indice n.122

28 aprile, corteo al Poligono di Quirra (ca)
War games Usa e Nato in Sicilia? No grazie
LIBIA: IL GIOCO DELLE TRE CARTE DELL’ITALIA
aggiornamenti dalle lotte dentro e contro i cie
milano: UN 1° MAGGIO CONTRO LE “NUOVE” SCHIAVITù
sassari: SABATO 25 MARZO MANIFESTAZIONE ANTIFASCISTA
Lettera dal carcere di Ivrea
Lettera dal carcere di Novara
Novara: in piazza per la libertà di lottare
Lettere dal carcere di Roma-Rebibbia
scritto dal carcere di spoleto (pg)
Lettera dal carcere di Tempio Pausania (OT)
scritto dal carcere di Massama (or)
Cartolettera dalla galera de Brukoli (sr)
Lettere dal carcere di milano-opera
Lettera dal carcere di Sulmona (aq)
Lettera dal carcere di Teramo
bologna: é TEMPO DI RISCATTO!
NO EXPO: CADE L’ACCUSA DI DEVASTAZIONE E SACCHEGGIO
lecce: Blocchi e cariche contro i NoTap
Il 6 maggio sarà manifestazione notav!
Decreto Minniti. La politica della Paura e della Sicurezza
8 marzo alla Sodexo di Pisa
DALLA PARTE DEI LAVORATORI E DELLE LAVORATRICI TONCAR
milano: aggiornamenti dal presidio degli operai della innse
India: solidarietà con gli operai della Maruti


28 aprile, corteo al Poligono di Quirra (ca)
Venerdì 28 aprile al PISQ, Poligono Interforze del Salto di Quirra, ci sarà un nuovo corteo contro la presenza militare in Sardegna, contro la guerra, contro la militarizzazione.
Organizzato da A’Foras, è stato scelto il PISQ per completare il quadro delle principali strutture militari presenti in Sardegna.
Dopo le giornate di lotta dell’11 giugno a Decimomannu, del 3 novembre a Teulada, del 13 settembre e 23 novembre a Capo Frasca, mancava all’appello il PISQ, il poligono più grande d’Europa, 13.000 ettari di terra sottratti alla popolazione per preparare al meglio le stragi poi perpetrate in tutto il mondo.
Ma non solo, la parte a mare del poligono in estensione massima è più grande dell’intera Sardegna. E non è ancora finita, infatti il PISQ non è solo la palestra di tanti eserciti, ma anche luogo di sperimentazione per i colossi dell’industria bellica. A partire specialmente dall’italianissima Finmeccanica, che da anni è ospite fissa del poligono. Ricordiamo fra gli altri anche la Piaggio aerospace, l’Alenia e tante altre. Sempre nell’ambito dell’industria di guerra come non nominare la Vitrociset, che ha il suo stabilimento principale a Capo San Lorenzo, proprio a ridosso della base, e che grazie ai suoi tecnici permette il perfetto funzionamento di tutto l’aspetto tecnologico e informatico del poligono. Per capire meglio cosa è il PISQ forse conviene sfogliare i calendari delle esercitazioni degli anni passati, non si privano veramente di nulla.
Ci sembra quindi logico e importantissimo appoggiare in pieno questo corteo che ancora una volta cercherà attraverso l’azione diretta, di togliere quella serenità che ai militari e agli industriali della guerra tanto piace quando si addestrano per le prossime stragi.
Nelle prossime settimane verranno organizzate presentazioni, incontri e assemblee per organizzare al meglio la giornata e farvi confluire il massimo delle persone possibile. Vi terremo aggiornati, e cercheremo di raccogliere il maggior numero di contributi e informazioni sulla giornata.
IL 28 TUTTI A QUIRRA!! NON LASCIAMO IN PACE CHI VIVE DI GUERRA

9 marzo 2017
da nobordersard.wordpress.com

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28 APRILE UNITI CONTRO LE BASI MILITARI E LA GUERRA
Anche quest’anno, in concomitanza con la ripresa delle esercitazioni militari in Sardegna, il movimento che lotta e si oppone alla presenza militare, contro le basi e la militarizzazione, contro la guerra, si prepara ad organizzare per il 28 APRILE un corteo al PISQ (Poligono Interforze del Salto di Quirra).
Il Poligono di Quirra oltre ad essere la palestra di tanti eserciti, è anche luogo di sperimentazione per i colossi dell’industria bellica, a partire dall’italianissima Finmeccanica, che da anni è ospite fissa del poligono e di altre industrie come la Piaggio Aerospace e l’Alenia.
L’Italia è in prima fila, come parte integrante sia dell’Unione Europea che della NATO, nella partecipazione alla guerra imperialista che mai come in questo momento si manifesta con tutte le sue conseguenze negative sul piano sociale ed economico nel nostro paese.
Guerra imperialista significa adesione al progetto di un nuovo colonialismo e ad una nuova spartizione del mondo per la conquista di nuovi mercati, appropriazione di risorse energetiche, imposizione dell’ordine capitalistico, che si traduce ‑ al tempo stesso ‑ per milioni di persone, in distruzione, miseria sociale ed ambientale.
Negli stessi paesi promotori della guerra, il militarismo si avvale del sostegno dell’apparato industriale militare e di una gestione autoritaria della crisi attraverso una presenza militare ‑ sempre più visibile ‑ nei territori a garanzia di controllo e deterrente dei conflitti sociali e dei flussi migratori (generati dall’impoverimento di intere aree e dalle guerre in corso) che le politiche, di attacco alle condizioni di vita dei lavoratori, producono.
Anche l’apparato ideologico, attraverso la scuola e la formazione, diventa strumento da una parte di consenso e dall’altra di controllo. Stiamo assistendo – difatti ‑ ad un intervento sempre più organico ‑ all’interno degli atenei ‑ degli apparati sia militari che industriali sotto forma di corsi di studio e progetti legati a finalità belliche sia dal punto di vista produttivo che di formazione di figure, spacciate come civili, di intermediazione sociale nelle situazioni di conflitto. In questo senso a Milano l’Università Politecnico ha siglato un accordo con il colosso industriale della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza, Leonardo-Finmeccanica.
Il sostegno a quelle iniziative di lotta che indeboliscono il normale svolgersi delle politiche militari all’interno degli Stati dei principali promotori della guerra, USA ed UE, oltre che essere da sostegno alle Resistenze che combattono contro l’aggressione imperialista, rafforzano anche nei nostri territori quelle lotte per i bisogni concreti della popolazione, dal lavoro alla casa alla salute, e aprono spazi perché si sviluppi un fronte comune di lotta al razzismo e all’autoritarismo per una società liberata dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla natura.
Anche per queste ragioni, nella stessa giornata del corteo in Sardegna al Poligono di Quirra, diventa significativo organizzare per il 28 APRILE anche nei nostri territori iniziative di informazione e di lotta contro la “guerra del capitale”.
Invitiamo tutti al confronto e alla partecipazione per cominciare a ridare voce e corpo in questa metropoli ad una opposizione alla guerra.

26 febbraio 2017, da panetteriaoccupata.noblogs.org

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STOP ALLA FABBRICA DI MORTE RWM
Ormai è un dato di fatto: la RWM Italia spa produce bombe, lo stabilimento di Domusnovas fabbrica ed esporta gli ordigni che devastano lo Yemen e tanti altri paesi, per alcune centinaia di posti di lavoro e decine di milioni di fatturato.
In nome del profitto si uccidono centinaia di migliaia di civili, si coprono le complicità delle istituzioni e in nome del ricatto occupazionale si giustifica chi lavora e contribuisce manualmente alla costruzione di strumenti di morte.
Fermiamo la filiera di questa produzione di morte, dal padrone all’operaio, dai trasporti dei materiali a chi li prende in carico.
La produzione di bombe deve cessare qui e ovunque, produrre e vendere morte non può essere un’attività da svolgere serenamente né ora né mai.
Per questi motivi ci ritroviamo il 3 aprile nel piazzale dello stabilimento RWM a Domusnovas per un presidio dalle 11:00 alle 16:00, cui seguirà un corteo verso il paese.
Vi invitiamo a partecipare per provare tutti insieme ad inceppare anche se per poche ore questo macchinario e rimarcare che chi contribuisce ai suoi ingranaggi “per quanto si creda assolto è lo stesso coinvolto”. Non lasciamo in pace chi vive di guerra!

18 marzo 2017
da nobasi.noblogs.org

E’ dispobibile il dossier RWM: “Due anni fa, nel 2015, l’inizio ufficiale della guerra nello Yemen e la fabbrica delle bombe RWM a Domusnovas”.
Chi è interessato può richiederlo alla redazione di Ampi Orizzonti.


War games Usa e Nato in Sicilia? No grazie
No Dynamic Manta, stop ai war games Usa e Nato in Sicilia!
Presidio ad Augusta, domenica 19 marzo ore 10:30.
Dieci nazioni coinvolte, una trentina di mezzi aeronavali con relativi equipaggi, due basi d’appoggio e il Canale di Sicilia come grande palcoscenico. In programma, dal 13 al 24 marzo, la terza edizione di Dynamic Manta, la più grande esercitazione di guerra nel Mediterraneo condotta annualmente dall’Alleanza Atlantica (Nato).
Un addestramento dedicato alla lotta anti-sommergibile e contro le unità navali di superficie (anti-surface warfare) che riprodurrà «scenari realistici ed eventi con difficoltà crescente», come sottolineato dal comunicato ufficiale della Marina militare italiana.
La base navale di Augusta e quella aerea di Sigonella, come di consueto, forniranno il supporto logistico alle complesse manovre in mare delle forze armate d’Italia, Francia, Inghilterra, Spagna, Grecia, Turchia, Germania, Usa, Norvegia e Canada. L’obbiettivo dichiarato è quello di migliorare la capacità di combattimento in contesti multinazionali, attraverso una simulazione di “caccia” tra sommergibili che si alterneranno nei ruoli di “cacciatore” e “cacciato”, con il supporto di navi, elicotteri e aerei da pattugliamento.
Tra le unità navali impiegate, a preoccupare maggiormente è la presenza di sottomarini a propulsione nucleare, già partecipanti all’edizione dello scorso anno. Per l’ipotesi d’incidente atomico, infatti, manca ad oggi un piano di emergenza esterna – aggiornato e accessibile al pubblico – nonostante il porto di Augusta sia periodicamente interessato dal transito e dalla sosta del naviglio nucleare di Stati Uniti e altri Paesi Nato. La notizia è stata confermata indirettamente, nel mese di gennaio, dalla stessa prefettura di Siracusa che, in risposta alla richiesta di alcuni attivisti, aveva negato l’accesso al piano d’emergenza attualmente in vigore, proprio perché «in fase d’aggiornamento». E ciò malgrado le informazioni sul rischio nucleare, in base alla legge, «devono essere fornite alle popolazioni interessate senza che le stesse ne debbano fare richiesta», rimanendo «accessibili al pubblico, sia in condizioni normali, sia in fase di preallarme o di emergenza radiologica» (D.Lgs. 230/95). Regole che, ad Augusta come nei restanti porti militari e nucleari italiani, da oltre vent’anni rimangono lettera morta. E questo, già da solo, offre la misura dei pericoli a cui sono esposti i territori a causa della militarizzazione e delle operazioni di guerra che vedono tristemente protagonista la Sicilia e il Mediterraneo.
In questo quadro s’iscrive anche la Dynamic Manta, che però non sarà l’unico war game previsto, per questo mese, a largo delle coste siciliane. Difatti, quasi del tutto in contemporanea all’esercitazione Nato, le forze speciali statunitensi (Special Forces Group USA) saranno impegnate in esercitazioni di tiro a fuoco presso il poligono marittimo di “Pachino Target Range E321”. Una serie composta di 5 sessioni d’addestramento, partita il 20 febbraio per concludersi il 22 marzo, che sta provocando l’interdizione assoluta della relativa zona di mare «alla navigazione, alla sosta, alla pesca e ai mestieri affini», come da apposita ordinanza della Capitaneria di Porto di Siracusa.
Compresa tra Punta delle Formiche e Punta Castellazzo, all’estremo sud della Sicilia orientale, quella coinvolta è un’incantevole area naturalistica, marina e terrestre, da tempo asservita alle periodiche e intense prove belliche della Nato e dei marines, anche tramite l’utilizzo dei famigerati droni (micidiali aerei senza pilota) ospitati a Sigonella.
Così, mentre per uomini, donne e minori migranti il Mediterraneo è frontiera da sfidare per la sopravvivenza, gli eserciti Usa-Nato stanno trasformando questo stesso specchio d’acqua in un laboratorio di guerra permanente, che si affianca al ruolo operativo assunto dalla Sicilia come piattaforma offensiva proiettata nei teatri bellici africani, mediorientali e asiatici. Un ruolo, quest’ultimo, aggravato dalla recente conferma del dissequestro del Muos di Niscemi da parte della Cassazione, mentre è in programma l’allargamento della base dei droni-killer di Sigonella.
Le continue esercitazioni militari nell’Isola, oltre a danneggiare l’ambiente e a iniettare nei territori una sub-cultura militarista di violenza e prevaricazione, bruciano ingenti risorse economiche sottratte alla scuola, alla cultura, alla sanità, al risanamento e alla messa in sicurezza dei territori. Gli stessi settori colpiti dai continui tagli prodotti dalle politiche di austerità imposte dall’Unione europea e dal Fondo Monetario Internazionale.
Nel frattempo, l’avvento di Trump alla presidenza degli Stati Uniti ha inaugurato una nuova stagione di corsa agli armamenti in ambito Nato. E l’Italia, dal canto suo, quest’anno destinerà alle spese militari ben 23,4 miliardi di euro (oltre 64 milioni di euro al giorno), di cui circa un quarto impiegati per l’acquisto di portaerei, carri armati, aerei ed elicotteri d’attacco (fonte rapporto Milex).
Per manifestare un chiaro dissenso all’utilizzo della Sicilia e del Mediterraneo per le manovre belliche targate Nato e Usa, facciamo appello alla mobilitazione della cittadinanza e di tutte le realtà sociali impegnate nella lotta contro la militarizzazione dei territori, la difesa dell’ambiente e la promozione di una cultura di pace, giustizia sociale, solidarietà e accoglienza.
A questo scopo, proprio in contemporanea all’esercitazione Dynamic Manta, indiciamo un presidio davanti ai cancelli della base della Marina militare di Augusta (banchina Tullio Marcon, Via Darsena) per domenica 19 marzo, alle ore 10:30.
Per adesioni: comunica@nomuos.info

Coordinamento regionale dei comitati No Muos
12 marzo 2017, da nomuos.info


LIBIA: IL GIOCO DELLE TRE CARTE DELL’ITALIA
Il 22 marzo un tribunale di Tripoli ha sospeso il memorandum d’intesa firmato dal premier del governo di unità nazionale libico (Gna) Fayez al Sarraj con il presidente del consiglio italiano Paolo Gentiloni il 2 febbraio. Il ricorso era stato presentato il 14 febbraio da un gruppo di sei persone, tra cui l’avvocata Azza Maghur e l’ex ministro della giustizia libico Salah al Marghani.
“Il memorandum sarà subito sospeso, fino al pieno svolgimento del processo”, ha scritto in una sentenza la corte d’appello di Tripoli. Il ricorso presentato dai sei libici contesta l’accordo tra l’Italia e la Libia sia nel merito sia nella forma. Da una parte, secondo i promotori, il governo di Al Sarraj non ha il mandato per firmare l’accordo sui migranti con l’Italia, perché non ha ancora ricevuto la fiducia dei parlamentari libici che si sono ritirati a Tobruk nel 2014. Il parlamento di Tobruk aveva definito l’accordo tra Libia e Italia “nullo” perché il governo di unità nazionale “non ha uno status legittimo”.
Secondo i ricorrenti, inoltre, l’intesa comporta impegni onerosi da parte di Tripoli, che non sono contenuti nel trattato di amicizia tra Italia e Libia stipulato nel 2008, a cui il memorandum fa riferimento. I libici hanno sollevato dei dubbi, inoltre, sui finanziamenti previsti da parte dell’Italia, che non sono stati quantificati, in cambio di un impegno altrettanto vago sul controllo dei flussi migratori da parte di Tripoli.
Intanto il 20 marzo Fayez al Sarraj ha partecipato a Roma al vertice dei ministri dell’interno di Italia, Libia, Austria, Francia, Germania, Malta, Slovenia, Svizzera e Tunisia sul traffico di esseri umani nel Mediterraneo centrale. I ministri europei hanno dato la loro disponibilità a inviare aiuti economici ed equipaggiamenti a Tripoli. Al Sarraj ha chiesto aiuti per 800 milioni di euro, oltre a quattro elicotteri e a venti imbarcazioni. Il commissario europeo per le migrazioni Dimitris Avramopoulos ha precisato che 90 dei 200 milioni di euro che l’Unione europea ha stanziato per combattere il traffico di esseri umani nel Mediterraneo centrale sono destinati alla Libia. Tuttavia le organizzazioni internazionali e le Nazioni Unite hanno ripetutamente denunciato i rischi di questo accordo che affida alla guardia costiera libica il pattugliamento delle coste.
La guardia costiera libica è infatti stata ripetutamente accusata di aver attaccato le imbarcazioni che soccorrono i migranti, di sparare contro i rifugiati e di aver provocato il naufragio di alcune imbarcazioni. Sotto accusa anche i centri di detenzione per migranti nel paese, sia quelli gestiti dal governo sia quelli gestiti dalle milizie, nei quali i migranti hanno spesso denunciato di essere stati vittime di torture, abusi e violenze di ogni tipo. Nei primi tre mesi del 2017 sono arrivati in Italia via mare 25mila migranti, le persone morte o scomparse nelle stesso periodo di tempo lungo la rotta del Mediterraneo centrale sono state 559.
Il governo Al Sarraj conferma la propria debolezza. Il primo ministro dell’unico governo internazionalmente riconosciuto, nei fatti è a malapena il sindaco di Tripoli, la capitale di uno Stato fallito, dove l’unico potere è nelle mani delle milizie che si contendono il territorio. I governi sono almeno tre, oltre a quello di Tripoli, c’è quello di Gwuill e delle sue milizie islamiche, mentre il padrone a Est è il generale Haftar, già fedelissimo di Gheddafi, poi in esilio ed ora a capo della Cirenaica, con il potente appoggio dell’Egitto e, più recentemente, della Russia, che sta allargando la propria sfera di influenza nel Mediterraneo meridionale.
L’Italia, pur essendo l’unico paese europeo ad aver aperto un’ambasciata a Tripoli gioca su più tavoli. Gli impianti ENI nella zona di Mellita, controllata da potenti e pericolose milizie, non hanno mai smesso di pompare petrolio da quando, nel 2014, è scoppiata la guerra civile nella ex colonia italiana.
La scorsa settimana il governo italiano, per la prima volta, ha inviato aiuti in Cirenaica. É sin troppo chiaro che non è una banale operazione umanitaria, ma un segnale chiaro al generale Haftar.
Il governo italiano gioca su tutti i tavoli una partita che, dietro le quinte, ha un solo vero protagonista, l’Ente Nazionale Idrocarburi, il cane a quattro zampe, che si aggira senza problemi in mezzo alla guerra civile, persino in zone dove anche per gli operatori dell’informazione è molto difficile entrare.
28 marzo 2017, da radioblackout.org


aggiornamenti dalle lotte dentro e contro i cie
Torino: sul presidio di domenica 26 marzo al CIE/CPR di Corso Brunelleschi
Sole caldo del pomeriggio, la giornata in corso Brunelleschi sembra passare placida come solo la prima domenica di primavera sa essere. Mentre i palazzi grigi sembrano ancora intorpiditi dalla pausa del pranzo, le mura del rinominato Cpr vengono velocemente affiancate dalle camionette della polizia antisommossa e da alcune auto dei soliti borghesi. Di lì a poco, alla spicciolata, arrivano gruppetti di nemici delle espulsioni e si radunano all’angolo con via Monginevro. In quattro e quattr’otto un impianto per la musica è montato, il gruppo si fa più numeroso e le prime urla solidali con i reclusi si alzano in direzione della prigione per senza documenti. Due ore di presidio smuovono l’aria quieta e uniscono chi è costretto dentro a quella sordida struttura al gruppo fuori nella voglia di libertà.
A oggi le aree sono tutte al completo tranne quella bianca, piena a metà, e quella viola che è chiusa. I reclusi continuano a essere più di cento, con deportazioni pressoché quotidiane di tre o quattro ragazzi che vengono subito compensate da altrettanti ingressi. Qualcuno cerca di opporsi all’espulsione, come nel caso di un ragazzo tunisino che la settimana scorsa si è inflitto parecchi tagli finendo all’ospedale e poi di nuovo al Cpr.
Nell’andamento regolare delle deportazioni dell’ultimo periodo spiccano quelle dei ragazzi nigeriani. Già il mese scorso c’è stato un rimpatrio di massa con un volo charter Roma-Lagos, esattamente il terzo giovedì di febbraio. Anche il terzo giovedì di marzo non è passato liscio e in quindici sono stati prelevati dal Centro torinese e deportati.
(27 marzo 2017, da autistici/macerie.org)

