglio bene: Luciano, Vincenzo, Salvatore, Giovanni, etc. Sono stati loro a convincermi ad accantonare le mie lotte. Non mi interessava essere senza radio, vivere solo. Le lotte per me sono fonte di vita e da lì viene energia e vitalità, ma eravamo al punto che (scherzo) anche il direttore e il comandante con la custodia sarebbero saliti sul tetto con me per protesta contro il Dap. Non posso più dire niente contro di loro, questa è la verità. Vedremo dopo la fine del corso. Se decideranno di darmi ciò che mi spetta, non darò problemi. Per ora mi metto dietro la trincea. Sanno che sono motivato dalla rabbia per tutto quello che ho subito. È superfluo dire che non ho paura di niente e di nessuno. Se rispetteranno i miei diritti allora, ci sarà l’armistizio, se no, giuro sulla tomba di mia madre, che neanche la camicia di forza mi fermerà. Amo tutti i compagni/e che mi hanno portato il loro calore. Ho saputo che avete fatto scritte in tutta Spoleto. Avete dato un po’ di colore a questo squallido luogo. Le fredde mura non fermeranno le nostre lotte. Oggi mi sento un po’ sconfitto, vi dico la verità. Ho fatto vincere il Dap, ma per ora non ho motivo di prendermela con la direzione. Questo è il motivo per cui ho accettato. Non per debolezza, questo mai. Mi hanno interrogato su Terni. Il procuratore si chiama Iannella Raffaele ma mi sono rifiutato di consegnare le testimonianze. Ho risposto che prima devono interrogare tutti detenuti e poi io non devo subire ritorsioni. Vedremo cosa decideranno. Se sarà il caso, pubblicheremo le testimonianze senza i nomi. Quando e se ci saranno le garanzie che ho chiesto, consegnerò tutto. Ma vi terrò aggiornati. Non mi arriva posta dal 12-11-2014, giorno dell’isolamento. Ora parlerò di questo con la direzione. Non accetto e non permetto che sparisca la posta o che il magistrato la blocchi quando arriva dall’esterno, se no, del corso, dell’isolamento non mi interessa niente. Ma ripeto, non posso dire niente contro la direzione. Molte cose sono cambiate. Non ho mai visto sospendere l’isolamento, anche se l’articolo 80 op. lo autorizza. Posso dire che essendo all’oscuro degli abusi il direttore ed il comandante, il loro gesto gli fa onore. I giornali parlano di danni a Spoleto per via del presidio di solidarietà. Invece non sono danni ma un motivo per attirare l’attenzione, in questo e tutti i carceri sul fatto che negli ultimi mesi siano successe tante cose come scioperi etc. Adesso il clima è più sereno e la direzione ha fatto tante concessioni che erano state tagliate in precedenza. Il confronto tra direzione e detenuti aiuta la convivenza in un clima sereno e rispettoso. Proprio quello che ci vuole in tutti i carceri, nel rispetto della dignità, con l’auspicio che questo sia un punto di partenza. Termino e vi abbraccio con eterno bene. E a proposito, vi avevo spedito una lettera piena di parolacce. Ho avvisato il “mio amico postino” di bloccare la lettera. Quello che voglio pubblicare è questo, perché ho detto che sotterro l’ascia di guerra e mantengo sempre fede a ciò che dico. Se invece dopo maggio il Dap non mi vorrà trasferire, allora già sapete… anche se ora è Natale e le feste le faccio senza la mia famiglia… questa è l’ultima volta che faccio promesse di mantenere la calma… poi il Dap scuse non avrà più e vorrà dire che le piacerà vedere pubblicate le mie testimonianze sui carceri. Al solo pensiero di passare il Natale senza vedere i miei bambini, mi viene voglia di rifiutare tutto, anche l’armistizio per l’isolamento. Al Dap dopo il corso, si incazzeranno ogni settimana per i presidi, dato che per quello del 28 hanno detto di essere “neri”… io invece incazzato nero lo sono con loro e felice dei presidi.
Siete tutti/e nel mio cuore e vi abbraccio con amore. Il cuore è caldo per il presidio e l’amore che ho per tutti voi. A testa alta sempre al vostro fianco.
Maurizio
Ps. Parlerò anche della posta che non deve più essere bloccata, sia in uscita che in entrata e che non deve sparire. Se no, interrompo ogni dialogo. Spero non ci saranno più problemi almeno su questo.

Spoleto, 2 dicembre 2014
Maurizio Alfieri

***
Ciao Valerio carissimo fratello, mi è piaciuta tanto la tua lettera, e so che le tue parole sono dette a fin di bene, Massari come la penso io, mi vietano anche di vedere la mia famiglia, allora come il samurai mi taglio il braccio ed accetto la sfida (sempre lotta). Ciao fratello T.V.B. W L’Anarchia, W le Lotte

Spoleto, 1 dicembre 2014
Maurizio Alfieri, via Maiano 10 – 06049 Spoleto (PG)

***
Vi vogliamo bene! Sono un detenuto del reparto 41, sono da pochi mesi qui a Spoleto e ho avuto la gioia di assistere con molta partecipazione emotiva alla vostra manifestazione di solidarietà e amicizia di ieri sera; siete fantastici!!!
È stato bellissimo e avete abbattuto i muri e i cancelli che principalmente esistono nella mente di un detenuto, percepivo dalla vostra arrabbiata umanità il desiderio forte di strapparci tutti da qui dentro, sono valori che credevo fossero quasi persi e repressi nel mondo libero per una categoria come la nostra, che spesso viene solo additata indiscriminatamente, senza consapevolezza che dietro a una conseguenza carceraria ci sono tanti motivi, circostanze e ingiustizie particolari, ma quanto meno di ricordarsi che ogni persona ha diritto ad una dignità fisica, morale e intellettuale, qualunque sia il suo stato! Voi l’avete colto a mio avviso, e a uno come me un po’ disilluso, avete regalato belle emozioni, un senso di rigenerazione e speranza che ho solo quando vedo i miei familiari, ovviamente arricchito da tante altre cose. Siete mitici e vorrei saperne di più su di voi visto il vostro invito ad interagire. Vi dico subito che qui al momento della vostra ottima musica, era tranquillo e nessuno ci ha detto niente! Ora concludo con forte ammirazione. Vostro amico Luigi.

30 novembre 2014
Luigi D’Alessandro, via Maiano, 10 – 06049 Spoleto (PG)


Dal processo contro Maurizio Alfieri
LASCIA O RADDoPPIA
2 gennaio 2013 – in leggero ritardo, arriva l’annuale Cinepanettone: il PM Buonocore, dopo mesi di gestazione, in collaborazione con ROS e polizia penitenziaria, annuncia trionfante di aver sventato un tentativo di evasione in elicottero dal Supercarcere di Tolmezzo, reso possibile da un secondino corrotto per portare droga all’interno del carcere (?) e “usando” (?!) i NoTAV/anarcoinsurrezionalisti che svolgevano presidi in solidarietà ai detenuti fuori dalle mura.
12 febbraio 2013 – il Tribunale del Riesame di Trieste con una sonora risata liquida l’ipotesi della tentata evasione ribaltando i ruoli: il Riesame auspica che Alfieri venga detenuto in condizioni di sicurezza «piuttosto che venire adescato e lusingato da agenti provocatori con velleità di fuga propiziate dalla rocambolesca combinazione di elicotteri e...baionette (o meglio “zitarre”)» «(visto che, per dirla senza eufemismi, nulla sarebbe neppure iniziato se gli undercover - carabinieri sotto copertura, ndr - non avessero persuaso Alfieri e le persone a lui in ipotesi vicine al di fuori del carcere a vagheggiare rocamboleschi progetti di evasione sul presupposto di poter fare affidamento sull’aiuto di “agenti corrotti”)».
Se si dovesse dar credito ai tribunali, questa grottesca storia doveva finire a tarallucci e vino, ma si sa che l’ordine va garantito e un detenuto fastidioso come Maurizio Alfieri va rimesso al suo posto. Perché Maurizio in tutti questi anni non ha mai smesso di denunciare la situazione all’interno delle patrie galere (dopo Tolmezzo c’è stato un susseguirsi infinito di trasferimenti: Saluzzo, Spoleto, Terni, Ferrara e di nuovo Spoleto).
E quindi eccoci di fronte ad una nuova puntata di questo romanzo criminale di cjase nestre (casa nostra):
13 gennaio 2015 – viene annunciato il rinvio a giudizio di Maurizio Alfieri e di suo fratello con l’accusa di concorso in spaccio di sostanze stupefacenti e porto d’armi o oggetti atti a offendere e, il solo Maurizio, anche di istigazione alla corruzione.
Nell’articolo pubblicato sul Messaggero Veneto (locale strumento di disinformazione di massa) ci si tiene a ricordare come inizialmente l’accusa prevedesse anche l’ipotesi di tentata evasione mediante l’utilizzo di, non più uno, bensì due elicotteri.
Dopo il trasferimento del fantasista PM Buonocore a Venezia e la chiusura del tribunale di Tolmezzo, la repressione quindi prosegue sotto la guida del PM udinese Raffaele Tito, non senza graziare Enrico Moro (il “secondino corrotto” a quanto ci risulta magicamente scomparso dal copione e reintegrato in servizio) e limitare ulteriormente la possibilità di lottare di Maurizio, mediante l’uso della videoconferenza che gli impedisce di essere presente fisicamente alle udienze.
Potremmo spendere qualche parola di analisi sull’utilizzo mediatico dei processi, o quello della diffusione della videoconferenza come ulteriore misura repressiva, o...
Ma preferiamo chiudere con parole semplici, le stesse che Maurizio disse durante l’unica udienza durante la quale abbiamo avuto il piacere di condividere di persona qualche breve minuto: “VIVA L’ANARCHIA!” e che muoia il Sistema...
21 gennaio 2015, Coordinamento Contro il Carcere e la Repressione - Udine


