indice n.128

A che punto è l'autodeterminazione del popolo kurdo in Siria?
EGITTO: INTERESSI ECONOMICI E MILITARI COLPISCONO LA POPOLAZIONE
CON NADIA, A FIANCO DI CHI LOTTA DENTRO LE GALERE, CONTRO IL 41BIS
dalle LOTTE DENTRO E CONTRO I lAGER PER IMMIGRATI
Scioperi della fame nelle isole-hotspot di Lampedusa e lesbo
TORINO: LA STORIA DI FLORENCE
Lettera dal carcere di torino
Fogli di via per il presidio al carcere di Teramo
proteste nelle carcere di Velletri e pisa
Lettera dal carcere di Agrigento (ag)
Lettera dal carcere di napoli-Poggioreale
Lettera dal carcere di Lecce
Lettera dal carcere di Firenze-sollicciano
Lettere dal carcere di roma-Rebibbia
Lettera dal carcere di Paola (cs)
lettera dal carcere di colonia (germania)
Lettera dal carcere di Amburgo (germania)
Grecia: IN CONFLITTO CON IL REGIME D' EMERGENZA (seconda parte)
Incendi domati in Val di Susa
la lotta in sda: LO STATO DELL'ARTE


A che punto è l'autodeterminazione del popolo kurdo in Siria?
Di fronte a crescenti tensioni il governo siriano ha segnalato ai kurdi in Siria disponibilità a trattare sull'autonomia. Subito dopo aver vinto l'IS “questo tema è riuscito ad uscire dal silenzio”, ha annunciato Walid Al-Muallem, ministro degli esteri della Siria.
Contrariamente ai kurdi in Irak, i kurdi abitanti nel nord della Siria, in base a numerose dichiarazioni in merito, non aspirano all'indipendenza statale ma insistono sulla loro autonomia all'interno dei confini siriani. “Questa questione può essere discussa”, ha detto il ministro degli esteri. Un'agenda politica fondata su premesse etniche, e anche religiose, in Siria venne adottata dal governo ai tempi del Partito pan-arabo Baath.
Le unità di difesa popolare kurde (YPG) oggi controllano un territorio nel nord del Paese dove il maggiore Partito kurdo (PYD) assieme ai suoi alleati, nel 2011, all'inizio della guerra in Siria, ha avviato e realizzato l'autonomia della popolazione kurda.
Nel marzo 2016 nella regione del Rojava, nome del territorio kurdo nel nord della Siria, venne proclamato il sistema dell'autodeterminazione democratica.
L'YPG, le unità di difesa delle donne (YPJ) sono parte delle Forze Democratiche Siriane (FDS), a loro volta componente importante dell' “alleanza anti IS” guidata dagli USA.
Nei territori kurdi l'esercito USA fornisce sostegno a diverse realtà. Al-Muallem critica la presenza degli USA in Siria: “...è illegittima e le manca il consenso del governo siriano. Damasco farà di tutto per annullare questa situazione. Se la diplomazia naufraga, prenderemo in esame altre soluzioni”.
Per paragone: la Russia sostiene l'esercito siriano nella guerra contro gli islamisti. In queste ultime settimane le offensive anti-IS si sono divise al punto da inasprire le tensioni già esistenti fra USA e Russia.

27 settembre 2017, da jungewelt.de

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Raqqa libera dal’is, Baghdad invade il Kurdistan iracheno
Raqqa è libera: l’annuncio delle Forze Siriane Democratiche e le immagini delle strade della città infine liberate dalla presenza dei miliziani dello Stato Islamico hanno fatto il giro del mondo. La riconquista della roccaforte dell’Isis è avvenuta al prezzo di una lunga battaglia, iniziata a giugno e costata la vita a migliaia di persone tra combattenti e civili. Una vittoria fondamentale anche per l’importanza strategica di Raqqa per il Califfato, che lì aveva stabilito la sua principale incarnazione territoriale.
Se gli ultimi miliziani rimasti nella città – ormai ridotta in macerie – sono stati catturati o uccisi dalle forze kurde durante l’offensiva finale, molti altri sono fuggiti nei giorni scorsi, presumibilmente a sud, in direzione di Deir el-Zor. La caduta di Raqqa non segna purtroppo la fine dello Stato Islamico, che persa la sua roccaforte territoriale nelle prossime settimane cercherà di riorganizzarsi in altre forme.
Nel frattempo, al di là del confine orientale siriano, il braccio di ferro tra Baghdad e Erbil (iniziato dopo il referendum per l’indipendenza del kurdistan iracheno dello scorso 25 settembre) è sfociato in una vera e propria operazione militare. Lunedì le truppe irachene hanno infatti preso il controllo della città kurda di Kirkuk, cui è seguito ieri quello di Sinjar, nel nord ovest della regione.
Al centro del contendere innanzitutto le riserve di petrolio dell’area kurda, non a caso tra le prime a essere state occupate dalle truppe irachene entrate a Kirkuk. Se l’operazione non ha per ora assunto i contorni di una vera e propria battaglia tra Erbil e Baghdad,è perchè le unità peshmerga hanno abbandonato le due città, l’offensiva irachena sta avendo importanti ripercussioni anche sul piano interno.
Lo sconfinamento nell’area kurda sta infatti mettendo in ulteriore difficoltà il presidente Barzani, che sul referendum per l’indipendenza aveva cercato di giocare una partita di rilegittimazione politica all’interno di una regione alle prese con grosse difficoltà economiche e sociali. Sembra che la carriera politica del presidente del governo regionale del Kurdistan (Krg), Massoud Barzani, sia giunta alla fine. Il governo centrale iracheno ha deciso di non cominciare nessun negoziato con le autorità del Krg finché Barzani resterà al suo posto. L’Iran e la Turchia lo accusano di aver portato il caos in una regione già instabile. Il governo centrale in Iraq, però, respinge l’idea della sospensione dei risultati e chiede che siano cancellati, come se il referendum non fosse mai avvenuto.
Anche se entrambe le parti dicono di voler negoziare, le truppe irachene, sostenute dalle milizie sciite Hashd al shaabi, continuano ad avanzare rapidamente. Si stanno dirigendo a nord, per prendere il controllo degli ultimi checkpoint al confine con la Turchia e con la Siria. I peshmerga curdi cercano di bloccarle. Entrambe le parti combattono con armi fornite dagli Stati Uniti. Nessuno sa quante perdite in termini di vite umane potrebbero causare questi combattimenti prima che i rappresentanti di Erbil e di Baghdad si siedano al tavolo dei negoziati.

18 ottobre 2017, liberamente estratto da internazionale.it e radioblackout.info


GLI AGUZZINI DEL MARE E DEL DESERTO
LA POLITICA DEL GOVERNO ITALIANO IN LIBIA
Ciò che accade al largo delle coste e all’interno del territorio libico è davvero rappresentativo dei tempi ignobili in cui viviamo. Con lo spudorato pretesto della “lotta ai trafficanti di uomini”, lo Stato italiano sta lautamente finanziando signori della guerra, guardie e milizie (quello che si definisce maldestramente “governo libico”) per il controllo e l’internamento di massa dei poveri in fuga. Pattugliamenti e respingimenti sulle coste del Mediterraneo, detenzione nei campi di concentramento libici di circa seicentomila persone, costruzione di un muro nel deserto lungo il confine con il Niger, il Ciad e il Mali. Le stesse milizie che si sono arricchite per mesi con i viaggi della disperazione, ora sono pagate per impedirli. Sono le stesse milizie a cui l’ENI delega la difesa armata dei propri pozzi. Nei trentaquattro campi di concentramento (di cui ventiquattro nel territorio controllato dal governo di Tripoli, alleato dell’Italia) si praticano quotidianamente torture, violenze, stupri. L’importante è che la merce umana non richiesta non venga a turbare i sogni di ordine e sicurezza in Italia e in Europa. Il resto non è affar nostro, giusto? D’altronde, con la Turchia di Erdogan non si sono stipulati gli stessi accordi?
Nel grande caos seguito ai bombardamenti della Nato del 2011 (proprio quando stavano scadendo le concessioni petrolifere alle potenze occidentali), i governi di Italia, Francia e Inghilterra hanno cercato di farsi le scarpe a vicenda rinegoziando con le bombe e con i soldi la propria influenza nell’area.
Lo Stato italiano, di cui Gheddafi è sempre stato un ottimo alleato, non poteva certo perdere il proprio potere sull’ex colonia. La “ricostruzione” che i democratici annunciano ora in Libia in cambio dei muri anti-immigrati, è la continuazione di ciò che le loro bombe hanno cominciato. Le varie signorie libiche usano l’arma dei migranti da lasciar partire per contendersi i soldi e la legittimazione internazionali. Ciò che ogni potenza riconosce come “governo” è solo la banda di assassini più spietata e più affidabile. Così come la partecipazione alla guerra è stata spinta all’epoca dal sinistro Napolitano, è oggi uno sbirro del partito democratico come Minniti a pavoneggiarsi di aver ridotti gli sbarchi.
L’ENI intanto ha aperto altri nove giacimenti petroliferi nei circa trentamila chilometri quadrati di territorio libico su cui governa. Altre aziende italiane sono pronte, con armi e bagagli. Si militarizzano le città in nome del cosiddetto “antiterrorismo”, poi si pagano le milizie jihadiste libiche per i propri interessi.
Si ciancia di “diritti democratici”, ma l’unico “diritto” che hanno milioni di poveri è quello di crepare. Non si scomoda più la nozione di “razze inferiori”, ma il risultato è lo stesso. Mentre tanti nostri simili sprofondano nel terrore, attaccare i signori dello sfruttamento e della guerra è il solo modo per non sprofondare in una disumana indifferenza.
Se non lo avete capito, si parla anche di noi.

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TRENTO: SUL PROCESSO DEI FATTI DEL BRENNERO E SUI RESPINGIMENTI IN LIBIA
Domenica 24 settembre si è svolto allo spazio anarchico “El tavan” un incontro tra indagati e indagate per la manifestazione al Brennero del maggio 2016.
In questo primo incontro ci si è confrontati sia su alcuni aspetti “tecnici” (analisi del faldone di inchiesta, avvocati, cassa di solidarietà ecc.) sia sull’importanza di rivendicare a testa alta, in occasione dei futuri processi, lo spirito di quella giornata di lotta.
L’inchiesta è divisa in due tronconi: per 64 persone sono state chiuse le indagini relative ad alcuni reati (radunata sediziosa, interruzione di pubblico servizio, travisamento e porto di armi atte ad offendere), mentre per diverse altre decine c’è un’indagine in corso per devastazione e saccheggio.
Per numero di indagati, per questure coinvolte, per realtà di compagni toccate, si tratterà di un processo piuttosto grosso. Che potrebbe diventare momento e spazio di battaglia e di rilancio della lotta contro le frontiere. Per questo abbiamo deciso di cominciare a confrontarci con largo anticipo, nell’intento di trasformare una scadenza loro in un’occasione nostra. Proprio perché obiettivi, tempi e modi possono e devono essere autonomi da quelli imposti da questurini e giudici, ci siamo interrogati su cosa significa rilanciare la lotta contro le frontiere oggi, non chiudendoci nella giornata del 7 maggio, ma partendo dallo spirito che la ha animata. E parlare di frontiere oggi significa parlare soprattutto della Libia, dei respingimenti, dei campi di concentramento in cui sono rinchiuse circa seicentomila persone, del ruolo del governo italiano e delle multinazionali di gas e petrolio (prima fra tutte l’ENI, che controlla in Libia circa 30mila chilometri quadrati di territorio).
Tra la distesa di filo spinato nell’Europa dell’Est (a cominciare dagli accordi con Erdogan) e la trasformazione della Libia in una gigantesca prigione a cielo aperto (non solo per il finanziamento delle milizie anti-immigrati sulle coste del Mediterraneo, ma anche per la costruzione di un muro – gestito dai carabinieri – al confine con Ciad, Mali e Niger), parlare di “fortezza Europa” è sempre meno metaforico. Data la centralità dello Stato italiano per gli interessi nella propria ex colonia, in quanto internazionalisti non possiamo rimanere a guardare. Fino ad ora sull’ignobile intervento in Libia (non scollegato dal clima che si respira nelle città in cui viviamo, tra militarizzazione e Daspo urbani) c’è stato un assordante silenzio. Vorremmo invertire la tendenza.
Vista la buona partecipazione al primo incontro, si è deciso di proporne un secondo, questa volta allargato non solo agli indagati e indagate del Brennero, ma a tutti gli interessati. Sarà un’occasione per continuare a confrontaci sul processo, ma anche e soprattutto per ragionare, a partire da queste angolazioni concrete, su prospettive e metodi di lotta contro gli Stati, le loro guerre e le loro frontiere. Ci sembra assai importante ricostruire un ambito di confronto fra compagne e compagni, perché passaggi storici di tale portata non possono essere affrontati a livello locale.

Compagne e compagni trentini
31 ottobre 2017, da roundrobin.info


EGITTO: GLI INTERESSI ECONOMICI E MILITARI COLPISCONO E REPRIMONO LA POPOLAZIONE SPINGENDOLA ALL’EMIGRAZIONE
Dall’Egitto ci arrivano le grida e le esortazioni a prendere coscienza di quanto realmente sta accadendo sotto la dittatura militare che imprigiona e uccide, come documentato negli appelli che seguono, per imporre sfruttamento e miseria.
Da queste pagine si evincono facilmente le motivazioni che spingono ogni giorno migliaia di persone alla fuga, nel tentativo di salvaguardare la propria vita, i propri cari, la propria dignità, la propria libertà. Riportiamo alcuni esempi in riferimento ai vari ambiti in cui la repressione avanza, che i mass media NATO si guardano bene dal citare.
Di seguito una rassegna di scritti liberamente estratti da hurriya.noblogs.org

Negli ultimi giorni di settembre il regime ha dato il via all’ennesima ondata di repressione decidendo di colpire in maniera trasversale tutti e tutte, soprattutto per chi si oppone e resiste non esiste tregua.
Così, alla fine di un concerto della rock-band libanese Mashrou’ Leila, 7 ragazzi sono stati arrestati con l’accusa “di promuovere devianze sessuali”. Sono stati visti dalle guardie sventolare una bandiera arcobaleno e tanto è bastato per finire in carcere in attesa che vengano ultimate le investigazioni (una procedura che può durare degli anni in Egitto e che permette allo Stato di tenere dentro le persone in maniera del tutto illegale).
Un tribunale del Cairo aveva condannato l’avvocato Khaled Ali a 3 mesi di carcere o al pagamento di una cauzione di 1.000 ghinee con l’accusa di “pubblica indecenza”. L’avvocato in effetti è anche attivista, ex candidato alle elezioni presidenziali del 2012, difensore di tantx compagnx e prigionierx politicx, uno dei principali oppositori alla cessione delle isole di Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita.
Se confermata in appello tale sentenza impedirà a Khaled Ali di candidarsi, come da lui stesso annunciato, alle elezioni del 2018.
La repressione ha colpito anche una nota libreria del centro del Cairo. Le guardie sono entrate all’improvviso, sequestrando tutti i libri e il materiale presente nel locale e arrestando 2 lavoratori (poi rilasciati).
Le guardie sono anche entrate a casa di 11 sindacalisti indipendenti che sono stati arrestati. L’accusa è di aver partecipato quest’estate allo sciopero di 18 giorni di lavoratori e lavoratrici tessili di Mahalla.
Il regime ha avviato una serie di atti intimidatori per cercare di inibire un movimento operaio in fermento. Il 16 settembre altri 8 sindacalisti sono stati arrestati il giorno prima di una protesta (si sarebbe dovuta tenere il 17 settembre) fuori alla sede dell’Unione generale dei lavoratori delle imposte. L’accusa per tutti loro è di “incitamento alla protesta”.
Resta ancora in carcere, invece, Amr Ali, attivista e cofondatore del movimento 6 Aprile. Dopo aver scontato tutta la sua pena di due anni la scarcerazione è stata bloccata dalla procura che ha iniziato un altro processo a suo carico per un presunto reato commesso nel 2014.
Non si ferma neppure la repressione degli ultras. Un tribunale ha condannato 14 tifosi dello Zamalek (2 dei quali al carcere a vita) per aver commesso il massacro dell’Air Defense stadium. Così come nel 2012 a Port Said con la tifoseria dell’Ahly (74 furono assassinati e i corpi furono lanciati dalle curve), nel 2015 lo Stato e i vertici del club organizzarono una rappresaglia contro ultras dello Zamalek. Intrappolati all’entrata dello stadio vennero attaccati, caricati e massacrati dalla polizia che ne uccisero almeno 25. Fin’ora nessuna guardia ha mai pagato. Anzi, a essere accusati e condannati per questi massacri sono stati comunque dei tifosi.
Continua anche la repressione nelle carceri e nelle prigioni, dove però si fa sentire la resistenza dei e delle prigioniere che spesso scioperano anche per dei lunghi periodi nonostante le rappresaglie delle guardie che entrano nelle celle di notte, anche coi cani, picchiano, mettono in punizione e/o fanno sparire prigionierx.
A proposito di desaparecidxs il Centro @elnadeem per la riabilitazione delle vittime di torture ha pubblicato il rapporto di agosto: 50 omicidi extragiudiziali, 25 casi di violenza di Stato, 17 morti e 38 casi di negligenza medica in prigione, 73 casi di tortura, 125 desaparecidos.