Modena: il cerchio di filo spinato si stringe
Severità e integrazione: ecco le due parole chiave ribadite dal Ministro dell’Interno Minniti sul tema dell’immigrazione. Severità, contro gli immigrati economici che non avrebbero il titolo per rimanere in Italia, e integrazione per coloro che scappano dalle guerre.
Ribadendo questi due principi anche il sindaco PD di Modena ha espresso parere favorevole al nuovo piano di gestione del flussi migratori.
Un piano stipulato attraverso un decreto che pianifica la conversione dei vecchi lager, i CIE, in CPR, ovvero “Centri di permanenza per il rimpatrio”. Queste nuove strutture hanno la peculiarità di essere distribuite su tutto il territorio nazionale, per un totale di 1.600 posti, di essere più piccole per poter essere meglio controllate e gestite, e di essere fuori dai centri urbani e lontani dall’occhio del cittadino tranquillo e asservito. In realtà, nulla di nuovo rispetto ai vecchi CIE, se non per il nome.
Da quanto si è appreso, nell’ultimo consiglio comunale modenese la giunta PD ha ribadito la necessità di un modello di gestione dell’accoglienza che sia in grado di rendere effettivi i rimpatri attraverso la detenzione nei nuovi centri e la certezza di un’espulsione, senza però sottrarre energie e personale alle forze di polizia impegnate nella repressione quotidiana sul territorio. Un modello che razionalizza le forze repressive messe in campo, e soprattutto che garantisce profitti per le tasche di cooperative ed enti, come Poste Italiane che con la compagnia Mistral Air si occupa del rimpatrio di migranti irregolari.
A Modena alcune cooperative hanno già ottenuto appalti per quanto riguarda le gestione di strutture per i richiedenti d’asilo. Tra queste troviamo in prima fila il Consorzio Cooperative Sociali-Caleidos, con la gestione dei migranti nello studentato di Via delle Costellazioni; e da poco in fase di valutazione per una nuova assegnazione dalla Prefettura vi sono la cooperativa “Leone Rosso” e l’Associazione Centro Sociale Giovanni XXIII.
L’impegno delle cooperative consiste anche nell’impiego dei profughi in attività di manodopera a costo zero e di volontariato, ultima novità tra queste “gli occhi della Municipale”, ovvero migranti impiegati in attività di affiancamento alla polizia municipale nel controllo e nella segnalazione di situazioni illegali.
Con queste continue manovre securitarie non è difficile immaginarsi l’esito: strade perlustrate in ogni angolo da occhi umani o elettronici, controllo del vicinato pronto a segnalare alla polizia ogni paranoia, persone mute e chine dedite ad arricchire i portafogli dei padroni, marginalizzazione e reclusione per chi mette in pratica un modo di vivere altro.
A chi non vuole fare il gioco dei padroni e dei loro servi, fascisti e polizia, che vorrebbero gli sfruttati divisi. A chi crede che con l’apertura di nuovi lager, con la militarizzazione crescente, con la chiusura delle frontiere, ne va della libertà di ognuno; che il problema non sta nelle avere galere più umane, frontiere più aperte, e lavoro più dignitoso, ma sta in ognuno di questi meccanismi. A chi ha ben chiaro chi siano i responsabili della miseria del presente e non vuole restare a guardare. Solidarizzare e organizzarsi tra indesiderabili è possibile, colpire necessario.
(Individualità anarchiche, marzo 2017, da nociemodena.noblogs.org)

Chiasso: 2 marzo, una settantina di persone contro le frontiere che uccidono
Verso le 17.30 la gente ha iniziato a riunirsi in Piazza Indipendenza, appendendo striscioni e distribuendo volantini ai/alle passanti. Dopo qualche discorso al megafono, senza nessuna bandiera di partito o associazioni, un piccolo corteo spontaneo si è incamminato in direzione della stazione, scandendo slogan contro frontiere, razzismo e polizia. Dopo aver bloccato il traffico per qualche minuto i/le manifestanti sono entratx nella stazione dirigendosi verso il binario 4, dove transitano i treni provenienti dall’Italia che quotidianamente vengono perquisiti dalle guardie di confine per applicare la selezione razziale dei/delle passeggerx.
Appena arrivatx sul binario, i/le manifestanti sono statx accoltx da un ingente dispiegamento della polizia cantonale in tenuta antisommossa, che a spintoni e manate ha impedito al corteo di spostarsi sui binari. Dopo una decina di minuti di faccia a faccia con gli sbirri, si è deciso di tornare davanti alla stazione per continuare il corteo e comunicare la nostra solidarietà attraverso megafono e striscioni. Infine si è tornatx in Piazza Indipendenza, dove il presidio si è poi sciolto.
Da notare la presenza in forze in stazione ed in dogana di almeno 4 camionette della polizia cantonale in antisommossa, polizia comunale e ferroviaria. Evidentemente che si parli della persona migrante morta il 27 febbraio (*) non piace a chi è a capo di un sistema che sfrutta, maltratta, mette in pericolo e deporta esseri umani ogni giorno. Probabilmente anche alla base della reazione provocatoria della polizia c’era l’intento di attirare l’attenzione più sulla tensione creata anziché sui temi di fondo della manifestazione. Vergognoso anche il fatto che nei giorni dopo il 27, alla stazione di Balerna, era presente una pattuglia con la finalità di intimorire le persone che vi si erano recate per mettere dei fiori, delle lettere o altre testimonianze di vicinanza e solidarietà, tirando in ballo tristi motivazioni legali e controllando i documenti.
Qualche considerazione riguardo ai giornalisti.
Fin dai primi momenti del presidio era massiccia la presenza di giornalisti, il cui scopo è quasi sempre quello di creare gretti articoli sensazionalisti, alimentando ulteriormente i sentimenti xenofobi e razzisti già presenti nell’attuale contesto sociale e politico. In quest’ottica il tema della migrazione è uno degli argomenti che suscita maggiori attenzioni da parte di questi giornalisti: a caccia della “notizia”, si dilettano nella costruzione di strumentali interpretazioni, non riportando nemmeno l’oggettività dei fatti. Basti leggere i superficiali trafiletti che appaiono incessantemente sui più letti media ticinesi presenti nel web: non è mai stato nell’interesse di questi individui analizzare e/o criticare i meccanismi che stanno dietro ai fatti di cronaca che riportano.
Con questo presidio non si è voluto apparire sotto i riflettori mettendo in mostra le buone facce da cittadinx democraticx che richiedono diritti in una realtà in cui la libertà non è altro che una mera illusione, ove il risultato della democrazia è proprio quello di morte e deportazioni, sostenute dagli stessi meccanismi che opprimono le esistenze quotidiane anche a queste latitudini. Perciò non ci sarà mai collaborazione e complicità con tale giornalismo strumentale, le pratiche antiautoritarie non hanno nulla a che fare con il servilismo e gli interessi delle istituzioni e del potere.
La solidarietà manifestata con questo momento di piazza non si deve comunque fermare davanti al caso di una morte avvenuta sotto i nostri occhi, poiché il mostro della guerra e della devastazione miete vittime ogni giorno lontano dallo sguardo delle nostre coscienze.

(*) Lunedì 27 febbraio, nei pressi della stazione di Balerna (in Svizzera, a pochi chilometri dal confine con l’Italia), un uomo è morto folgorato dai cavi della linea ferroviaria. L’uomo si era appostato sul tetto del treno, un “Tilo” proveniente dall’Italia, nel tentativo di oltrepassare la frontiera italo-svizzera, probabilmente salendo sul tetto tra la stazione di Como San Giovanni e Monte Olimpino, dove i passeggeri riportano di aver sentito un tonfo proveniente dal soffitto della carrozza. Resta complessa l’identificazione, in quanto l’uomo risulta senza documenti e lo stato del corpo (l’uomo è letteralmente bruciato vivo) non ne consente il riconoscimento.
(Nemiche e nemici delle frontiere, 7 marzo 2017, da frecciaspezzata.noblogs.org)

Transfobia di stato: ogni frontiera è violenza sulle donne
Aggiornamento del 27 marzo. Apprendiamo da fonti giornalistiche che Adriana è stata di nuovo rinchiusa in un CIE (oggi CPR) questa volta quello di Caltanissetta. Le autorità, infatti, hanno disposto la reclusione a causa dei suoi precedenti penali: l’attuale disciplina legislativa in materia di immigrazione prevede infatti che i richiedenti asilo con precedenti attendano il responso delle Commissioni Territoriali nei CPR. Ancora una volta Adriana è stata rinchiusa in un CIE in cui c’è solo la sezione maschile: sempre per “tutelarne l’incolumità” è stata isolata dagli altri prigionieri e alloggiata in un container. La violenza dello stato sui corpi delle donne è come sempre spietata e la transfobia è chiaramente una colonna portante della violenza di genere e del genere. Contro ogni gabbia e confine tra i territori e i generi.
Grazie alla denuncia del Mit (Movimento Identità Transessuale) siamo venute a conoscenza della storia di Adriana, una donna trans che da 17 anni vive in Italia. Da 3 anni, dopo aver perso il lavoro e quindi il permesso di soggiorno, si è ritrovata a vivere nell’illegalità, condizione comune a moltissime delle persone migranti che vivono nella penisola. In un sistema legislativo come quello italiano il rilascio del permesso di soggiorno è legato o ad un regolare contratto di lavoro oppure a strumenti che, come il ricongiungimento familiare, restano appannaggio delle sole famiglie eterosessuali e stabiliscono allo stesso tempo l’indissolubilità del legame matrimoniale, che, soprattutto per le donne migranti, diventa condizione unica per rimanere in questo paese.
A seguito di un controllo di polizia in un hotel a Napoli, in cui Adriana si trovava con il suo compagno, e verificata la sua posizione di irregolare, è stata prelevata e portata nel CPR (centro di permanenza per il rimpatrio) di Brindisi, istituto detentivo riservato agli uomini migranti. Non siamo a conoscenza dei motivi per i quali le forze dell’ordine si siano presentate nell’albergo: sono state chiamate da qualcuno? Era un controllo di routine? Vista l’assiduità delle retate nei confronti delle sex workers e il pregiudizio per il quale spesso le donne trans vengono automaticamente considerate lavoratrici del sesso, non ci sentiamo di escludere che i controlli siano avvenuti per questo motivo; infatti, nonostante in Italia la prostituzione non costituisca reato, le politiche a difesa del decoro urbano e contro favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, ogni giorno determinano numerosi e violenti rastrellamenti di sex workers, tra le quali numerose donne trans, per le quali il lavoro sessuale è una delle poche opzioni per guadagnarsi da vivere data la transfobia vigente sul mercato del lavoro ufficiale.
Adriana è reclusa nel CPR di Brindisi da circa un mese; grazie alle sue precedenti relazioni con l’associazione MIT, il 18 di Marzo siamo venut* a conoscenza della sua storia e dello sciopero della fame che stava portando avanti da ormai 8 giorni. Secondo le informazioni diffuse, tra i motivi dello sciopero c’è la negazione della sua identità di genere, motivo per il quale è stata reclusa in un centro di detenzione maschile, con tutto ciò che ne consegue, ossia una costante situazione di violenza psicologica e pericolo per la sua incolumità.
Le narrazioni dei media di questi giorni ci raccontano solo un aspetto della violenza che Adriana sta vivendo, ossia la pericolosità di essere rinchiusa tra uomini. Noi chiamiamo violenza anche che le sia negato il trattamento ormonale sostitutivo di cui ha bisogno, il cis-sessismo e la transfobia delle istituzioni, che di fatto non riconoscono l’identità delle persone trans, e il razzismo dello stato che criminalizza, rastrella e ingabbia le persone migranti. Vogliamo denunciare il fatto che la detenzione e il rischio di deportazione a cui Adriana è sottoposta sono il frutto delle transmisoginia, del cis-sessismo e del razzismo strutturali che permeano le istituzioni.
Proprio a questo stiamo assistendo con crescente assiduità negli ultimi tempi, anche a causa della circolare del capo della polizia che indicava a numerose prefetture sparse per l’Italia di intensificare i controlli finalizzati al rintraccio di migranti irregolari provenienti dalla Nigeria; nonché a causa della recente approvazione dei due decreti legge Minniti che, da un lato, fanno della lotta all’immigrazione irregolare un baluardo delle politiche migratorie italiane (D.L. Minniti sull’immigrazione) e dall’altro includono la prostituzione tra i comportamenti da stigmatizzare in quanto lesivi del decoro urbano (D.L. sicurezza urbana).
Quanto accade ad Adriana non è un caso isolato ma la normalità nelle esperienze di detenzione delle persone trans. Nei CPR così come nelle carceri, le persone trans sono soggette a oppressioni specifiche che vanno dall’essere detenute in sé, all’essere migranti (specie nel caso della detenzione nei CPR) e alla negazione dell’identità, motivo per cui queste persone sono detenute nelle sezioni in base al genere assegnato alla nascita e non a quello vissuto/scelto. La prassi è essere recluse in sezioni specifiche o spesso nelle infermerie o in isolamento, dovendo quindi affrontare la pena aggiuntiva della negazione della socialità con le altre persone detenute. La stessa esclusione vissuta nella società viene dunque riprodotta all’interno delle carceri.
La sola differenza tra Adriana e le altre persone trans recluse è che lei ha trovato un canale di comunicazione con l’esterno con cui diffondere la sua lotta e la sua storia.
Siamo consapevoli dell’importanza di avere contatti con chi è detenut* perché emerga la sua voce e la narrazione delle resistenze quotidiane che porta avanti, per evitare le vittimizzazioni e le strumentalizzazioni politiche di chi adesso usa queste persone per ergersi a paladino delle soggettività LGBTQI+.
A dispetto della lotta che Adriana ha portato avanti per far uscire la sua voce fuori da quelle sbarre, la sua storia ci sembra essere stata trasformata invece nel caso mediatico attraverso cui, gli stessi politici che hanno contribuito a istituire a suo tempo i centri di detenzione per migranti e che partecipano alla creazione dell’apparato repressivo dello stato, oggi si indignano per la negazione dei diritti delle persone trans nei CPR.
Proprio queste vittimizzazioni e strumentalizzazioni sono alla base dell’intero sistema d’accoglienza e detenzione delle persone migranti: un sistema che si riproduce e nutre con la differenziazione tra migrante buono da proteggere (il rifugiato che scappa dalla guerra, chi è vittima di tratta) e il migrante cattivo da criminalizzare (i cosiddetti “migranti economici” che, secondo la logica dello stato, sarebbero inclini al compimento di reati, chi non ha documenti in regola, chi per scelta o necessità vive di extralegalità). Un sistema che a fronte di una minima percentuale di persone “accolte”, ne reclude e deporta centinaia ogni mese.
La prima soluzione con cui lo Stato ha pensato di risolvere la faccenda di Adriana è stata metterla in isolamento, costantemente piantonata dalle forze dell’ordine, il chè non ci ha fatto smettere di temere per la sua incolumità perché non riconosciamo loro un ruolo di protezione né vogliamo dimenticare i numerosi casi in tutto il mondo di persone trans aggredite dalla polizia nelle strade e nelle carceri. Successivamente è stato concesso ad Adriana un permesso di soggiorno di 6 mesi per protezione internazionale ma finito questo periodo cosa accadrà? Ci si scalda il cuore alla notizia della sua liberazione ma alla stampa che parla di “reclusione disumana” soltanto per quanto riguarda la detenzione di Adriana rispondiamo che, nonostante lei subisse il peso ulteriore di un’oppressione specifica, quel luogo è disumano per ognuna delle persone che vi vengono rinchiuse.
Ciò a cui aspiriamo è che tutte le persone recluse nelle carceri o nei CPR vengano liberate. Urliamo forte la nostra solidarietà ad Adriana e a chi ogni giorno lotta e resiste in ogni gabbia.
(Contro ogni frontiera tra generi e territori, 25 marzo 2017, da cagnesciolte.noblogs.org)