Lettera dal carcere di Rebibbia (RM)
Psichiatria e controllo sociale (in carcere)
Tranquirit, Sanax, Tavor, Halcion, En, Serenase sono solo alcuni dei tranquillanti, sedativi, ansiolitici, sonniferi che si possono trovare nel menu quotidiano di un detenuto. Terapia prescritta dallo psichiatra per alleviare la carcerazione, ma realmente abbiamo bisogno di questo? Davvero chi si trova in carcere ha più problemi rispetto a chi cerca di sopravvivere in un mondo tanto ostile?
Pensiamo a chi non riesce a trovare lavoro, a chi non riesce a pagare un mutuo e si vede togliere la casa, chi si vede costretto a vivere in scantinati non riuscendo a pagare un affitto per un’abitazione decente, chi si trova ad essere soffocato da bollette e spese varie e non riesce ad arrivare a fine mese, donne rimaste sole con bambini ad affrontare le varie avversità giornaliere perché il marito è lontano per lavoro o, ancora peggio, in carcere.
Tutte queste persone disagiate, tutte fanno uso di psicofarmaci tre volte al giorno per affrontare la giornata? Come mai un uso così importante di psicofarmaci in carcere?
Innanzi tutto andiamo ad analizzare cosa sono questi tranquillanti: sono psicofarmaci che hanno un effetto di stordimento e disinibizione, tranquillizzano, pacificano, rilassano i muscoli aiutano a convivere con problemi, paure, stress, dispiaceri, frustrazioni e irrequietezze.
Ma l’effetto concreto è tutt’altro, menefreghismo, indifferenza, limitazione della capacità critica, confusione. Questo fa si che i problemi e le conflittualità della vita non vengano riconosciute ne tantomeno affrontate.
L’uso assiduo di psicofarmaci in carcere non è altro che un controllo sociale, una manipolazione del sistema a rendere il numero più alto possibile di detenuti degli zombie, i quali non si pongono ne il problema ne creano tantomeno problemi se si trovano a vivere in condizioni disumane, se non vengono riconosciuti i propri diritti e addirittura violati.

Roma, 11.12.14
Domenico Auteritano, via Majetti, 70 – 00156 Roma


Lettera dal carcere di Vercelli
Angela, donna di 30 anni, tre bellissimi figli, un compagno che la ama e un lavoro fisso.
In un giorno la sua vita è cambiata, è stata spezzata. Una denuncia e dopo un accanimento giudiziario l’hanno catapultata in un altro mondo, strappata ai suoi figli e all’uomo che ama. Perde il lavoro. Ora Angela è sola nella sua squallida cella nella prigione di Vercelli. Continua a dirsi “Sono innocente. Perché questo? Perché a me?”.
Le compagne la consolano “Stai tranquilla, Angela, che vai a casa”. Lei si tranquillizza, ma anche questa tranquillità viene spezzata…
Viene chiamata in matricola dopo due giorni dal suo ingresso in carcere. Le viene notificata la revoca di tre anni di indulto, la sua pena ora supera i sei anni…
Un silenzio improvviso in sezione. Rimbombano solo le urla strazianti di Angela. Incredule con gli occhi pieni di lacrime ascoltiamo la sua disperazione.
Non è più consolabile, Angela è una donna e una madre distrutta dal dolore. Non se ne capacita, non se ne fa una ragione, è sconvolta, è scioccata. Le lacrime non smettono di scorrere dai suoi occhi, il suo lamento le spezza il cuore.
Angela sta pagando un reato che non ha commesso. Condannata a tre anni e mezzo, dicono che carta canta… ma la sua carta non ha cantato. Tutte le prove che la scagionano non sono neanche state prese in considerazione dai magistrati, eppure lei è innocente. Ha voluto fidarsi della “giustizia” “Io sono innocente, i giudici vedranno”. Ma i giudici hanno chiuso gli occhi e l’hanno condannata, distruggendo Angela e la sua famiglia.
Il reato che le viene contestato?? Il furto di un paio di orecchini.
Con che diritto fanno queste cose? Come può questa gente avere tanto potere tra le mani? Questi sono reati che andrebbero puniti. Troppi giudici e magistrati sbagliano sulla pelle della povera gente. Non ci posso credere che non si può fare niente per contestar loro e quegli sbirri che hanno raccolto dichiarazioni fasulle su Angela, che non hanno trovato nessun riscontro nella realtà dei fatti e hanno così condannato un innocente. Dovrebbero essere loro a pagare.
Ho scritto questa lettera perché vorrei che la storia di Angela venisse allo scoperto, perché non deve rimanere sola, deve poter sperare che la verità venga a galla, deve poter sperare di riabbracciare e crescere i suoi figli, deve poter dare un senso a questa storia senza senso.Angela io ti sono a fianco e combatterò per te e con te.