Solidarietà per Alaa Abd el-Fattah, liberi tutti e tutte
A fine settembre è iniziata una campagna sui social network che chiede la scarcerazione di Alaa Abd el-Fattah, un compagno che sta scontando 5 anni di carcere (al momento sono passati tre anni e mezzo) per un corteo non autorizzato del 26 novembre 2013. All’epoca era stata appena approvata la legge terribile anti-protesta, pensata dai militari per vietare e reprimere ogni sorta di manifestazione pubblica di dissenso.
Quel giorno il collettivo NoMilTrials (No ai processi Militari sui Civili) aveva organizzato un presidio davanti al Parlamento, per chiedere la fine dei processi militari sui civili.
La polizia decise di caricare. Moltissime compagne e compagni furono arrestati e messi dentro. Ad alcuni, come Alaa, vennero date delle aggravanti totalmente inventate. Le pene per tutti furono durissime, dai tre ai cinque anni ciascuno.  
Il prossimo 19 ottobre ci sarà l’appello di Alaa per la condanna che lo vede dentro (il prossimo 30 settembre ci sarà, invece, un’altra sentenza per un processo che lo vede accusato di offesa al sistema giudiziario in cui Alaa rischia fino a sei anni in un carcere di massima sicurezza).
In Egitto internet è controllato, centinaia di siti sono bannati. La maggior parte di questi sono media alternativi e di opposizione. É fondamentale la solidarietà da fuori per fare pressione. Chi può organizzi presidi davanti le ambasciate, organizzi qualsiasi tipo di evento per sostenere Alaa e tutti prigionieri, boicotti le aziende che fanno business con il regime.

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Testimonianza sulle sezioni speciali per le condannate a morte
Nella quindicesima giornata contro la condanna a morte, pubblichiamo la testimonianza di una compagna, Yara Sallam, che durante la sua detenzione in carcere si trovava vicina alla sezione “speciale” delle donne recluse condannate a morte.

Come ci siamo abituate alle urla delle detenute condannate a morte.
Cerco di ricordarmi scene di esecuzioni nei film che ho visto, ma non ci riesco. Di sicuro nessuno nel cinema ha ripreso cosa accade prima di un’esecuzione. Forse è stata ripresa l’uniforme rossa da carcerate condannate, ma è la tunica (che le donne sono obbligate a indossare in carcere) rossa (se sei condannata a morte) in mezzo a quelle bianche ad avere un posto particolare nel cuore. Noi non abbiamo vista l’esecuzione capitale delle donne ma le abbiamo sentite quando venivano prese prima di essere uccise.
La sezione in cui stavamo era “al-Askari”. Tra di noi e quella delle condanne a morte internate nella sezione “speciale” c’era la sezione di isolamento.
Ogni volta che prendevano una donna per procedere all’esecuzione sentivamo le altre sue compagne di cella chiamarla con il proprio nome e urlare.
Le donne che stavano nella cella “speciale” mi hanno insegnato che tutto passa in questa vita, anche quando la tua compagna di cella con cui mangi tutti i giorni viene presa per essere giustiziata.
Il giorno dopo si ascolta il Corano e dopo poco quando le prigioniere fanno le condoglianze alle compagne di cella della donna a cui hanno eseguito la condanna, tutto torna alla normalità, risate e chiacchiere. Ci dicevano che “la speciale” era piena e che dallo scoppio della rivoluzione nessuna era stata presa per essere giustiziata. Ma un giorno o due prima del 23 giugno 2014 (prima che noi entrassimo in carcere) una donna era stata presa. Credo che dopo 15 mesi da quando siamo uscite, tutte le donne sono state giustiziate, almeno dieci recluse, e poi questa cella si è riempita nuovamente.
Il presidente attuale non ama la vita. Ricordo che la prima volta che ho sentito le urla delle donne, perché una prigioniera veniva portata via per l’esecuzione, era il 25 giugno 2014. L’idea della morte era qualcosa di molto strano e la rifiutavamo. Abbiamo spento la radio, siamo rimaste in silenzio e abbiamo pianto.
Verso la fine del nostro tempo di permanenza dentro, la morte è diventata qualcosa di molto doloroso, ma era normalizzata. Ci siamo abituate alla tunica rossa quando la incontravamo per caso. Ci siamo abituate alle urla delle compagne di cella della prigioniera condannata a morte, ci siamo abituate alla morte.
Io stessa ho smesso di scrivere quante donne venivano prese come facevo all’inizio.
Mi ricordo che un giorno mentre chiacchieravo con una delle prigioniere, diceva che non tutte le guardie avevano il cuore duro e che in molti non riuscivano ad assistere alle esecuzioni. Al tempo non capivo che differenza ci potesse essere tra fare il proprio dovere e vederne i risultati. Forse questo significa che uccidere in nome della legge, sotto la dicitura “condanna del crimine”, in fin dei conti resta pur sempre un ordine difficile da vedere accadere sotto i propri occhi?
Un giorno le guardie hanno inscenato un teatrino: dopo aver perquisito la sezione “speciale” da cui sequestrarono degli oggetti, una delle secondine è tornata a prendere due delle donne recluse con la scusa che avrebbero ridato loro gli oggetti sequestrati. Intanto le ore passavano e noi cominciavamo a preoccuparci. Poi abbiamo scoperto che le due donne erano state prese per essere giustiziate ma non avevano il coraggio di portarle via insieme dalla sezione come sempre. Forse avevano paura che le loro compagne di cella si sarebbero opposte. Sto cercando di ricordare dettagli, ma la mia memoria non mi aiuta o forse non voglio ricordare.
La sezione speciale è composta da dieci celle. In ognuna ci dovrebbe essere una sola detenuta. Tuttavia visto che le condannate a morte sono molte, dentro ce ne sono due. Ogni sezione ha l’elenco delle due donne recluse. Quando l’amministrazione carceraria decide, allora dicono chi prendere per l’esecuzione e quando. Il carcere chiude presto. Allora un poliziotto insieme a diverse secondine entrano in sezione, sanno quale cella aprire ed escono. Le compagne di cella iniziano a urlare e noi cerchiamo di capire il nome che stanno dicendo per sapere chi morirà. Non ricordo le loro storie tranne di due sorelle accusate di aver ucciso vari autisti di tok tok per poi rivendere i mezzi. Una delle due affermava che li avevano uccisi veramente e pregava Dio di accettare il suo pentimento e di perdonarla, l’altra invece diceva di non aver fatto nulla e di essere stata reclusa ingiustamente.
Dentro al carcere è difficile sapere chi dice la verità e chi mente, come può un giudice essere certo al 100% che qualcuno ha commesso un reato?
Uno dei miei denti si è rotto mentre ero in carcere, sono andata all’ambulatorio odontoiatrico dell’ospedale e ho sentito una dottoressa dire a una secondina: non voglio che nessuna della sezione speciale venga qui all’ambulatorio, le vado a visitare in cella e se hanno bisogno di cure le faccio venire in ambulatorio, se no ogni due minuti una viene senza avere niente, così è impossibile! In effetti ho pensato che questo era l’unico modo che le condannate a morte avevano per uscire dalla sezione, di passeggiare al sole, di vedere il cielo e la gente.
Chi è condannata a morte non passeggia come il resto delle recluse, le concedono l’ora d’aria fuori dalla cella, dentro la sezione; escono dalla sezione solo se vanno all’ospedale o quando hanno le visite, che sono una volta al mese, non ogni 15 giorni come le altre recluse. Oggi, 10 ottobre, è la giornata mondiale contro la pena di morte o il giorno per la difesa della vita. In questo istante c’è tanta gente a cui arriva la notizia che un loro caro è stato ucciso, o “è stato giustiziato”. Fermiamo il crimine, non la vita!

15 ottobre 2017, Yara Sallam


SOLIDARIETà CON NADIA, A FIANCO DI CHI LOTTA DENTRO LE GALERE, CONTRO IL 41BIS
Sono passati 14 anni da quando la compagna Nadia Lioce è rinchiusa all'interno delle sezioni a regime di 41 bis.
Il 24 novembre a L'Aquila ci sarà la terza udienza che la vede sotto processo per aver osato dimostrare, tramite una battitura, di non essere stata ridotta al totale silenzio dalla vendetta dello stato.
Le persone rinchiuse all'interno del circuito del 41bis non hanno la possibilità di far uscire la loro voce, rendendo pubbliche le condizioni vessatorie quotidianamente vissute sui propri corpi e le proprie menti. Questo processo ci racconta di una protesta fatta a seguito dell'applicazione della circolare del DAP del 2011 che impediva, ai detenuti e le detenute in 41bis, di ricevere libri tramite posta e colloqui. Vincola l'acquisto esclusivamente attraverso l’ufficio preposto dal carcere. La suddetta circolare è stata legittimata, dopo diversi iter processuali, dalla sentenza della cassazione e definitivamente sancita dalla Corte Costituzionale l'8 febbraio 2017.
Nel 2015 ha avuto inizio la campagna "Pagine contro la tortura" all'interno dei percorsi contro il carcere e dei ragionamenti che ne seguono aprendo ulteriormente una finestra su quello che è il “carcere speciale” come dispositivo punitivo chiaramente in relazione ai cambiamenti sociali.
L’impostazione di questo regime detentivo prevede:
- isolamento per 23 ore al giorno. L’ora d’aria prevede un massimo di 4 detenuti (la scarsa (a)socialità è combinata scientificamente in base ai criteri dalla Direzione guidata dal DAP attraverso DNA, DIGOS, GOM, DIA...);
- colloquio con i soli familiari diretti (un’ora al mese) che impedisce per mezzo di vetri, telecamere e citofoni ogni contatto diretto;
- una telefonata al mese solo nel caso in cui non si sia effettuato il colloquio. Il parente stretto è la sola persona con la quale può entrare in comunicazione. La chiamata può essere effettuata esclusivamente dall’interno di un carcere;
- esclusione a priori dall’accesso ai “benefici” previsti dalla Legge Gozzini;
- impiego dei Gruppi Operativi Mobili (GOM), il gruppo speciale della polizia penitenziaria, tristemente conosciuto per i pestaggi nelle carceri e per i massacri compiuti a Genova nel 2001;
- “processo in videoconferenza”: l’imputato/a detenuto/a segue il processo da solo/a in una cella attrezzata del carcere, tramite un collegamento video gestito a discrezione di giudici, pm, forze dell’ordine, quindi privato/a della possibilità di essere in aula;
- la censura, taglio e selezione nella consegna di posta, stampe, libri.
Con la legge Gozzini dell’86 viene introdotto il 41 bis, per guidare in un primo tempo il sistema punitivo e disciplinare da adottare in ogni carcere.
Nell’estate del 1992 a seguito della morte di Falcone e Borsellino all’interno dello scontro tra gli apparati dello stato, il 41bis è diventato la punta di diamante del sistema repressivo carcerario. Dal ‘92 a oggi, questo regime è stato modificato e inasprito, esteso e omogenizzato e normato come legge. Per esempio, prolungandone l'applicazione, inizialmente prevista nella misura di 3 fino a 6 mesi e con proroghe non automatiche bensì revocabili come rinnovabili, mentre ad oggi si applica in prima istanza per 4 anni ed è la persona ristretta a dover dimostrare che non sussistono più motivi per la proroga: dimostrando di essere estraneo ai fatti, o collaborando.
E' in questo modo che le leggi e le norme di natura emergenziale permangono e col passare del tempo, si estendono: ogni restrizione adottata nelle sezioni a 41bis prima o poi, con nomi e forme diverse, penetra nelle sezioni di Alta Sicurezza e in quelle “comuni”, e non solo. Un esempio tra tanti è quanto avvenuto ai processi in video conferenza, ad oggi estesi anche ad altri circuiti penitenziari e alla trattazione delle commissioni territoriali per le richieste di protezione umanitaria delle persone immigrate.
Inoltre, con la sopra citata circolare del 2 ottobre si è sancita l'omologazione del trattamento di tutte le persone detenute in regime di 41bis che non fa altro che rafforzare e legittimare tale strumento. Nello specifico la quotidianità dei detenuti in 41 bis viene programmata in modo totalizzante, citiamo solo alcuni stralci tratti dalla circolare:
“assicurare un'attenta attività di osservazione al fine di studiare e analizzare dinamiche dei gruppi e apportare le dovute modifiche con l'obiettivo di impedire tentativi di "avvicinamento" e/o "condivisione" di interessi tra consorterie mafiose espressione di differenti provenienze territoriali, evitando di formare gruppi di socialità "aggregati" e comunque coesi”.
Gli apparati statali repressivi continuano a presentare questo circuito identificando, chi è lì prigioniero, esclusivamente come boss mafioso per ridurre la popolazione carceraria e ricondurla ad un evidente fine di demagogica strumentalizzazione sulla cosiddetta "opinione pubblica". In realtà come applicato per la compagna Nadia, il secondo comma della L.279/2002 estende il regime del cosiddetto "carcere duro" anche ai soggetti imputati o condannati per reati diversi da quelli dell'associazione di stampo mafioso. Tra i reati interessati a questa estensione anche quelli "commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell'ordinamento democratico, mediante il compimento di atti di violenza".
L’estensione del 41 bis agli altri circuiti è resa evidente per esempio dalla scrupolosa osservazione alla base del dispositivo di isolamento messo in atto all'interno di questi circuiti. Nei circuiti di AS, per esempio, vige questo meccanismo, con la differenza che all'interno vengono rinchiusi soggetti che si ritenga abbiano una stessa matrice politica o... criminologica.
Il prestigio di un carcere è acquisito in maniera sempre più decisa sulla base della sicurezza e non del paravento della "rieducazione"; il fine principe, ripetiamo, è la volontà di ottenere “collaborazione” attraverso la tortura quotidiana.
Il carcere ha plurime funzioni tra cui quella di essere monito per chi decide, per condizione o volontà, di non attenersi ai paradigmi di legalità nonchè quella di disciplinare, restituendo alla società esterna soggetti ammansiti e rassegnati. La strategia del "divide et impera", attuata con la differenziazione dei circuiti carcerari, è utile a frammentare e prevenire la solidarietà così come avviene nel mondo del lavoro e in quei tanti ambiti della società in cui tale sistema si concretizza nella “guerra tra poveri".
Alla luce di ciò, riteniamo che il regime 41-bis non sia separato dal resto del carcere ne dall'intero progetto politico di ristrutturazione della società. Per questo lottare contro il 41-bis significa lottare contro tutto il sitema carcerario e non solo.
Il 24 novembre alle ore 9.00 si celebrerà, presso il Tribunale ordinario di L’Aquila in Via XX settembre n. 68, il processo a Nadia Lioce. Noi quel giorno saremo lì in presidio, in solidarietà con lei e con il suo grido di dignità. A seguito ci sposteremo davanti al carcere per portare un saluto ai detenuti e alle detenute.

novembre 2017, Campagna “Pagine contro la tortura”


PROPOSTA DI LOTTA COLLETTIVA dalle carceri spagnole
Premessa delle traduttrici: quella che trovate di seguito è una proposta di lotta collettiva ideata dentro le carceri spagnole da alcuni detenuti con lo scopo a breve termine di abolire le condizioni subumane di detenzione che attentano alla vita e alla dignità della persona, perché l’obiettivo a lungo termine è l’abolizione delle carceri.
I prigionieri hanno ricominciato ad organizzare la lotta contro le carceri spagnole all’inizio del 2016 dopo la lunga campagna “Carcere=tortura”.
Potete trovare altre informazioni e aggiornamenti sul sito www.tokata.info
Il maschile ed il femminile sono utilizzati in modo indifferente ed equivalente essendo il genere un’invenzione dei sistemi autoritari.