Roma, CPR di Ponte Galeria: la violenza è di Stato
Dopo solo un mese da quando Olga, una donna tuttora reclusa a Ponte Galeria, ha deciso di condividere la sua storia, il racconto di un’altra detenuta ci mostra come lo Stato, fuori e dentro quelle mura, porti avanti con costanza e ferocia la sua guerra sui corpi delle donne.
Nina (nome inventato) è un’altra donna che ha provato a rompere il silenzio a cui lo Stato vorrebbe indurre tutte coloro che cercano di sottrarsi alla violenza sessista. Tra sabato 18 e domenica 19 marzo, si è presentata all’ospedale di Mestre per farsi curare le ferite procurate dal suo compagno violento. Qui, non sappiamo se per sua volontà o del personale ospedaliero, viene sporta denuncia con conseguente arrivo dei carabinieri che le chiedono di presentarsi lunedì mattina in caserma. Lì si scopre che Nina ha il permesso di soggiorno scaduto e anche questa volta lo Stato decide di mostrare il suo vero volto di artefice e complice della violenza di genere, organizzando con solerzia “un bel viaggio verso Roma”, per citare i carabinieri. A Nina non è stato permesso neanche di tornare a casa per recuperare i suoi effetti personali e sopratutto le sue medicine, indispensabili poiché affetta da una malattia grave. Arrivata nel CPR di Ponte Galeria durante la notte, non le è stato somministrato alcun farmaco e, dalle notizie che abbiamo, una telefonata del medico del lager romano alla dottoressa di Nina pare aver spinto i gestori del CPR a sbattere letteralmente la donna fuori da quelle gabbie mercoledì prima dell’alba – evidentemente per scrollarsi di dosso ogni responsabilità prima che fosse troppo tardi – completamente da sola in un luogo deserto e isolato, senza soldi né indicazioni su come e dove andare.
Non è nostra intenzione gridare allo scandalo per questo o quell’altro diritto violato, poiché riteniamo che questa non sia un’eccezione, e che l’unico modo per rendere migliore una galera è raderla al suolo: quello che ci interessa è mostrare gli effetti concreti delle politiche migratorie sulla pelle delle donne migranti, sopratutto quando la loro irregolarità sul territorio italiano le trasforma in meri territori di conquista da catturare, imprigionare e poi espellere.
Intanto le deportazioni da Roma sono quasi all’ordine del giorno: oltre al consueto volo mensile verso la Nigeria, questa volta carico solo di uomini provenienti da altri CPR, sappiamo con certezza che nelle ultime due settimane sono state espulse 5 donne, provenienti da Cina, Albania, Ucraina e Romania, mentre un gruppo di ragazze nigeriane richiedenti asilo è stato trasferito probabilmente in un centro accoglienza.
Durante il presidio di sabato 18 marzo abbiamo udito solo poche voci al di là delle mura perché, come spesso accade, le donne sono state spostate in un’area lontana per evitare che ascoltassero le nostre parole e grida. Attualmente all’interno del CPR ci sono 115 donne e con ogni probabilità questa settimana partirà anche l’ormai tristemente consueto volo verso la Nigeria. Sappiamo dalle cronache locali che diverse donne sono state recluse nelle ultime settimane a seguito delle continue e violente retate che lo stato porta avanti nelle strade, sopratutto contro le sex workers.
I voli di deportazione spesso non vengono annunciati e le recluse sono avvertite la mattina stessa, solo qualche ora prima della partenza dal vicino aeroporto. L’abituale e ormai grottesca arroganza degli sbirri schierati in difesa di un marciapiede non ci ha impedito però infine qualche lancio di palline da tennis: dopo aver sciolto il presidio, siamo infatti tornate/i sotto le mura per far arrivare il numero di telefono alle detenute cercando così di tenerci in contatto e sapere dalla loro voce cosa succede tra quelle sbarre.
Non ci stancheremo di ripetere che questo Stato fascista non può proteggerci dai rapporti di potere che lo costituiscono e armano, e che solo con la solidarietà possiamo difenderci da tale violenza e rispondere insieme.
(marzo 2017, da hurriya.noblogs.org)

Ghetto di Rignano: nessuno è solo davanti alla violenza dello Stato
Dal 28 febbraio, quattro giorni di assedio delle forze dell’ordine hanno coinvolto i 700 abitanti del Ghetto di Rignano in una maxioperazione di sgombero. Nonostante i tentativi di deportazione forzata, e le false promesse di documenti e lavoro a chi avesse abbandonato volontariamente il Ghetto, le persone lì presenti non hanno accettato di lasciare le loro case senza una reale alternativa immediata e praticabile.
Durante quei giorni di resistenza, un corteo ha raggiunto Foggia per ribadire ciò per cui nei ghetti della provincia si lotta da anni: documenti, casa e contratti di lavoro. La Prefettura, obbiettivo dei e delle manifestanti, ha risposto alzando l’ennesimo muro, promettendo la demolizione totale del Gran Ghetto con l’intervento militare: la notte del 3 marzo, durante le operazioni di sgombero muoiono due persone, Mamadu Konate e Nouhou Dumbia, bruciate vive mentre dormivano.
Sin dalle prime ore, gli abitanti del Ghetto hanno raccontato la responsabilità delle forze dell’ordine in quell’incendio, considerando le fiamme che hanno distrutto le baracche come una strategia di sgombero. Quella accidentale, è la versione su cui invece concordano la stampa e le istituzioni coinvolte.
Nonostante la morte di Mamadu e Nouhou, la deportazione non si è fermata e diverse centinaia di persone sono state divise tra due spazi di proprietà della Regione: all’ex Arena, nella periferia di San Severo, stipate in dieci in una stanza senza i servizi minimi; e a “Casa Sankara”, nel mezzo della campagna, dove sono state già allestite delle tende.
Tutto questo lascia facilmente presagire la creazione di nuovi campi, centri di accoglienza, tendopoli e nuovi sgomberi.
La Regione Puglia, la Prefettura e la Questura di Foggia sono responsabili di quanto è accaduto, così come il Ministero dell’Interno che, per “risolvere il problema”, è intervenuto con tutta la sua violenza. Attraverso lo sgombero, l’uccisione e la deportazione in altri ghetti, lo Stato ha attaccato duramente il percorso di lotta e rivendicazione che da anni gli/le abitanti del Ghetto di Rignano, e non solo, stanno portando avanti per una vita desiderata. Quella lotta è anche la nostra.
In questo momento, a Roma, è in corso un’occupazione simbolica della sede della Regione Puglia, in via Barberino, in solidarietà e sostegno alle lotte dei/delle bracciant* e di tutte le persone che vivono nei ghetti in tutta Italia, prigioniere dei CIE e delle leggi sull’immigrazione. Basta morti, sgomberi e deportazioni. (9 marzo 2017, da campagneinlotta.org)

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Segregazione e sgomberi: la spirale senza fine del sistema dei campi
Un silenzio angosciante ha accompagnato l’assedio, lo sgombero e l’uccisione di due persone nell’operazione di deportazione interna che lo Stato ha attuato nella provincia di Foggia ai primi di marzo.
Il silenzio è il nostro, è quello delle mancate azioni. Questa spietata operazione militare vuole ripetersi nei restanti ghetti della provincia, così come per la tendopoli di San Ferdinando in Calabria: a dimostrarcelo non sono solo le parole del neo-ministro sanguinario Minniti, ma quanto sta avvenendo in diversi accampamenti informali lungo la penisola, passando da Foggia a Caltanissetta.
Le condizioni “indecorose” di vita nei campi improvvisati, dove sopravvivono le persone deliberatamente emarginate dalle leggi sull’immigrazione, sarebbero il pretesto per attaccare questi luoghi e trarre maggior profitto, oltre che dallo sfruttamento quotidiano, anche dalla gestione di migliaia di vite.
Guardando alle conseguenze dello sgombero del Gran Ghetto di Rignano, l’installazione di due “campi di lavoro” di Stato, dove gli ingressi vengono sorvegliati dalla polizia e regolati da un orario legato alla produzione e dove la distribuzione dei pasti viene appaltata a una ditta esterna, ha comportato l’inclusione temporanea per alcuni, l’esclusione per altri/e che sono stati/e costretti a vivere per strada, in condizioni peggiori rispetto a quelle del campo distrutto dalle autorità.
In questi giorni abbiamo letto molte considerazioni riguardo questa tragedia: dal tastierismo militante alla CGIL passando per le associazioni umanitarie come Emergency e MEDU; tutti sembrano concordare sulla necessità di radere al suolo i ghetti e le tendopoli poiché bacino per i caporali che approfittano di persone costrette a vivere in condizioni estreme.
Ci chiediamo quindi se lo sgombero del Gran Ghetto abbia ripristinato la conclamata legalità, se dunque ora nei due nuovi campi l’intermediazione attraverso i caporali sia scomparsa perché le aziende agricole applicano i contratti e sono attivi servizi di trasporto per i luoghi di lavoro; se la vita delle persone sia migliorata dopo la distruzione del ghetto, portata avanti, a causa della resistenza dei suoi abitanti, per ben 4 giorni ed eseguita a ogni costo, compreso quello di due persone bruciate vive.
La risposta alla domanda retorica è ovviamente negativa: per chi abita nei due campi poco è cambiato ma varie centinaia di migliaia di euro, che non potevano venir stanziati per case, trasporti e assistenza sanitaria, ora affluiscono nelle tasche di chi costruisce e gestisce i nuovi ghetti di Stato. Basta poi guardare a chi firma i protocolli per collaborare nella gestione dei nuovi campi per capire chi guadagnerà dagli sgomberi.
Lo stesso tipo di operazione avvenuta a Rignano è ora programmata nella grande tendopoli di San Ferdinando, dove vivono 2.000 persone. Per due giorni la polizia ha circondato il campo, non permettendo a nessuno di uscire, eseguendo perquisizioni a tappeto tenda per tenda, controllando i documenti, portando persone in questura e arrestando una donna. Intorno al ghetto la presenza di forze dell’ordine è quotidiana, le identificazioni di migranti e solidali sono diventate la norma.
Dopo il taglio della corrente elettrica a gennaio, negli ultimi giorni sono state chiuse le piccole botteghe dove era possibile comprare dei beni di prima necessità, dal cibo ai prodotti per l’igiene. Le autorità mostrano il pugno di ferro rendendo le condizioni di vita ancora più difficili, cercando così di costringere le persone ad allontanarsi “spontaneamente”. Nel frattempo nelle vicinanze si costruisce il nuovo campo: un’area delimitata da una recinzione dove portare solo 300/500 persone munite di documenti.
Chi vive nelle grandi città ha già conosciuto le campagne repressive che precedono gli sgomberi di interi edifici da svuotare e demolire per riportare “decoro e legalità” in un quartiere, quando palazzine o intere popolazioni di quartieri periferici vengono per mesi descritte da politici e media come “covi per criminali o clandestini” e “gestiti dal racket e dalla malavita”. Palazzine o intere colate di cemento chiamate periferie, che non sono certo la “vita desiderata” da tanti ma che hanno conosciuto la resistenza delle persone che vi abitano perché lo sgombero significava l’espulsione dalla città, la recisione di tutte le relazioni e le abitudini costruite nel tempo o la vita appesa all’ospitalità temporanea in un residence.
Quelle in provincia di Foggia e altrove sono lunghe operazioni militari che dobbiamo osteggiare; non iniziano e non finiscono lì e le due persone uccise, Mamadou e Nouhou, gridano vendetta. Una vendetta che forse sarebbe iniziata prima se fossero stati due abitanti italiani di un qualsiasi ghetto metropolitano ad aver perso la vita. Le grida invece, quelle delle stesse persone in lotta contro lo sfruttamento e la segregazione, per conquistare documenti, casa e contratti per tutti e tutte, sono quelle che dobbiamo sostenere perché nessuno sgombero ha mai garantito a nessuno/a la vita desiderata.

marzo 2017, da hurriya.noblogs.org

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Tunisia: Paese di bassi salari per le imprese europee
In questa settimana la cancelliera Merkel, e seguito, hanno incontrato in Egitto e in Tunisia capi di Stato, di governo, ministri dell'economia, dell'industria degli stati del Nord-Africa, non soltanto di transito per profughi. Un numero crescente di loro abitanti cerca – a causa delle grigie prospettive interne – fortuna in Europa. Merkel, non si è ridotta solo a minacciare chiusure dei confini e rimpatri aerei, ma ha piuttosto messo l'accento sulla “collaborazione economica con il Nordafrica, dove verranno dunque favoriti investimenti per creare posti di lavoro”. Gerd Mueller, ministro del Lavoro in Germania ha voluto precisare che: “gli investimenti in Nordafrica mirano innanzitutto ad offrire buone condizioni ai giovani” (la realtà dice che quell' “innanzitutto”, riguarda il capitale straniero, italiano-francese-tedesco).
L'esempio Tunisia: finora il Paese ha tratto denaro dalle aziende europee soprattutto perché luogo di bassi salari. Esempio classico è l'azienda Leoni di Norimberga produttrice, in Tunisia, di accessori per le auto, o l'azienda Steiff che là confeziona bambole in peluche per le camere dei bambini europei.
Data questa struttura produttiva la Tunisia è sicuramente dipendente dalla situazione industriale in Europa, che non è rosea. Italia e Francia conoscono una crisi profonda, le aziende di entrambi i Paesi, in Tunisia, sono investitrici tradizionali quanto importanti. I loro investimenti in questo ultimo periodo sono chiaramente stati assottigliati o anche scomparsi.
Sotto la pressione del Fondo Monetario Internazionale la Tunisia sta pianificando un forte risparmio diretto a ridurre la spesa pubblica, così ha detto Lamia Zibri, ministra delle Finanze in Tunisia. Inoltre, è stata pianificata la messa in vendita di una certa quota di tre banche statali.
Le speranze della Tunisia sono soprattutto rivolte al Paese dell'Unione Europea non colpito dalla crisi, cioè sulla Germania. Sono 250 le aziende tedesche in cui oggi sgobbano 55.000 persone tunisine; questa situazione si assottiglia, perché, come alla fine del 2016 ha spiegato il direttore della Fondazione Friedrich Naumann:“per l'economia tedesca, considerata dal punto di vista globale, la Tunisia non è importante”.
Ultimamente, in generale, gli investimenti della Germania sono aumentati con una media annua (2011-2015) di 51,6 milioni di euro, mentre negli anni precedenti non ha superato i 17 milioni. Ciò in ogni caso non offre buone possibilità ai salari della gioventù tunisina. Allo sviluppo dell'economia tedesca la Tunisia contribuisce anche in questo modo.
All'inizio di gennaio, nella città di Meknassi, sono scoppiate proteste violente. I manifestanti in strada la notte scorsa incendiato pneumatici e sbarrato numerosi incroci stradali. Nel corso della giornata è stato realizzato uno sciopero generale in cui i manifestanti hanno occupato le strade. Meknassi, che si trova nella provincia di Sidi Bouzid, dove nel 2011 prese avvio la 'primavera araba'.
28 febbraio 2017, da jungewelt.de

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Germania: mobilitazione contro le espulsioni
I Comitati profughi-rifugiati regionali chiedono il diritto di permanenza duraturo per le persone richiedenti asilo afghane. Martin Link, responsabile del Comitato profughi-rifugiati dello Schleswig-Holstein (stato federato situato a nord della G. il cui capoluogo è Kiel) critica i partiti di governo locali di aver adottato una politica restrittiva rispetto alle espulsioni. I Comitati richiamano l'attenzione sul pacchetto di leggi deciso dal governo locale relativo a estensione e accelerazione delle espulsioni. Spiega Link: “Quella legge poggia su internamento, controllo e isolamento delle persone. Favorisce gli orientamenti razzisti nella popolazione, dà seguito alla serie di attacchi ostili al diritto delle persone profughe-rifugiate, iniziati nel 2014 con l'allargamento della lista dei Paesi di provenienza pronti a collaborare”.
I Comitati hanno inviato un appello a favore dell'asilo ai governi federali (regionali) per far cadere la proposta di legge nel parlamento federale (verrà discussa il 10 marzo), di applicare alle persone profughe, comunque provenienti dai Paesi del Maghreb, il rimpatrio immediato. Il governo federale coltiva seriamente il proposito di contrapporsi al varo di leggi favorevoli alle richieste delle persone richiedenti asilo.
Lo Schleswig-Holstein, da solo, alla fine di febbraio ha deciso di sospendere per tre mesi ogni espulsione. Una decisione ben accolta dai Comitati che, sottolinea Link “contrasta con la politica d'espulsione inumana adottata dal ministro dell'interno federale, Thomas de Maizière.”
Sull'ordine del giorno del convegno dei Comitati oltre alla campagna sull'intero territorio federale c'era inoltre il punto 'Scuola per tutti!', perché 'parecchie-i bambine-i vengono sistematicamente escluse-e dal sistema scolastico', afferma il Comitato profughi di Brema.
Negli stessi giorni, sui media, è comparsa la notizia che l'Italia vuole stringere una più forte collaborazione con la Tunisia per intercettare i profughi ancor prima di ogni imbarco marino. Su questo hanno trovato accordo a Roma il ministro degli esteri italiano Angelino Alfano e il suo collega tunisino Khemaies Jhinaoui. Un'eguale cooperazione è stata definita una settimana fa fra Italia e Libia; che prevede il sostegno italiano alla guardia costiera libica nell'intercettazione dei navigli carichi o meno di persone profughe.