Bandita
Metà Dicembre 2014


Lettera dal carcere di Frosinone
“SVEGLIAMOCI”
Cari amici, compagni e compagne e a tutti i reclusi! È un po’ di mesi che leggo opuscolo. Prima di tutto vorrei ringraziare tutte le persone umane che lavorano in questa associazione impegnando per far sì che la nostra situazione carceraria viene sentita e condivisa da tutti. In questo luogo è un piacere avere individui pienamente disponibile con cuore a sostenerci e non possiamo non essere grati a tutte queste meravigliose persone. Sempre. Detto questo tante lettere che leggo sono molto tristi a mio punto di vista, perché sentire (vivendola anche) che in Italia l’ambiente carcerario è così disastroso da tanti aspetti umani, mi spinge a chiedere chi è quel genio, se così possiamo chiamarlo, che ha fatto la classifica del mondo cioè primo, secondo, terzo mondo? Mi incuriosisce sapere che bilancia ha usato. Non è per caso Voltaire che disse che la civiltà di un paese si misura dai suoi carceri. Essendo una persona leale che vedi le cose come sono realmente (un buddista) direi che altre lettere sono a mio avviso rigide e a senso unico vale a dire scaricare le colpe facilmente allo stato. Non voglio essere frainteso mi spiego meglio, è ovvio che i problemi carcerari o giustizia, lo stato è una macchina vergognosa con una incapacità mostruosa sulla gestione non si piove. Perciò in termini di colpe ha percentuale poco sopra la metà. Ma come possiamo girare intorno alle colpe nostre?? Noi i rinchiusi siamo anche responsabili su questo problema che chiamerei un fenomeno, a mio avviso destinato a peggiorare finché la maggior parte di noi preferisce dormire da mattina alla sera o se è sveglio deve lamentare (senza voglia di fare qualcosa) o pensare a mangiare o passare il tempo a leggere il giornale cronaca, guardare le stupidaggini processi su Pomeriggio cinque, aspettando un messia di venire da chissà dove a risolvere il fenomeno carcerario. Secondo me non funzionerà così. Tante persone la buttano sulla speranza, sperando che le cose cambino: noi buddisti diciamo che la speranza è la più potente fra tutte le forze che operano nella vita e niente e niente può abbatterla. Ma la speranza va coltivata come una pianta che cresce dentro di noi che richiede di essere bagnata e curata con impegno, facendolo diventare un mestiere o abitudine solo così possiamo vivere serenamente. Non sopporto gente che mette la loro speranza nelle mani degli altri, vale a dire aspettando altri di lottare pacificamente per loro. Capisco la poca capacità dell’incomprensione nel carcere vorrei essere più limpido su questo discorso. Come mai il nostro zio Marco Pannella su sua richiesta di firme per i referendum sulla giustizia che ha varie proposte a nostro favore (con più di quarantamila rinchiusi italiani) non ha avuto i numeri 500.000 firme necessarie per portarlo in Parlamento. Non penso che è colpa dello stato!! Recentemente con un’iniziativa che dott.ssa Ornella Favero la direttrice del carcere di Padova in prima persona insieme con i nostri compagni rinchiusi che sono membri della rivista “Ristretti orizzonti” sta portando avanti: (liberalizzate le telefonate e consentiti i colloqui riservati con i propri famigliari). Un membro di questa rivista mio (BIG BRO) grande fra Carmelo Musumeci che sta lottando pacificamente contro questa ingiustizia mi ha spedito un foglio dove è scritto nome dei carceri che ha aderito a questa iniziativa, sono rimasto stupito per il semplice motivo che in questo paese ci sono oltre duecento carceri e leggo sul foglio che non più di cinquanta carceri fino oggi hanno aderito. Vorrei pensare e credere che altre firme sono sulla strada, se non capirete il mio discorso sulla nostra aggiunta responsabilità su questo fenomeno, per dire poco. Approfitto di fare un appello chiedendo a tutti i compagni rinchiusi di sostenere questa iniziativa. Vorrei precisare che nel mio discorso non intendo puntare il dito contro nessuno se non svegliare le menti dei miei compagni facendogli capire che solo insieme potremo cambiare questa ingiustizia che è tortura mentale. Concludo salutando due miei grandi compagni Carmelo Musumeci e De Feo Pasquale che nonostante la condanna anticostituzionale che stanno scontando con umiltà non hanno mai smesso di lottare pacificamente per la giustizia, e di sperare impegnando su quella speranza, siete grandi Big Bro forza. Sosteniamo loro cari compagni e compagne. Ricordate tutti: “se vuoi arrivare prima corri da solo, se vuoi arrivare lontano corri insieme. Insieme ce la faremo. Proviamoci.

Frosinone, 24 novembre 2014
Orobor Iredia Precious, Via Cerreto, 17 - 03100 Frosinone


Iniziativa contro il carcere a Catania 14-16 novembre 2014
Dal 14 al 16 novembre si è tenuta a Catania un’iniziativa contro il carcere. Le serate di venerdì e sabato hanno visto esibirsi gruppi di artisti locali e non, il tutto benefit per Gimmi, compagno catanese recluso per i fatti del G8 di Genova 2001.
Nel pomeriggio di sabato ci sono state la presentazione di OLGa e di Croce Nera Anarchica, dalle quali si è generato uno spontaneo ed interessante dibattito, molto partecipato.
Si è parlato intorno all’efficacia delle attuali forme di lotta contro il carcere e della repressione in generale. Si è infatti discusso di come evitare alcuni rischi, sempre presenti in questo tipo di lotta, quali il come evitare di sfociare nell’assistenzialismo o nella facile idealizzazione del detenuto. Sappiamo infatti che il dentro è uno specchio del mondo esterno e spesso nelle carceri troviamo persone che, a parte rare eccezioni, sono ben lontane dal nostro sentire e dalla nostra visione delle cose.
Si è anche pensato a come uscire dalla ritualità del presidio o dell’evento pubblico convocato. I presidi e i saluti a volte non bastano, anche se indubbiamente sono sempre ben accetti, e ci si è interrogati su come fare ad andare oltre e con quali modalità per mantenersi efficaci.
Il confronto si è poi spostato sulle nostre capacità di dare continuità alla lotte più in generale, quindi non solo quella contro il carcere, e come fare per mantenerle a un livello di radicalità tali che possono sfuggire ad ogni possibile recupero riformista ma non solo.
Domenica 16 alle 16 una trentina di solidali sono partiti dall’ Auro, il posto dove si svolgevano le iniziative, in un corteo spontaneo che ha percorso le vie del centro di Catania per arrivare sotto le mura del carcere di Piazza Lanza e portare un saluto ai detenuti rinchiusi al suo interno.
Purtroppo le guardie avevano provveduto a trasferire la sezione che si trovava dirimpetto al presidio e con cui poteva comunicare ma ciò non ha impedito, dopo una fragorosa battitura, che i detenuti rispondessero con urla e fischi d’approvazione.
Da notare l ‘assenza dei parenti, alcuni ben disposti a partecipare al presidio, che sono stati intimiditi e minacciati di ritorsioni da parte delle guardie.
Dopo esser stati per tre ore circa a far sentire la nostra presenza solidale con musica, slogan e interventi al microfono si è deciso di ripartire in corteo, cosa che ha infastidito la Digos, che ha cercato in tutti i modi di bloccarci, tentativo andato in fumo.
Si è quindi ripartiti in corteo per le arterie principali di Catania, gremite della folla della domenica pomeriggio, scandendo slogan e facendo piccoli blocchi stradali.
E proprio in centro, dove apparivano scritte su muri e vetrine, si è consumato il pestaggio di un compagno da parte della Digos. La folla è rimasta stupita dalla violenza mostrata dagli sbirri, espressa anche dalle parole di una dirigente: “Non possiamo massacrarli qui davanti alla gente”.
Dopo aver prestato soccorso al compagno malmenato il corteo si è rimesso in cammino per poi sciogliersi nel luogo in cui era partito, senza che nessuno venisse fermato.


Presidio al carcere di Belluno
Il 3 gennaio 2015 si è svolto un presidio a Belluno sotto il carcere di Baldenich in solidarietà a tutti i detenuti rinchiusi lì dentro. Una ventina di compagni e compagne si sono ritrovati davanti al carcere per ricordare Mirco Sacchet, ragazzo di 27 anni morto il 26 settembre del 2010 in quel carcere, mentre stava scontando 2 anni di pena. Da allora, ogni anno a Belluno si è ricordato questo assassinio di Stato davanti al carcere. “Noi non scordiamo questa morte”, questa frase è stata ripetuta più volte. In questa occasione si è ricordata un’altra vicenda successa a Venezia sempre nel 2010, dove un detenuto rinchiuso ora a Baldenich è stato testimone di un “suicidio”, e da allora ha fatto uscire questa vicenda mettendo la propria faccia rispetto ad una denuncia che lo ha portato a subire torture e persecuzioni. Questo detenuto non ha mai chinato la testa ed al presidio si è riusciti a sentirlo ed a sapere che sta bene. Il presidio si è svolto con molti interventi raccontando il presidio al DAP a Roma in dicembre e lo sciopero della fame di Nikos Maziotis ed altri compagni in Grecia. L’attenzione su queste vicende è stata alta da parte dei detenuti. Al calar della sera i fuochi d’artificio hanno salutato i detenuti.
Alcuni compagni