Il dimenticatoio sociale, la mancanza di consapevolezza e il disinteresse generalizzato per ciò che succede nelle carceri equivalgono al consenso con la arbitrarietà, la prepotenza e la vulnerabilità delle leggi proprie della amministrazione carceraria, appoggiata passivamente dal tribunale di vigilanza penitenziaria, approfonditamente informato rispetto a quello che accade nelle carceri però incapace di esercitare la sua funzione legale della“ tutela giudiziaria effettiva” dei diritti delle prigioniere.
Questa situazione fa si che noi persone detenute siamo sistematicamente sottomesse agli abusi di potere, alle aggressioni, alle torture fisiche e psichiche continuate, e alle condizioni inumane e degradanti sotto tantissimi aspetti: abbandono medico-sanitario, sfruttamento lavorativo, impossibilità di difendersi giuridicamente, discriminazione culturale, inesistente libertà d’espressione, ecc. I governanti di destra, sinistra e centro fingono di non conoscere anomalie, deficienze, squilibri e torture della "istituzione penitenziaria" e si dedicano solo ad indurire le leggi, cercando l'ignorante plauso sociale, utilizzando a loro capriccio “i mezzi di comunicazione”, o manipolazione di masse, ingannando la società, pretendendo di vendere ai concittadini uno stato di diritto Senza Diritti.
Mentre si suppone che noi siamo stati incarcerati per non aver rispettato la legge, coloro che teoricamente dovrebbero difenderla deridono i nostri diritti, violandoli sistematicamente e quotidianamente e punendo i prigionieri che cercano di denunciarlo. Per incominciare, pretendiamo solo questo, che si rispettino i nostri diritti invece di esigere solamente i nostri obblighi. Abbiamo diritto a mostrarci in disaccordo con il modo in cui procedono le cose.
Se un carcerato colpisce un funzionario è punito, è sanzionato dal punto di vista amministrativo e penale e viene aperto un rapporto in esito al quale sarà incrementata la sua condanna. Orbene, se un branco di carcerieri viene ad insegnarci "chi comanda qui" (badando che non li registrino le telecamere, chiaro) il carcerato sarà picchiato impunemente con abuso di autorità/superiorità numerica, sottoposto a sanzione disciplinare secondo il regolamento carcerario, castigato sommariamente e condannato da giudici che solo si attengono alla "presunzione di veridicità dell'agente nell'esercizio delle sue funzioni". Questa è giustizia?
Abbiamo chiaro che ci sono due modi di pagare la pena. Il più generalizzato, sfortunatamente, è la sottomissione e l’accomodamento all'istituzione carceraria e la collaborazione con essa, in attesa di benefici che non sono altro che l'altra faccia della paura delle torture o dell'allontanamento geografico dai parenti, cosa che induce molti al tradimento, attraverso il famoso "dividi e vincerai".
L'altro modo di vivere la galera è puntare i piedi, confrontarsi e lottare attivamente contro l'ingiustizia, la degradazione e l'impunità rispetto a quello che accade in carcere. Quella che facciamo in questo testo è una proposta in questo senso, diretta in primo luogo a tutte le persone detenute che siano d’accordo con noi, perché l'unica strada che ci rimane per difendere la nostra dignità è lottare uniti per i nostri diritti, poiché le leggi servono solo per punirci e non per tutelarci.
Noi ci rifacciamo all'esperienza di organizzazioni di autodifesa delle persone prigioniere come COPEL (Coordinamento Prigionieri In Lotta) [1], APRE (Associazione Prigionieri in Regime Speciale) [2] ed altre che non adottarono nessuna sigla. Anche noi volevamo proporre alcune sigle (come ad esempio ASPRELA: Associazione di Prigionieri In Lotta Attiva), ma abbiamo deciso di abbandonare questa idea perché pensiamo che adottare o meno un nome comune deve essere una decisione di tutte le partecipanti. Rimane aperta la discussione!
Così noi proponiamo, come è avvenuto in quei memorabili tentativi, un insieme di rivendicazioni attraverso le quali denunciamo le situazioni che attentano alla nostra dignità e alla nostra vita e ci prefissiamo alcuni obiettivi da raggiungere a breve e medio termine, perché a lungo termine lottiamo per l'abolizione delle prigioni e del potere punitivo dello Stato.
Confidiamo che proporrete tutte le modifiche e le integrazioni che riterrete opportune. Ugualmente proponiamo, per incominciare, una tattica, una strategia condivisa di lotta, in principio simbolica, per mostrare che ci siamo e capire chi siamo. È anche necessaria la discussione su questo punto: che mezzi di lotta vi sembrerebbero più convenienti per far uscire fuori quello che accade e per far si che si ascoltino le nostre domande? Di seguito una lista aperta delle rivendicazioni che nel tempo abbiamo accolto e sviluppato. Aspettiamo i vostri suggerimenti per completarla.
1ª) Esigiamo la fine delle torture, aggressioni e trattamenti crudeli, inumani e degradanti e dell'impunità dei carcerieri che le praticano in tutte le prigioni dello Stato spagnolo, con la creazione di meccanismi di controllo a garanzia che non si verifichino più e di sistemi di vigilanza e prevenzione completamente indipendenti dalle amministrazioni statali. Che i tribunali inoltrino tutte le denunce e che il medico forense esamini immediatamente i querelanti e che siano allontanati dal contatto con la popolazione reclusa tutte le carceriere che siano state denunciate per maltrattamento, trattamento inumano o vessatorio, tortura, abuso di potere o eccesso di rigore anche solo verbale.
2ª) Lo sradicamento di FIES [Regime speciale in Spagna, vedi nota n. 2], l’abolizione del cosiddetto "regime speciale" di punizione e la chiusura assoluta delle sezioni di isolamento, perché inducono il prigioniero in uno stato vegetativo, annullando e distruggendo la sua personalità attraverso la sottomissione e le privazioni di ogni tipo: sensoriale, culturale, relazionale, affettivo. Perché servono per reprimere e tacere qualunque tipo di rivendicazione, allontanandoci dal resto della popolazione reclusa con la scusa che esercitiamo su di essi l'influenza del nostro sentire libertario, per poterci così calpestare, separarci secondo i capricci dell’”istituzione", distruggendoci dal punto di vista fisico, psichico e morale, annullando i nostri diritti fondamentali e sopprimendoci così come esseri umani.
3ª) La fine della dispersione geografica dei prigionieri. Esigiamo che ogni detenuta possa estinguere la pena nella propria comunità di origine o là dove si trovi il proprio ambiente affettivo. E, ovviamente, per evitare che le nostre amicizie e famiglie si espongano al rischio di incidenti stradali, molto frequenti quando si devono fare centinaia di km per raggiungerci e vederci per 40 minuti di merda dietro un vetro.
4ª) Esigiamo che i servizi medici non siano ascritti alla istituzione penitenziaria, ma siano indipendenti da essa, affinché le persone detenute ricevano gli stessi trattamenti delle persone in strada [3]; per porre fine alla pratica di "chiudere un occhio" di fronte alle lesioni per torture, bastonate e maltrattamenti e alla conseguente falsificazione delle relazioni cliniche; così da evitare che siano etichettati come "morti per overdose", "impiccati", etc. i detenuti assassinati nelle prigioni dello Stato spagnolo. Basta all’impunità e alla complicità corporativista tra medici carcerieri e carcerieri!
5ª) Esigiamo l'applicazione immediata degli articoli 104.4 e 196 del regolamento penitenziario [4] a tutti gli ammalati cronici, prima che entrino in fase terminale. In una fase intermedia dovrebbero essere già scarcerati per poter essere trattati e curati degnamente, cosa impossibile dentro le prigioni. Che giustizia lascia morire degli esseri umani come stanno morendo tante compagni prigioniere? Forse non meritano di vivere gli ultimi giorni con i propri cari?
6ª) Rispetto agli ammalati mentali, esigiamo che siano trattati adeguatamente in posti appropriati per ciò e non nelle prigioni, e ancor meno in regime chiuso o in isolamento. Noi, come detenute in lotta, ci impegniamo a proteggere tutte loro. Non permetteremo che vengano torturati né che si lucri sulle loro spalle.
7ª) Esigiamo che i "programmi" con metadone, trattamenti psichiatrici, etc. prevedano l’accompagnamento di gruppi di appoggio, psicologi, terapeuti, etc. indipendenti dall’istituzione penitenziaria, con l'unico fine di abbandonare l’uso delle droghe e non di sostituirle con l’assuefazione a droghe legali che portano a dipendere dallo stato. Consideriamo il cattivo uso di questi "programmi", senza adeguato appoggio, tortura continuata.
8ª) Esigiamo che ci sia sin da subito l’apertura di un’inchiesta al fine di chiarire e individuare le responsabilità per le compagne morti nelle prigioni dello stato spagnolo dall’inizio della cosiddetta "democrazia" fino al giorno d’oggi. Esigiamo la pubblicazione nei mezzi di manipolazione di massa, erroneamente chiamati "mezzi di comunicazione nazionali”, del totale di quelle morti col fine che la società comprenda dove vanno a finire i soldi delle tasse. E che i responsabili di tutte le morti delle nostre compagne siano giudicati per quello che hanno fatto. Né oblio né perdono per le morti nelle prigioni dello stato spagnolo!!
9ª) Vogliamo che le strutture carcerarie aprano aule, officine, palestre, accessi a percorsi formativi e culturali ai detenuti tacciati di essere "irrecuperabili" e che le unità docenti impartiscano loro lezioni come al resto dei prigionieri. Che giustizia permette la privazione del diritto alla cultura? Si riempiono la bocca di parole magniloquenti come "reinserimento", "riabilitazione", etc., ma le loro prigioni fomentano la prigionizzazione, la degradazione umana, il deterioramento della salute, la tossicodipendenza, lo sradicamento sociale e familiare.
10ª) Esigiamo che i cosiddetti "moduli di rispetto" [5] non siano utilizzati come vetrine per portare a spasso i visitatori. Perché non li portano a spasso per le celle di punizione o per i "moduli conflittuali”? Esigiamo che non si usino come si fa ora questi "moduli di rispetto" per ricattarci con supposti benefici penitenziari in cambio di degradarli moralmente e schiavizzarli.
11ª) Esigiamo che si smetta di perquisire integralmente le famiglie e gli amici in visita e che si smetta di utilizzare raggi X [6] sulle prigioniere in occasione di ogni visita. E che si possa comunicare con le proprie amicizie per qualunque via senza alcuna limitazione né iter burocratico.
12ª) Esigiamo dai tribunali, dalle forze di sicurezza dello stato e dai vari oppressori che non criminalizzino la solidarietà tra le persone. Noi prigioniere e i gruppi di appoggio alle prigioniere siamo una cosa sola. Se toccate loro toccate noi.
Per sostenere queste rivendicazioni e farle conoscere dentro e fuori dalle prigioni innanzitutto proponiamo di continuare a fare digiuni mensili, ad esempio i primi giorni del mese. Chi fa digiuno lo comunichi in anticipo ai gruppi di appoggio in strada spiegando i motivi personali e quelli collettivi e, se lo ritiene opportuno, comunicandoli anche alla direzione della prigione o ad altre istituzioni, come il congresso dei deputati, il garante dei detenuti, i tribunali di vigilanza, etc.
Proponiamo anche che non si smetta di denunciare per vie legali nessun abuso sofferto personalmente o da altri compagne. Non abbiamo nessuna fiducia nel "potere giudiziario" dello stato, ma così evidenziamo in maggiore misura la sua ipocrisia e malafede e possiamo anche forzare la macchina burocratica, questa può essere una forma di pressione buona come qualunque altra. Avremo bisogno di tutto l'appoggio giuridico che possa giungere dalla strada, ma possiamo imparare anche noi ad usare i meccanismi legali per ottenerlo, come il gratuito patrocinio o i servizi di orientamento giuridico penitenziario. Benché non ci fidiamo troppo neanche di essi, mettendoli in moto ostacoleremo che si paralizzino e metteremo in evidenza le sue contraddizioni. Denunciare anche pubblicamente tutto il denunciabile affinché sia diffuso nei mezzi di controinformazione.
Tutto ciò non è che una proposta, una bozza da discutere tra tutte le compagne imprigionate che vogliano partecipare, salvo collaboratori ed infami, violentatori, fascisti, aguzzine e pedofili. Aspettiamo i vostri apporti e suggerimenti che cercheremo di integrare in un manifesto collettivo che speriamo sia messo in pratica dal maggior numero possibile di compagne. Nel frattempo, come segno che siamo disposti a partecipare alla lotta comune, insieme a tutto il mondo potremmo incominciare coi digiuni mensili, contemporaneamente intanto si mette in moto la discussione.

Note
[1] Durante gli anni ’70 e ’80 in molte carceri spagnole vi furono diverse sommosse caratterizzate da vere e proprie rivolte, scioperi della fame e dei laboratori di lavoro; numerosi furono i morti e i feriti tra i prigionieri e i carcerieri. In questo contesto si forma il coordinamento dei prigionieri in lotta (COPEL) che rivendica miglioramenti concreti nelle carceri, l’amnistia totale, e l’abbattimento delle leggi e delle strutture ereditate dal franchismo. A questa situazione lo Stato rispose con una forte repressione, che comportò l’indebolimento e la successiva scomparsa del COPEL.
[2] Nel 1991, mentre in Italia veniva istituito il 41bis, in Spagna vengono instaurati i regimi speciali per i prigionieri denominati F.I.E.S. (archivio di interni in speciale osservazione). Questo regime, la cui durata è a tempo indeterminato, prevede un isolamento pressoché totale; i piccoli cortili per l’ora d’aria sono coperti da reti metalliche; vengono effettuate perquisizioni integrali; esposizioni arbitrarie ai raggi X; torture fisiche; trattamenti farmacologici con psicofarmaci e letti di contenzione. Numerosi detenuti muoiono a causa delle condizioni detentive; in questo contesto nasce l’associazione dei prigionieri in regime speciale APRE. Dal 1999 ad oggi i prigionieri FIES continuano la lotta che si manifesta con continui scioperi della fame, rifiuto dell’ora d’aria, di effettuare le pulizie, spesso si scontrano con le guardie, devastano le celle e rendono inagibili le sezioni. All’esterno vi sono state varie manifestazioni di solidarietà che sono spaziate dai cortei ai presidi sotto le carceri, dalla controinformazione alle azioni dirette contro strutture legate all’istituzione carcere, contro giornalisti e banche. Solidarietà che si è espressa sia in Spagna sia in altri paesi europei, Italia compresa.
[3] Nel testo si utilizza il termine persone “in strada” in luogo di “libere” poiché gli scriventi ritengono che anche le persone non detenute non siano libere (anche definito “quarto grado”).
[4] Il regolamento penitenziario spagnolo prevede la scarcerazione per i malati cronici in fase terminale; anche in Italia questa possibilità è prevista dal codice penale ma, come avviene in Spagna, di fatto è attuata molto di raro o comunque tardivamente.
[5] Si tratta di moduli istituiti nel 2001 dove in cambio di “benefici” si verifica la totale spersonalizzazione dei detenuti essendo essi stessi coloro che autogestiscono la propria carcerazione (dall’organizzazione delle attività al controllo del rispetto delle regole da parte di ogni detenuto).
[6] Il controllo con i raggi X è previsto per i detenuti e per tutti le visitatori (con l’eccezione di donne gravide, portatori di peacemaker, malati di cancro).