4 marzo 2017, da jungewelt.de


milano: UN 1° MAGGIO CONTRO LE “NUOVE” SCHIAVITù
Da febbraio lo spazio “Noi ci siamo! Con Abd el Salam”, sgomberato da via Fortezza, si è trasferito in uno dei quartieri a maggiore concentrazione di lavoratori migranti. Proprio da qui vorremmo organizzare un Primo Maggio di mobilitazione e di lotta, che sappia esprimere le esigenze e le rivendicazioni che accomunano i lavoratori di tutte le etnie e di tutte le nazionalità, autoctoni o immigranti che siano.
La giornata del Primo Maggio possiede in tal senso una valenza particolare: più di 100 anni fa, organizzazioni di lavoratori e sindacati si ponevano l’obiettivo della limitazione ad 8 ore della giornata lavorativa: in tutto il mondo i lavoratori, gli operai, i salariati, scendevano in strada con questa comune rivendicazione. Oggi, le loro parole d’ordine risuonano più attuali che mai: dopo quasi un secolo da questa grande conquista, lo sfruttamento sui luoghi di lavoro non conosce ormai più limiti di sorta. Il lavoro, quello delle 8 ore del secolo sorso, non è più una garanzia per nessuno. La precarietà, a vario grado, ne è divenuta il tratto distintivo.
La crisi ha poi accelerato questo processo, e alla minaccia di chiusure, licenziamenti e delocalizzazioni, si è aggiunto il ricatto esercitato sulla forza lavoro migrante, costretta a subire il livello più infimo dello sfruttamento, e direttamente utilizzata per abbassare i salari di tutti, ed eliminarne i diritti.
Ma gli attacchi hanno anche generato delle risposte, e quasi tutti i settori, dai metalmeccanici alla logistica, dagli autoferrotranvieri agli impiegati dei call center, sono oggi attraversati da un grande numero di mobilitazioni. E la stessa crisi ha generato poi un processo di livellamento delle nostre condizioni verso il basso, rendendo la nostra classe molto più omogenea che in passato. Per questo è di vitale importanza, per il padronato, fomentare una guerra tra poveri che mantenga divisi i vari comparti, sfruttando differenze salariali, contrattuali, territoriali, o ancora meglio, differenze etniche e di nazionalità.
Proprio a partire da quest’ultimo elemento vorremmo costruire il Primo Maggio: contro il ricatto politico che grava direttamente sulla forza lavoro migrante, ma che si ripercuote poi, in maniera generalizzata, sulle condizioni di tutti i lavoratori. Una giornata nella quale prendano parola gli operai della logistica, i braccianti, le badanti impiegate nella cura degli anziani, gli sfruttati dalle cooperative della lega coop e dei mercati rionali.
Vogliamo costruire il Primo Maggio di coloro che scappano dalle guerre militari e di coloro che si ribellano alle guerre economiche e ai tagli alla sanità, alla scuola e ai salari, politiche da macelleria sociale i cui effetti, senza distinzione alcuna, ricadono sui lavoratori e le lavoratrici di qualunque provenienza e nazionalità. Un Primo Maggio di lotta contro le politiche di espulsione, che rivendichi il permesso di soggiorno sganciato dal contratto di lavoro, contro una condizione di clandestinità che obbliga il migrante al silenzio e lo riduce nel più totale anonimato, presupposti che lo costringono ad accettare qualunque condizione di lavoro e di vita, e a marcire, senza alcuna tutela, tra disoccupazione e lavoro nero.
Denunciamo il sistema affaristico dell’accoglienza, finalizzata alla speculazione e al profitto, pienamente determinata dalle politiche e dai trattati europei (Dublino III ed affini) che regolano i flussi migratori in base alla necessità di manodopera a basso costo. Politiche dell’Unione Europea che si traducono come accoglienza per qualcuno, respingimento per molti, e sfruttamento per tutti, indistintamente.
Vogliamo costruire un Primo Maggio con le associazioni, i Sindacati di Base, la cittadinanza solidale, i comitati di lotta per la casa e con tutte quelle realtà che sviluppano strumenti mutualistici e solidaristici sul territorio, dagli ambulatori popolari alle scuole di italiano dellecomunità migranti, alle reti di solidarietà.
Una giornata contro il lavoro schiavile, e non soltanto quello dei braccianti del sud della penisola, ma quello che accomuna ormai tutti i giovani (e meno giovani) salariati, che a fatica cercano un lavoro decente. Si tratta ormai di una condizione strutturale e generalizzata, risultato di 20 anni di ristrutturazioni. Sin dalla fine degli anni ’90, con vari passaggi legislativi, dal pacchetto Treu alla legge 30/2003, si è legalizzato il caporalato, con l’introduzione delle agenzie interinali, e si sono introdotte le più svariate tipologie contrattuali precarie e a tempo determinato. Sino ad arrivare al Jobs Act, ultimo e definitivo attacco alla rigidità del rapporto di lavoro con l’eliminazione del reintegro in caso di ingiusto licenziamento e l’introduzione del cosiddetto “contratto a tutele crescenti”.
Siamo i nuovi schiavi del lavoro e vogliamo lottare insieme a tutti coloro che vivono una condizione di vita lavorativa precaria, a coloro che non hanno né casa né reddito, contro la logica della guerra tra poveri, attraverso la ricomposizione della classe di cui siamo parte. A chi grida “all’invasione” e “prima gli italiani”, rispondiamo che, oggi più che mai, i lavoratori devono essere uniti, e che le “razze”, in un sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sono soltanto due: chi sfrutta e chi è sfruttato.
Oggi, l’unico confine che non conosce muri e frontiere è quello dello sfruttamento: per questo abbiamo bisogno di organizzarci, contro il lavoro gratuito, lo smart working e la gig economy che, sfuggendo a qualsiasi logica contrattuale, nascondono sottoccupazione, salari da fame e sfruttamento ottocentesco. Contesti che vedono lo sviluppo di una nuova forma di caporalato digitale, assolutamente funzionale ad un modello che vede scaricare costi, spese vive, e rischio d’impresa,sempre e solo sul soggetto debole: il lavoratore precario e iper-sfruttato.
Vogliamo un Primo Maggio che, partendo dalla nostra condizione materiale, di lavoratori immigrati o italiani, abbracci tutta la classe di cui siamo parte, quella parte che continua a lottare per difendere il proprio posto di lavoro, proprio come sta avvenendo in queste settimane per gli operai della INNSE di via Rubattino, e per quelli delle tante fabbriche che resistono e si organizzano.
Un Primo Maggio che ricordi le circa 30.000 persone uccise negli ultimi 10 anni alle frontiere dell'Europa, che ricordi il compagno Abd el Salam ucciso in nome del profitto, che ricordi le vittime del rogo di Rignano e tutte le lavoratrici e i lavoratori migranti schiavizzati nelle campagne del sud.
Ci rivolgiamo a Milano e non solo, e a tutte le realtà di lotta che fanno della solidarietà una pratica concreta; il nostro obiettivo è quello di iniziare un percorso di ricomposizione, che sappia mettere in relazione le diverse forme di conflitto presenti sul territorio.
ORGANIZZIAMO INSIEME IL PRIMO MAGGIO DI TUTTI GLI SFRUTTATI!
Domenica 9 aprile, ore 18, spazio “Noi Ci Siamo! Con Abd elSalam”: assemblea pubblica in preparazione al percorso e alla giornata del Primo Maggio.

Milano, marzo 2017
Rete Solidale Noi ci siamo! Con Abd el Salam
sassari: SABATO 25 MARZO MANIFESTAZIONE ANTIFASCISTA
Sabato 11 marzo, presso il Culletivu S’Idealibera di Sassari, durante una cena a sostegno dei popoli del Donbass, vittime di una guerra finanziata dall’Unione Europea, sono stati attaccati con spranghe e cinghie da componenti e simpatizzanti di CasaPound Sassari tre compagni del collettivo e amici intervenuti alla cena. I fascisti, approfittando del fatto che molta gente presente all’iniziativa era andata via, hanno attaccato i pochi rimasti, pensando di vincere facilmente. Per fortuna la risposta dei ragazzi del collettivo non si è fatta attendere, disperdendo i topi di CasaPound per i vicoli del centro storico. I compagni di S’Idealibera, nel difendersi, hanno riportato ferite alla testa e qualche livido in corpo.
Al giorno d’oggi capita spesso, quando ci si dichiara antifascisti, di essere etichettati come fanatici ancora a caccia di vecchi fantasmi. Per molti il fascismo è scomparso nel ’45, e non è altro che uno dei tanti argomenti del libro di storia da studiare a malavoglia. Forse ci si aspetta che i fascisti marcino per strada con la camicia nera, manganellando qua e là a casaccio; magari li si immagina in bianco e nero, come nei documentari alla tv.
Gli ultimi anni di crisi economica hanno portato i ricchi e i potenti di questo mondo ad applicare i metodi necessari per far pagare le loro perdite al popolo, privandoci del lavoro, facendo guerre che causano emigrazione ed eliminando i diritti di tutti. Così da garantirsi i vecchi privilegi.
Questo ovviamente ha portato ad una giusta rabbia popolare ed alla sfiducia verso le istituzioni. Purtroppo i potenti conoscono bene il gioco e sanno benissimo che, senza diversivi per contenere questa rabbia, senza trovargli una valvola di sfogo, verrebbero attaccati in prima persona. Ed ecco che quelle camicie e stivali neri guadagnano colore e valore, le vecchie teste rasate ora diventano pettinature gelatinate, la barba cresce ed il corpo si ricopre di tatuaggi, si modifica l’aspetto ma non la sostanza, il fascismo ritorna al servizio del potere.
I nuovi fascisti, con la faccia lavata ed i vestiti nuovi, si presentano poi nei nostri quartieri con finti obiettivi sociali e di volontariato. Così sfruttando l’ignoranza (che tagli a scuole e università aumentano) e la povertà causata dalle banche e dalla grande finanza, aizzano l’odio verso altri uomini che scappano dalle guerre causate dai ricchi per i loro interessi, indicandoli come i veri colpevoli della nostra povertà e descrivendoli come selvaggi che vogliono inquinare la nostra cultura, stuprare le donne e derubarci del poco che abbiamo. Così i fascisti iniziano a crearsi il consenso: QUESTO E’ CIO’ CHE FA CASAPOUND!
CasaPound racconta ai poveri che altri poveri con ancora meno diritti o potere di replica, stanno loro rubando il futuro e i pochi spiccioli che avanzano in tasca, distraendoli così dal vero nemico, i potenti di questa terra e di questa isola, proprietari dei grossi capitali, sanguisughe della ricchezza prodotta da chi lavora, reali manovratori dei governi e dei mezzi di informazione. Quando il gioco comincia a funzionare e la gente comincia a credergli, da “quattro coglioni” che erano, crescono di numero e cominciano a prendere fiducia, iniziando ad attaccare i militanti e gli spazi politici e sociali che realmente si battono per cambiare la realtà, perché sono i primi a metterci la faccia e combattere realmente chi ci affama. Eliminati quelli poi, cominciano ad accusare ed attaccare ogni stile di vita che vada contro le loro criminali “idee” fasciste, sessiste e razziste. Ed ecco che attaccano te che sei un lavoratore non servile che lotta per i suoi diritti, un omosessuale, un appartenente a un’etnia o a una nazionalità a loro sgradita, un passante che rifiuta un loro volantino. Ora cercano te che sei un punk, un rapper, un anticonformista. E così via fino a ristabilire l’ordine, necessario ai ricchi e potenti che li finanziano per mantenere il loro privilegio, per militarizzare le fabbriche e i posti di lavoro, per avere a disposizione schiere di servi obbedienti da sfruttare e gettar via quando non servono più.
Spesso, nella fase iniziale, quando sono pochi e ancora deboli ma riconoscibili, noi antifascisti lanciamo l’allarme, facciamo presente che vanno fermati subito, affinché la Storia non si ripeta. La risposta che spesso riceviamo è quella del “Lasciali perdere, sono quattro nostalgici fanatici” o “Si, ma se tu gli impedisci di parlare, allora sei fascista anche tu!” come se il razzismo e l’odio verso il diverso siano “idee” come altre, che hanno il diritto di essere propagandate, invece di essere combattute con ogni mezzo. Ed ecco che la Storia si ripete, ecco che il fascismo prende il potere, consolidando in realtà chi al potere c’è già e di cui è il braccio operante.
Sabato 25 marzo alle ore 15:30 a Sassari, in piazza S. Antonio, si terrà un’importante manifestazione antifascista per smascherare la vera natura di Casapound: violenti al servizio dei potenti.
Non vogliamo nè una parata né una passeggiata con le stesse istituzioni che prima gli autorizzano i banchetti e le manifestazioni e poi, quando risuonano le sirene delle ambulanze o ci “scappa il morto”, vanno a dare la loro ipocrita solidarietà alle vittime. Per questo chiediamo a tutte le singole persone e tutte le realtà sinceramente antifasciste, senza bandiere di partito, né di associazioni o sigle varie di unirsi sotto un’unica bandiera, quella dell’antifascismo per smascherare CasaPound e il suo vero volto. Chiediamo di scendere in piazza come uomini e donne autonomi e determinati, per far sì che l’antifascismo sia pratica quotidiana, un valore essenziale e costante, irrinunciabile come il respirare.
E che non sia vissuta come una giornata un po’ diversa dalle altre, in cui fare foto o filmati per ricordo o da mettere su Internet. Lasciate a casa o nella borsa cellulari e macchine fotografiche e venite a gridare la vostra rabbia, a manifestarla tutti insieme.
Vorremmo che sabato 25 Marzo non fosse una semplice giornata di “espressione del dissenso”, una giornata che finisce e che non ha alcun seguito. Vorremmo che da qui rinasca una reale pratica antifascista sul territorio, reali collaborazioni tra individui e gruppi che desiderano opporsi con ogni mezzo necessario a ogni espressione fascista, razzista e sessista, contrastando i fascisti che vivono nei nostri quartieri (gli stessi che attraverseremo in corteo) e smascherando i complici che li sostengono e li finanziano, per rispedire questi schifosi nella fogna della Storia a cui sono destinati.
CHIUDIAMO COL FASCISMO!! SMASCHERIAMO I LECCACULO DEI POTENTI

19 marzo 2017, da sidealibera.noblogs.org

***
Sabato si è dipanato per le vie di Sassari un corteo antifascista di circa 500 persone.
Dopo l'attacco subito dal collettivo S'idea Libera l'11 marzo da parte di alcuni esponenti sassaresi e cagliaritani di Casapound, sabato Sassari o meglio dire la Sardegna ha dato una grande risposta di piazza all'aggressione fascista. A portare solidarietà al collettivo, ma soprattutto a rimarcare la volontà di spazzare qualsiasi possibilità di legittimazione per Casapound in Sardegna sono accorsi mezzi e pullman da tutta l'isola.
E' stata un'ottima giornata di antifascismo, partecipata in massa dagli abitanti de su capu e susu, cosa per nulla scontata visti gli scontri ultras verificatesi intorno al luogo del concentramento a un'ora dall'inzio del corteo. Di rilevanza la presenza dei collettivi studenteschi che da qualche mese hanno incominciato ad organizzarsi in città e di tant* universitar*.
ll corteo non autorizzato è partito dall'emiciclo Garibaldi intorno alle 16, si è riversato nelle arterie principali della città per poi deviare verso Monte Rosello il quartiere popolare in cui l'anno scorso ha aperto la sede Casapound. Non sono mancati i momenti di tensione con alcuni simpatizzanti del movimento neofascista, finiti prima con l'intervento della Digos, poi con un camerata contuso come la carrozzeria della sua macchina. Sono stati inoltre lasciati stencil e scritte vicino alla sede presidiate dall'antisommossa. Il corteo si è poi concluso intorno alle 19:30 presso piazza sant'Antonio. [...]

27 marzo 2017, da infoaut.org


Lettera dal carcere di Ivrea
Carissimi amici oggi mi è arrivata la vostra posta, mi fa piacere che ogni tanto qualcuno mi scrive. Qui è sempre peggio, l'unica novità è che finalmente dopo tanto tempo stanno cambiando i materassi. Il resto è sempre peggio. Abbiamo mangiato per tre mesi di fila come contorno solo verza o bollita o cruda.
Qui dovrebbero chiamarla casa della corruzione invece di casa circondariale. Per non parlare del sopravvitto che sono prezzi da strozzini, ma purtroppo nessuno fa niente. Sono tutti d'accordo tra di loro e si coprono a vicenda e noi subiamo.
Adesso vi saluto con un forte abbraccio, Francesco.

15 marzo 2017
Francesco Maccarone, corso Vercelli, 165 - 10015 Ivrea (Torino)

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Venerdì 31 marzo: ore 17.30, PRESIDIO DAVANTI AL CARCERE DI IVREA
A Ivrea, dopo la rivolta dei detenuti nell'ottobre 2016 e i conseguenti pestaggi e trasferimenti, continua la mobilitazione contro il carcere. Nel marzo '98 morivano Edoardo Massari in carcere e Soledad Rosas, costretta agli arresti domiciliari. A distanza di vent'anni, saremo ancora davanti al carcere di Ivrea per lo stesso motivo: la distruzione di ogni galera e ogni struttura repressiva.


Lettera dal carcere di Novara
Per prima cosa vi ringrazio per il presidio a Novara contro il 41bis e per tutti i compagni che subiscono le ingiustizie e difatti mi presento come l'ennesimo.
In questa busta vi allego la copia dell'istanza che ho inviato al magistrato, dove potrete capire meglio cos'è successo. A me sono stati inflitti 15 giorni di isolamento e sicuramente verrò trasferito, ma so già che il magistrato non accoglierà la mia richiesta. Però qui la questione è che questa direttrice, o meglio dittatrice, ha istigato la lite e io con la mia sberla, credetemi, ho evitato un linciaggio al detenuto in questione. Il problema è che questo detenuto a mio parere è destinato ad una “sezione protetti”, invece è qui in mezzo a noi e la direttrice ha fatto quell'affermazione. Io non sono la giustizia ma qualsiasi persona provi amore per la propria famiglia gli sarebbe andato contro – visto il reato.
Spero che voi riuscirete a far girare questa notizia e che venga criticata questa direttrice che ci continua a fare abusi su abusi con regole e proibizioni assurde; e in più poi crea scompigli, e chi paga siamo noi!
Con questo vi ringrazio, sperando che vi farete sentire e che venga diffusa questa storia. Vi ringrazio e vi invio un abbraccio, anche se non vi conosco! Continuate così!
A presto!

26 febbraio 2017
Roberto Tognon, via Sforzesca, 49 - 28100 Novara


Novara: in piazza per la libertà di lottare
La manifestazione del 18 marzo a Novara “contro la repressione”, preceduta dal concentramento nel piazzale della stazione, è stata caratterizzata soprattutto dall'ampia presenza e viva partecipazione di giovani della città e dintorni, ma anche di Saronno, Ivrea, Biella. Il senso dell'appello che l'ha preparata è immediato:
“[...] Ai laboratori della repressione (la Val Susa e Torino, la Valle Scrivia ed il Terzo Valico, Bologna, Roma) si aggiungono le operazioni atte a zittire l’opposizione sociale anche nelle situazioni più piccole. Novara da questo punto di vista rappresenta l’esempio più chiaro con le vicende che hanno visto protagonist* gli studenti e le studentesse il 7 ottobre scorso – caricat* per uno striscione che richiamava le responsabilità delle forze dell’ordine sul caso di Stefano Cucchi - ed il giorno seguente - 8 ottobre - il divieto di esporre bandiere del partito dei lavoratori curdi (PKK) durante un presidio a sostegno della lotta di quel popolo. In entrambe le occasioni non sono mancate le denunce da parte della Questura novarese. Una vera e propria escalation repressiva: anche sabato 11 febbraio alcun* giovan* antifascist* sono stati fermat* e denunciat* mentre esprimevano dissenso di fronte a una lugubre parata inneggiante al fascismo.
[...] Quando lo sdegno porta alla civile mobilitazione le loro risposte sono cariche, caschi, scudi e manganellate conditi da una pletora di denunce come i recenti fatti di Pavia, dove una manifestazione antifascista che vedeva tra suoi organizzatori anche l'Anpi, ha subito una brutale repressione [...].
Per questi motivi le forze che si riconoscono in questo appello indicono una mobilitazione. Facciamo sentire forte e chiara la risposta di tutti i territori all’offensiva in atto”.
Lo striscione che l'ha aperta: “Quando l'ingiustizia diventa legge la resistenza diventa dovere” ne ha chiarito il messaggio, rafforzato da altri: “Chi semina repressione raccoglie rabbia”, “Libertà di pensiero – Libertà d'azione – Contro Stato e fascisti – Azione diretta”.
Fra le urla lanciate soprattutto “Tout le monde déteste la police” è stato capace a unire il corteo. Le persone di ogni età incontrate in strada hanno accolto con interesse il corteo, diversi giovani vi si sono unite-i.
Anche l'incontro fra generazioni stavolta è riuscito. Ne è esempio il contributo portato dalle “Mamme in piazza per la libertà di dissenso” che si sono unite già dal 25 aprile dell'anno scorso nelle piazze di Torino - nello striscione come in un volantino raccontano:
“Siamo le mamme di ragazzi e ragazze che, di fronte allo spettacolo di un paese in cui sono pesantemente in crisi economia, politica, stato sociale, ambiente, diritti costituzionali e civili, a differenza di molti loro coetanei, hanno scelto di impiegare tempo e energie per il loro impegno politico e sociale […] Sono giovani che lottano per un mondo più giusto e libero, nell'interesse di noi tutti e per questo stanno pagando un carissimo prezzo [...]. Solo a Torino, tra chi si impegna politicamente sul territorio, si contano più di 1.000 indagati, più di 200 condanne in primo grado”...
Il corteo si è concluso in una piazza del centro dove sul tema della manifestazione si sono espresse compagne-i delle realtà di Novara, le “Mamme...” di Torino, compagne-i del movimento No Tav; il tema, la repressione, è stato ripreso nell'intervento che nel ricordare il presidio davanti al carcere di Novara ha ribadito l'importanza della lotta contro il 41bis e contro l'isolamento.
L'attualità quanto la generalità della repressione sono venute a galla dal racconto di una compagna che nei giorni precedenti ha portato sostegno allo sciopero, con blocco dell'ingresso, della Safim (azienda, 250 operai – in gran parte immigrati – situata nei pressi di To competente nella refrigerazione). La polizia per aprire gli ingressi ai camion, ha caricato con gas e manganelli, pestato a sangue chi ha resistito. Lo sciopero, compresi i blocchi degli ingressi e stradali vanno avanti da giorni per ottenere il rientro di quattro operai licenziati impegnati nelle lotte “contro la schiavitù” - realtà che si va espandendo come la malaria.
Milano, 18 marzo 2017