Brevi dallo sciopero generale del 12 dicembre in quel di Milano
Alle 7 inizia lo sciopero a Italia Logistica (SDA di Peschiera Borromeo): 20 operai dell’azienda, sostenuti da delegazioni di TNT, Number one e DHL bloccano al 90% per tutto il giorno senza ricorrere al picchetto duro (da notare; gli unici a lavorare sono stati i 7 della CGIL tra cui tre preposti)
Sempre alle 7 inizia lo sciopero alla DHL e alla SDA di Carpiano (adesione al 100% e chiusura dell’azienda per l’intera giornata)
Alle 8 parte lo sciopero (con picchetto dei camion) di oltre 70 operai della AF di Massalengo (LO), sostenuti da delegazioni della DHL, della AF di Soresina (CR) e dal SI.Cobas di Pavia. L’azienda è costretta a convocare le parti e si avvia in tempo zero una trattativa (su malattia, ticket, scatti e maggiorazioni per il sabato).
Alle 10 comincia lo sblocco dei camion e i lavoratori abbandonano i cancelli per continuare lo sciopero nello stabilimento di Soresina, dove lo sciopero inizia alle 12, ricompattando tutti gli operai del Cobas (una sessantina) e segnando l’unificazione della vertenza che si svilupperà nei prossimi giorni
Ore 14: inizia lo sciopero con blocco dei mezzi alla TNT di peschiera: i 60 operai del Cobas, dopo le provocazioni messe in atto dalla sicurezza TNT che ha provocato una mezza rissa con gli autisti, decidono il blocco totale che continuerà, senza ulteriori incidenti, fino alle 19. L’interminabile fila di camion che stazionano davanti all’hub internazionale della TNT (unico in Europa) è il segno che, anche questa volta, lo sciopero ha inciso e avrà strascichi, come in DHL e SDA, dove i lavoratori hanno rifiutato di prestare straordinario “a recupero", nelle giornate di sabato e domenica
Ore 15: operai della DHL e SDA di Carpiano, i licenziati della Dielle, delegati di Number one e DHl Settala, solidali della latteria occupata, si radunano davanti ai cancelli della filiale milanese DHL di via Rubattino. Per tre ore non entrano i corrieri deputati a rifornire i TIR che stazionano nel piazzale interno. L’azione dimostrativa, oltre che a testimoniare l’adesione allo sciopero generale contro il “Job act” di Renzi, aveva l’obiettivo di allargare la vertenza e, in particolare, di coinvolgere i corrieri, sull’onda delle conquiste strappate a Bergamo e Brescia di recente. Il blocco termina alle ore 17
Complessivamente si è fatto un ulteriore passo avanti (soprattutto in AF) nella direzione di unificare le lotte e radicare ulteriormente la pratica dello sciopero con picchetto
in vista di prossimi passaggi che, fin dall’inizio del 2015, vedranno l’intera categoria alle prese con il rinnovo del CCNL e con la necessità di rintuzzare gli effetti dell’accordo Fedit (siglato coi vertici Confederali dalle principali aziende del settore)

Dal fronte NO-Expo
Questa mattina siamo entrati in corteo all’interno del cantiere di Expo. Abbiamo deciso di minare l’inviolabilità del cantiere oggi perché, gli stessi sindacati firmatari dei contratti di Expo 2015, hanno convocato oggi uno sciopero generale allo scopo di tutelare i lavoratori dalla stessa precarietà di cui si sono resi complici a Milano.
Scioperiamo Expo, e ci perdonerete l’uso disinvolto della forma transitiva, perché:
Perché è un dispositivo di governo del territorio pericoloso, il cui paradigma di lavoro precario e la logica commissariale sono recepiti dal governo rispettivamente nel JobsAct e nello SbloccaItalia
Perché la pratica dell’astensione dal lavoro è condizione necessaria non sufficiente a praticare un blocco significativo delle trasformazioni presenti, perché lottiamo non solo contro il grande-evento ma contro il modello che esso rappresenta. Expo è una chiave di lettura delle trasformazioni presenti, parla della Milano di oggi e del paese che verrà
Perché è una matrice di debito pubblico, cemento e grandi opere inutili, mafie e corruzione, precarietà e lavoro volontario
Perché inceppare l’esposizione, denunciarne il sistema di spartizione legale e illegale, svelarne la strategia, è funzionale a trasformare l’osservatorio costruito in questi anni, in un laboratorio di nuovo protagonismo collettivo
Ciascuno con i propri mezzi, linguaggi e compagni di strada, vogliamo inceppare quest’ipoteca sul nostro diritto alla città ... ostinati a costruirci una vita degna oltre e senza expo 2015.
I compagni e le compagne della rete Attitudine NoExpo
12 dicembre 2014


Sciopero al Caat di Torino
Nella notte del 21-22 dicembre 2014 sciopero al Caat (Consorzio agro-alimentare di Torino) per il “Contratto unico per tutti I lavoratori del Caat”, come dice lo striscione steso nel piazzale di ingresso e d’uscita di camion di ogni dimensione.
Contratto unico per mettere fine alle prepotenze di ogni sorta adoperate dalle numerose “cooperative” (sono 32), che ogni notte-giorno spremono lavoro a oltre cinquecento operai-e in stragrande parte immigrate-i. Truffano, sfruttano, ad esempio, portando l’orario di lavoro di otto ore, stabilito a voce, anche fino a 18 ore effettive - in generale il monte ore mensile supera le 350; ed ancora, il salario promesso di 8 euro l’ora viene sistematicamente ridotto a 6, anche meno, euro l’ora.
Per tenere in piedi questo sistema le cooperative, il Caat che le coccola, adoperano ogni mezzo: sono persino arrivate a pagare operai affinché provochino risse includenti gli operai impegnati a dar vita al sindacato, a costruire una coscienza per la lotta effettiva.
Nel maggio scorso è esploso uno sciopero potente, improvviso, proprio in risposta alla direzione che aveva inventata una sporca manovra per licenziare 5 operai trainanti. La fermezza e la chiarezza di quella notte sono scomparse sotto i colpi della direzione Caat coordinata con polizia, finanza, carabinieri.
Ciò lo si è chiaramente verificato nello sciopero di fine ottobre fortemente ostacolato dalla massiccio dispiegamento di sbirreria. Questa si presentò nei giorni successivi allo sciopero sulle portinerie per dare caccia al “clandestino”, ed in effetti chi venne trovato senza permesso di soggiorno venne gettato nel CIE.
Questa situazione unita allo scopo generico dello sciopero: fissare per iscritto l’avvio della trattativa riguardo a salario e orario non muove la totalità degli operai. Ed inoltre, fra il centinaio di operai che verso l’una inizia il blocco delle portinerie non c’è unità. La maggioranza è favorevole a restare in strada per imporre non tanto l’avvio di una trattativa ma piuttosto la conquista di un contratto unico per dare una bella svolta ai rapporti di forza. Così, quando verso le 4,30 viene raggiunto un flebile accordo I pochi operai e compagne/i solidali rimasti a bloccare gli ingressi vengono letteralmente spostati dai camion in movimento, dai “figliocci” delle coop più che mai, loro, baldanzosi, euforici. Una notte che va, lasciando però dietro di sé importanti interrogativi su cui riflettere.


DALL’ASSEMBLEA SU CARCERE E DINTORNI DEL 13/12 A BOLOGNA
All’assemblea erano presenti circa 60 compagni/e di varie città (Cuneo, Torino, Milano, Monza, Udine, Firenze, Roma, Padova, Parma, Modena e ovviamente Bologna).
A partire dalle relazioni preparate su alcuni dei temi indicati nella convocazione dell’incontro (estensione della videoconferenza e della sorveglianza speciale, sui processi in corso al movimento No Tav e per il 15 ottobre 2011 a Roma, analisi delle recenti leggi sul “sovraffollamento carcerario”, una panoramica sulle recenti lotte nelle carceri, trasformazioni predisposte per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari – OPG) si è sviluppato un ricco dibattito di cui riportiamo di seguito una sintesi, senza ripetere le considerazioni contenute negli scritti introduttivi allegati in fondo al presente testo.