dalle LOTTE DENTRO E CONTRO I lAGER PER migranti
Torino, CPR di C.so Brunelleschi
17 ottobre. Avevamo scritto che al CPR di Torino la calma degli ultimi tempi non era che apparente. Raramente tra i reclusi al fu CIE non c’è un movimento carsico in cui la voglia di libertà scava crepe nel funzionamento della struttura, a volte in maniera impercettibile, a volte palesemente, talvolta danneggiandola materialmente, talaltra affinando la complicità collettiva. Ci sono poi le grandi occasioni, quelle in cui l’organizzazione di tutti – o quasi tutti – punta in alto, punta a una giornata di rivolta generale, come è accaduto qualche giorno fa.
I detenuti si erano organizzati perché domenica 15 fosse il giorno in cui appiccare il fuoco a tutte le aree, ma avevano anche avvertito che alcuni tra di loro parlavano troppo, e con troppa propositività, con i lavoranti dell’ente gestore Gepsa e con le forze dell’ordine. Ecco perché non si sono stupiti quando venerdì, con la scusa di lavori di manutenzione, il campetto è stato chiuso e non hanno potuto incontrarsi oltre le divisioni di area. Un segnale evidente che l’amministrazione della prigione per senza-documenti aveva dei sospetti su possibili disordini.
Sabato mattina infatti la celere ha fatto ingresso in tutte le stanze, ha costretto tutti a uscire per star rinchiusi dentro al campetto, ha perquisito ogni anfratto alla ricerca dell’oggetto vietato per eccellenza là dentro: l’accendino. Pare che durante la procedura siano stati più calmi rispetto al solito sbracciare col manganello e trovati gli accendini abbiano fatto tornare i reclusi nelle aree e siano stati là fino a sera a controllare la situazione. Vista sfumare la possibilità di rivolta del giorno successivo, gli animi dei detenuti si erano a quel punto scaldati e per tutta la sera di sabato ci sono state battiture e urla contro la polizia.
Nell’ultimo anno i numeri sono cresciuti vertiginosamente all’interno del Centro, si parla a oggi di più di 160 ragazzi, distribuiti tra l’area blu, l’area gialla, l’area viola, l’area verde e le due stanze attive dell’area bianca. Le condizioni all’interno sono sempre miserabili e il cibo è il maggior motivo quotidiano di preoccupazione per i detenuti, oltre alla sua infima qualità, sono in molti a constatare una stanchezza improvvisa dopo i pasti e le confezioni non integre nelle quali vengono serviti.
Non è certo una novità l’utilizzo degli psicofarmaci nel cibo per tenerli tranquilli, una novella è invece il nome dell’azienda che questa sbobba la prepara, una veterana nel panorama italiano della detenzione dei migranti: la Sodexo, che in passato, parliamo del 2009, riforniva il vitto dei CIE di Ponte Galeria a Roma e via Corelli a Milano. A Torino attualmente ha l’appalto in alcune mense universitarie, tra cui quella del Politecnico di corso Castelfidardo, in cui la settimana scorsa alcuni nemici delle espulsioni si sono recati per interrompere il pranzo con un racconto al megafono del legame tra l’azienda che prepara i pasti agli studenti e la detenzione di chi non ha i documenti in regola. (da autistici.org/macerie)

Tentativo di incendio al CPR di Caltanissetta
2 settembre. Malgrado la cappa di silenzio calata sui CPR, all’interno continua la lotta per conquistarsi la libertà. Alcuni di questi tentativi riescono a rompere l’isolamento che circonda queste strutture e arrivano sulle prime pagine dei giornali.
“Alcuni immigrati trattenuti nel CPR, centro per i rimpatri di Pian del Lago hanno dato fuoco a vestiti e biancheria per protestare contro il loro imminente rimpatrio coattivo.” A differenza di quanto riportato dall’Ansa la protesta non riguardava i tempi d’attesa [per il riconoscimento dello status di rifugiato politico, ndr] e dunque non è stata messa in atto da richiedenti asilo “ospiti” del Cara, come confermato dalla Questura di Caltanissetta.
Il danneggiamento, avvenuto poco prima della mezzanotte di ieri, è stato comunque molto limitato. Due o al massimo tre “ospiti” della struttura, infatti, hanno provato a dare fuoco ad alcuni materassi senza riuscire nel loro intento poiché a seguito di precedenti episodi del genere avvenuti in passato, tutto il materiale di cui è dotata la struttura è ignifugo, compresi i materassi. Il risultato è stato un muro annerito e nessun altro danno. I luoghi sono stati già ripristinati dallo stesso personale della cooperativa Auxilium che gestisce il centro. Solo fumo e nessun danno a cose e persone.
Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco assieme al personale di servizio e alle forze dell’ordine. La situazione l’indomani è tornata alla normalità, ma sono in corso indagini per risalire ai responsabili che si sono dileguati in altri padiglioni della struttura.
La sera di giovedì 12 ottobre le persone recluse nel CPR di Pian del Lago a Caltanissetta hanno dato vita a un nuovo tentativo di evasione. Secondo quanto riportano brevemente alcuni media locali, un nutrito gruppo di magrebini in via di deportazione ha danneggiato gli interni della struttura e divelto delle sbarre in metallo dagli infissi di un padiglione degli alloggi, tentando di allargare le sbarre di recinzione del centro. Il tentativo ha visto l’immediato intervento sia delle forze dell’ordine sia dei militari dell’esercito che sono di guardia nel lager di stato. Il giorno successivo, 13 ottobre, almeno sei tunisini, sbarcati a Lampedusa il 1° ottobre e arrestati perché già espulsi in precedenza, sono stati imbarcati su un volo in partenza dall’aeroporto Falcone-Borsellino di Palermo e deportati a Tunisi. Sono 1.128 le persone deportate dalla questura di Caltanissetta nel corso del 2017.

Il 16 ottobre nel CPR di Brindisi-Restinco, i reclusi hanno nuovamente protestato durante il pranzo (che ricordiamo arriva sempre freddo, scarso e disgustoso, e inoltre a orari variabili) perché da tempo chiedono siano migliorati e diversificati i pasti, anche per assecondare abitudini e necessità alimentari di ognuno.
Verso le 18 del pomeriggio, invece, un recluso che non gode di ottima salute, è svenuto battendo la testa sul pavimento, provocandosi una importante ferita. L’indifferenza dei carcerieri ha portato i compagni di sezione a richiamare l’attenzione urlando e facendo battiture finché, dopo circa due ore, non è arrivata un’ambulanza per soccorrere l’uomo che è stato semplicemente parcheggiato in infermeria e riportato poi in sezione. (da hurriya.noblogs.org)

CPR di Ponte Galeria (Roma)
Nel CPR di Ponte Galeria lo sciopero della fame, organizzato da un gruppo di recluse per protestare contro il cibo avariato servito in mensa, si è interrotto il 15 ottobre dopo una settimana in cui continui sono stati i ricatti dei gestori per far desistere le ribelli (per esempio mancata somministrazione di farmaci importanti, relative minacce di TSO per chi assume psicofarmaci…). Nonostante la fine dello sciopero, alcune continuano le proprie battaglie individuali chiedendo conto alla direzione riguardo i responsabili del servizio catering e sopratutto della propria salute, dato che scarseggiano le medicine e alcune terapie somministrate, ad esempio per l’influenza, durano mezza giornata.
Il 16 ottobre, siamo venute a conoscenza di una breve protesta scattata nella mensa, dove la rabbia delle recluse si è scatenata in un lancio di piatti, cibo e sedie che ha provocato la caduta di un operatore, scivolato sull’olio.
Sabato 28 ottobre un piccolo gruppo di nemici e nemiche delle frontiere ha spezzato per qualche ora l’isolamento delle donne recluse nelle infami mura del CPR di Ponte Galeria. Per circa un’ora e mezza si sono susseguiti cori, musica e interventi, accolti con grida e battiture da parte delle donne detenute. Nonostante per l’occasione – e come di consueto – fossero state chiuse nelle celle e quindi non siano potute uscire in cortile per essere più vicine al presidio, la loro risposta è stata molto forte.
In questo momento le donne sono circa 70; negli ultimi giorni alcune (richiedenti asilo) sono state trasferite in un centro di accoglienza, altre sono state deportate, sopratutto verso il centro e il sud America. Ci raccontano inoltre che gli operatori fanno molta pressione sulle donne affinché accettino il “rimpatrio volontario assistito”, facendo leva sullo sfinimento dettato dai tempi potenzialmente molto lunghi della reclusione. Qualche giorno fa una donna ha tentato il suicidio tagliandosi le vene, ed è stata salvata da una sua compagna. (da hurriya.noblogs.org)

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saluzzo (cn): RATTI DI FINE STAGIONE
Da oltre sei mesi il Foro Boario è Guantanamo’, baraccopoli alle porte di Saluzzo. I suoi abitanti erano oltre 500 nel periodo dei picchi di lavoro, ora lentamente si va svuotando ma in questi giorni sono ancora circa 200 gli uomini che la abitano.
Ad inizio stagione, constatato il sostanziale fallimento del progetto di accoglienza diffusa e della cosiddetta “Legge Allemano” sull’ospitalità in azienda, il sindaco di Saluzzo e la Caritas avevano “inaugurato” il presidio umanitario: un quadro elettrico e qualche doccia delimitata da una recinzione.
In quel luogo brulicante di vita hanno vissuto in condizioni a dir poco precarie centinaia di lavoratori e disoccupati, regolari, irregolari per legge, richiedenti asilo, minori; in quel luogo le capacità di auto-costruzione e auto-organizzazione hanno regolato la vita sociale di una comunità vivace e operosa che adesso conosce bene le caratteristiche del contesto che la circonda e, straordinariamente, riesce a sopravvivere nonostante una condizione che sarebbe intollerabile per la maggior parte di chi crede di condurre una esistenza “normale”.
All’interno della comunità dei migranti saluzzesi si gioca a calcio e a carte, si guarda la tv, si crea una microeconomia che permette anche a chi non lavora di racimolare qualche euro e allo stesso tempo fornire un servizio a tutti: la ciclofficina, il sarto, il riparatore degli indispensabili telefoni, il barbiere, il chiosco, le bancarelle di abbigliamento e alimentari, etc… altro che boutique du monde o street-food!
Si discute tra amici del più e del meno come in qualsiasi parte del mondo ma, nonostante il costante ricambio di persone da un anno all’altro, l’argomento principale è sempre il lavoro: il lavoro che non c’è o le condizioni di lavoro assurde. La consapevolezza di essere sfruttati, perché ai lavoratori dalla pelle nera nessun diritto è concesso, esiste eccome!
Lentamente si fa strada il desiderio di rivendicare i propri diritti, e se prima erano solo i diritti dei singoli adesso sono i diritti collettivi: contratti, buste paga, sicurezza sul lavoro, straordinari, indennità di disoccupazione.
Durante l’estate su Guantanamo’ è calato il silenzio, perché dopo tanti bei discorsi sull’accoglienza, sull’ordine e la legalità, nessuno ha più potuto rivendicare la baraccopoli, a parte i migranti stessi. Il simbolo del progetto Saluzzo Migrante, la roulotte tutta bella colorata che campeggiava all’ingresso del campo solidale fino all’anno scorso, è ora occupata dai migranti nel cuore di Guantanamo’, quasi irriconoscibile, circondata dalle baracche e dai rifiuti.
Lo stesso spostamento dell’Info Point della Caritas nel centrale Corso Piemonte, anziché rendere più visibile la realtà, ha paradossalmente contribuito ad isolare ancor di più chi vive al campo.
E’ significativo che durante tutta la stagione, l’unica volta che si è parlato di Guantanamo’ è stato in occasione di una ignobile campagna contro i furti nella vicina discarica comunale: solerti cittadini amanti della pulizia e della raccolta differenziata si sono affrettati a denunciare le incursioni di qualche migrante per raccattare qualcosa di utile per un riciclaggio creativo. Qualcuno si è addirittura preso la briga di quantificare il danno per le casse comunali. Neanche i rifiuti per i migranti!
Quando sul Foro Boario si sono accesi i riflettori in occasione della Fiera della Meccanica Agricola e sono arrivati i politici per la solita passerella, neanche una parola è stata spesa per gli inquilini al di là dei cancelli. Per loro e per i solidali solo carabinieri, polizia e guardie a presidiare l’ordine.
Anche quest’anno è arrivato l’autunno e con esso la speranza delle istituzioni locali che i migranti se ne vadano presto e il più spontaneamente possibile. Ma c’è ancora tanta gente che lavora, tanti devono ancora ricevere il compenso per il lavoro svolto o aspettare di essere convocati in questura per il rinnovo dei permessi. E sono in tanti, come sempre, che non hanno un posto dove andare e per questo cercano di prolungare la loro permanenza in città. Pochi, soprattutto quest’anno, torneranno a casa, la maggior parte ha fatto o farà il biglietto per Foggia o Rosarno, magari facendosi imprestare i soldi da qualcuno perché l’estate è andata male.
Intanto a Guantanamo’ non c’è neppure l’acqua calda per farsi la doccia, per lavarsi si mette a scaldare l’acqua sul fuoco dentro marmitte annerite; sono in molti a dire che questo è voluto, perché così stanno peggio e se ne vanno prima. Come al solito per il campo scorrazzano ratti giganti che prendono d’assalto i cumuli di rifiuti lasciati da chi se ne è andato. A proposito di condizioni di vita dignitose…
Ma tutto questo importa ancora a qualcuno? Di cosa staranno discutendo politici di ogni ordine e grado asserragliati nel palazzo comunale saluzzese?

ottobre 2017, Comitato Antirazzista Saluzzese

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Milano: via Padova contro il “degrado”
Sabato 14 ottobre 2017. Stavolta i fascisti, per tentare di spingere avanti le aggressioni razziste, come sempre assecondate nelle maniere più diverse dallo stato, hanno fatto uso dello sprofondamento in una viuzza laterale a via Padova del raccoglitore-scolmatore stradale dell'acqua. Quella frana, accaduta da tempo, è stata da loro scelta per “fermare i flussi di immugrati… contro il degrado” così da impedire con la militarizzazione che dovrebbe far seguito, l'occupazione delle case, le possibilità di incontri per ribellarsi, unirsi nella lotta contro ogni guerra saccheggiatrice e devastante, contro condizioni di lavoro umilianti.
Anche stavolta il tentativo fascista ha trovato ostacoli. La risposta a stato e fascisti è venuta dalla realtà multietnica-internazionalista, che ha preso avvio nell'occupazione di persone immigrate di via Esterle, laterale anch'essa di via Padova. Lo scopo era chiaro: ri-affermare la determinazione necessaria nel respingere ogni grado di razzismo, in primo luogo lo schiavismo in ogni sua forma-contenuto, contro le molteplici modalità della violenza di: polizia, carabinieri, militari, vigili...
Questi i concetti esposti alla gente in attento ascolto in strada come sui balconi, anche in arabo, ribaditi nelle sintesi urlate quali “Se ci sono i disoccupati la colpa è dei padroni e non degli immigrati”, “Casa per tutti miseria per nessuno”, “Con tutti gli immigrati solidarietà - Freedom Hurrya Libertà”…
Su questi temi sono stati sviluppati interventi al megafono a loro volta intrecciati anche a manifesti titolati: 'Degrado è : spendere 25 milioni per un referendum che non decide nulla piuttosto che usarli per i poveri', ' l'indifferenza per le morti nel Mediterraneo', 'lavorare per 3 euro all'ora'…
Dopo un paio d'ore di fronteggiamento una rapida assemblea fra manifestanti decide di far ritorno in via Esterle percorrendo in corteo via Padova. Così è stata: con alla testa lo striscione “Degrado è il fascismo”, ribadendo i contenuti già nominati, il corteo si è anche fermato davanti alla moschea di via Padova dove, in arabo, sono stati ripetuti alla gente attenta in strada e sui balconi, gli scopi della manifestazione. Una giornata di lotta-comunicazione certamente d'aiuto a farci capire ciò che è necessario fare per unirsi, rafforzarsi nella lotta di classe più generale che dobbiamo affrontare.