Lettere dal carcere di Roma-Rebibbia
Grazie dell'opuscolo, che faccio girare, a volte mi domando se tutti i 55.000 detenuti si rendessero conto in quale situazione viviamo, allora veramente ci sarebbe una rivoluzione a questo sistema obsoleto.
Nel nostro carcere, e precisamente il reparto G9 è stato appurato che è inagibile, ma nonostante questo ancora le persone detenute vivono in situazioni disastrose, nei bagni cade l'acqua dal soffitto, e le stanze sono piene di muffa. Ma all'interno vivono ancora dalle 4 alle 6 persone. Mentre nel reparto G8, sono due mesi che aspettiamo il ripristino delle lavatrici, tolte, ma ancora non è stato terminato questo lavoro di ripristino.
E’ più di un anno che una sezione è senza la doccia, e ancora non sono iniziati i lavori per sistemare quella chiusa, ma non solo, anche al piano superiore è stata chiusa una doccia. Insomma, il doppio di detenuti che devono lavarsi con solo 3 docce.
Ma la direzione è immobile da quel giorno dell'evasione l'unico vocabolo che circola è chiusura. Noi speriamo sempre che qualcosa cambi, ma non ci sono gli elementi oggettivi per iniziare a sperare. Marco.

inizio di marzo 2017
Marco Costantini, via Majetti, 70 - 00156 Roma

***
Ciao come state? Io bene anche se un po' preoccupato, esco tra un mese e mezzo, ma, appena dopo 20 giorni ho una revisione di un processo, anche la condanna è abbastanza alta (12 anni) e già ne ho fatti 28 di anni. E' assurdo che ancora mi accollino rapine che non ho in prima cosa fatto.
E poi, cosa da non credere, il Magistrato non mi concede nessun beneficio, perché dice che dal 2002 al 2013 ero latitante in Spagna. Però un altro Magistrato mi ha condannato a 12 anni perché le guardie mi accusano di una rapina nell'anno 2004 in Roma. Cioè, secondo loro mi sono sdoppiato, ricercato in Spagna da un lato e rapinatore di banche di Roma da un altro lato; e poi casualmente io chiedo la videoregistrazione e ai reperti l'hanno persa. Che ne dite?
La pubblicate questa mia lettera di ribellione contro le assurde prepotenze dello stato?
Un caro saluto, Maurizio.

1° marzo 2017
Maurizio Bianchi, via Raffaele Majetti, 70 - 00156 Roma
scritto dal carcere di spoleto (pg)
Ultimamente mi stanno scrivendo diversi laureandi che stanno preparando la tesi sulla tortura del regime del 41 bis prevista dal nostro ordinamento penitenziario. Penso che sia importantissimo che i giovani nelle loro tesi di laurea s’interessino e scrivano delle conseguenze che porta questo terribile regime. Molti non sanno, e altri fanno finta di non sapere, che questo girone infernale crea dei mostri vegetali perché dopo alcuni anni il prigioniero non pensa più a niente e diventa solo una cosa fra le cose.
Anna, che si sta laureando in giurisprudenza, l’altro giorno mi ha chiesto: “Che cos’è il regime di tortura del 41 bis?”.
Pur sapendolo perché l’ho subìto per cinque lunghi anni, con un anno e mezzo d’isolamento totale, mi sono accorto che non è facile rispondere a questa domanda, perché è come se ti chiedessero cos’è l’inferno. Le ho detto che in queste sezioni ci sono donne e uomini che non abbracciano figli, padri, nipoti e madri da anni e anni. È un regime dove perdi totalmente la gestione della tua vita, spesso anche dei tuoi pensieri. Ti spogliano della tua identità. Diventi a tutti gli effetti un fantasma. Ti levano anche lo specchio, per non farti specchiare, per farti sentire un’ombra. Ti spogliano la cella di tutti i tuoi oggetti. Ti censurano la posta per toglierti la solidarietà esterna e l’intimità dei tuoi sentimenti. Ti isolano. Ti emarginano come i dannati all’inferno, ma almeno questi, si dice, hanno la compagnia dei diavoli.
Alla fine ad Anna ho raccontato di un episodio di quando ero sottoposto al regime di tortura del 41 bis nell’isola del Diavolo dell’Asinara.
Era il 1992. Mi trovavo nella cella liscia. Ero in isolamento. Non vedevo e non parlavo con nessuno. La mia cella sembrava una scatola di sardine. Un fazzoletto di cemento, con una branda piantata sul pavimento. Un tavolino di pochi centimetri inchiodato al muro. Una finestra con doppie sbarre, una porta blindata spessa una spanna. Un bagno turco aperto senza nessuna riservatezza e, al lato, un piccolo lavandino. Lo spazio nella cella era minimo. A malapena riuscivo a stare in piedi per fare giusto qualche passo avanti ed indietro. Probabilmente un animale, vivendo in quel modo, sarebbe morto. Io invece sono riuscito a sopravvivere.
Una notte, era l’ultima dell’anno, era passata la mezzanotte e le guardie stavano festeggiando rumorosamente l’anno nuovo. Erano ubriachi. Davano calci ai blindati e urlavano insulti verso di noi. Intuii che presto sarebbero venuti a divertirsi con me. Non mi sbagliavo. Arrivarono. Aprirono la cella ed entrarono. Ridevano. Erano ubriachi. Imprecai contro di loro, e loro iniziarono a colpirmi con i pugni. Quando poi fui a terra, iniziarono a colpirmi con i piedi. Per ripararmi mi trascinai sotto la branda. Le guardie fecero più fatica a colpirmi e presto si arresero e andarono a divertirsi con qualche altro detenuto.
Infine, ho detto ad Anna che adesso il regime di tortura del 41 bis è ancora peggiore e si sa ancora di meno di quello che avviene, perché quei prigionieri hanno smesso di vivere, pensare, sognare e sperare.
Per questo L’Associazione Liberarsi onlus, per l’8 aprile 2017, sta organizzando un convegno sul regime di tortura “democratico” del 41 bis, a Firenze, al Centro Sociale Evangelico via Manzoni 21.

marzo 2017
Carmelo Musumeci, via Pievaiola n. 252 - 06132 Perugia

Nell’ultimo piego libri inviato a Carmelo e ritornato indietro c'era scritto che è stato "trasferito" nel carcere di Perugia.
Lettera dal carcere di Tempio Pausania (OT)
Cari amici, mi chiamo Liberato Guardo e subito vi dico di scusarmi per la mia ignoranza e della mia semplicità ad esprimermi.
Io mi trovo dal 2007 in carcere con 2 ergastoli, con questo non voglio dirvi che sono innocente, ma neanche colpevole in parte. Mi avete già scritto e mandato vari opuscoli e leggendoli, vi dico che vi ammiro molto e la penso come voi. Io come tanti ergastolani non abbiamo via d'uscita da questo sistema infame e vi dico subito che tanti ergastolani hanno aderito ai programmi vergognosi che qui dentro obbligano a percorrere per ottenere qualche permesso di poche ore o giorni di licenza, però sinceramente io non sono d'accordo, perché non sono stato mai un infame e mai lo sarò. Con la scusa del programma di giustizia riparativa hanno attirato nella loro rete tante persone, facendole diventare loro confidenti dentro e fuori dal carcere, per essere più preciso, loro spie.
Io cari amici non sono uno di questi, per proteggere la mia famiglia ci muoio qui dentro e mai diventerò uno di loro. Ho chiesto solo di essere avvicinato un po' più vicino alla terra ferma, così che la mia famiglia possa venire a trovarmi e farmi qualche ora di colloquio. Io non chiedevo di essere avvicinato in Campania, ma pure al Nord, e sapete che mi ha risposto il Dap, che non c'è posto e che sto bene dove mi trovo.
Io sono due anni che mi trovo qui e una sola volta ho visto la mia famiglia, ditemi voi se questo è giusto, e con due ergastoli e lontano dalla propria famiglia. E credetemi vengono volte che mi passa la voglia di vivere e di farla finita, però mi ritengo un uomo e questa soddisfazione allo Stato non voglio dargliela. Io mi ritengo un anti-Stato, di questo Stato infame e ladro, per questo mi trovo all'isolamento così sto lontano da quelli che si sono piegati al loro sporco gioco. Cari amici io mi ritengo un combattente.
Qui ci sono le educatrici che dicono che hanno tolto l'ergastolo, per loro è semplice dicono basta che firmino l'articolo 58 [58ter dell'ordinamento penitenziario, ndr], che vuol dire collaborazione dentro e fuori dal carcere. Forse loro non hanno amore per i propri cari, mentre io sì, perché facendo come dicono io metterei a rischio la mia famiglia. Ditemi voi, è giusto che i miei peccati li dovrebbero pagare anche i miei cari?
Cari amici mi scuso ancora per la mia ignoranza, ci tengo a farvi sapere che sono di Torre Annunziata e che sono un cinquantenne e che vorrei tanto avvicinarmi alla mia famiglia. Vi invio i miei più sinceri saluti e che i vostri e i miei ritengo abbiano successo.
Ciao, Liberato purtroppo solo di nome.

13 marzo 2017
Liberato Guardo C.R. Località Giannettu - 07029 Nuchis (Tempio Pausania)


scritto dal carcere di Massama (or)
“Ergastolo ostativo”
Prima di iniziare a scrivere questo mio scritto, voglio descrivere a persone che vivono fuori da questo contesto, che cosa sia l'ergastolo ostativo.
L'ergastolo ostativo è quella pena che non ha un fine, cioé, non potrai uscire dal carcere e non puoi accedere ai benefici. Dovrai passare tutta la tua esistenza in un istituto di pena, invecchierai e morirai, non conoscerai niente di tutto quello che concorre fuori. Vivi una vita che secondo un mio giudizio non ha senso di viverlo, perché tutto quello che farà l'ergastolano ostativo in un istituto di pena giova solo a se stesso, ad altri non gliene può fregar di meno, perché non ti conoscono.
Figli, nipoti e parenti più stretti non sanno chi sei e se lo sanno, per loro sei diventato come un estraneo. Trascorsi parecchi anni, dentro un istituto di pena, non puoi relazionarti con la realtà di fuori, e nello stesso tempo sei escluso totalmente dalla società, se sei fortunato e uscirai dal carcere, che è molto difficile, impiegherai moltissimi anni ad inserirti nella nuova società.
Ultimamente si è parlato tanto di questa ignobile pena che è stata equiparata alla pena di morte, nonostante i tantissimi appelli, anche dal Santo Padre, per abolire questo indegno mostro che ci divora, ogni giorno che passa. Non si capisce quale sia la ragione e lo scopo per tener in vita questa pena anacronistica.
Ho sentito parlare tantissime persone delle istituzioni, e hanno confermato che la pena dell'ergastolo in Italia deve essere abolita, ma quando poi si arriva al dunque queste persone fanno un passo indietro, e non si capisce quale sia il motivo.
L'essere umano nell'arco di tutta la sua esistenza ha dei cambiamenti sia fisici e mentali, e questo è stato approvato scientificamente dalla scienza.
Se non si vuole abolire l'ergastolo, perché non si cerca un'altra alternativa? Nel senso, se una persona deve rimanere tutta la vita in carcere, perché non inserirla nella società tramite benefici penitenziari, in modo che lo stesso possa fare una vita, anche se poi legato a quell'orribile pena?
Tenere un ergastolano tutta la vita in carcere a che cosa giova? Lo stato ci tiene in vita, spreca tantissimi soldi, sì perché un detenuto costa allo stato più di cento euro al giorno. Sarebbe giusto investire questi soldi per altri motivi o per scopi umanitari.
Quello che scrivo potrebbe essere sbagliato, ma se si facesse un po' di riflessione sull'ergastolo ostativo, qualcuno potrebbe anche cambiare modo di pensare.

Oristano febbraio 2017
Salvatore Pulvirenti, Loc. Su Pedriaxiu - 09170 Massama (Oristano)


Cartolettera dalla galera de Brukoli (sr)
Saludi kumpanz*s de Olga! Mi auguro vi sia arrivata la mia cartolina, confermo invece la ricezione del vostro piego (Pinelli; il 119) Immancabile! (anche quando “scompare”).
Attendo la prossima deportazione per il processo del 9 marzo, e se dovesse essere ulteriormente rinviato va ancora meglio dato che è l'unica possibilità per recarmi in Sardegna. Ringrazio i compagni, le compagne che hanno portato con sé una carica di forte autodeterminante solidarietà con la presenza solidale in aula a Kastedu, che hanno creato l'occasione per poterci conoscere fisicamente e scambiare le nostre complicità. Sembra un piccolo passo, ma per me è stato vissuto come una sventata di libertà, come un salto dal muro di cinta, e non sia mai, potrà veramente succedere.
Spero sia arrivata la mia ultima lettera. Per il resto 'Fuoco ai palazzi del DAP!
Saluti Davide.

28 gennaio 2017
Davide Delogu, C.R. Brucoli, Contrada Ippolito, 1 - 96011 Augusta (Siracusa)

***
Rinviata l’udienza del processo a Davide Delogu
L’udienza che si sarebbe dovuta svolgere stamattina è stata rinviata per assenza del giudice. Il rinvio è stato fissato al 17 Maggio.
I solidali presenti si sono divisi tra l’interno e l’esterno del tribunale. Chi è entrato è riuscito a intravedere per un attimo Davide. Tutti insieme l’abbiamo poi salutato all’uscita posteriore del tribunale quando è stato portato via a bordo di un cellulare della polizia penitenziaria. [...]

9 marzo 2017, da nobordersard.wordpress.com

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Domenica 2 Aprile al CSOA Boccaccio di Monza. Pranzo di raccolta fondi per sostenere Davide Delogu, imprigionato nel carcere di Augusta.
Sarà occasione per discutere del processo in corso a Cagliari, dove Davide è imputato per le rivolte del Buoncammino del 2013, dopo le quali sono scattati per lui e per gli altri rivoltosi i trasferimenti punitivi così come lunghi periodi di isolamento, il 14 bis.
Anche nel vicino carcere di Opera, chi non tace abusi e vessazioni, che sono per tutti all'ordine del giorno, viene punito con il 14 bis.


Lettere dal carcere di milano-opera
Carissime/i compagne/i, vi scrivo con tanta rabbia in attesa di sapere sull'ennesimo abuso di un magistrato di sorveglianza sull'esito del reclamo al 14bis. Ringrazio tutte/i i/le compagne/i di cuore che il giorno 1° marzo erano al tribunale per portarmi la loro solidarietà e affetto ed io contraccambio con tanto amore verso tutte/i loro.
Come sapete non mi hanno fatto scendere dal furgone; dopo le mie proteste mi hanno portato in bagno, sono sceso, mi sono rifiutato di salire sul furgone, dicendo che era un mio diritto presenziare all'udienza per il reclamo, finché il capo-scorta e altri ispettori del tribunale mi hanno portato un foglio dove c'era scritto che: “Il detenuto non ha diritto a presenziare all'udienza – e che la mia presenza era dovuta a – un errore di trascrizione...” firmato il magistrato di sorveglianza Maria Grazia Moi.
Un magistrato che ho già ricusato 3 volte, che ho chiesto al responsabile del tribunale che mi sia tolta, perché è prevenuta nei miei confronti, che mi ha bloccato più di 100 lettere; che c'erano i presupposti per toglierle il mio caso...
Invece cosa fanno? All'udienza c'è questa complice degli abusi che inveisce contro il mio legale e inizia a dire che io sono un criminale anarchico e altre cose di cui provo compassione per costei e la sua arroganza di voler amministrare la giustizia.
Solo che il suo spazio-tempo non è il mio; la mia dignità non permetto che sia calpestata dalla sua arroganza e meschinità. Forse il sogno di costei era quello di poter svolgere la sua mansione ad Auschwitz, a differenza di me che non mi giro dall'altra parte quando vedo discriminazione, violenza, e che non sto zitto davanti a quelli come questa luminare (di illegalità e arroganza).
Adesso gli avvocati sono convinti che questo giudice ce l'ha con me e andranno in Cassazione e anche alla Corte Europea per denunciare che gli hanno vietato il diritto alla difesa. Sono arrivati a questo punto perché i loro crimini vogliono tenerli impuniti ed instaurare un clima di terrore tra i detenuti sottoposti al 14bis, che lottano per i diritti di tutti/e.
Io qui non ho nulla da dire sul trattamento, non solo su di me, ma su tutti. Quello che mi fa ribrezzo sono questi giudici che offendono la categoria di molti magistrati che sono per i nostri diritti, e io ne ho conosciuti tanti onesti, come il d.re Bortolato di Padova che mi ha concesso 1 anno e mezzo di liberazione anticipata, scrivendo che: nonostante i miei rapporti e denunce, sono meritevole della liberazione anticipata, perché lotto per i nostri diritti.
Ecco, invece a Milano, c'è questo giudice che la legge la fa a suo piacimento.
Ci sentiremo quando arriverà il rigetto (sicuro), perché da questo abuso mi aspetto solo di avere la certezza di un sistema sporco-marcio-illegale e con escrementi da pulire.
Un abbraccio con tanto amore, a testa alta V.V.B. Maurizio.