L’estensione del processo in videoconferenza, da tempo auspicato a vari livelli delle istituzioni e in modo trasversale ai partiti, è una tendenza reale, già oggi operante anche se in modo discontinuo. Oltre alle ovvie ragioni di economicità per lo stato la videoconferenza risponde alla volontà di impedire all’imputato/a di condurre un processo di rottura o comunque conflittuale e di utilizzare il momento processuale come occasione di socializzazione con gli altri coimputati e con il pubblico. Più in generale ciò si inquadra in una tendenziale privatizzazione del processo mediante la quale si opera un drastico restringimento dei margini di difesa legale come pure il tentativo di isolare ancora di più quegli imputati in stato di detenzione speciale nel regime del 41 bis o nei circuiti di Alta Sicurezza. Non c’é ragione dunque da parte dell’imputato/a di avvallare questo meccanismo partecipando al processo a distanza mentre, viceversa, questi processi devono essere contrastati con iniziative “da fuori”, sia all’interno che all’esterno dell’aula.
L’estensione dell’applicazione del processo in videoconferenza è inoltre espressione dell’estensione e dell’approfondimento dei dispositivi propri dello stato di eccezione, in particolare del 41 bis (pensiamo anche alle nuove carceri in Sardegna perlopiù destinate alla detenzione speciale), che quindi da straordinari, nel tempo, si consolidano fino a diventare strumenti ordinari, validi per tutti. In questo senso va contrastato il tentativo di ridurre il numero dei libri a un massimo di tre da poter tenere nelle celle a 41 bis, reperibili esclusivamente dagli elenchi forniti dall’amministrazione penitenziaria (vedi opuscolo n.69, 73). A tal riguardo un paio di mesi addietro è stata emessa una nuova disposizione del DAP che stabilisce questa limitazione per tutti i detenuti in 41 bis nel tentativo di annullare alcuni reclami accolti dalla magistratura di sorveglianza (e che comunque avevano valore individuale).
La richiesta di applicazione della sorveglianza speciale ad alcuni compagni di Torino attivi in diverse lotte e per questo recentemente arrestati si inserisce nel quadro più generale di ridefinizione dei circuiti di Media Sicurezza e delle misure alternative al carcere ovvero nella generalizzazione di forme di controllo e soprattutto coercitive, più economiche per lo stato rispetto alla detenzione, che non mirano a diminuire in modo significativo la popolazione detenuta ma si andranno a sommare ad essa. Ciò comporta dunque un’estensione delle misure di privazione delle libertà individuali e un approfondimento della differenziazione dei dispositivi penali cui corrisponde un maggior grado di individualizzazione del “trattamento”, di desolidarizzazione e di sfruttamento laddove è previsto il lavoro gratuito come forme di espiazione della pena.
In tale ottica va inquadrato il processo di chiusura degli OPG e la nascita delle Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza sanitaria (REMS) che lungi dal rappresentare un indebolimento della detenzione senza fine e della non-scienza psichiatrica, ne rappresenta invece la continuazione in chiave attuale cioè calibrata su modelli detentivi improntati sulla esternalizzazione e sulla privatizzazione, come avvenuto per i CIE. Guardando da questa prospettiva, si intravede un sistema detentivo maggiormente articolato e complesso in cui i concetti quantomai arbitrari di “malattia mentale” e di “pericolosità sociale” tenderanno ad assumere sempre maggiore rilievo, avvallati da valutazioni pseudo mediche incontrastabili, al fine di disporre di strumenti coercitivi flessibili (proroghe della detenzione oltre il limite stabilito, somministrazione di psicofarmaci) e sganciati dalle vigenti normative, pure arbitrarie ma più vincolanti. Un quadro tutt’altro che fantasioso se raffrontato all’importanza acquisita dalla psichiatria penale in Svizzera e all’enorme ricorso di psicofarmaci nelle carceri nostrane.
La recente legislazione in tema di “riduzione del sovraffollamento carcerario” opera nel senso poc’anzi indicato. Il rafforzamento dei dispositivi premiali (fra tutti l’aumento da 45 a 75 del numero di giorni di “liberazioni anticipata” per “buona condotta”) e del loro carattere discrezionale (garantito affidando ogni decisione alla magistratura di sorveglianza) ha approfondito i dispositivi trattamentali individualizzanti fondati sul ricatto del premio/punizione. Così a fronte di una riduzione minima della popolazione detenuta, che ha ottenuto il plauso della Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), le condizioni di vita all’interno delle carceri restano pressoché immutate con annessi trasferimenti punitivi, ricorso al 14 bis, pestaggi.

Occorre inoltre contribuire a sviluppare quegli organismi di difesa legale composti da avvocati/e già impegnati su questo fronte di lotta anche per elaborare insieme delle sintesi politiche circa le linee guida della più generale “riforma della giustizia” (in parte esposte nelle relazioni delle commissioni ministeriali sulla ragionevole durate del processo penale, sui riti alternativi e sul sistema delle impugnazioni nel processo penale, sulla prescrizione e depenalizzazione, sull’ordinamento penitenziario, sul sistema sanzionatorio e da ultima quella della commissione presieduta da Gratteri).
In conclusione, un maggiore coordinamento dell’attività sviluppata dai gruppi, dai collettivi e dalle individualità impegnate nella lotta contro il carcere e la repressione può acquisire maggiore concretezza cercando di collocare questa lotta all’interno di un quadro più generale. Anzitutto cercando di fare di ogni singola battaglia un’occasione di lotta più generale, che sia espressione delle diverse, ma collegate, istanze specifiche, cioè capace di restituire un senso più complessivo e di prospettiva alla lotta. In quest’ottica l’assemblea ha recepito e assunto queste prime scadenze di mobilitazione che sono state espresse e che di seguito riportiamo.

15 gennaio: udienza a Roma del processo per i fatti del 15 ottobre 2011
17 gennaio: manifestazione a Roma sui processi in corso per i fatti del 15 ottobre 2011 e contro il movimento No Tav
20 gennaio: udienza del “processone” contro il movimento No Tav a Torino
15 febbraio: Cagliari, udienza del processo al prigioniero Davide Delogu
26 febbraio: processo contro la sorveglianza speciale a Torino
28 febbraio: assemblea sulla tortura a Firenze
28 marzo: manifestazione sotto l’OPG di Reggio Emilia

È stato anche brevemente accennato all’assemblea nazionale contro la repressione e per l’abrogazione del codice Rocco in programma per il 20 dicembre a Teramo.
Milano, 26 dicembre 2014

Abbiamo raccolto i vari contributi presentati nella giornata in un apposito opuscolo, chi fosse interessato a riceverlo non esiti a richiedercelo.
Dai processi contro i no tav per terrorismo
Lo scorso 9 dicembre i due pm con l’elmetto Padalino e Rinaudo hanno fatto recapitare a Graziano, Francesco e Lucio un nuovo mandato di cattura sempre per l’attacco avvenuto il 12 maggio 2012 al cantiere Tav a Chiomonte. In questo nuovo mandato di cattura venivano contestate, in aggiunta a quelle che già li avevano portati in carcere l’11 luglio, le accuse di attentato con finalità di terrorismo (art. 280 e 280 bis) ovvero le stesse accuse formulate contro Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò e che erano già state demolite dalla Cassazione.
A seguito di queste nuove accuse sono stati tutti e tre trasferiti nella sezione AS2 del carcere di Ferrara con il divieto di incontro con tutti gli altri prigionieri.
Il 17 dicembre è stata emessa nell’aula bunker del carcere di Torino la sentenza per Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò che li vede condannati a 3 anni e sei mesi più 5mila euro di multa per i reati di detenzione di armi da guerra, danneggiamento seguito da incendio e violenza a pubblico ufficiale. Sono stati invece assolti, perché il reato non sussiste, dal reato di terrorismo.
Alla vigilia di Natale i 4 anarchici sono stati trasferiti, dopo un anno di carcerazione, agli arresti domiciliari con tutte le restrizioni.
Il 29 dicembre il Tribunale del riesame ha invece annullato l’accusa di terrorismo per Gaziano, Francesco e Lucio che però rimangono in carcere per le altre accuse. Per loro tre i pm hanno chiesto il rito immediato, rinunciando quindi a ricorrere in Cassazione per le accuse di terrorismo.
Per scrivergli: Graziano Mazzarelli, Francesco Sala, Lucio Alberti, Via dell’Arginone n.327, 44122 Ferrara
Ancora sabotaggi contro la linea del TAV
Non si sono arrestati i sabotaggi contro il TAV. Agli inizi di dicembre una bottiglia contenente due litri di benzina viene trovata sulla base di una gru nel cantiere Tav di Campo di Marte a Firenze. Il mezzo non riporta alcun danno per il mancato funzionamento dell’innesco.
Il 14 dicembre alla stazione Ostiense di Roma un gruppone di solidali blocca un treno ad alta velocità Italo diretto a Torino, che è costretto a partire con un po’ di ritardo e diverse scritte sui vagoni.
Il 16 dicembre a Vercelli un gruppo di solidali blocca il Tgv proveniente da Parigi e diretto a Venezia, stendendo una catena sui binari e quindi riempiendo di scritte il primo vagone. Il Tgv bloccato ha subìto un ritardo di un’ora e mezza.
Il 21 dicembre una bottiglia incendiaria danneggia una centralina elettrica al lato dei binari nel comune di Bagno a Ripoli, nei pressi di Firenze. Ritardi per oltre un’ora e disagi sino al pomeriggio.
Il 23 dicembre a causa di un sabotaggio ai cavi del sistema di gestione e controllo del traffico (incendiati in quattro diversi pozzetti vicino alla stazione Santa Viola a Bologna) si registrano forti ritardi sulla linea ferroviaria ad Alta Velocità tra Milano, Bologna e Roma.
In particolare le azioni di Firenze e Bologna originano una serie di prese di posizioni “contro il terrorismo” da parte dei soliti SiTav ma anche da parte di alcuni No Tav dimentichi probabilmente del fatto che le linee ferroviarie erano obiettivo piuttosto costante dei Partigiani.
A Bologna indaga la Digos che nella stessa mattinata del sabotaggio effettua perquisizioni urgenti (41 Tulps) nelle case di quattro compagni, senza però trovare niente di interessante.