Milano, ottobre 2017



Scioperi della fame nelle isole-hotspot di Lampedusa e lesbo
Negli ultimi mesi gli arrivi in Italia da rotte non provenienti dalle coste libiche sono aumentati. Le persone che arrivano da paesi come la Tunisia o l’Egitto sono escluse dalle procedure di richiesta di protezione internazionale e vengono segregate, deportate per direttissima o ricevono un decreto di espulsione con l’obbligo di lasciare il territorio italiano entro sette giorni.
Politici e media italiani stanno criminalizzando queste persone, anche ricorrendo allo spauracchio del terrorismo, e giustificando in questo modo sia le deportazioni che omicidi come quello accaduto il 9 ottobre scorso, quando una nave militare tunisina ha speronato un barcone provocando la morte di circa 40 persone. Considerata la disastrosa situazione economica in Tunisia ed Egitto e la repressione che si abbatte da anni contro i movimenti sociali, non sorprende che le persone decidano di andare a vivere altrove, così come non sorprendono le continue proteste per la libertà di movimento portate avanti dalle persone rinchiuse nell’hotspot di Lampedusa. L’hotspot di Lampedusa ha sempre funzionato come centro di selezione, smistamento e deportazione, e principalmente come un muro in pieno Mediterraneo per respingere gli indesiderati. Per rendere funzionale esclusivamente alla deportazione il centro di Lampedusa, il governo sta predisponendo la trasformazione dell’hotspot in un CPR (Centro permanente per i rimpatri, gli ex-CIE) e la creazione di un nuovo hotspot a Pantelleria.
Segue l’appello all’opinione pubblica internazionale dei giovani tunisini a Lampedusa, tradotto dal Forum tunisino per le politiche economiche e sociali, il comunicato di alcune famiglie tunisine e una lettera delle persone migranti in protesta a Piazza Saffo a Lesbo.

Siamo un gruppo di giovani del Redeyef (nel sud-ovest della Tunisia, dove è emersa la rivolta del bacino minerario nel 2008) e di altre regioni della Tunisia. Di fronte ai fallimenti della politica economica e sociale del nostro paese, l’abbandono da parte dello stato dei suoi obblighi e l’insuccesso politico su scala locale e internazionale, abbiamo dovuto abbandonare il nostro sogno del 2008 di uno Stato democratico che garantisca libertà, dignità e giustizia sociale. E noi, pur essendo orgogliosi del nostro paese e della sua gente, abbiamo dovuto affrontare il pericolo della migrazione irregolare verso il nord-ovest del Mar Mediterraneo, una rotta diventata pericolosa a causa delle politiche europee sulle migrazioni che chiudono le frontiere ai nostri sogni e alle nostre ambizioni di tentare una nuova esperienza in modo regolare.
Ci troviamo ora in un centro per immigrati [l’hotspot, ndt] sull’isola di Lampedusa in difficili condizioni umanitarie. Siamo minacciati di deportazione forzata, che vìola le convenzioni internazionali che garantiscono la libertà di movimento, che si oppongono alle politiche di espulsione e agli accordi bilaterali ingiusti che danno priorità alla sicurezza delle frontiere a detrimento dei diritti universali.
Annunciamo che cominceremo uno sciopero della fame per reclamare il nostro diritto di movimento e per protestare contro la deportazione forzata.
I nostri sogni non sono diversi da quelli dei giovani europei che godono della libertà di movimento, nel nostro paese e altrove, in cerca di altre esperienze ma anche per promuovere la libertà, la giustizia sociale e la pace.
Ci appelliamo alle persone libere che difendono l’esistenza di un altro mondo dove prevalgano i valori universali e la solidarietà, affinché ci sostengano. Perché mentre il vostro denaro e le vostre merci circolano liberamente nei nostri paesi d’origine, voi state imprigionando i nostri sogni dietro le vostre mura.
No alle deportazioni forzate. Sì alla libertà di movimento.
Vittime delle politiche economiche e sociali globali.
Vittime delle politiche migratorie ingiuste.
Lampedusa, 27 ottobre 2017

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Siamo un gruppo di cittadine del Municipio di Redeyef (Tunisia). I nostri figli sono stati reclusi nelle carceri e nei centri di detenzione italiani, dopo che avevano attraversato il mare rischiando di morire, e ora sono segregati in condizioni precarie e degradanti, costringendo alcuni di loro a Lampedusa a cominciare uno sciopero della fame mentre un altro gruppo è stato condotto in un centro a Catania per deportarli.
Noi:
- condanniamo l’accordo tra il Ministero degli Esteri tunisino e le autorità italiane, che sancisce la loro deportazione in Tunisia in violazione di tutte le convenzioni internazionali.
- Ci impegnamo per la liberazione incondizionata dei nostri figli.
- Comunichiamo all’opinione pubblica locale, regionale e nazionale che inizieremo domenica 29 ottobre 2017 dei presidii periodici di protesta presso l’Unione locale del Lavoro di Redeyef e presso la sede del Municipio.
- Siamo determinate/i a sostenere i nostri figli per risolvere il loro problema e vi informiamo che siamo pronte a intraprendere forme di lotta più incisive nel prossimo futuro se subiranno una deportazione forzata o se la loro situazione rimarrà invariata.
- Invitiamo tutte le organizzazioni libere, i sindacati, i partiti e le persone a sostenerci e stare dalla nostra parte in questa giusta causa.

Le famiglie dei detenuti nei centri per immigrati in Italia
29 ottobre 2017, tradotto da jomhouria.com

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GRECIA, ISOLA LESBO: MORTI, PROTESTE E SCIOPERO DELLA FAME
Dopo la morte di una bambina di 5 anni il 10 ottobre per cause ancora ignote, un altro decesso si aggiunge ai precedenti avvenuti nel centro di detenzione di Moria.
Venerdì 20 ottobre un uomo iracheno di 55 anni ha perso la vita, diventando il morto numero 13 del campo di concentramento dell’isola. Gli esami medici indicano problemi cardiaci come causa della morte, mentre i suoi compagni di detenzione dicono che l’uomo si sarebbe rivolto alle autorità e alle ONG la settimana precedente lamentando problemi di salute ma senza ricevere alcuna attenzione. Le stesse problematiche evidenziate per la morte della bambina, costretta a dormire in una tenda estiva con i suoi genitori e 5 fratelli, che avevano chiesto coperte senza essere minimamente considerati.
Le autorità provano a dichiarare che le cause delle morte sono da imputare a cause naturali o malattie croniche; invece queste non sono altro che la trasposizione delle politiche di morte anti-immigrazione dai confini della Grecia e della UE al proprio territorio.
Migliaia di migranti sono intrappolati nei centri di detenzione, dove vivono in condizioni pessime, sfiancati dalla detenzione prolungata e disperati dall’incertezza che li circonda. L’unica causa di morte è la svalutazione della loro vite da parte delle politiche razziste dello stato. Come “corpi stranieri”, a loro non sembrano riconosciuti gli stessi bisogni di tutti, come un tetto, il cibo o l’accesso alla salute.
Dato che di recente gli arrivi sono aumentati in modo significativo mentre le valutazioni delle richieste d’asilo sono spaventosamente lente, più di 5.500 migranti sono stivati nel centro di detenzione di Moria, la cui capacità non supera le 2.500 persone. Questa condizione ha reso la situazione intollerabile per la maggior parte di loro, ammassati uno sull’altro, creando inoltre seri problemi di tutela delle persone più vulnerabili. Una miscela di poteri intrecciati e strumenti repressivi viene usata per disciplinare le persone migranti, che però non sempre risulta applicabile.
L’ultimo esempio è la recente protesta di 150 persone, perlopiù afgane, messa in atto venerdì 20 ottobre. Un’accesa lite tra arabi e afgani nel centro di detenzione ha portato molti reclusi a rifiutarsi di passare altri giorni lì dentro. Inizialmente, essi hanno occupato la strada di fronte al centro per una notte, pressando le autorità per accelerare le pratiche per l’asilo, ma anche per essere spostati in un posto più adatto per le donne e i bambini presenti tra loro. Il sabato mattina hanno poi provato a partire in corteo verso Mitilene per protestare, ma sono stati bloccati dalla polizia all’entrata della città. Quando la strada è stata riaperta, hanno continuato a camminare verso piazza Saffo, la principale piazza della città, dove hanno deciso di stanziarsi fino all’ottenimento di risposte alla loro rivendicazioni. Dall’inizio, la polizia presente è stata molto impegnata nel tentativo di terrorizzare i migranti e di chi accorreva in loro solidarietà. Molte di queste persone sono state identificate.
Tuttavia, l’arrivo costante di sempre più persone ha costretto la polizia a ritirarsi dalla piazza dove i migranti hanno poi trascorso la notte.
Dalla domenica mattina, mentre la polizia faceva pressione contro le persone solidali, le autorità cercavano di convincere i migranti ad abbandonare la piazza, promettendo loro di accelerare le procedure e trasferirli nel centro di Kara Tepe. Allo stesso tempo, diversi migranti, tra cui bambini, venivano trasferiti in ospedale per malori dovuti alla stanchezza.
Un grande impedimento per le loro richieste è rappresentato dall’UNCHR che, secondo i report, sta negando la registrazione di chi ha protestato in piazza Saffo per essere trasferito nel campo di Kara Tepe, chiedendo a queste persone di tornare a Moria, per timore che queste proteste possano diventare esempio anche per altri migranti.
Con le condizioni meteorologiche che si prevedono in peggioramento nei prossimi giorni, l’unica soluzione per i migranti e le persone solidali è il rafforzamento delle lotte.

Nel nome de “L’Uno che ha creato la libertà”
L’Unione europea deve ancora assicurare a noi rifugiati la sicurezza per cui è diventata famosa. Abbiamo viaggiato da noti luoghi pericolosi per cercare rifugio qui. Siamo venuti qui per cercare un rifugio sicuro e per essere rispettati, e alla fine dobbiamo ancora sperimentare una tale sicurezza in Europa.
Siamo liberi, e nessun paese ci può privare della nostra libertà. Secondo la Convenzione sui rifugiati firmata nel 1951, la libertà è un diritto fondamentale per ogni rifugiato e per questo ci è stato concesso il diritto di andare ovunque scegliamo in Europa.
Nessun paese ha il diritto di deportare i rifugiati al loro paese o ad un altro analogo paese pericoloso. Nessun paese ha il diritto di torturare o imprigionare i rifugiati. Nessuna legge consente la violazione della dignità umana e la continua umiliazione. Tutti gli auto-dichiaratisi paesi “civili” vedono se stessi come protettori e osservatori della dignità e dei diritti umani, con particolare attenzione ai diritti delle donne e dei bambini. Tuttavia la realtà racconta una storia diversa. La realtà è che fin dal primo momento in cui siamo arrivati a Lesbo, un’isola greca che fa parte dell’Unione Europea, siamo stati sistematicamente umiliati e abbiamo dovuto subire il più grottesco trattamento fascista. Ad ogni modo, non abbiamo bisogno di scrivere su quanto avviene all’interno del campo di Moria. Una semplice ricerca su Google o YouTube vi permetterà l’accesso a qualsiasi informazione necessaria. Conoscendo questo capirete ciò di cui stiamo parlando. Siamo uomini, donne e bambini che sono fuggiti dalle bombe e sono finiti a Moria dove siamo trattati come prigionieri in un campo di concentramento nazista.
Noi, i rifugiati senza rifugio, siamo fuggiti da Moria e non torneremo lì e in nessun altro campo a Lesbo, perché vogliamo la libertà. Vogliamo il rispetto per la nostra dignità umana e vogliamo che voi seguiate le vostre stesse leggi. Vogliamo da voi l’applicazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e della Convenzione sui rifugiati del 1951, redatta da voi stessi europei.
Tenuto conto di tutto questo, molti di noi hanno deciso di cominciare uno sciopero della fame. Gli altri fra noi daranno al governo greco e all’UNHCR altri quattro giorni di tempo per riconoscere la nostra libertà, prima di unirsi a coloro che hanno cominciato lo sciopero della fame. Qui, nella culla della cosiddetta democrazia, ci costringete a cucire le nostre labbra e ad avviare uno sciopero della fame, anche se lo stiamo facendo solo per difendere la nostra dignità e la nostra libertà.
Abitanti dell’Europa, stiamo parlando con voi. Siamo venuti qui per cercare rifugio da voi. Siamo fuggiti da paesi che sono stati perseguitati e distrutti da regimi autoritari, sfruttamento e guerre. Vi consideravamo come un esempio di un collettivo amore della civiltà e della pace. Invece, scandalosamente, siamo stati semplicemente accolti non da un caldo abbraccio ma dalle tue strade fredde e desolate.
Non ci avete visto nei passati 9 giorni? Se no, allora dovreste sapere che siamo un gruppo di uomini, donne e bambini che dormono all’aperto esposti alla pioggia e al freddo.
Dovete accettarci come rifugiati, e se non volete allora restituiteci la nostra libertà di movimento. Per ripetere ancora una volta, un certo numero di rifugiati inizierà domani lo sciopero della fame, dopo quattro giorni un maggior numero di uomini e donne si uniranno allo sciopero se non accetterete le nostre richieste.
Vi lasciamo soli con la vostra coscienza.

27 ottobre 2017


TORINO: LA STORIA DI FLORENCE
18 ottobre. Il tetto sopra la testa a rischio, che sia una procedura in corso di sfratto o di pignoramento, spesso non è che la punta di un grosso iceberg che in tanti si trascinano dietro nelle periferie della città.
Salta il lavoro, viene diagnosticata una malattia, il compagno o la compagna se ne va, arrivano guai giudiziari da scontare. Per chi non ha riserve non è concesso avere imprevisti. Spesso questi rappresentano l’ultimo colpo che avvia un effetto domino, un peggioramento esponenziale delle già precarie condizioni di vita, fino alla deriva di quell’iceberg di problemi.
Vicissitudini che accomunano molti - si diceva - e che sentiamo quotidianamente dagli uomini e dalle donne con cui decidiamo di lottare, per quanto pensiamo che l’obiettivo sia elaborare percorsi di conflitto comuni, allargare la prospettiva dal personale alla complicità di classe senza necessariamente far emergere la particolare vicenda di qualcuno.
Ci sono tuttavia storie che sono un vero groviglio di rogne e che sono esemplificative della condizione in cui si può finire nell’ambiente urbano dell’atomizzazione, della marginalità e dello sfruttamento. Come la storia capitata in via Casella, nella Barriera, a due passi da piazza Respighi, all’interno di un’intera palazzina che è stata venduta e i cui inquilini sono finiti sotto sfratto nel cambio di proprietà.
Primo elemento “pittoresco”: il nuovo proprietario è il noto Molino.
Florence e la sua famiglia vivono nel condominio e hanno continuato a pagare l’affitto, regalando soldi alla proprietà, nonostante la procedura di sfratto avviata e l’ufficiale già alla porta per incitarli ad abbandonare l’alloggio. Pensavano di assicurarsi del tempo in più perché lei è agli arresti domiciliari, è incinta e ha problemi di documenti, questione quest’ultima che gli ostacola nettamente la possibilità di trovare un nuovo alloggio. Perdere la casa vorrebbe dire per lei andare a finire in carcere accompagnata dal figlio più piccolo che non supera i tre anni, mentre la figlia, poco più grande, sarebbe affidata ai servizi sociali.
A rendere più parossistica la situazione è l’evento accaduto venerdì scorso: quattro giorni prima dell’annunciata data di rinvio dello sfratto, l’ufficiale giudiziario Rosaria De Luca, una che va in giro a sfrattare le persone con un cappotto colorato con dietro scritto “Happy Life”, si è presentata di prima mattina all’appartamento di via Casella. Naturalmente non era sola ma accompagnata dai carabinieri addetti ai controlli nei domiciliari di Florence. Sono loro ad averla minacciata di liberare immediatamente la casa e dopo un diverbio di qualche minuto, un carabiniere l’ha strattonata e percossa. Dopo varie chiamate al padrone di casa, all’avvocato penalista che richiede a Florence di trovare in maniera solerte un altro alloggio, agli assistenti sociali che non hanno niente da offrirle perché è momentaneamente in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno e si colloca in un bug normativo dove nessuna assistenza può iniziare a essere data, l’ufficiale giudiziario ha sottoscritto un rinvio fino al sette del mese prossimo.
Intanto Florence nel pomeriggio del giorno stesso si è recata al pronto soccorso a controllare l’effetto degli urti ricevuti e lo stato della gravidanza. Al termine del controllo ha scoperto che la vita del feto si è fermata, ma già da tre settimane. Non è colpa delle botte del carabiniere, molto probabilmente di un’altra violenza, quella quotidiana: essere chiusa in casa, dover crescere due bambini in reclusione, ricevere lo sfratto, scoprire di aver pagato mesi e mesi inutilmente dato che la procedura per morosità era già a sua insaputa partita, aver scelto di usare i pochi soldi racimolati per pagare l’affitto e non per mangiare meglio, rischiare di finire di nuovo in carcere.
Tutti questi elementi fanno covare una rabbia decisa e non solo per Florence, perché portano davanti agli occhi la guerra a bassa intensità, ma feroce, che colpisce una fascia di popolazione sempre più ampia.
Il 7 novembre, se polizia e ufficiale non dovessero arrivare prima a buttare Florence fuori casa e portarla in carcere, noi saremo sotto casa sua a resistere.