10 marzo 2017
Maurizio Alfieri, via Camporgnago, 40 - 20090 Opera (Milano)

***
Ciao, scusami in anticipo se sarò breve e non ti scrivo le novità della Cayenna, purtroppo è successo un casino con gli sbirri e sicuramente avrò ritorsioni sulla posta e non solo, non me ne fotte un c..., però voglio evitare di non ricevere più tue notizie.
Ora ti spiego. Ieri mi è giunta la tua lettera e fino a qui tutto a posto, poi oggi mi hanno chiamato, ancora una volta mi hanno detto che sanno che c'è qualcuno in questa sezione che invia le informazioni fuori. Questo dà molto fastidio ai porci capitalisti che comandano la Cayenna. Sono stato pregato di chiudere con questa storia, ma io ho ribadito che sono i miei ideali e non mi devo nascondere da nessuno.
Quando hanno passato la posta, nell'aprirla, la guardia ha visto l'opuscolo ed è corsa a consegnarlo al suo superiore, che è venuto da me e ha provato a farmi l'abuso e la prepotenza, dicendo che l'opuscolo andava controllato, io gli ho risposto che poteva controllarlo pagina per pagina, ma non leggerlo, perchè io non ho la censura, il tutto doveva farlo davanti a me. Dopo dieci minuti di discussione mi hanno dato l'opuscolo senza leggerlo. Qui sorge il problema.
Sono andati a visionare il registro della corrispondenza; hanno accertato che noi ci scriviamo e hanno annotato il tuo nome. Ora ho paura che quando mi arriva la tua posta o quando ti scrivo buttano le lettere dopo averle lette. Io ho fatto troppo casino, ti giuro che non ragionavo più. A me vuoi fare una prepotenza del genere? Non esiste, io lotto fino alla morte quando ho ragione. Li ho minacciati, dicendo che se non se mi davano subito la posta andavo per vie legali tramite avvocato. Per leggere la mia posta si devono procurare un'ordinanza di censura da parte del magistrato di sorveglianza, altrimenti fanculo. Ora ti invio il mio più sincero abbraccio, con stima il tuo compagno.

fine febbraio 2017

***
Contro l'isolamento: Martedì 11 aprile, presidio al tribunale di milano
Nel febbraio 2016 nel carcere di Opera, che rinchiude oltre mille persone (fra le quali un centinaio sottoposte al regime di 41 bis), ha preso vita una protesta.
L'iniziativa è stata intrapresa dai prigionieri del 1° Padiglione che hanno scritto e diffuso, all'interno del carcere e fuori, l'urlo “Dalla Cayenna di Opera”, una lettera collettiva che espone cinque richieste, firmata da 128 reclusi.
Per tentare di frenare la mobilitazione, nel volgere di alcune settimane, la direzione ha chiuso in isolamento (art. 14 bis o.p., della durata di 3 mesi “prorogabili”) quelli che, a sua detta, erano “a capo” della protesta, ha colpito la corrispondenza, adoperando la censura, aggravando le condizioni di colloquio con i famigliari, operando spostamenti.
In aprile, in sintonia con la mobilitazione dei prigionieri, si è riusciti a dar vita a una giornata di comunicazione sotto il carcere di Opera che ha unito le rivendicazioni contenute nella lettera collettiva alla lotta contro il 41bis. Quest'ultima, in particolare, diretta a far ritirare la recente “circolare” che impedisce alle persone richiuse in regime di 41 bis di ricevere libri se non acquistati dall’amministrazione penitenziaria: i libri non possono più essere portati dai famigliari ai colloqui, né possono essere spediti per posta.
Sul finire di novembre la direzione ha rinchiuso nuovamente nell'isolamento del 14 bis Maurizio, uno dei prigionieri impegnati nella protesta, usando questa volta a pretesto un contrasto fra lui e la direzione carceraria dovuto al misero trattamento riservato ai prigionieri disabili chiusi nella sua stessa sezione, trattamento documentato in diverse lettere dal carcere di Opera.
Contro questo attacco il compagno ha avanzato reclamo valutato in una camera di consiglio, presso il Tribunale di Sorveglianza di Milano, solo lo scorso 1° di marzo.
Quella mattina una decina di solidali era presente davanti all'aula dove doveva essere ascoltato. Passate tre ore senza la sua comparsa in aula, alla richiesta di spiegazioni da parte dell’avv.sa di fiducia, veniva detto dalla giudice (Maria Grazia Moi, che svolge le sue funzioni anche nel carcere di Opera), che il “ricorrente non poteva presenziare poiché sottoposto al 14 bis” (disposizione invece non scritta in nessun codice).
In attesa di conoscere le motivazioni ufficiali che hanno impedito a Maurizio di raccontare quanto avviene nella galera di Opera, possiamo senza dubbi affermare che questa raccomandazione è arrivata direttamente dalla direzione del carcere, “preoccupata” dalle contestazioni e proteste, soprattutto collettive, avvenute e esistenti nel carcere “modello” di Milano-Opera.
marzo 2017, OLGa


Lettera dal carcere di Sulmona (aq)
Carissimi compagni, vi spedisco questo scritto per farvi avere mie notizie…
Nell'opuscolo ho letto in merito all'emigrazione e al dare accoglienza a chi fugge dalla miseria dei Paesi in guerra dell'Africa. Gente che lotta per la vita e per essere libera, ma, come sentiamo, in Europa si parla di rafforzare i confini e di alzare i muri. E tanti Paesi stanno decidendo per le espulsioni e usare la repressione. In Europa la libertà e la solidarietà umana sono parole vuote.
Non c'è bisogno di guardare lontano per accorgersi che al giorno d'oggi ingiustizie e sofferenza abbondano, dentro le carceri e ancora di più fuori nel mondo. Guerre e conflitti uccidono tanti civili innocenti e anche soldati. La violenza si abbatte su persone innocenti. Incidenti mortali e malattie invalidanti mietono vittime, senza guardare in faccia a nessuno, e non importa l'età o il ceto sociale. I disastri naturali spazzano via intere comunità come è successo nell'Abruzzo con il terremoto.
Il pregiudizio e l'ingiustizia dilagano. E tanta gente è stata toccata da tutto questo e dalle sofferenze, come mostra la storia; gli uomini hanno causato dolori e portato molte sofferenze. Sappiamo dalle persone sapienti, che esistono molte idee che, pur essendo diverse sono ugualmente accettabili, e che l'apertura mentale arricchisce e protegge i rapporti umani e la solidarietà.
Il tema carcere ha il merito di obbligare al confronto, dare risposte, ma attualmente il carcere nel nostro Paese è una realtà drammatica; è lo specchio rovesciato di una società, lo spazio dove emergono tutte le contraddizioni e le sofferenze di una società malata.
La domanda da porsi è: le leggi, le istituzioni, credono veramente che nell'uomo carcerato c'è una “persona” da rispettare, da salvare, promuovere, educare e liberare? Il mio umile parere è che per quanto aperto può essere il carcere rimane sempre un luogo di sofferenza e di tortura. Guarda tutti quelli che si trovano al 41bis, sono privati di tutto e dei propri diritti e della propria libertà. Nessuno deve stare in carcere. Gli uomini devono vivere tutti liberi. Cari saluti a tutti.

18 febbraio 2017
Antonino Faro, via Lamaccio, 2 - 67039 Sulmona (L'Aquila)


Lettera dal carcere di Teramo
Ciao compagnx! Ho ricevuto il plico contenente il 120 ed il libro e vi ringrazio di cuore. Dalla mia ultima c'è la novità del mio fine pena che non è aprile 2021 bensì il 05/03/'21. Ho quindi chiesto di inoltrare istanza per l'affidamento al lavoro.
Prima di imbucare vi chiedo di valutare con attenzione questa idea: voi come collettivo siete l'unico in Italia ad operare in maniera seria e ad avere una visione militante della questione anticarceraria. Tuttavia vi limitate, e non è una critica sia ben chiaro, ad un “rapporto” tra voi e i detenuti. Penso possa essere utile per noi detenuti, ma un po' per tutti coloro che combattono contro la repressione, allargare il cerchio e interagire di più con gli strumenti multimediali a disposizione
Esistono in Italia centinaia di realtà potenzialmente interessate ad una lotta seria che vanno però coinvolte ed informate. Un sito internet ben gestito, dove riportare tutte le lettere e diffondere articoli militanti credo sia indispensabile.
Da libero la mia intenzione è di lavorare al progetto del “Soccorso Antifascista”, di cui vi parlavo alcuni mesi addietro. Se vogliamo un mondo diverso dobbiamo prepararci e sapere che non lo permetteranno. Una rete solidale, un Legal Team, una controinformazione e la voglia di reagire possono cambiare le carte in tavola.
Se iniziamo a ragionarci su è già un primo passo. A pugno chiuso Davide.

metà marzo 2017
Davide Rosci, Località Castrogno – Strada Rotabile – 64100 Teramo


bologna: é TEMPO DI RISCATTO!
A Bologna è avvenuto qualcosa di straordinario. Tra le aule delle facoltà di via Zamboni, nella biblioteca di scienze umanistiche del 36, tra Piazza Verdi, e Piazza Puntoni sede della mensa universitaria, centinaia e centinaia di studenti e studentesse stanno costruendo una movimentazione sociale di massa e conflittuale contro l’università-azienda della post-riforma Gelmini, contro le condizioni di vita imposte dal renzismo e dall’austerità e contro una riorganizzazione del territorio segnata dalle politiche neoliberiste di esclusione e disciplinamento.
Una generazione di giovani e giovanissime ha compreso che “la promessa” è finita da tempo e che la fabbrica della formazione non è più garanzia di accesso alla soddisfazione di bisogni e desideri e di mobilità sociali. La “generazione expo”, dell’accettazione del lavoro gratuito e dei voucher a Bologna inizia ad essere superata dall'embrione di una generazione che pretende riscatto collettivo.
Da un lato le violente cariche con cui il Settimo Reparto Celere ha sgomberato, su mandato del Rettore, i locali della biblioteca del 36: il segno della violenza e del disprezzo delle autorità contro chi non crede più alla promessa. Dall'altro la resistenza, le barricate, gli scontri, e le assemblee di massa: manifestazione pubblica delle possibilità di autorganizzazione dell’intransigenza dei mille “no” da costruire insieme tra noi. D’altronde la scommessa vinta dal “No sociale” al referendum dello scorso dicembre dal punto di vista generazionale ci aveva consegnato in maniera chiara un segnale di rifiuto e ostilità contro il renzismo e ciò che ha rappresentato negli ultimi anni nel nostro paese.
Quel segnale va colto così come abbiamo fatto a Bologna e organizzato nelle forme del conflitto sociale e dello scontro contro il regime di austerità che persiste. La nostra generazione vuole battere al ritmo di un “tempo del riscatto”, è il momento di tirare fuori tamburi e amplificazioni!
Come compagne e compagni del Collettivo Universitario Autonomo di Bologna vogliamo mettere a servizio la nostra esperienza per riaprire una discussione tra le realtà auto-organizzate che con ostinazione e coraggio hanno continuato ad agitare le lotte dentro, contro e oltre l’università riformata della Gelmini, e proponiamo a seguito della bella e importante giornata di mobilitazione nazionale del 16F in solidarietà agli studenti e alle studentesse di Bologna di incontrarci nella nostra città per confrontarci sui limiti e le difficoltà di questi anni trascorsi nell’assenza di iniziativa collettiva nazionale sul fronte delle lotte universitarie, e sulle nuove possibilità di conflitto e autorganizzazione che le vicende bolognesi hanno reso manifeste.
C’è la necessità di costruire strumenti collettivi adeguati alla nostra generazione, che sui bordi tra università-azienda e metropoli securitarie e dell'austerity pongano intransigenze, soddisfino bisogni e affermino desideri irriducibili. Davanti a noi ci sono sfide importanti e possibilità da cogliere, che a partire dalle vicende bolognesi e da questa primavera non possiamo permetterci di farci sfuggire. Se il Bologna Process, per mezzo dell’Unione Europea, è diventato un regime di precarizzazione ed esclusione generazionale, crediamo che il 25 marzo, anniversario dei trattati di Roma, la nostra generazione debba prendere parola e posizione. Dobbiamo comunicare chiaramente a quanti dei nostri vivono ancora nella solitudine le mille sofferenze prodotte dalla precarietà e dall’università neoliberista, che il tempo del riscatto collettivo è pronto a battere il suo ritmo insieme a tanti e tante altre. Dopo troppi anni è il momento di tornare a confrontarci e a discutere insieme... e via Zamboni e Piazza Verdi sono pronte ad accogliere la nostra generazione in lotta!
Invitiamo tutti a partecipare al corteo del 11 Marzo per Francesco Lorusso a quarant'anni dalla sua morte, Francesco vive!
24 febbraio 2017, da infoaut.org


NO EXPO: CADE L’ACCUSA DI DEVASTAZIONE E SACCHEGGIO
Sentenza d’appello di venerdì 24 marzo, al Tribunale di Milano, per quattro compagni, arrestati dopo il corteo No Expo del Primo Maggio 2015, indetto contro il grande evento inutile, quello del cemento, del debito, della precarietà (e delle inchieste, copiose, per malaffare).
Attorno a mezzogiorno la sentenza: è caduta anche in appello l’assurda accusa di devastazione e saccheggio. Disposte quattro condanne con pene da 8 mesi fino a 2 anni e 4 mesi, mentre la procura generale chiedeva condanne fino a 5 anni e 8 mesi anche per devastazione e saccheggio, oltre che per resistenza e travisamento.
Tre dei quattro compagni imputati fanno parte di Proprietà Pirata Riot Club, che ha promosso un presidio sotto il Tribunale.
Il sostituto procuratore generale Gianni Griguolo aveva chiesto di ribaltare la sentenza con cui qualche mese fa il gup milanese Roberta Nunnari aveva mandato assolto Alessio, chiedendo di condannarlo a 5 anni e 8 mesi. Il compagno è stato condannato oggi, ma a 8 mesi, per il solo reato di travisamento. Inoltre il pg aveva chiesto per Edoardo e Niccolò, che in primo grado erano stati condannati rispettivamente a 2 anni e 2 mesi e 1 anno e 8 mesi, di aumentare la pena fino a 4 anni e 4 mesi. In appello, invece, sono state confermate solo le condanne per resistenza e travisamento. La pena di Andrea, infine, è stata portata dai 3 anni e 8 mesi del primo grado a 2 anni e 4 mesi, perché è stato anch’esso prosciolto dal reato di devastazione ‘per non aver commesso il fatto’. I giudici hanno anche revocato la condanna per lui al risarcimento verso Unicredit per una filiale che venne danneggiata quel pomeriggio. Le motivazioni della sentenza tra 90 giorni.
I quattro erano stati arrestati nel novembre 2015 dagli stessi inquirenti che avevano chiesto l’estradizione di cinque compagni greci, richiesta respinta da Atene dato che l’ordinamento ellenico non prevede il fumoso, e inquietante, reato di “devastazione e saccheggio”.

24 marzo 2017, da radiondadurto.org

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COMUNICATO IN VISTA DELL'APPELLO DEL 22 FEBBRAIO 2017
Il 22 febbraio 2017 per noi quattro compagni, Gentiluomini di Ventura, arrestati per i fatti avvenuti durante il Corteo del Primo Maggio 2015 a Milano non sarà un giorno come tanti. La procura della "repubblica" italiana, vista la Magra Figura ottenuta con la sentenza di primo grado, ha deciso di appellarsi contro le assoluzioni per Devastazione e Saccheggio. Su più di 4.000 possibili soggetti imputabili secondo la "legge" che hanno partecipato, a detta dei media e questura, agli incidenti durante il corteo, si scendeva, sempre leggendo le numerose conferenze stampa tenute della questura, a poco piu di 300 indagati per tali fatti; sono infine stati portati a giudizio 4 compagni, 3 dei quali facenti parte dello stesso Collettivo: Proprietà Pirata.
Alla fine del processo di primo grado su questi quattro imputati, Compagni, Gentiluomini di Ventura, dopo 7 mesi di detenzione, si contava 1 assoluzione per tutti i reati, 2 condanne per resistenza ed un solo condannato per tutti i fatti, l'unico ancora in detenzione.
L'analisi dei dati che abbiamo appena citato ci conferma come le indagini siano state pilotate e costruite ad arte. Fanno comprendere l'impegno che il PM Basilone e la sua Squadraccia Questurina hanno messo nel montare e costruire un'appello basato sulla vendetta per sfogare la frustrazione che questi Servi provano tutti i giorni mettendosi dal lato sbagliato della Barricata.
Questi dati dimostrano come tutta questa inchiesta, costruita ad arte, come tutte le inchieste, rientrino nel quadro generale, nazionale, Fascista e Reazionario di 'Terrorizzare' chi si Ribella imputandolo di reati gravissimi, permettendo così ai "Giudici" di poter mettere in galera chi alza la testa grazie alla custodia cautelare in vista del processo che questi tipi di reati prevedono.
L'abbiamo visto con il reato di Devastazione e Saccheggio per fatti di piazza, con il reato di Associazione per Delinquere o a scopo Insurrezionale per Occupazioni, Scioperi e Lotte simili, con l'imputazione per Terrorismo per "l'omicidio" di un Compressore "N'dranghetista" ed altre Varie ed Eventuali.
Noi fantastici Quattro saremo costretti un'altra volta a varcare la soglia del palazzo delle
Ingiustizie dove la "legge" non è uguale per nessuno ed essere un'altra volta esposti
alla fiera del Bel Paese.
Il 24 Marzo 2017 Assediamo il "Palazzo delle Ingiustizie" di Milano.