FERMARLI È POSSIBILE… CORTEO POPOLARE NO TAV A ROMA!!!
Durante questo inverno si svolge una fase importante della sfida repressiva che la Procura di Torino ha lanciato ormai da tempo al movimento No Tav: il 17 dicembre c’è stata l’assoluzione di Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò per quanto riguarda la pazzesca accusa di terrorismo, ma sono comunque arrivate condanne a 3 anni e 7 mesi per il danneggiamento del famoso compressore. Ma non finisce qui: a gennaio ci sarà la sentenza di primo grado per un altro processo cruciale, quello per le grandi giornate di resistenza popolare del 27 giugno e 3 luglio 2011, in cui la Libera Repubblica della Maddalena tentò di resistere all’installazione del cantiere-mostro in Val Clarea. Questo processo, nel quale i pm di Torino hanno fatto richieste di condanna che vanno fino ai 6 anni, vede coinvolte 53 persone di tutta Italia, Roma compresa, che in quei giorni andarono a dare supporto alla popolazione valsusina riconoscendo in quella resistenza un patrimonio collettivo, che appartiene a chiunque rifiuti un mondo devastato da speculazioni e profitti. Nello stesso periodo arriverà a sentenza di primo grado anche il processo per i fatti del 15 ottobre 2011 a Roma, con pesantissime accuse di devastazione e saccheggio.
In un periodo così delicato, in cui si vorrebbero rinchiudere le ragioni del movimento nelle aule di tribunale, pensiamo sia invece fondamentale tornare nelle strade, in questo caso nelle strade di Roma, una città che spesso ha dato un contributo importante alla lotta No Tav: pensiamo alle centinaia, forse migliaia di persone che proprio nelle giornate di giugno e luglio 2011 si mossero per raggiungere Chiomonte e Giaglione; pensiamo all’enorme corteo che riempì le strade di Roma quando la polizia aggredì Luca mettendo a rischio la sua vita; pensiamo alle tantissime iniziative di solidarietà, grandi e piccole, che negli anni si sono fatte e si continuano a fare in numerosi spazi sociali della città.
Ma un corteo No Tav nella città di Roma assume per forza di cose una molteplicità di significati: alla base di tutto non può che esserci la totale solidarietà verso gli imputati di questi processi, che altro non è che la solidarietà verso chi si organizza e lotta, in ogni angolo d’Italia e del mondo, contro la prepotenza di governanti, affaristi e speculatori, in qualunque modo essa si manifesti. E così lottare contro il Tav in Valsusa non è diverso dal lottare contro gli sfratti o i distacchi delle utenze nel proprio quartiere, dallo scioperare sul posto di lavoro contro la prepotenza del padrone, dall’opporsi all’avvelenamento del proprio territorio, dall’organizzarsi dentro scuole e università perché il sapere non sia solo un’arma usata contro di noi.
Il sistema delle Grandi Opere, come rivela anche la vicenda dell’Expo di Milano, non è nient’altro che una gigantesca mangiatoia di soldi pubblici per i grandi gruppi imprenditoriali italiani, e ovviamente per i politici nazionali e locali che ne intascano la loro parte. Poco importa se ciò avvenga in modo “legale” o meno, ciò che conta è che risorse che appartengono alla collettività vengono depredate sempre da quegli stessi signori che poi ci raccontano che, per qualsiasi opera di pubblica utilità, “non ci sono i soldi”. E così, a ogni pioggia forte qualcuno muore annegato, migliaia di adolescenti rischiano di vedersi crollare addosso il tetto della scuola, e la lista potrebbe allungarsi all’infinito.
Proprio Roma è ultimamente al centro di inchieste e polemiche per la gestione “mafiosa” di appalti e cooperative, con l’attiva partecipazione delle istituzioni. Ed allora l’esempio della lotta contro il Tav in Valsusa, opera in cui è palese l’intreccio tra politica, affari e criminalità, è quanto c’è di più prezioso anche in questa città, perché indica un percorso possibile per superare passività e rassegnazione: non è certo aspettando che la magistratura indaghi che possiamo sperare di ottenere dei risultati, ma piuttosto è organizzandosi e lottando ogni giorno al fianco di chi vive la nostra stessa condizione che possiamo far tremare, e perché no sconfiggere, anche giganti apparentemente invincibili.
Per tutti questi motivi, e molti altri ancora, manifestare contro il Tav vuol dire manifestare contro un intero sistema. Lo faremo con un corteo popolare, attraversabile da persone di ogni età e di ogni sensibilità, sabato 17 gennaio, ore 15, piazzale Tiburtino (San Lorenzo). Invitiamo anche a partecipare ad un’assemblea di preparazione il 9 gennaio alle 17 al Forte Prenestino.
LIBERTÀ PER CHI LOTTA CONTRO QUESTO SISTEMA DEVASTANTE! IL TAV IN VALSUSA NON SI FARÀ MAI! ORGANIZZIAMOCI IN OGNI TERRITORIO CONTRO SFRUTTAMENTO E SPECULAZIONE!
***
breve resoconto
La presenza di tanti collettivi diversi, per esempio, di case occupate, di donne, di immigrate/i, di compagn* che seguono processi come quello contro la giornata di battaglia del 15 ottobre 2011 a Roma, di No Tav arrivat* direttamente dalla Valsusa, ha caratterizzato la manifestazione. Questa tensione ad unirsi nella lotta è il fine come scritto in volantini diffusi:
“Con il rinvio a giudizio del 4 aprile 2013, 18 persone sono sotto processo accusate del reato di devastazione e saccheggio in seguito alla manifestazione del 15 ottobre a Roma… Da allora un importante percorso di lotta e solidarietà sta attraversando la città di Roma e tante altre città d’Italia”.
In un altro si spiega bene che: “Essere complici e solidali con la lotta NO TAV, con gli/le imputat* che la repressione tenta invano di schiacciare, con la mobilitazione contro gli sfratti e contro la logica delle grandi opere e dei grandi eventi, significa creare una resistenza collettiva e quotidiana…”
Considerazioni vive nei numerosi striscioni e urlate nei cori, per esempio:
“Fermarli è possibile: Sfratti – Devastazioni Ambientali – Sgomberi – Grandi opere”. “NO TAV – 15 Ottobre che nessun* resti Sol*”. “La Valle non si arresta”.
È questo lo slancio che ha portato il corteo, composto da oltre 1000 persone, in gran parte giovani, a percorrere per oltre 3 ore le strade che a partire da una piazza nei pressi della stazione Termini attraversano diversi quartieri (Pigneto, Villa Gordiani… per terminare a Centocelle) dove la lotta contro l’espulsione per far posto a famiglie borghesi è più che mai reale. Una realtà chiarita dalla presenza sui balconi, alle finestre di persone aggredite dalla questione abitativa, invitate dal corteo a scendere: “Tu che stai lassù vieni a protestare giù”.
Nell’attraversamento di questi luoghi il corteo è passato accanto a officine, parchi per la manutenzione di treni alta velocità, per l’occasione presidiati da polizia e carabinieri, lì si è fermato per lanciare i suoi messaggi, scriverli sui muri, uniti ai cori e ai petardoni.
L’atmosfera insomma vissuta in quelle ore è senz’altro di buon auspicio per affrontare situazioni importanti che ci si troverà ad affrontare nei prossimi mesi, dagli scioperi, agli sfratti fino all’Expo a Milano, alla TAV in Val di Susa…