La storia di Florence parte II: sfratto e carcere
25 ottobre. Stamattina Florence, mentre accompagnava i figli all’asilo nella fascia oraria di permesso giornaliero, è incappata nei soliti carabinieri addetti al controllo dei suoi arresti domiciliari. Non le hanno fatto “troppe cerimonie” come quando qualche giorno fa le hanno messo le mani addosso per intimarle di lasciare la casa sotto sfratto in cui abita, ma con fare vago le hanno detto di recarsi alla stazione di corso Regio Parco per alcune notifiche. Lei coscienziosamente si è preoccupata di doversi recare nella tana di costoro e ha espresso le sue perplessità.
“Non si preoccupi signora, deve solo parlarle il maresciallo Capobianco. Stia tranquilla anche se sfora il suo orario di permesso di uscita, lasci i bambini a scuola e passi in caserma”, le è stato risposto. Ha capito subito che c’era poco da star tranquilla.
Se non poteva far altro che andarci, ha pensato bene di farlo accompagnata da sua sorella e dopo aver avvisato di ciò che stava accadendo qualche complice dell’assemblea contro gli sfratti. Da quella caserma infatti Florence è uscita su un’auto diretta al carcere delle Vallette mentre alla porta di casa sua veniva cambiata la serratura e portata a termine la procedura di sfratto. Ebbene sì per signor Molino, proprietario dell’intero palazzo, gli sfratti sono prêt-à-porter, anche quando c’è di mezzo una detenzione ai domiciliari come in questo caso. Alla notizia della traduzione in carcere di Florence, suo marito accompagnato da qualche solidale si è recato all’asilo per un ultimo saluto ai figli; non avendo i documenti in regola non può tenerli lui e dunque anche loro finiranno in carcere con la madre. Ad aspettare fuori dall’istituto per l’infanzia si sono aggiunti presto carabinieri e agenti della Digos, del resto si sa, quando le persone danno dimostrazione di non essere sole e di non subire inermi, le forze dell’ordine acuiscono il controllo. Raccapricciante vedere là davanti i borghesi sghignazzarsela tranquilli mentre i carabinieri portavano i bambini in una patria galera perché la mamma è stata sfrattata.
Qualcuno gli ha urlato quanto facciano schifo - ben poco si dirà - ma non è male ricordarglielo soprattutto in queste occasioni. Di cosette da dire a loro, a Molino e a chi lavora affinché le persone vengano cacciate di casa ce ne sarebbero molte di più. Proprio per questo e alla luce di ciò che è accaduto oggi non possiamo che rilanciare l’appuntamento già dato davanti alla sede degli Ufficiali Giudiziari, ma anticipandolo di una settimana: venerdì 27 ottobre alle ore 10 in in corso Vittorio Emanuele 127.
Intanto, per sostenere Florence, scriviamole:
Florence Asowata, via Maria Adelaide Aglietta 35 - 10151 Torino

ottobre 2017, da autistici.org/macerie


Lettera dal carcere di torino
Cari amici miei! Vi ringrazio per le parole incoraggianti. A me significa molto che ci sono ancora persone a cui interessa che succede dietro le sbarre.
Un mese fa eravamo chiuse. Hanno detto che era per 25 giorni, invece dopo 9 giorni hanno aperto. Chiedo scusa se mi sono spiegata in maniera sbagliata [in una precedente lettera che abbiamo ricevuto, ndr]. All'aria si può andare nelle celle delle altre amiche, dalle 6 di sera alle 8. Adesso, dopo proprio un mese saremo chiuse di nuovo e non si sa per quanti giorni.
Ci sono ragazze che non hanno rispetto per loro stesse, figuriamoci per gli altri. Hanno accusato una che ha rubato due pacchi di tabacco. Poi, quella che è stata accusata ha offeso l'altra e così l'hanno picchiata. L'assistente ci ha chiuse prima delle otto, dicendo che saremo chiuse per altri 20 giorni, ma alle 10,30 del giorno seguente ci hanno aperto. Nella sera stessa una ragazza ha cominciato a urlare che lei non vuole essere chiusa per la colpa di 4 persone, le casiniste hanno offeso tutte noi.
Adesso non sappiamo che cosa succederà finché un'assistente disse di andare a parlare con l'ispettore e dare i nomi di quelle che hanno fatto tutto questo casino e a noi ci apriranno, a loro invece le mettono ai nuovi giunti. Quest'anno è già la quarta volta che saremo chiuse. Mi dispiace per quelle ragazze, ma non pensano loro mai agli altri. Loro il rispetto lo vogliono, ma non lo danno. Così funziona il mondo. Per ricevere devi anche dare.
Due settimane fa ha visitato il carcere una senatrice, che voleva sentire le nostre opinioni. Noi abbiamo detto tutto. Che la sanità non funziona, che il mangiare fa schifo e spesso abbiamo mal di stomaco, che ci sono persone fra le assistenti che si comportano male. Io invece non posso dire niente male di loro. Forse è strano. Ma da quando ho lavorato hanno più rispetto nei miei confronti. Invece l'infermiera sì. Lei proprio è una strega. Una volta a una ragazza ha detto che lei decide a chi dare l'antidolorifico. Ci tratta proprio come i cani. Anzi i cani sono trattati meglio di noi da parte sua. Sempre fa i commenti che non dovrebbe far parte del suo lavoro. Questa è una rumena. Io non sono razzista e non sono mai stata tale, ma a lei non la sopporto.
Grazie per i libri. Secondo me persone che leggono si comportano meglio. Non è facile vivere qui dentro, però magari fra noi dovrebbe esserci unità. A Teramo per esempio eravamo più unite. C'erano i problemi anche lì, tuttavia riuscivamo sempre a trovare un accordo. Le assistenti non dovevano intervenire, e c'erano anche i terremoti. Non sapevi mai quando veniva una scossa, ma se una ragazza aveva paura tutte noi gridavamo e ci aprivano le celle. E in più ci lasciavano aperte di notte. Ci aiutavamo fra noi. Invece qui alle Vallette rubano. A una ragazza hanno rubato il fuso nuovo, a un'altra i biscotti, a un'altra i pennarelli, adesso a un'altra il tabacco.
Ma dove andiamo così? Nella mia cella c'è sempre la concellina finché io vado a scuola e in laboratorio a lavorare, se la mia conci è al colloquio abbiamo un'amica, che viene in cella e resta fino a quando qualcuna di noi fa ritorno. Adesso possiamo stare tranquille perché saremo chiuse. E non si sa fino a quando. Mi dispiace che sempre vi scrivo brutte notizie, però è la verità. Qui le ragazze sono molto egoiste, vogliono star bene sulle spalle delle altre. Non le interessa che le altre soffrono.
Un grande abbraccio e bacio a tutti voi. Susanna da Torino.

19 ottobre 2017
Iren Pap Zsuzsanna, via A. Aglietta, 35 - 10151 Torino


Fogli di via per il presidio al carcere di Teramo
In questi giorni stanno notificando diversi fogli di via dal comune di Teramo a diversi compagni, accusati di aver partecipato al presidio solidale fuori il carcere Teramo a ferragosto. Notifiche che le varie stazioni di Carabinieri stan facendo non solo in Abruzzo.
Di quel presidio, vanno ricordate le assurde disposizioni che la questura teramana voleva imporre, quasi a voler recidere, a rendere impossibile la solidarietà tra detenuti e solidali; quasi a voler togliere il senso a quella giornata.
Le disposizioni della questura, non rispettate, e su cui verte principalmente l’accusa del foglio di via, sta nel fatto che “non si sia rispettato” il luogo (un piazzale asettico dove nessun detenuto avrebbe potuto sentire o vedere dei solidali) e ci si sia messi in un terreno agricolo da cui si è riusciti a portare avanti una grande comunicazione e solidarietà coi carcerati.
Nei fogli di via, inoltre, si specifica l’urgenza attraverso cui essi devono essere notificati. Quasi a dire, da parte della Questura teramana, che nel territorio vi sono tutta una serie di vertenze e terreni potenzialmente conflittuali (basti pensare alle problematiche connesse alle case, ai picchettaggi alle fabbriche, alle devastazioni ambientali, all’antifascismo), e un determinato numero di persone non ne devono far parte.
In poche parole, nei fogli di via, si evince una certa urgenza da parte degli amministratori del potere, non tanto nei confronti dei destinatari per il presidio di ferragosto al carcere, ma per quello che sono e per quello che potrebbero fare… e, in sti tempi bui… basta qualche scintilla per accendere lampi di rivolta.
Ora, a termine di queste poche righe, un paio di banali riflessioni, ma sempre utili. La prima riguarda una verità lapalissiana. Qualcuno avrà pur pensato. “Quel presidio poteva essere una trappola, dal momento che era stato autorizzato in altro luogo ed è stato fatto altrove”… Vero! È verissimo che quando non si rispetta un dettame del potere si corre il rischio di incorrere nella morsa della repressione… ma è altrettanto vero che, se si fossero sempre rispettati i dettami del potere, non vi sarebbe stato mai alcun miglioramento sociale. Non è adesso compito di queste poche righe entrare nel merito di queste riflessioni, anche perché poi ognuno fa i conti con se stesso, con quel che fa e con quanto vuole mettersi in gioco. Però gli spazi di agibilità, anche piccoli, anche in provincia son stati conquistati solo grazie a tante, piccole rotture nelle lotte quotidiane.
Ciò detto, un’ultima considerazione: gli strumenti per opporsi a questi atti repressivi (a maggior ragione quelli amministrativi), possono essere diversi. E sta all’intelligenza e la solidarietà di tutti e tutte ragionarci e trovarne scappatoie varie. Se riuscissimo a creare una rete solidaristica e che permettesse ai compagni ed alle compagne che hanno a che fare con le pastoie repressive di avere un po’ “le spalle coperte” (perlomeno per le piccole cose), le piccole rotture che ogni giorno portiamo avanti in questa miserabile società, diverrebbero enormi varchi attraverso cui far fiorire e rifiorire il germe della rivolta.

29 ottobre 2017, da freccia.noblogs.org


proteste nelle carcere di Velletri e pisa
Da Velletri ci raccontano nei primi di ottobre cosa è successo, anzitutto quello che è successo ad un prigioniero che aveva dei problemi sanitari: molto spesso gli prendevano gli attacchi epilettici molto brutti e il più delle volte si spaccava la testa. In quei momenti gli veniva una forza incredibile: dimenava in tutti modi la testa che è la cosa più pericolosa, perché può sbatterla in qualsiasi posto. Comunque in quel giorno questo ragazzo aveva avuto un attacco e si era rotto la testa sbattendola contro il tavolo. Un altro, molto incazzato, voleva denunciare la dirigente sanitaria per mancanza di assistenza, ma quei pezzi di merda si sono inventati che la cartella clinica non si trovava più – e così la denuncia non ha avuto procedura. Hanno aspettato tutta la mattina, hanno chiamato la sorveglianza, che se ne è fregata, allora qualcuno più cazzuto ne ha parlato, qualcuno si è chiuso nella propria cella, ma solo per paura di 'sti servi dello stato.
Alcuni han preso la gamba del tavolino e han incominciato a spaccare tutte le telecamere, poi sono usciti allo scoperto una quindicina e hanno incominciato a distruggere tutte le vetrate, le celle. Hanno distrutto tutto.
Scrivono solo ora perché sono stati rinchiusi in cella di punizione.
Sono salite 60 guardie ma ormai era troppo tardi e si è saputo anche che un ragazzo con un ginocchio male andato, e che porta le stampelle perché ne ha bisogno sul serio, è stato denunciato dalla dirigente sanitaria per simulazione, per avere il piantone, e anche per lui è stata devastata la sezione…
Dopo che le acque si sono calmate hanno fatto passare i ragazzi in mezzo a tutte quelle guardie. Ci si aspettava che le guardie li toccassero, ma sapevano bene a cosa andavano in contro: un’altra rivolta.
In ogni caso alcuni con il tubo dell'idrante hanno allagato tutta la sezione, e l'han puntato contro le guardie, che si sono fracicate e nessuno gli si è avvicinato perché erano con le mazze in mano pronti allo scontro.
E’ stato come tornare negli anni ‘80. Sovversione totale! Grazie alle telecamere fuori uso non hanno identificato nessuno, tranne 4 persone, e altri due ragazzi non tanto giovani che si sono rivolti con le mazze verso le guardie e così sono stati immediatamente trasferiti. Nei giorni successivi ci sono stati altri trasferimenti.
Tutti chiusi, viene la direttrice, e si è sentito bene cos'ha detto: voleva che tutti pagassero i danni fatti. E c’è stato chi le ha risposto, “quali soldi vai a cercare? Già sapete chi ha fatto e iniziato la rivolta e la devastazione, già avete i colpevoli e i conigli chiusi nelle loro celle”. Rispetto ai danni se è per questo, qualcuno sarebbe uscito oggi, invece gli hanno fatto perdere un semestre, e forse, uscirà chi sa fra quanto.
Comunque, chiudendo dal carcere di Velletri, chi è rimasto saluta gli amici che non sono più con loro, per la loro sincerità, con solidarietà ovunque ora si trovino, sicuramente trasferiti “per ordine e sicurezza”… Senz’altro ora si trovano al 14bis, in isolamento. Comunque chi si è ribellato, si indegna di coloro che non si sono affiancati alla rivolta: “Cani di pecora”. Ci sono state 5-6 ore di terrore per il carcere di Velletri.

***
La notte tra martedì 20 e mercoledì 30 agosto 2017, al carcere Don Bosco di Pisa, si è impiccato un ragazzo di 21 anni, il suo nome non lo sappiamo, sui giornali sono apparse solo le iniziali. Una delle tante morti provocate dalla disperazione che si respira dietro le sbarre di una galera. Ma questa volta c’è stato dell’altro: gli altri detenuti si sono sollevati dando vita ad una piccola rivolta, danneggiando le strutture autrici del loro annientamento quotidiano e riprendendo, anche se per poco, le loro vite in mano.
I detenuti tramite la rivolta sono riusciti a scavalcare quelle mura di cemento e a farci arrivare il grido della loro rabbia. A loro va tutta la nostra solidarietà.
Episodi come questo mostrano che nella tanto decantata società democratica la brutalità dell’oppressione non è stata eliminata, bensì relegata in luoghi dove, mantenendo una parvenza d’umanità, lo Stato tenta di annichilire, segregando e facendo perdere la possibilità di determinare la propria vita, a chi non si piega ai suoi dettami.
Ma i problemi del mondo in cui viviamo non li genera chi viola la legge, ma chi, proprio col favore della legge, sfrutta, opprime e nutre la propria cupidigia spargendo miseria e violando le vite di tutti gli esseri viventi e del pianeta. Il carcere infatti esiste per permettere il proseguimento di tutto ciò; per questo va eliminato, per questo guardiamo con gioia alla rivolta, che ci ha ricordato che l’unica maniera per cambiare realmente non è quella di aspettare riforme dall’alto, bensì quella di autorganizzarsi e, armandosi di coraggio e determinazione, attaccare ciò che ci opprime.