Casper, Iddu e Molestio. Gentiluomini di Ventura.
lecce: Blocchi e cariche contro i NoTap
Da stamattina all’alba circa 300 manifestanti presidiano il cantiere per bloccare l’espianto dei 211 ulivi, cominciato il 17 marzo e interrotto il 21 in attesa di una risposta dal Ministero dell’Ambiente, interpellato dalla Prefettura di Lecce dopo le pressioni raggiunte con le proteste. La risposta è arrivata ed è conforme a quella del Consiglio di Stato: via libera all’iter per la realizzazione del Gasdotto.
Nel frattempo continua ad andare avanti la protesta passando per momenti di alta tensione con le forze dell’ordine che hanno preso di peso i manifestanti per permettere l’accesso ai lavoratori del cantiere.
Raggiunto l’apice verso le 13 con due violente cariche ai danni dei manifestanti che stavano bloccando pacificamente i cancelli per impedire l’uscita dei mezzi con a bordo i primi ulivi secolari eradicati. Sgomberata parte del blocco popolare all’ingresso del cantiere per consentire l’allontanamento delle autovetture scortate dalle forze di polizia con caschi, scudi e manganelli alla mano. Dopo le due cariche un manifestante, Ippazio Luceri di anni 65, è stato soccorso da un’ambulanza in seguito a un malore dovuto alle manganellate.
Il Consiglio di Stato ha respinto ieri il ricorso della regione Puglia e del comune di Melendugno giudicando legittima la costruzione del gasdotto che porterà in Italia il gas dall’Azerbaijan.
Sulla questione si è espressa anche la viceministra allo Sviluppo Teresa Bellanova con queste parole: “La Regione ha avuto tutte le possibilità di partecipare e di esprimere le proprie opinioni, se nella conferenza di servizi decisoria non si è espressa un'opinione chiara in contrapposizione al sito che era stato individuato, non si può pensare di rimettere in discussione un progetto”. Un modo per dire che gli interessi delle multinazionali non vanno danneggiati e, protetti dalle forze dell’ordine in tenuta antisommossa, non mostrano scrupoli nel cacciare chi il territorio lo vive ogni giorno. Questo progetto non risponde che a logiche di profitto, lontane dagli interessi della popolazione e di chi ha a cuore il proprio territorio e lotta per esso.
Nonostante le risposte ricevute dagli organi “competenti” i manifestanti, inermi, non fanno un solo passo indietro e continuano ad aumentare nel corso della giornata riaffermando la propria presa di posizione contro lo sfruttamento dei territori, di cui il TAP è un chiaro esempio.
28 marzo 2017, da infoaut.org


Il 6 maggio sarà manifestazione notav!
Venerdì sera a Bussoleno il popolo notav riunito in assemblea ha deciso: sabato 6 maggio 2017 ci sarà una grande manifestazione popolare da Bussoleno a San Didero, che vedrà la partecipazione, oltre a tutto il movimento e i sindaci della Valle, tra gli altri, di una delegazione delle Brigate di Solidarietà Attiva, impegnate da tempo nel terremoto del centro Italia, di cittadini di Amatrice e delle Mamme della Terra dei Fuochi.
Alla manifestazione di arriva dopo fatti importanti come la firma della ratifica del trattato tra Italia e Francia, la fine (a modo loro) del tunnel geognostico e le lettere di esproprio recapitate in Valle da Telt. Tutti fatti che dovrebbero in qualche modo deprimere chi si oppone alla Torino-Lione, ma che invece hanno avuto l’effetto inverso, riaccendendo creatività e passione nella Valle che Resiste, che tutto si potrà dire, ma non che sia stata (o sarà) domata.
E così nell’unico modo che conosciamo per prendere le decisioni, ovvero tutti insieme in assemblea, abbiamo lanciato l’appuntamento di maggio, rilanciando le ragioni della nostra lotta, sempre più attuali e giuste che mai. L’assemblea si è riconosciuta in queste parole d’ordine semplici e chiare per dire che: C’eravamo, Ci siamo, Ci saremo. Sempre! Per difendere la salute e il futuro nostro, dei nostri figli e nipoti. Per difendere la nostra terra, la natura e l’ambiente in cui viviamo. Per difendere la sanità, la scuola, le pensioni. Per difendere le risorse pubbliche da chi vuole rapinarle per ingrassare le lobby del tondino e del cemento.
Perché le scarse risorse finanziarie del nostro Paese siano investite nelle opere per la messa in sicurezza del territorio e per la ricostruzione delle zone distrutte dai terremoti e dalle alluvioni.
Visto quanto successo ieri a Roma, con il sequestro preventivo di oltre 120 manifestanti, tra cui molti notav, ai quali è stato impedito di partecipare alla manifestazione contro questa Unione Europea, annunciamo da subito che non accetteremo questo tipo di divieti e di limitazione dei diritti alla libera circolazione e alla libertà di manifestare il proprio pensiero, e ci organizzeremo e ci tuteleremo per permettere a tutti e tutte la partecipazione alla manifestazione.
26 marzo 2017, da notav.info

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ADESSO TOCCA A NOI
Il tempo della mediazione è finito. L'avvio dei lavori di Tap, con l'espianto dei primi quattro alberi dall'area di cantiere dove dovrà essere realizzato il pozzo di spinta, ha strappato il velo – nel caso ce ne fosse stato ancora bisogno – alle ultime illusioni di chi credeva che la via burocratica, istituzionale e giudiziaria, potessero realmente bloccare i lavori. Che questo genere di opposizione non potesse fermare un'opera gigantesca, che coinvolge più Stati e potentati economici fortissimi era chiaro fin dall'inizio, così come era chiaro che qualche amministrazione comunale e qualche ricorso in tribunale non potessero bloccare un'opera considerata “di interesse strategico nazionale”.
Ora che la Legge si sta schierando con se stessa, ora che le amministrazioni comunali dovranno riallinearsi alle direttive degli organi superiori e sono state richiamate all'ordine, ora che il governo regionale, novello Ponzio Pilato, ha lavato per bene le sue mani per sentirsi ed apparire incolpevole, non possiamo più farci illusioni. Non basterà più appellarsi alla sopravvivenza di alcuni ulivi per fermare le ruspe difese da un apparato di vigilanza privato. Non servirà a nulla affermare che si deturperanno le coste per impietosire imprenditori che hanno il cuore a forma di salvadanai. Non avrà senso puntare sullo sviluppo del turismo per far ragionare un mercenario a capo della sorveglianza di Tap. Non sarà opportuno chiedere alla forze dell'ordine di intervenire a tutela dei cittadini: sarà lo Stato a chiedergli di tenere d'occhio i cittadini.
Una sola strada è rimasta percorribile: quella del nostro intervento diretto, a tutela del territorio che viviamo, della nostra salute, delle nostre vite e della nostra dignità. Metterci in mezzo in prima persona per bloccare un'opera inutile e nociva, ennesimo progetto di devastazione calato a forza sulle nostre teste per i soliti interessi di pochi. I lavori veri e propri sono appena partiti e, fino alla completa ultimazione, saranno ancora lunghi. Possiamo ancora fare tanto per bloccarli e rendere difficoltoso il loro progetto costruito sulla nostra sopraffazione. Ci saremo tutti?

Nemici di Tap
23 marzo 2017, da informa-azione.info
Decreto Minniti. La politica della Paura e della Sicurezza
In questi giorni è in approvazione al Parlamento il decreto firmato dal nuovo Ministro della Sicurezza e della Paura del Governo italiano, Marco Minniti. Il decreto d’urgenza, l’ennesimo sul tema della sicurezza e dell’ordine, per stessa ammissione degli estensori risponde alla tremenda percezione di insicurezza che attanaglia il popolo italiano. Tale percezione, nonostante la diminuzione di oltre il 10% dei reati specifici in Italia nel 2016, anima e coinvolge partiti e giornalacci, comitatini antidegrado e gruppuscoli fascisti, tutti pronti a gridare all’emergenza ed alla paura per qualunque cosa, tanto da far pensare che vi sia, forse, un pochino di strumentalità in questo gridare. Emergenza immigrazione, emergenza terrorismo, black bloc e centri sociali, ma anche emergenza morbillo, emergenza meningite, emergenza buche in terra, emergenza bullismo ed emergenza droghe, e potremmo continuare a lungo. Si sta affermando, nei fatti, la società dell’emergenza, della paura e, quindi, della sicurezza, di cui anche questo ennesimo decreto si fa strumento. Lo stato ed il settore pubblico, messe da parte qualsiasi possibilità di intervento sociale, occupano gli spazi dell'azione penale. Per governare le contraddizioni che l'attacco alle condizioni di vita popolari generano, si rafforza l'azione repressiva. Lo Stato Sociale si trasforma in Stato Penale.
Questo decreto, da una parte dà il via a disposizioni legislative razziste e classiste, dall’altro dà una risposta ed un indirizzo di carattere ideologico e culturale, certificando quindi lo “stato di emergenza” permanente, di fronte al quale tutti dobbiamo chinare la testa ed ubbidire. Il decreto introduce alcuni pericolosi dispositivi: uno è sicuramente legato ai poteri ed al ruolo dei sindaci e dei rappresentati pubblici in generale; anche il sindaco diventa tutore dell’ordine, compiendo ancora un passo nella direzione già intrapresa in questo come in altri settori: i comitati per l’ordine, il preside sceriffo, i dipendenti di cooperative come guardie per gli immigrati o vigili urbani e controllori degli autobus usati come forze repressive. Quindi, sindaci privati da anni di poteri reali sulle loro comunità cui vengono tagliati fondi su fondi dalle scuole alle strade, diventano improvvisamente tutori dell’ordine, ritrovando un ruolo nella repressione e nell’esercizio delle azioni penali. Non dovrebbe sfuggire a nessuno la pericolosità di tale impostazione ideologica, lasciando a rappresentanti del popolo la gestione della giustizia.
Altro elemento che viene introdotto è il cosiddetto DASPO. Potremmo dire, mutuando dagli stadi, PIU’ DASPI PER TUTTI. Daspi cittadini, di quartiere, di piazza, daspi dallo stadio per chi manifesta e dalle manifestazioni per chi va allo stadio, si ribadisce la possibilità di allontanare gli indesiderati, i non conformi, dando vita ad ulteriori processi di marginalizzazione. Daspi ai pericolosi barboni ed agli immigrati molesti, e poi basta con questi spacciatori nelle scuole. Anche in questo caso si rafforza un meccanismo ormai già in atto, che rappresenta un forte elemento discriminatorio e completamente discrezionale, dando il potere ad alcuni di vietare strade o città solo in base ad uno stile di vita o….ad un orientamento ideologico. Lo stesso orientamento di cui ha parlato il questore di Roma, motivando il fermo di oltre 120 persone il 25 marzo, impedite di recarsi al corteo, fogli di via per decine, controlli repressivi, proprio per la loro appartenenza ideologica.
Quello che riteniamo sia elemento centrale di questo ennesimo decreto è proprio il suo carattere populista, ideologico e di valenza simbolica, rappresentata politicamente dal Partito Democratico, il partito che più di ogni altro ha agito nei fatti nelle limitazioni costanti delle libertà politiche e sociali da 20 anni a questa parte. Un partito cui tocca rispondere allo stesso clima di emergenza che contribuisce a creare, in un circolo vizioso che alimenta razzismo e odio sociale. Ne è degno esempio, oltre a Minniti, anche il nostro mediocre sindaco Nardella, tra i fautori del decreto, che ha fatto della demagogia il suo metro di comportamento, inneggiando ai nuovi superpoteri che vengono concessi ai superuomini come lui. Il sindaco di Firenze, parvenu di Renzi, nella città che doveva esserne la vetrina, si distingue per le sue sparate populiste e razziste, come quella sulle case popolari da non dare ai (troppi, a detta sua..) immigrati, o per le sue foto mentre sposta le transenne dalle strade.
Come detto questo decreto è solo l’ultimo della serie: da anni il daspo viene applicato negli stadi con la più totale discrezionalità, i cani nelle scuole alla caccia di studenti sono quotidiani, i divieti di organizzare assemblea in scuole ed università anche, che ormai piene di vigilantes, telecamere e tornelli somigliano più a caserme che a luoghi pubblici di crescita a formazioni, le manifestazioni sono vietate o allontanate dai centri storici, e diventano momenti buoni per schedature di massa ormai legittimate, come la delazione durante i cortei, le nostre strade e piazze sono invase da militari con mitra a tracolla (che tutto fanno tranne che far stare sereni), non abbiamo più spazi e possibilità di azione politica, e tra poco ci arriveranno anche i DASPO dai nostri stessi spazi.
Di fronte a questo, ed all’ennesimo attacco ideologico, stare zitti e non rispondere rappresenta un ulteriore passo indietro. Non lamentiamo una demcrazia che non c'è mai stata, non facciamo la tirata sui diritti ma crediamo che come compagni/e, come movimento, come centri sociali e militanti antagonisti, sia necessario ricostruire anche sull'impegno contro la repressione un piano di informazione indipendente e di iniziativa comune che possa rappresentare una risposta politica ed un riferimento culturale, che provi a incidere davvero per bloccare i piccoli e grandi ingranaggi della società della paura, del controllo e della repressione.

29 marzo 2017, da newsletter del cpa firenze-sud


8 marzo alla Sodexo di Pisa
Prosegue la lotta delle lavoratrici della Sodexo iniziata da oltre un mese, organizzata dal Comitato di Donne, inserito nella rete “Non una di meno”.
Lo sciopero dell’8 marzo ha mostrato all’interno dell’ospedale di Cisanello la determinazione e il non farsi intimorire.
Oggi le lavoratrici hanno tenuto una conferenza stampa davanti al pronto soccorso di Cisanello, dove hanno esposto che:
- lo stato di agitazione ha già messo in luce le criticità gravi dell’organizzazione del lavoro, portando, per la prima volta in questi anni, le capo-settori a presentarsi a lavoro anche il fine settimana – esattamente come le altre lavoratrici;
- tante lavoratrici stanno rifiutando di svolgere supplementari obbligatori e di “coprire” buchi e turni all’ultimo momento. Il rifiuto dell’aumento dei carichi di lavoro è totale e generalizzato: soltanto poche colleghe ricattate ed illuse dall’azienda, stanno continuando a “massacrarsi”;
- ieri a tre lavoratrici, tra cui la rappresentante sindacale e della sicurezza di chi lavora, sono state notificate contestazioni disciplinari da parte dell’azienda, così motivate: aver evidenziato agli uffici, fuori dall’orario di lavoro, l’inadeguatezza del materiale di lavoro; aver indossato degli indumenti raffiguranti un logo simile a quello aziendale con la parola: “Sciopexo al poso di Sodexo”.
Dal comunicato stampa distribuito questa mattina:
“Noi lavoratrici delle pulizie della Sodexo, impiegate nell’Azienda Ospedaliera Pisana, è più di un mese che siamo in uno stato di agitazione contro le vergognose condizioni in cui siamo costrette a lavorare. Dopo lo sciopero dell’8 marzo che ha mostrato la determinazione del nostro comitato a ottenere garanzie di sicurezza, salute e dignità per il nostro lavoro, stamani doveva tenersi il secondo incontro con la Sodexo, nella procedura di raffreddamento dello stato di agitazione.
La Sodexo ha risposto invece con un attacco senza precedenti nei nostri confronti.
L’incontro previsto per oggi è stato ‘rinviato a data da destinarsi’.
Nel frattempo il nostro stato di agitazione ha prodotto l’attenzione della USL che ha fatto un’ispezione verificando le gravi carenze che da tempo denunciamo.
Supplementari usati sistematicamente per contratti da 3 ore il giorno, compilati di giorno in giorno senza alcun rispetto delle nostre vite di lavoratrici, donne, madri. Lo sciopero dell’8 marzo ha messo alla ribalta la nostra condizione e non intendiamo fermarci proprio adesso! Ieri mattina sono state consegnate a tre lavoratrici, tra cui una nostra Rappresentante Sindacale nonché Rappresentante delle condizioni di sicurezza, delle contestazioni disciplinari. Questi provvedimenti sono stati rivolti alle lavoratrici che hanno avuto il merito in questo stato di agitazione di “indossare una maglietta con un logo simile a quello dell’azienda.
Non abbasseremo la testa proprio adesso che vediamo la nostra forza crescere. Ci stiamo preparando per trasformare la nostra marea in burrasca, lo stato di agitazione in sciopero permanente. LOTTARE OGGI PER NON SOFFRIRE DOMANI!”.

23 marzo 2017, liberamente tratto da infoaut.org


DALLA PARTE DEI LAVORATORI E DELLE LAVORATRICI TONCAR
Durante il picchetto del 15 febbraio, i lavoratori della Toncar di Muggiò (MB) sono stati aggrediti dai carabinieri in assetto antisommossa. Gli operai erano in presidio dalle 6.00 del mattino per chiedere l’applicazione del contratto nazionale e protestare contro l’atteggiamento discriminatorio del padrone, che ha deliberatamente deciso di escludere tutti i 65 iscritti SolCobas dalla produzione.
La Toncar di Muggiò è una legatoria che si occupa della produzione di figurine, album, carte e altro materiale stampato. Lavora soprattutto per commesse, ad esempio per gli album Panini e Cucciolotti. In genere questi progetti durano 4 o 6 mesi e per la parte restante dell’anno gli operai, assunti a tempo indeterminato dalla cooperativa Etika, vengono lasciati a casa non pagati mentre chi resta in fabbrica lavora anche 12 ore al giorno per terminare gli ordini.
A settembre dell’anno scorso è iniziata la prima vertenza contro il responsabile della cooperativa, accusato di autoritarismo e molestie sessuali da parte degli operai e delle operaie. Dopo diverse comunicazioni e tre incontri senza risultato, i lavoratori hanno deciso di passare alla denuncia e organizzare uno sciopero per chiederne le dimissioni. Lo sciopero di ottobre si è concluso proprio con l’espulsione dalla fabbrica del responsabile e con l’accordo di cominciare a trattare per l’applicazione del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL).
Sia sotto il contratto della logistica e adesso sotto quello della legatoria, il padrone non ha mai pagato straordinari, malattie, ferie, 13ma e 14ma. Questa situazione si protrae da diversi anni, in alcuni casi anche da una dozzina. La paga base è di € 6,50 all’ora, fuori da ogni norma vigente. La cooperativa non ha neppure versato il TFR in occasione dei continui cambi di appalto, inscenati per godere di nuovi sgravi fiscali ogni due anni. I sette incontri tenuti negli ultimi mesi non hanno portato a nessun risultato e la cooperativa Etika se ne lava le mani scaricando tutta la responsabilità sulla proprietà. A gennaio il SolCobas ha proclamato lo stato di agitazione convocando nuovi scioperi. Come risposta l’azienda ha convocato la UIL per avviare un nuovo (finto) cambio d’appalto e affidare il lavoro alla cooperativa Onejob, ad oggi inesistente…
Il 15 febbraio i lavoratori Toncar hanno organizzato il 5° sciopero con un nuovo picchetto davanti alla fabbrica. Il padrone ha risposto con la serrata, chiudendo lo stabilimento per l’intera mattinata. Gli operai non si sono fatti intimorire e hanno continuato la protesta, bloccando l’ingresso del secondo turno. A quel punto sono intervenuti i carabinieri aggredendo gli operai e le operaie in presidio per consentire l’entrata dei crumiri.
I lavoratori Toncar chiedono semplicemente l’applicazione del contratto, di ricevere lo stipendio anche in caso di ferie e malattia, di avere accesso a 13ma e 14ma così come previsto dal CCNL, di percepire una paga straordinaria per il lavoro notturno o festivo. Propongono di suddividere i carichi tra tutti i dipendenti, in modo da evitare situazioni in cui un operaio non percepisce lo stipendio e un altro è costretto a fare il doppio turno. Sono rivendicazioni basilari, ma non per Toncar, dove da anni il padrone sfrutta mano d’opera straniera fuori da ogni diritto e normativa vigente, spesso insultandola anche con appellativi razzisti.
Gli operai hanno già mostrato la propria determinazione a non cedere e il picchetto continuerà anche nei prossimi giorni, per colpire Toncar nel vivo della produzione. Ancora una volta si tratta di resistere un minuto più del padrone.

16 febbraio 2017, da spazio20092.wordpress.com

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Scontri davanti alla fabbrica K-Flex di Roncello (Monza Brianza)
Da 65 giorni gli operai sono in sciopero: l'azienda – che produce e distribuisce isolanti termici ed acustici – ha deciso di licenziarne 187 (tutti).
Tra le motivazioni riportate dai proprietari dello stabilimento il principale è il fatto che la produzione in Italia sia troppo costosa e quindi antieconomica.
I sindacati hanno proposto che se non è possibile revocare tutti i 187 licenziamenti, almeno l'azienda decida di ridimensionare la produzione in Italia, mantenendo una parte della forza lavoro e garantendo agli altri operai agevolazioni per lasciare il lavoro.
Dai vertici aziendali, però, solo silenzio. Martedì mattina gli animi si sono ulteriormente riscaldati quando alcuni impiegati dell'azienda, quelli non toccati dai licenziamenti, hanno provato a forzare il presidio operaio. Si sono trovati davanti al muro dei licenziati. Si sono allora fatti avanti i carabinieri con manganelli, scudi, che hanno impiegato per cacciare via gli operai gettatisi a terra, fermi a non muoversi. Sono nati scontri, per togliere gli operai e fare entrare i crumiri: 11 impiegati. Un operaio è finito in ospedale.