BANDITI DA SARONNO: sorvegliare è punire
Il Questore di Varese, Francesco Messina, ha proposto la sorveglianza speciale nei confronti di un ragazzo di Saronno.
La sorveglianza speciale di pubblica sicurezza è una misura preventiva molto afflittiva – pensata in periodo fascista per colpire soggetti sospettati di vivere dei proventi di una attività criminale – adottata qui per motivi di "pericolosità sociale" in un contesto di conflittualità sociale; la sorveglianza mira a distruggere i rapporti sociali di un individuo impedendone ad esempio i contatti con altri amici e compagni, la partecipazione ad iniziative pubbliche o obbligandolo alla dimora in un luogo: l'intento è di cambiarne la condotta. Questa restrizione è solo l'ennesimo tentativo repressivo nel contesto saronnese e il messaggio sembra piuttosto chiaro: intimidire chi quotidianamente partecipa alle lotte a Saronno, in provincia e nel resto d'Italia.
Far passare in silenzio una sorveglianza speciale affibbiata per la partecipazione a cortei e presidi, oltre ad occupazioni e altre forme di protesta, sarebbe un precedente pericoloso per chiunque si opponga allo stato di cose presenti, ed è per questo che come avvicinamento al 27 gennaio, giorno in cui si terrà l'udienza di convalida di questa misura, abbiamo organizzato una serie di iniziative sul territorio che in questi anni ci ha visti portare della conflittualità: discussioni, momenti di piazza, occupazioni.
Per fermare la conflittualità che si è manifestata a Saronno in questi anni sono disposti a ricorrere alla sorveglianza speciale, tentando di sottrarre ad un nostro compagno un anno della sua vita e i suoi legami, e sottraendo la sua presenza ai futuri scenari di lotta in città; resistere e proseguire in direzione ostinata e contraria ci sembra un obiettivo minimo desiderabile.
Essere socialmente pericolosi per una società che esclude, incarcera, affama, sfratta e deprime è qualcosa di cui andremo sempre fieri, al di là delle strampalate ciance di questurini e politici.
12 gennaio 2015, Telos


UN CRIMINE CHIAMATO ANTIFASCISMO
“Per non sopportare il pericolo, gli uomini si gettano a certa morte”
[Carlo Michelstaedter]
La sera del 12 dicembre 2014, come preannunciato, una trentina di fascisti si sono ritrovati in un presidio a Formigine (MO) chiamato da Forza Nuova, di fronte all’hotel in cui sono “ospitati” circa 26 profughi, in base al piano di gestione dell’immigrazione amministrato da Stato-Regione-Questura: le stesse autorità, dunque, sbattono in mezzo al nulla un gruppo di persone, e poi autorizzano un presidio fascista nello stesso luogo.
Antifascisti autorizzati presenti: una quindicina circa di persone radunate da ANPI-CGIL-SEL-PD in formale dimostrazione di dissenso a 300 metri da fasci e migranti. Antifascisti altri: circa 4 persone che calavano uno striscione antifascista dalle finestre di un’abitazione privata. Ultimi componenti del teatrino: gli sbirri – con presenza in forze della DIGOS di Modena – che si gettavano contro un gruppo di antifascisti auto-organizzati. Due di quest’ultimi venivano arrestati, portati in questura e successivamente in carcere per tre giorni e tre notti, e rilasciati con obbligo di dimora e rientro notturno, mentre fuori altri compagni non facevano mancare la solidarietà.
Ma alle autorità non è bastato arrestare l’antifascismo in strada: l’accanimento continua con il procuratore capo di Modena Vito Zincani, il quale poche ore prima di andare in pensione ed essere sostituito da Lucia Musti, dichiara che preferisce la pacificazione in un contesto sociale impoverito e in crisi.
Ma è proprio in questo contesto, di pacificazione più che mai di facciata, che fascisti e razzisti scorazzano indisturbati e cercano di “alzare il tiro”, come si è visto e si continua a vedere in numerose occasioni: dai fatti di Tor Sapienza del 12 novembre fino a quelli incanalati da movimenti e partiti, come la “visita” di Salvini a Bologna. Il capro espiatorio verso cui viene indirizzata la frustrazione per le misere condizioni di vita è, tanto per cambiare, chi viene individuato come “diverso” in base a colori di pelle e/o provenienza geografica, chi viene individuato come indifeso e già in difficoltà, quindi codardamente facile da colpire, piuttosto che rivolgere la rabbia verso chi effettivamente provoca queste condizioni di vita. E le istituzioni intanto reprimono e processano l’antifascismo, come già nel caso di Teo, antifascista arrestato a Bologna nel corso del corteo del 18 ottobre contro la presenza di Forza Nuova in piazza, con tanto di ospite Roberto Fiore. Ora Teo sta scontando 8 mesi di domiciliari, dopo essere stato arrestato nel corso degli scontri tra manifestanti antifascisti e sbirri schierati in difesa dei fascisti; poiché oggi come ieri, istituzioni e fascismi si trovano fianco a fianco nel chiudere a morsa i migranti e nel combattere l’antifascismo di fatto.
Così, l'8 gennaio 2015 si terrà il processo per direttissima ai due antifascisti, per i fatti di Formigine.
Verrà di nuovo processato l’antifascismo, anzi, secondo le stesse parole di Vito Zincani, si vorrebbe trattare di ‘un monito'... sì, ma all’antifascismo! Ecco, come un eterno ritorno, l’agognato “monito”, ovvero punire alcuni per spaventare tutti coloro che decidono nelle proprie vite di mettersi di traverso ai progetti di razzismo, devastazione e morte di questo sistema: come è successo e succede nella repressione e nelle sentenze contro i No Tav, per i fatti del G8 di Genova o per quelli del 15 ottobre di Roma 2011, o come le richieste di Sorveglianza Speciale per alcuni compagni di Torino già incarcerati per la lotta contro gli sfratti. Il “monito” cade oggi sulla testa di due nostri compagni, ma l’obiettivo è quello di colpire tutti.
Facciamone invece un’altra occasione per dimostrare la nostra solidarietà ai/lle compagni/e antifasciste sotto processo, per smascherare fascismi e razzismi sotto qualsiasi forma e i loro complici, per ribadire il nostro antifascismo che non si nasconde dietro inutili formalismi e istituzioni.
Ci vediamo… l'8 gennaio 2015 a Modena - alle 9.30, davanti al tribunale in Corso Canalgrande
L’8 gennaio il Tribunale dell’ingiustizia di Modena ha deciso di fissare il processo con giudizio unico e immediato per la data di giovedì 26 febbraio alle ore 11,30, per quanto riguarda le accuse mosse contro Vivi e Aro per i fatti di Formigine.
Oggi le restrizioni sulla loro libertà sono ancora in atto: obbligo di dimora a Cremona e rientro notturno obbligatorio nelle rispettive case.
Sicuramente fino a quella data saremo come al solito nelle strade per portare la nostra voce e la nostra solidarietà e vicinanza ai compagni colpiti dalla repressione.
Contro ogni fascismo, gli spiriti ribelli non si arrestano.
Tratto da http://csakavarna.org


aggressione fascista a cremona
Domenica 18 gennaio una cinquantina di fascisti di Casapound Cremona aiutati dai loro simili di altre città hanno assaltato la sede del CSA Dordoni di Cremona dove erano presenti 8 compagni.
Emilio, un compagno di tante lotte e tante battaglie, è in ospedale in coma farmacologico con una emorragia cerebrale estesa a causa di quell’assalto squadrista.
L’attacco premeditato e scientificamente organizzato dai fascisti di CasaPound cremonesi, in combutta con altri militanti di estrema destra provenienti da fuori città, ha trovato una risposta determinata da parte dei compagni presenti nel centro sociale, ma purtroppo Emilio è stato colpito alla testa da diverse sprangate.
I fascisti si sono accaniti sopra ad Emilio fino a quando è stato portato in sicurezza all’interno del centro sociale; è stata, tuttavia, immediatamente chiara la gravità del suo stato di salute.
Infame è stato il comportamento della polizia che ha semplicemente identificato gli assaltatori e successivamente, per permettere loro di andarsene indisturbati, ha violentemente caricato il presidio di antifascist* radunatesi sul posto.
In poche ore si sono riuniti al Dordoni almeno 300 compagn* per esprimere solidarietà e vicinanza sopratutto ad Emilio.
Sono stati inoltre fissati due appuntamenti:
Lunedì 19 gennaio una giornata nazionale di mobilitazione diffusa nei territori
Presidi sono stati irganizzati in svariate città d’Italia.
Sabato 24 gennaio un corteo nazionale antifascista, determinato, autodifeso e militante con la parola d’ordine: chiudere subito tutte le sedi fasciste!