Pisa, fine agosto 2017
Fonte, Garage Anarchico e Galeone Occupato


Lettera dal carcere di Agrigento (ag)
[...] Ho appreso con piacere che i compagni della CAURA lottano contro il TAP, altra grande opera inutile, che ha il solo scopo di gonfiare i profitti degli investitori più o meno occulti a scapito delle popolazioni che risiedono nelle zone di transito del gasdotto, quasi fossero un danno collaterale o peggio delle pedine sacrificabili.
Purtroppo, come per il movimento NO TAV, i NO TAP, debbono nuotare contro corrente, la totalità degli oppressi infatti, spesso, non la pensa molto diversamente dai loro oppressori, con tutta probabilità non agirebbero con più saviezza se occupassero le stesse posizioni socio economiche.
Ed il problema è proprio questo, l'economia – e quindi i rapporti umani di offerta e scambio – va ancora nella direzione sbagliata: quella dei CONSUMI. L'economia per girare deve consumare altrimenti si blocca.
I beni – piccola lezione facile di economia, suvvia – sono materie prime trattate secondo un processo produttivo che consuma energia (non rinnovabile per la maggiore) che viene depauperata per la creazione di simboli estetici prima che di utilità. Ora, non stigmatizziamo, è la natura umana accumulatrice e conformista che dà il peggio di sé nell'economia capitalista… il pensiero astratto fa il resto, ma ciò che voglio dire (ed entro nel merito della digressione) è che siamo tutti parte di questo problema, rimanendo il più delle volte all'oscuro delle nostre responsabilità.
Non c'è coscienza comune sull'utilizzo delle risorse e dei beni. Quindi, condurre ideologicamente e radicalmente lotte contro grandi opere come il TAV e TAP è necessario, ma è l'informazione, quella vera, al di sopra delle parti a fare la differenza.
Se il sabotaggio è l'unica strada, deve essere obbligatoriamente affiancato da una rivendicazione ben motivata anche all'odiata stampa. Troppe volte il popolino guarda con paura e disprezzo i movimenti di “RIVOLTA” perché le ragioni intrinseche non permeano nei canali di informazione più invalsi, ma questo sono i militanti stessi a volerlo. Feci notare 2 anni fa quanto fosse stato positivo per il movimento la messa in onda sul programma LE IENE di un servizio che spiegava le ragioni NO TAV. La regola è sempre la stessa, usare le armi del nemico a suo detrimento e questo da prima che SUN TZU scrivesse l'arte della guerra.
Noi detenuti abbiamo, in fondo, lo stesso problema, usare le armi giuste contro chi vuole calpestare la nostra dignità.
Ad Agrigento ad agosto abbiamo fatto lo sciopero della fame, informando DAP e radicali per una serie di problematiche dovute in primis allo scontro di vedute tra il comandante (fascistoide di prim'ordine) e il direttore che quanto meno vorrebbe mettersi in linea – non con le normative europee – con gli altri carceri italiani.
Dopo una settimana l'abbiamo interrotto con la promessa del direttore della risoluzione “graduale” delle problematiche espresse… SEEE siamo punto e daccapo! Non ho mai visto un carcere con una disorganizzazione tanto pervicace, della serie “siamo abituati a lavorare in modo inefficace e così continueremo a fare!” roba da diventare terroristi seduta stante perché a Agrigento più che altrove si respira una certa soddisfazione sbirresca – soprattutto da parte di alcuni graduati – in aggiunta ad una rassegnazione per il malcostume pelandronesco che condanna l'istituto da una malora perenne!
Mangiare… e lo chiamate mangiare: sofficini, cordon bleu, wurtsel, spinacine... non dico Gualtiero Marchesi ma quanto meno un'insalata ogni tanto!
Celle sovraffollate, senza riscaldamento d'inverno, prive di luce autonoma “Appuntato mi accende-spegne la luce” MA DAAIII.
Area sanitaria: “Appuntà mi chiama il dottore!” “Cos'è un dottore?”, “é quello con il camice bianco che cura i malati”... “Ah ne ho visto uno che prendeva il caffé qualche giorno fa!”
Amici, vi rendete conto che vaglia e pacchi qua li vanno a ritirare i volontari della Caritas? Il mio pacco è rimasto in giacenza 2 settimane (ed io senza vestiario) dopo le quali è stato ripedito al mittente. I vaglia 20 giorni per ritirarli e più di una settimana per cambiarli, se non c'è l'appuntato ci attacchiamo al tram!
Area trattamentale… persino Tolmezzo e Piacenza, per quanto merdosamente restrittivi erano un gradino più in alto rispetto ad Agrigento.
Che dirvi, spero di ottenere un trasferimento per motivi di studio, l'aver lasciato a metà l'universtità mi rode un po', non credo negli studi accademici in linea di massima, ma nel mio caso in quanto detenuto ritengo sia ancora più importante raggiungere un traguardo di studi.
Amici miei, vi ringrazio per la solidarietà ci vorrebbe la vostra presenza fuori da queste mura ma capisco sia logisticamente complesso.
Un abbraccio grande a tutti OLGA LA CAURA.

20 settembre 2017
Valerio Crivello, p.za Di Lorenzo - Contrada Petrusa - 92100 Agrigento


Lettera dal carcere di napoli-Poggioreale
Carissime/i compagni/e e solidali, vi racconto cosa succede in questo carcere dove è sempre agli onori della cronaca nera, dove tutti i detenuti dicono che qui sono stati “ammazzati” tantissimi detenuti nella famosa cella n° 10 e nell'isolamento, dove tante guardie sono state sospese, molte sono sotto inchiesta, altri li hanno rinviati a giudizio per sequestro e pestaggi. Altri 6/7 sono indagati per due detenuti che volevano far passare come morti per cause naturali, ma grazie a un giudice “zelante” ha voluto che ci fossero le autopsie e si è scoperto che erano stati pestati e così ha messo sotto inchiesta alcuni agenti.
A me il magistrato di sorveglianza il 28 settembre ha esaminato la richiesta di proroga del 14 bis con le menzogne scritte da questa direzione; mi hanno revocato il 14bis, anche se ho fatto quasi un anno di “torture” e sapete qui cosa mi hanno fatto questi vigliacchi? Il 4 ottobre mi vengono a prendere per dirmi che devo salire al padiglione, non volevo salire perché chiedevo di sapere dove volevano mettermi, e mi dissero che dovevo andare nella sezione migliore, che è invece peggio del 14bis. Arrivato sopra incontro amici, chiedono di farmi mettere davanti a loro, ma il capoposto risponde che ha delle disposizioni di mettermi nell'ultima cella. Non sapevo che qui eravamo solo in sette in sezione, per cui tutte le celle erano vuote, ma loro hanno voluto che andassi lì. Ho scoperto al mattino che era l'unica cella in cui non funzionava l'acqua calda e sono stato 5 giorni a lavarmi con l'acqua fredda ed ho preso l'influenza. Il giorno 6 ottobre dopo soli due giorni sono uscito fuori dalla cella con le borse perché volevo andare in isolamento per protesta, era venerdì, ore 11, e dopo le loro sporche promesse di aggiustare l'acqua calda solo lunedì 9 lo hanno fatto, e solo perché protestavo di voler andare in isolamento. E sapete questi vigliacchi cosa mi hanno fatto? Giovedì 5 stavo male, ho iniziato a chiamare la guardia dalle 21 sino alle 23, e i compagni dopo aver saputo che stavo male si sono messi tutti a urlare e a fare casino. E il vigliacco non è venuto. Solo alle 24:30 è arrivato quello del cambio, così ha avvisato la sorveglianza e mi hanno portato al Pronto Soccorso.
Dopo una pastiglia per lo stomaco torno in cella. Al mattino stavo male e sono uscito dalla cella anche perché qui siamo con l'art. 32 – che si sono inventati loro, dove al passeggio scendiamo solo dalle 11 alle 12 e non abbiamo diritto a mangiare un piatto caldo perché il vitto arriva alle 11:10 e il pomeriggio possiamo scendere dalle 15 alle 16, la doccia la possiamo fare solo dalle 21 sino alle 22 di sera. Non abbiamo diritto alla socialità perché questo è il carcere degli abusi, lo dirigono dei criminali e adesso vi spiego il perché.
Venerdì mattina ero chiuso in cella, lunedì giorno 9 vengo chiamato al consiglio di disciplina, arrivo lì senza sapere il perché, e mi trovo la vicedirettrice che mi contesta un episodio avvenuto alla 9:30 di venerdì mattina, dove, a loro dire avrei minacciato di uccidere il comandante, tagliare la faccia all'ispettore, bruciare la cella e poi che avrei fatto ammazzare qualcuno qui fuori!!! Non ci credevo, pensavo fosse uno scherzo, e quando la direttrice mi ha detto di scrivere qualcosa a mia discolpa ho risposto che non potevo scrivere niente perché non ho avuto nessun diverbio con alcuno e non potevo collegare quelle contestazioni con niente. Allora le ho detto che quelle cose se le sono inventate loro perché avevo denunciato abusi-pestaggi e lo stupro e che erano ritorsioni loro, false accuse. Per cui dopo aver scritto quello, me ne sono andato.
Mercoledì 11 mi chiamano al consiglio di disciplina, avevo preparato tutto per scendere in isolamento e protestare, ma mi convincono ad andare. C'erano direttrice, educatrice e una dottoressa, per cui non era valido, era un teatrino già pronto, e mi hanno dato 15 giorni di isolamento (vigliacchi), sono solo ritorsioni e abusi di autorità. Ho scritto tutto al mag. di sorv. che è una persona correttissima, e lui mi ha mandato la procura, un ispettore delegato dal sostituto procuratore, cui ho raccontato ogni cosa. Anche in procura sanno quello che succede qui ora e dal 9 che ho pronta una querela per calunnie, ed oggi é il 16 e non mi concedono di inviarla.
Oggi inizio lo sciopero della fame, mi hanno concesso di inviare la denuncia oggi 16-10-'17, ma possono stare sicuri che non mi piegano, non mi spaventano, in procura ora mi hanno detto che si impegneranno a farmi trasferire. A me non riusciranno ad intimidirmi, non ho paura delle ritorsioni, quello che fanno a me si ritorcerà contro di loro.
Ho parlato con un agente che conosco da tanti anni e mi ha detto che il suo collega le minacce che ha scritto lo ha fatto inventandosi tutto (su ordini) e devono eseguire quello che i loro superiori gli dicono. Io ho detto che il suo collega (un fallito nella vita) è un pubblico ufficiale ed è obbligato a dire la verità non a scrivere menzogne. E sarebbe bello se costui dicesse la verità, ma “tra cane e cane non si mangiano”; e lui, denunciatario falso, e quello che gli ha detto di scrivere il falso sono due feccie.
Qui ho visto l'illegalità, sono successe cose gravissime, sono deceduti detenuti per negligenza e mancata assistenza, come un mese fa che qua è morto un uomo per infarto, e l'agente non era in sezione, giocano a carte, guardano al tv. E poi c'è un altro fatto gravissimo di cui ho mandato una testimonianza all'esterno, e ci sono altri testimoni pronti a confermare tutto, e tra questi ci sono io. Aspetto di sapere se mi vorranno trasferire. Questa settimana saprò qualcosa e solo allora deciderò cosa fare (c'è un decesso)… arriveranno centinaia di lettere su pestaggi e abusi è la mia risposta alle loro vigliaccate.
La galera non si augura a nessuno neanche al peggiore infame, ma spero che qui un giorno arrivi un giudice come quello di Sassari che ha fatto arrestare tutti, così provano quello che fanno agli altri e immagino come si metteranno a piangere, e proveranno cosa vuol dire dare l'isolamento alle persone , “vigliacchi”… vorrei offenderli e riempirli di parolacce, ma lascio a voi sul web i commenti per questa gentaglia, che non c'è un termine appropriato per definirli.
Il mag. di sorv. e tutti i componenti della Camera di Consiglio il 28 settembre hanno discusso la mia proroga al 14 bis, chiesta da questi vigliacchi di Poggioreale. In tribunale a me hanno riconosciuto che sono una persona sensibile e con tanta umanità, che mi batto per i diritti di tutti non solo per i miei. A me leggere queste cose mi ha dato gioia e soddisfazione, perché i giudici sono stati tutti onesti, hanno riconosciuto quello che la direzione di Opera e Poggioreale negavano.
Logicamente adesso qui non gli sta bene e vogliono dimostrare attraverso false accuse e denunce che sono un criminale, per fuorviare la verità con le menzogne, ma so che al trib. di sorv. capiranno che sto subendo ritorsioni e sono fiducioso che loro interverranno perché ho fatto reclamo. E al tribunale di sorveglianza conoscono la realtà che c'è qui in questo inferno, gestito da un apparato che definisco criminale e “fuorilegge” e spero che cambi e diventi un luogo dove non vengono massacrati i detenuti e che siano rispettati i diritti.
Giovedì 19 avrò la risposta dallo psicologo riguardo al trasferimento ed allora deciderò se scendere volontario in isolamento, almeno lì posso fare ginnastica ed avere il diritto di farmi la doccia, perché è previsto dall'ord. penit. E se fanno abusi e pestaggi in isolamento potrò vederli e renderli pubblici. Non gli faccio passare niente, e al DAP se non mi vogliono trasferire dopo che ho chiesto il divieto di incontro con tutta la custodia (solo con loro non con i miei compagni) e se non mi rispondono (sono loro i mandanti di denunce e ritorsioni). Ma vediamo cosa decide il responsabile del DAP, il dott. Santi Consolo. Decide di intervenire perché gli ho scritto delle denunce e tutto quello che sta succedendo e come responsabile ha un obbligo morale-giurico e deontologico di farmi trasferire. Questa è la verità e lo dicono tutti che è lui a dovermi fare trasferire per legge, dato che c'è incompatibilità con questa direzione e lo hanno detto anche la procura (vedremo se vorrà impegnarsi per la legalità e non per vendetta).
Compagni/e e solidali, tutti qui vi aspettano. Ho saputo da compagni/e che vi state mobilitando e organizzando per venire qui fuori. Tutti saremo pronti a una forte battitura oltre ad uno sciopero della spesa che è già in preparazione. Risponderemo uniti ai loro abusi e mi impegnerò con tutto me stesso a rispondere alle loro false denunce. Questa è una promessa e il tempo mi darà ragione perché qui i detenuti hanno solo bisogno di avere appoggio dall'esterno. E tanti come me, determinati al rispetto della dignità umana e dei nostri diritti (contro carnefici e mandanti).
A testa alta combattivo solidale e ribelle.
Un abbraccio fraterno a tutte/i i/le compagni/e e solidali. Maurizio VVB.