Milano, 29 marzo 2017


milano: aggiornamenti dal presidio degli operai della innse
Il gruppo Camozzi di Brescia, proprietario dello stabilimento INNSE di via Rubattino 81 a Milano, prosegue di fatto nella sua strategia di dismissione dello stabilimento e di attacco nei confronti dei 27 dipendenti della storica e famosa fabbrica, della quale gli operai hanno evitato la chiusura ed ottenuto la prosecuzione dell'attività produttiva negli anni 2008 e 2009, dopo 14 mesi di lotte, scioperi e presidi ai cancelli.
Dal 6 al 20 marzo di quest'anno gli operai e gli impiegati dell'Innse hanno messo in atto undici giorni consecutivi di sciopero, bloccando qualsiasi attività, per ottenere il ritiro dei 4 licenziamenti applicati in tronco di 3 operai, tra i più attivi delle lotte del 2008 e 2009 e di un'impiegata che da anni lavora in quella azienda.
Nonostante la chiusura di questa prima fase di sciopero continua a proseguire per l'intera giornata lavorativa il presidio permanente davanti ai cancelli dello stabilimento di via Rubattino, assicurato dai dipendenti che hanno subìto il licenziamento e da diversi lavoratori, studenti, pensionati e cittadini milanesi che sono solidali con la lotta.
Da sottolineare la costante presenza, fin dalle 7 del mattino, di uno o due cellulari della polizia, una macchina di funzionari Digos e un'altra del commissariato di zona, indice della rilevanza politica che ha assunto la riapertura della lotta degli operai della Innse.
Segue un resoconto degli ultimi giorni e la presa di posizione di Maurizio, un compagno della Panetteria occupata, di fronte alle argomentazioni utilizzate in sede giudiziaria dalla direzione aziendale per colpire la lotta degli operai della Innse.

Il 21 marzo è stata presa la decisione collettiva di terminare lo sciopero in corso. La decisione è stata determinata dal fatto che dopo 11 giorni di sciopero ininterrotto cominciava ad essere un problema per gli operai il fatto di perdere pezzi di salario considerevole.
L’azienda non ha nessuna produzione in corso e di fatto il danneggiamento portato al padrone consiste nell'avere tutti i giorni davanti ai cancelli della fabbrica un gruppo di operai che gli impediscono ogni normale attività, con un notevole dispendio di tempo e qualche denaro speso per pagare le numerose guardie private (della Kosmos Security) che, muniti di telecamere, sorvegliano ogni mossa. Un danno sicuramente alla sua immagine di “buon padrone” ma nessun danno economico significativo al suo portafoglio; ed è il danno economico che colpisce concretamente il padrone e lo fa retrocedere dai suoi intenti.
Il picchetto all’esterno prosegue con i quattro operai licenziati e con il supporto dei solidali che vengono costantemente al presidio. Lo sciopero è un metodo che si può utilizzare in ogni momento, uno strumento pronto a rovinare ogni possibile manovra che Camozzi intende perseguire per mettere in atto i suoi piani, e gli operai che sono entrati in fabbrica sono pienamente coscienti di questo metodo. Appena il padrone ha intenzione di mettere in atto qualsiasi azione palesemente antisindacale dichiarano sciopero ed escono immediatamente dalla fabbrica.
L'indomani, 22 marzo, sempre dalle 7 del mattino, continua il presidio dei 4 licenziati davanti ai cancelli della Innse con il sostegno dei solidali.
L’azienda continua nella sua strategia di non portare alcun lavoro. E’ dal mese di gennaio 2016 che all’interno della fabbrica non viene portato nessun pezzo da lavorare. L’obiettivo del gruppo Camozzi diventa sempre di più evidente giorno per giorno: fare tabula rasa della produzione industriale con l’unico scopo reale di speculare su tutta l’area che il comune di Milano gli ha sostanzialmente regalato con la trattativa del 2009.
Non è un caso infatti che la forza lavoro si sia ridotta della metà da allora ad oggi, un evidenza che tuttavia non smuove la dirigenza della FIOM, tuttora immobile.
Ricordiamo gli accordi che questi signori hanno firmato con la Camozzi in un recente passato. Non è a prima volta che una cosa del genere succede e sarebbe bene ricordarsi di quello che successe all’Ansaldo di viale Sarca di Milano, non tanto tempo fa, dove fu proprio il segretario della Fiom di Milano a sottoscrivere un accordo che prevedeva: “...uno stabilimento nuovo e moderno già costruito, ci sono lavoratori qualificati per operare nel delicato settore del nucleare, ci sono commesse milionarie e c’è un accordo”. Nella realtà il capannone non fu mai costruito, la Mangiarotti trasferì la produzione a Monfalcone, quattro operai furono integrati nella Innse a lavorare e Camozzi restò proprietaria del terreno di viale Sarca, a dispetto di tutto ciò...
Il 23 marzo qualcuno si stacca dal presidio per l'ennesima udienza in tribunale per un provvedimento disciplinare che l’azienda ha comminato, con 2 giorni di sospensione dal lavoro, ad un delegato. Un metodo repressivo usato dal padrone nel tentativo di piegare gli operai al suo sistema di relazioni sindacali: o accetti quello che vuole il padrone oppure la paghi con multe, sospensioni e con i licenziamenti.
La motivazione con cui l’azienda ha sospeso il delegato è la prova di come funziona questo metodo, basato su delle menzogne belle e buone allo scopo di punire chi si oppone a questa logica. Questi sono i fatti.
Nel corso di tutto il periodo di cassa integrazione, durato da marzo 2016 a marzo 2017, tutti i giorni gli operai entravano in fabbrica per fare le assemblee sindacali di informazione ai lavoratori. Durante un giorno di questo periodo, due delegati, notando che all’interno dell’azienda stava lavorando un’impresa esterna di manutenzione elettrica, si avvicinavano ad un elettricista dell’impresa dicendogli di vergognarsi di lavorare mentre tutti gli operai erano in cassa integrazione. Il ragazzino dell’impresa, con un atteggiamento supponente e arrogante, probabilmente istruito ad arte dalla Camozzi per orchestrare questa provocazione contro i due delegati, attaccava ribaltando del tutto l’affermazione del delegato che nella realtà gli aveva solo detto di vergognarsi di rubare di fatto il lavoro a chi stava in cassa integrazione e, con una menzogna colossale, accusava uno dei due delegati di averlo pesantemente insultato. Una volta finto il diverbio il ragazzino, durante un incontro durato più di un’ora con il capo della sicurezza, veniva istruito a dovere su cosa dovesse raccontare e testimoniare in tribunale per accusare falsamente il delegato sindacale e fargli confermare la sospensione. L’udienza, riguardante questo provvedimento disciplinare, di fatto non è entrata nel merito della causa e si dovrà attendere il 23 maggio per sentire i testimoni di questo fatto.
Il 27 marzo la mattinata al presidio è stata animata da un’assemblea partecipata e rafforzata da una settantina di sostenitori, dai quattro licenziati e dagli operai della Innse rientrati al lavoro. L’assemblea è stata convocata e pienamente condivisa dalla tendenza sindacale “Il sindacato è un'altra cosa – opposizione CGIL” con la partecipazione diretta di alcuni delegati e operai della SAME di Treviglio, di alcune fabbriche della provincia di Milano e da Eliana Como del comitato centrale della Fiom.
L’assemblea ha inviato un messaggio chiaro ed esplicito alla segreteria nazionale e provinciale della Fiom: una parte consistente dell’organizzazione (un centinaio di delegati di importanti fabbriche metalmeccaniche di tutta Italia) sostiene totalmente la battaglia contro l’accordo voluto dalla segreteria nazionale e bocciato da tutti i lavoratori con un referendum e appoggia incondizionatamente la lotta per il ritiro immediato dei quattro licenziamenti tutt’ora in corso. Un messaggio chiaro e lampante inviato sia all’organizzazione sindacale sia alle istituzioni cittadine, che pensano che la rappresentatività sia un’esclusiva prerogativa del segretario nazionale o di quello provinciale della Fiom. Di fatto l’assemblea di oggi ha dimostrato, a dispetto di quanti chiedono continuamente dov’è la Fiom, che la Fiom di fronte ai cancelli della Innse c’è ed è ben rappresentata a tutti i livelli. La Fiom sono gli operai che pagano la tessera da più di trent’anni, sono i funzionari sindacali e i componenti del comitato centrale dell’organizzazione che sono venuti ai cancelli per sostenere la nostra lotta.
Ancora dalle aule del tribunale, la notizia principale del 28 marzo, è il ritiro da parte dell’azienda dell’articolo 700 che la Camozzi aveva intentato contro gli operai. Questa è stata decisamente una buona notizia che ha contribuito a sollevare ancora di più il morale. La motivazione, secondo il legale della Camozzi, con cui l’azienda ha chiesto all’ avvocato degli operai se era disposto ad accettare il loro ritiro dalla causa, è stata determinata da questioni tecniche. Con tutta probabilità questa spiegazione non corrisponde per nulla alla verità e le motivazioni reali sicuramente possono essere altre.
Il 14 ottobre 2016, Camozzi aveva depositato il ricorso dell'articolo 700 del c.p.c. con la seguente motivazione: “accertare e dichiarare l’illegittimità del comportamento dei lavoratori della Innse di Milano, consistente nell’entrare senza autorizzazione, quando sospesi in CIGS, all’interno del capannone dove si trovano i reparti produttivi, nel rimanere all’interno dopo il termine dell’assemblea e nell’impedire l’esecuzione degli interventi previsti dal piano di risanamento approvato dal Ministero del Lavoro, nonché di qualsiasi attività lavorativa”. Uno dei cardini con cui il padrone cercava di mettere alle corde gli operai è crollato, e venendo meno questo cardine, crolla un punto fondamentale di tutta la teoria che la Camozzi sta intentando contro gli operai della Innse.
Certo non si può ancora cantare vittoria, però questa piccola schermaglia legale tra gli operai della Innse e il potente padrone Camozzi ha segnato un punto a favore nella battaglia contro il piano di risanamento che il padrone vuole portare a termine, tuttavia non c'é nessuna illusione e velleità che questo fatto possa decidere il ritiro dei licenziamenti e l’abbandono del piano di risanamento.
Naturalmente la lotta va avanti con la continuazione del presidio.

Milano, marzo 2017

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Lettera aperta agli operai Innse – soprattutto
Ciao, ho letto la “Memoria Difensiva” presentata dall'Innse contro il “Ricorso” avanzato dalla RSU, affrontato dal 'Tribunale del Lavoro' di Milano fra il dicembre 2016 e il gennaio 2017.
Ho potuto constatare quanto il comando di fabbrica, esercitato dal padrone, affinché si realizzi nella misura più ampia possibile lo sfruttamento di chi lavora, oggi è molto più grave di 40 anni fa. Sì, anch'io ho lavorato in quegli anni in fabbrica – alla Richard Ginori e infine alla Pirelli. Scopo di quel comando è, alla fine, ostacolare chi lavora a unirsi per non essere ridotto in robot, in schiavitù.
Nella lettura mi sono fatto inoltre un'idea più precisa della lotta che dal 2009 a oggi all'Innse è stata condotta contro lo “smantellamento dei macchinari”. Nel misero tentativo di squalificarla, la “Memoria Difensiva” adopera falsificazioni lampanti: in ogni caso, nel capannone Innse, fra il 2009 e oggi, operai e macchinari sono più che dimezzati, la produzione è ancor più svanita. In 46 pagine cerca di nascondere manipolazioni che convincano il tribunale a ridurre in “reati” i blocchi stradali, gli accessi in fabbrica e altre forme di lotta adottate durante gli scioperi; cerca di cancellare le assemblee, cioè i momenti di riunirsi per impedire che le assenze dalla fabbrica, come per esempio i periodi di Cassa Integrazione, frantumino la solidarietà concreta.
Per raggiungere quell'obiettivo cercano di usare anche me, con termini e dati sballati che solo la polizia può avergli dettato. Mi avete conosciuto sulla strada, non mi dilungo.
La lotta degli operai Innse è stata ed è esempio concreto seguito dalle giovani generazioni, per le quali, come per me, è 'memoria offensiva'.
Un forte abbraccio, grazie maurizio.
Milano, 8 marzo 2017
India: solidarietà con gli operai della Maruti
Il 18 marzo 2017 il Tribunale di Gurgaon ha condannato 13 lavoratori di Maruti Suzuki all'ergastolo per omicidio. 12 di questi al tempo dei fatti erano dirigenti del sindacato dei lavoratori Maruti Suzuki, altri 18 sono stati condannati a pene da tre a cinque anni per disordini e lesioni gravi. I procedimenti contro questi lavoratori erano stati depositati nel luglio 2012, dopo gli incidenti nello stabilimento di Maruti Suzuki di Manesar, nei quali un capo aveva perso la vita. Su denuncia dell’azienda, la polizia arrestò 148 lavoratori, accusati di cospirazione e dell'uccisione del funzionario dell’azienda.
Dopo un processo durato 4 anni e mezzo, la sentenza del tribunale si basa su prove inconsistenti. L'accusa non è riuscita a portare prove circostanziali sufficienti a dimostrare neppure che qualcuno degli imputati fosse responsabile delle violenze avvenute, per non parlare della morte del dirigente aziendale. La sentenza contraddice anche le relazioni forensi e i rilievi post-mortem presentati alla corte. In particolare, i dirigenti della società presentati allacorte come testimoni dell'accusa hanno negato di essere presenti al momento dell'incidente. Alcuni di loro hanno addirittura ammesso di agire su ordine della direzione della Maruti-Suzuki.
117 degli operai arrestati sono stati prosciolti da tutte le accuse, nonostante l’accusa avesse mosso la stessa imputazione contro tutti i 148 lavoratori. L'assoluzione dell’80% degli operai accusati dimostra che uno dei principali scopi dell’azione della polizia fosse terrorizzare in massa i lavoratori e che i giudici avevano torto quando ha negato loro la libertà su cauzione. Questi lavoratori sono stati costretti a trascorrere 31 mesi in carcere senza alcuna colpa. Il loro diritto fondamentale alla vita e alla libertà è stato negato, ma nessuno sarà mai punito per questo.
Quella per i fatti alla Maruti è l'ultima di una serie di sentenze per incidenti verificatisi negli impianti di Pricol (Coimbatore), Graziano (Sūrajpur) e Regency Ceramics (Yanam), dove lavoratori attivisti sindacali hanno finito per essere accusati di omicidio. Mentre tutti i governi hanno mostrato scarso interesse a perseguire le violazioni delle normative sul lavoro da parte dei datori di lavoro, la punizione per i lavoratori è stata rapida e severa. In tutti questi casi tribunali hanno condannato i lavoratori per accuse prefabbricate e sono andati al di là della loro stessa legge, a riprova della natura di classe della giustizia in questo paese.
Nel maggio 2013 l’Alta Corte di Punjab e Haryana aveva negato ai lavoratori Maruti la libertà su cauzione, con l'argomentazione che se fossero stati liberati, gli investitori stranieri non sarebbero più stati propensi a investire in India, per paura di agitazioni sindacali, come se il diritto dei cittadini alla giustizia dovesse dipendesse dalla fiducia degli investitori esteri. Questo è un chiaro esempio del degrado del sistema dellagiustizia penale e di come essa non rispetti i più elementari principi di giustizia. Dovrebbe essere motivo di indignazione per ogni cittadino indiano il fatto che, mentre i leader politici responsabili di alcuni dei più odiosi pogrom della storia dell’India indipendente non sono stati nemmeno sfiorati dal sistema della giustizia penale, i lavoratori Maruti Suzuki sono stati condannati al carcere a vita su prove inconsistenti.
Un ulteriore recente sviluppo è l'uso di guardie armate private assoldate dei padroni per minacciare i lavoratori. Secondo i lavoratori dell’impianto della Honda scooter diAlwar, Rajasthan, lo scorso anno il loro sciopero è stato interrotto con l'aiuto di teppisti armati chiamati dalla direzione, che li hanno aggrediti all'interno dell’impianto e anche in città, davanti agli occhi di tutti. I lavoratori Maruti Suzuki hanno anche denunciatoche il giorno degli incidenti circolavano nello stabilimento un gran numero di energumeni assoldati per minacciare i lavoratori.
In ogni società il movimento di classe dei lavoratori è un grande baluardo di democrazia. Il popolo dei senza proprietà è riuscito a ottenere il diritto di voto e gli altri diritti democratici solo dopo le dure lotte sostenute dalle organizzazioni operaie. La politica della classe lavoratrice cerca di costruire la solidarietà tra chi lavora, al di làdelle divisioni regionali, linguistiche, religiose e di casta. Dall’altro lato, la politica di destra è una politica di odio, che divide il popolo. In India per decenni il Sangh Parivar ha diffuso l’odio contro le minoranze, ed esercitato violenza contro di esse. La lotta della classe operaia per tenere insieme tutti i lavoratori e formare sindacati indipendenti in grado di sfidare la rapina dei capitalisti è anche una sfida diretta al grandi piani dell’Hindutva.
I lavoratori Maruti Suzuki hanno sfidato con coraggio i piani oscuri di direzione, governo e polizia, e sono ancora in piedi, saldi nel loro impegno. Tutti gli operai condannati all'ergastolo dalla Corte avevano meno di trenta anni quando furono arrestati dalla polizia. È stati necessario che il loro impegno per i diritti del popolo lavoratore fosse contrastato dalla violenza dei mazzieri del Sangh Parivar contro le minoranze, i dalit, studenti e docenti universitari, con il pieno sostegno del governo Modi. Dovrebbe essere chiaro a tutti che il futuro di questi lavoratori è il futuro della democrazia in India. E, ora che questi giovani sono stati condannati all’ergastolo, è la democrazia in India ad essere sotto processo.
Condanniamo la collusione tra azienda, polizia e magistratura nel caso Maruti Suzuki.
Condanniamo l'arresto dei manifestanti che il 16 marzo si erano ritrovati davanti alHaryana Bhavan a Delhi per esprimere la loro indignazione contro la sentenza.
Condanniamo a anche il governo dell’Haryana per per aver imposto l’art. 144 nella cintura industriale di Gurgaon Manesar, nel tentativo di impedire che i lavoratori protestasserocontro questa distorsione della giustizia.
Facciamo appello a opporsi immediatamente a questa sentenza palesemente filo-padronale, che attacca i diritti legittimi del popolo lavoratore attraverso incriminazioni penali.
Salutiamo i lavoratori della cintura Gurgaon-Manesar, che a migliaia si sono mobilitati in solidarietà contro la sentenza e hanno promesso di intensificare la loro lotta nei prossimi giorni.

marzo 2017
campagna internazionalista promossa dallo slaicobas per il sindacato di classe /CN
insieme al comitato internazionale india