Numerosi presidi in molte città italiane ed europee si sono susseguiti durante la settimana.
Sabato 24 gennaio migliaia di antifascisti provenienti da tutta Italia e da diverse città europee si sono riuniti a Cremona, nel piazzale antistante il CSA Dordoni teatro dell’infame e squadrista pestaggio di Emilio. La notizia, fatta circolare dalla questura circa la chiusura definitiva della sede locale di Casapound, non ha incantato i manifestanti che in maniera decisa e determinata hanno cercato per svariate volte di raggiungerla per chiuderla loro, definitivamente. Purtroppo la strategia sbirresca di difendere ad oltranza i fascisti ha impedito il buon proposito, con il lancio di centinaia di lacrimogeni, spesso ad altezza uomo, ha reso l’aria irrespirabile. Durante il corteo sono stati in ogni caso colpite le banche, simbolo del capitalismo e dell’impoverimento. Attaccata inoltre la caserma della polizia locale.
Ovvia e scontata la condanna da parte di tutte quelle istituzioni che pur dichiarandosi antifasciste permettono, continuamente, che le violenze dei camerati continuino indisturbate, meno scontate le prese di posizioni di associazioni e partiti che fanno dell’antifascismo la loro bandiera.
Le sedi dei fasciste devono essere chiuse, con ogni mezzo necessario.
Intanto 8 solo le denunce arrivate per l’aggressione al CSA Dordoni: 4 ai compagni e 4 ai fascisti di Casapound.
Emilio, ad una settimana dal pestaggio, è ancora in coma farmacologico con prognosi riservata ed anche se diversi sono i segnali positivi la situazione rimane critica. #Emilioresisti


sul processo per “rissa” in Statale
Pubblichiamo e diamo diffusione allo scritto di Lollo e Simo che informa sull’apertura del processo, che inizierà Giovedi 18 dicembre, nei loro confronti per i fatti della Statale di Milano del febbraio 2013. Nel frattempo ai due compagni è stato revocato l’obbligo di firma.

Non ci dilungheremo qui sugli aspetti scontati che hanno a che fare con un processo, né sul prosieguo della vicenda dal punto di vista politico e giudiziario. Ciò che ci interessa ora è informare, seppur brevemente. Dal giorno dei nostri arresti, come molti ricorderanno, è iniziata una diffamante e menzognera campagna mediatica contro le nostre identità politiche e che mirava a descriverci come violenti e rissaioli. Come sempre accade in queste circostanze, la campagna a livello mediatico non ha trovato ostacoli, tralasciando anche le palesi falsità, le anomalie, le contraddizioni e le accuse a mezzo stampa già impacchettate. Soprattutto ha omesso del tutto di ricordare un fatto importantissimo per l’inchiesta: la ritrattazione, dopo un mese di carcerazione preventiva, del principale testimone d’accusa che si rimangia le pesanti, dettagliate e specifiche accuse fatte nei mesi precedenti.
Tutto ciò ha contribuito, anche a causa dell’accanimento della procura, alla nostra carcerazione: da San Vittore a quattro mesi di domiciliari sempre con totale divieto d’incontro, poi firme per ben tre volte alla settimana, che perdurano ancora oggi. Ricordiamo che l’inchiesta parte con ventidue indagati, due arrestati e venti ignoti rimasti tali con nostro sommo piacere.
Abbiamo deciso immediatamente di andare a processo con rito ordinario e l’abbiamo fatto palesemente, rendendone partecipi tutti nonostante alcune rare voci circolate fuori che sembravano descriverci come tentennanti di fronte all’idea del rito abbreviato o, ancora peggio, del patteggiamento.
Successivamente, poco tempo fa, abbiamo richiesto il rito immediato, per saltare i tecnicismi della fase preliminare!
A pochi giorni dall’inizio del processo, viene notificata dalla “parte offesa” anche una richiesta di risarcimento danni superiore ai 100mila euro.
Noi ribadiamo la piena volontà di voler affrontare questo processo in continuità con l’impostazione e le scelte precedenti, consapevoli delle difficoltà oggettive che un processo “particolare” come questo ha e può presentare!
Giovedì 18 dicembre alle ore 9:30 presso l’ottava sezione penale del tribunale di Milano si terrà la prima udienza. Piano 3° aula 8.
15 dicembre 2014, Lollo e Simo


DAL PROCESSO PER I FATTI DEL 15 OTTOBRE 2011 A ROMA
Udienza del 13 Novembre, Roma Aula 9 Penale
Dopo aver finito l’ascolto dei vari teste della difesa il Presidente della giuria dedica questa giornata a rispondere (finalmente) alla richiesta fatta dalla difesa, già dalla prime udienze, di poter produrre e quindi farle acquisire i nastri audio delle comunicazioni radio tra i vari reparti e la centrale operativa della questura visto che nessun teste nè della difesa nè dell’ accusa è riuscito a far luce su chi dirigeva i reparti mobili e soprattutto che disegno avesse in mente. La seconda richiesta era di poter acquisire tutti i filmati della polizia scientifica e non solo i fotogrammi prodotti dall’accusa. Un’immagine va contestualizzata: non basta mostrare il fotogramma in cui un compagno lancia un sasso o altro, ma bisogna far vedere tutto il video soprattutto visto che i vari filmati mostrati dalla difesa hanno dimostrato come le “forze dell’ordine” hanno in più di una occasione usato violenza contro i manifestanti: lanciando sassi e lacrimogeni ad altezza uomo, caricando con caroselli di camionette e blindati i compagni e accanendosi su ragazze e donne inermi. Tanto per cambiare la Giuria si pronuncia a favore dell’accusa dichiarando che il processo deve essere basato solamente sulle prove prodotte nella fase delle indagini preliminari andando contro a tutte le basi del processo: cercare e stabilire la verità. Come fai a stabilire la verità sulla base di prove fornite e tagliate unicamente dall’accusa solamente per dare vericidità alla sua tesi accusatoria?
Unico contentino dato alla difesa è l’accoglimento della richiesta di produrre tutti i video ripresi dall’elicottero di servizio in quella giornata. Nell’udienza del 18 Dicembre l’accusa dovrebbe produrre questi filmati e finalmente la difesa potrà prenderne visione. Prossimo appuntamento il 15 Gennaio in cui si spera si potrà finalmente visionare i filmati magari non censurati dall’accusa!!!! Prossime udienze 18 Dicembre, 15 Gennaio entrambe ore 9:30 sempre stessa aula stesso tribunale stessa ingiustizia!!!
Dicembre 2014


Ultim’ora: dal processone contro i notav
Martedì 27 gennaio è prevista la sentenza del processone contro i 53 NoTav posti sul banco degli imputati da oltre due anni per le giornate del 27 maggio e 3 luglio 2011, rispettivamente lo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena e il giorno dell’assedio al cantiere.
Un processo politico, dove tramite 53 imputati è tutto il Movimento NoTav ad essere messo sotto accusa. Quasi un centinaio di udienze a ritmo serrato come mai in Italia si è visto, le udienze tenute nell’aula bunker del carcere Lorusso e Cotugno, testimoni reticenti da parte dell’accusa e intimidazioni continue ai testimoni della difesa. Uno show continuo da tutto il gruppo dei pm con l’elmetto che sul più bello, alle arringhe conclusive hanno dovuto mollare, per passare il testimone e lasciare spazio alle Pm Quaglino e Pedrotta che comunque hanno portato avanti la linea accusatoria nello stesso stile (con anche qualche caduta di stile quando ci hanno spiegato che “il gesto simbolico è quello di darsi fuoco in piazza”). A questo processo ci si è arrivati in seguito ad arresti e ad una campagna stampa imbeccata dall’allora procura guidata da Giancarlo Caselli, vero artefice della crociata in campo.
Verso le 14.30 il giudice Quinto Bosio in poco più di un’ora ha letto la sentenza: 47 condanne per un totale di circa 150 anni di carcere e sei assoluzioni (l’accusa ne aveva chiesti circa 193) inoltre ha stabilito provvisionali per circa 150 mila euro a favore dei Ministeri dell’Interno, della Difesa e dell’Economia ed a favore delle altre parti civili ovvero della società Ltf, dei sindacati di polizia e di alcuni agenti rimasti “feriti” nel corso degli scontri.
Al termine della lettura alcun* imputat* hanno cercato di leggere un comunicato. Dal pubblico si è levato il grido “vergogna” poi i presenti hanno cominciato a cantare “Bella Ciao”. “Questo - ha urlato un imputato - è un processo politico. Non ci seppellirete con queste condanne”.
Alcune decine di No Tav hanno bloccato per un quarto d’ora l’ingresso e l’uscita della strada che porta alla tangenziale di Torino all’altezza di corso Regina Margherita a poca distanza dell’aula bunker dove si è stata pronunciata la sentenza.
Una sentenza pesante contro non solo il Movimento NoTav, ma contro chiunque si opponga alla devastazione del territorio ed alle politiche governative che dimenticano la salute di tutti e tutte ma ricordano benissimo i profitti dei soliti noti.
La lotta non si arresta.
Milano, 27 gennaio 2015