13 ottobre 2017
Maurizio Alfieri, via Nuova Poggioreale, 177 - 80143 Napoli


Lettera dal carcere di Lecce
[...] Volevo chiedervi, ma la mia lettera con gli aggiornamenti dal carcere di Lecce, dove parlo di casini successi in una settimana, vi è arrivata? [no, ndr]
Ahmad contraccambia il saluto. Oggi mi raccontava dei deliri in Libia contro Gheddafi e dell'arrivo del nuovo “dittatore” in Libia esiliato negli USA. Concordiamo sul fatto che lì nulla è cambiato, se non che da 1 dittatore ne siano arrivati 100, dall'epoca di Sarkozy, Cameron, Berlusconi, ecc. Penso comunque che prediliga, se possibile, letture non impegnate. Un abbraccione e a presto!
PS: ufficialmente ci han messo nella nuova sezione dedicata ai detenuti attenzionati, quindi: tv nuova, celle nuove, porte del bagno che si chiudono… e telecamere ovunque con interfono per comunicare con gli assistenti. Alé!
Bella merda... DAJE FORTE SEMPRE A TESTA ALTA! Paska

18 ottobre 2017
Pierloreto Fallanca, via P. Perrone, 4 - 73100 Lecce


Lettera dal carcere di Firenze-sollicciano
Salve “Olga”, sono Ghespe e, come avrete intuito dalla busta sto a Sollicciano.
Sono dentro dal 3 agosto, indagato per i fatti di Caspound a Firenze dell'ultimo capodanno. E' la mia prima carcerazione, quindi non penso di aver capito bene la vita qui … inizio a farmene un'idea, comunque leggo un po' qui ... in sezione e ho anche modo di comunicare con gli altri.
Il livello di solidarietà tra i detenuti è quasi nullo (qua in 5a sezione), se qualcuno fa casino per qualche motivo, con blindo o pentolame, viene supportato sino all'arrivo di capoposto o ispettore … e poi ognuno pensa ai cazzi propri. C'è da dire che pigliare rapporti è quasi impossibile e non esiste un vero e proprio isolamento (ti mandano in transito al massimo), quindi trovo sconcertante rendermi conto che la cosa che più preme alla maggior parte della gente è perdere il semestre (s'intendono i 45 giorni di liberazione anticipata, ndr) anche davanti a una bastardata delle guardie a uno nella cella accanto alla tua.
Ancora più pesante il fatto che quelli che hanno più “esperienza”, mi rimarcano continuamente che il comportamento più controproducente è “non farsi i cazzi propri”, il risultato è che, essendo un ragionamento davvero diffuso, la coesione tra noi in contrapposizione alle guardie, è praticamente assente. E questo mi fa davvero incazzare.
So che non è così in tutte le sezioni, comunque, c'è un botto di gente bella calda e unita in altre sezioni; ah … oggi qualcuno ha bruciato una cella in 6a sezione, ma non so ancora altro. Dai … vi mando un saluto.
Ghespe S5C5

2 ottobre 2017
Salvatore Vespertino, Via Minervini 2/R - 50122 Firenze


Lettere dal carcere di roma-Rebibbia
Cari compagni, spero di trovarvi in ottima forma, qui diciamo che si tira avanti!
Volevo ringraziarvi per avermi mandato i libri, mi scuso per i miei lunghi silenzi che non sempre sono immotivati!
Qui purtroppo i cambiamenti (in peggio si intende) sono sempre all'ordine del giorno. Come avrete saputo molte delle cosiddette “stanze di pernottamento” sono infestate da cimici, purtroppo gli ospiti di queste stanze vengono privati di tutto il vestiario, che viene messo in congelatore per una settimana, e vengono messi in un'altra stanza molte volte priva di ogni arredo, perché ristrutturata da poco! Sì è vero, nel momento di emergenza si cerca di arrangiarsi alla meglio! Però qui ogni volta è un'emergenza.
Dopo tanti anni e tanti reclami (35ter) si sono accorti che questo reparto è praticamente inagibile, quindi stanno provvedendo ad evacuare un'intera ala per ristrutturarla. Infatti in questi periodi ci sono stati numerosissimi partenti, cambi reparto, senza considerare che molte volte c'è chi ha intrapreso un “percorso”, ma ormai non mi meraviglia più niente!
Per fortuna le scuole sono iniziate e quindi si può impegnare il tempo in qualcosa di costruttivo. Ora vi saluto come sempre! Ci sentiamo presto per ulteriori aggiornamenti!
Un caro saluto. R.

20 settembre 2017
Roberto Calia, via R.Majetti, 70 - 00156 Roma

***
Grazie ragazzi dell'opuscolo che gira nella sezione per dare più informazioni possibili. Siamo in pieno periodo d'emergenza qui a Rebibbia, infatti un reparto G9 è stato quasi chiuso del tutto per poterlo sistemare, ma le persone detenute sono state appoggiate presso altri reparti, ed ora le stanze del mio reparto G8 sono di 5 persone.
La cosa più allucinante è che le docce di due piani sono chiuse perché non agibili. Doppio problema, la popolazione detenuta è aumentata e non è possibile affrontare tutto questo disagio. E poi la doccia, che la maggior parte delle volte è gelata, in questo periodo invernale. Certo non voglio dare la colpa a nessuno, ma prima di fare questo bisogna verificare le condizioni dei reparti dove venivano mandati i detenuti. E se chiediamo i giorni risarcitori, i magistrati dicono che Rebibbia è vivibile.
La beffa nella beffa. Spero che il ministro Orlando dia applicazione alle sue deleghe per rinnovare questo Ordinamento Penitenziario che è obsoleto.
Un caro saluto Marco.

19 ottobre 2017
Marco Costantini, via Majetti, 70 - 00156 Roma


Lettera dal carcere di Paola (cs)
Ciao cari amici dell'associazione, spero che stiate bene tutti, per quello che mi riguarda non ho novità e come passano i giorni e le notti, e come diventa il peso più pesante diventa la nostra volontà più forte. Cari amici, in questo carcere e dietro a queste sbarre, c'è un cuore vivo e batte in continuazione e non pompa sangue, ma pompa vita e speranza nel domani. Vi ringrazio per la lettera carina che mi avete mandato [...]
Sulle poesie che vi mando, riguardo al senso delle parole per favore traducetele lettera per lettera e testo per testo, perché ogni cambiamento muta il senso delle parole… e vi ringrazio tanto, tanto per avermi seguito.
Se diciamo carcere, rimane carcere di ferro e una serratura e una chiave e una penna e un foglio e un registro e un nome con un numero, e un giorno andiamo noi e rimane la porta, la serratura, il registro senza nome, senza indirizzo, e questo sole che sorge ogni mattina, andrò via io e rimane il guardiano con i muri e il ferro e la chiave e la serratura e sicuramente una mattina, se Dio vuole, sorgerà il sole della mia libertà e la libertà di quelli che stanno dietro le sbarre, non so se la notte piange gli occhi oppure se gli occhi piangono la notte.
Se incarcerate il corpo, l'anima libera non s'incarcera.
Vi ringrazio tanto e sono in attesa della vostra risposta… vostro fratello Awad.

12 ottobre 2017
Awad Abd Al Nasser, via M. Quattrone, 1 - 87027 Paola (Cosenza)


lettera dal carcere di colonia (germania)
Riportiamo una lettera inviata al collettivo Fuera Del Orden dalla compagna prigioniera in Germania, accusata e condannata a sette anni e mezzo per la rapina a una banca. La lettera è stata pubblicata nel fanzine anticarcelario Desde Dentro nº 4 e nel sito web roundrobin.info. Lisa parla spagnolo, tedesco, inglese e italiano e sarà contenta di ricevere corrispondenza.

Ciao! […] La mia situazione attuale: sono nella stessa prigione provvisoria di Colonia, poiché la mia sentenza è in revisione, ovvero sono in custodia di investigazione. Sono in un centro di detenzione normale, lì posso “muovermi” come tutti gli altri, partecipare alle attività, visitare altri detenuti nella loro cella, lavorare, ecc. Ma ho alcune restrizioni extra, come non posso partecipare alle attività di altri moduli (giustificati dal mio “pericolo”, in base al mio caso). Inoltre, ho ancora la posta controllata, perché stanno ancora cercando un altro “complice”. (Normalmente quasi nessuno ha la posta controllata al momento della revisione). Pertanto, mi negano le chiamate e le visite lunghe, tranne che per le chiamate con mia madre, poiché è gravemente ammalata. Però perfino queste chiamate sono anche strettamente monitorate.
Per il resto abbiamo una terapia di lavoro con il computer (“AT-PC”), dove stiamo occupati col computer e ci pagano anche. Tuttavia, spesso non c’è terapia.
Ho una TV, un lettore CD, un lettore DVD e un bollitore elettrico nella mia cella e, naturalmente, alcuni libri, un sacco di posta, riviste, ecc. Ogni giorno ottengo il “Junge Welt” e ogni due settimane “La Directa” di Barcellona.
C’è un’ora libera ogni giorno, tre ore per visitare altri prigionieri nella sua cella (che ho sempre usato dal primo giorno senza eccezioni), di tanto in tanto lo sport (faccio anche sport ogni giorno nel cortile e nella cella) e per il momento partecipo ad un interessante gruppo settimanale (“Gruppo Antirazzista”, diretto dall’associazione di Colonia contro il razzismo). Possiamo fare la doccia solo due volte alla settimana (!!!) tranne quando lavoriamo, in quel caso ogni giorno.
Qualche mese fa, la situazione con gli altri compagni di prigione era migliore e più solidale. Ora siamo meno, ma ancora con alcuni stiamo uniti e ci appoggiamo. La maggior parte sono “lumpen” che non hanno nulla o nessuno, la maggior parte di loro si droga e si preoccupano solo di se stessi. Ci sono molti Sinti, Rom e persone del’Europa orientale, la maggioranza è dentro per banalità, alcune sono di bande organizzate.
Saluti solidali e combattivi. Lisa.

23 ottobre 2017
Lisa Dorfer, Buchnr: 2893/16/7
JVA-Koeln (Frauen) Rochusstrasse 350, 50827 Koeln (Deutschland)


Lettera dal carcere di Amburgo (germania)
Ciao compagni! Cari amici! Innanzitutto grazie! Grazie dell'opuscolo che mi avete mandato! Grazie! La solidarietà che mi sta arrivando è davvero grandissima e bellissima! E mi aiuta davvero a tenere alto il morale!
Dunque, “purtroppo” la procura ha ordinato “speciali misure” di distruzione delle mie comunicazioni con l'esterno. Tutta la mia posta viene controllata da una speciale commissione di poliziotti. Fin’ora non hanno censurato nulla, tuttavia tutte le lettere mi arrivano con 15-30 giorni di ritardo. Ed è per questo che vi rispondo solo ora. Inoltre solo i miei genitori possono venire a trovarmi (qualunque altra persona no) e le stesse telefonate sono specialmente monitorate.
Tutto ciò unicamente perché sono “oppositore politico”. Bello ah!
Bene ragazzi che dire? Io qua tengo duro! Non mi piegheranno! Per fortuna qua in prigione mi sto trovando “bene”! Ho conosciuto davvero tanta gente, uomini, persone, che nella vita hanno davvero dovuto subire sulla propria pelle l'ingiustizia di questo sistema assassino. Persone alle volte molto belle e dolci. Se mi mettessi a raccontare non basterebbe il block notes.
Come saprete noi internazionali stiamo attendendo il processo. Agli altri italiani è già stata fissata la data (ma di sicuro quando questa lettera arriverà in Italia ne saprete di più). A me no, perché contro di me non hanno prove, non hanno niente e questo ovviamente è molto buono, solo che dovrò aspettare di più. Per fortuna fin’ora i processi sono andati benino – niente “devastazione e saccheggio” in Germania.
Ok! Vi auguro tutto il bene possibile compagni!! La lotta continua! Fabio.

18 settembre 2017
Fabio Vettorel, JVA Hannoefersand Hinterbrack 25 - 21635 Jork (Germany)

Il 30 settembre 2017 una manifestazione si è svolta ad Amsterdam in solidarietà con i/le compagn* che al momento si trovano in prigione in seguito alle proteste contro il G20 ad Amburgo. Dopo la manifestazione un corteo spontaneo è partito verso il centro Città. 100 persone hanno partecipato alla manifestazione. Ci sono stati interventi e musica. Dopo la manifestazione una cinquantina di persone hanno dato vita a un corteo improvvisato nel centro della capitale, fino a Spuiplein. Fra i cori e gli slogan si sentivano forti e calde le grida: “Libertà per tutt* i/le prigionier* del G20! Libertà per Peike!”


Grecia: IN CONFLITTO CON IL REGIME D'EMERGENZA
PER LA SOLIDARIETA' AI PRIGIONIERI POLITICI (seconda parte)
“Non conta cos'è giusto o ingiusto, ci troviamo in stato di guerra”, aveva spudoratamente dichiarato pochi anni fa l'onorato dal Federal Bureau Investigation (FBI) M. Chrisochoidis. L'ex ministro d'Ordine Pubblico può darsi che si riferiva ai memorandum, oppure alla collaborazione della polizia con i narcotrafficanti ad Exarchia, oppure ancora agli annegamenti virtuali dei prigionieri politici per strappargli il DNA.
Dopo il settembre 2009, quando viene svolta la prima operazione per lo smantellamento dell'organizzazione Cospirazione delle Cellule del Fuoco (CCF), con l'irruzione in una casa nel quartiere ateniese di Chalandri, inizia in Grecia un piano repressivo, complesso ed a differenti livelli, che continua fino ad oggi. Non parliamo dell'ennesimo pogrom di arresti ed inquisizioni. Ci riferiamo ad un completo piano anti-insurrezione, alla pianificazione della controrivoluzione preventiva da parte dello stato borghese. In quell'epoca, il regime si trovava con il suo sguardo rivolto alla crisi capitalistica mondiale, mentre aveva alle sue spalle i recenti eventi del Dicembre del 2008, la rivolta violenta e spontanea, scoppiata in tutta la Grecia dopo l'assassinio di Alexis Grigoropoulos ad Exarchia.
A partire dal 2009, viene imposto un regime d'emergenza permanente: la manifestante Aggeliki Koutsoubou si trova insanguinata in strada a Syntagma, colpita da una delle moto del corpo poliziesco Delta, nel Dicembre del 2009.
Il manifestante Giannis Kaukas si troverà ricoverato in “stato pre-mortale”, dopo una carica della celere (MAT) ad una manifestazione anti-memorandun del Maggio 2011.
Un anno dopo, manifestanti antifascisti vengono torturati nella questura centrale ateniese ed il ministro di Ordine Pubblico copre completamente l'accaduto.
Il 2013, gli anarchici arrestati alla cittadina di Velventos [1] vengono torturati, ed in seguito la polizia pubblica le loro foto che saranno riprodotte dai canali televisivi. “Non cosi tanto per riportare un equilibrio, quanto per far vedere, fino al punto estremo, la diseguaglianza che esiste tra il suddito che ha osato infrangere la legge ed il fortissimo padrone dei padroni che mostra la sua forza”.
La brutalità poliziesca viene completata con le migliaia dei fermi preventivi e di arresti di massa, con il gonfiare delle accuse e l'industria delle incarcerazioni preventive, con l'esercito poliziesco di occupazione al quartiere di Exarchia e la taglia (di centinaia migliaia di euro) sopra le teste degli anarchici ricercati.
La sostanza della politica repressiva rimane uguale, anche dopo il Gennaio del 2015. SYRIZA, malgrado le sue finte sensibilità per i “diritti umani” e malgrado le sue differenziazioni parziali, rimane stabile nell’obiettivo strategico della politica “anti”-terrorista: l'annientamento del “nemico interno”.
Appena qualche mese dopo l'elezione di SYRIZA, l'irruzione poliziesca al Rettorato dell'Università d'Atene, occupato in solidarietà con i prigionieri politici in sciopero della fame, lasciati arrivare al limite di morte.
Torture contro i compagni detenuti in lotta Kostas Sakkas, Marios Seisidis e Panagiotis Aspiotis per strapparli senza la loro volontà il DNA. Marios viene condannato a 36 anni di reclusione mentre ad ergastolo viene condannato l'anarchico-membro dell'organizzazione Lotta Rivoluzionaria Nikos Maziotis, per l'esplosione alla sede della Banca di Grecia, dove ha sede anche il rappresentante permanente del Fondo Monetario Internazionale (FMI) ad Atene, e dove non si é ferito nessun cittadino o poliziotto.
Dopo l'arresto dell'anarchica-membra dell'organizzazione Lotta Rivoluzionaria Pola Roupa, hanno tenuto per alcuni giorni come ostaggio il loro figlio di 6 anni.
SYRIZA è arrivata al punto di negare anche i diritti più basilari ai prigionieri politici, come il permesso alle uscite (per pochi giorni), dal momento in cui lascia in vigore il diritto di veto per il pubblico ministero alle decisioni del consiglio del carcere.
Ha anche vietato un iniziativa pubblica, circondando con la celere la facoltà di Legge - in collaborazione con il rettore - nel Dicembre del 2016. In pratica, ha censurato un'assemblea politica con la tematica dell'ottenimento del permesso di uscita per il prigioniero politico Dimitris Koufontinas, che gli viene negato durante gli ultimi 7 anni, dai 15 che si trova rinchiuso in carcere in condizioni speciali. Il giorno prima, il pm della Corte d'Assise aveva mandato al carcere di Koridallos un'ordine riservato tramite il quale vietava a D. Koufontinas d'intervenire telefonicamente all'iniziativa, minacciando che nel caso contrario non arebbe più potuto presentare richiesta per permesso d'uscita per i successivi due anni.
Nella stessa direzione, a quella della censura e della persecuzione anche delle idee, si sono indirizzati anche i nuovi articoli che ha tentato di introdurre di nascosto il ministero di Giustizia con un disegno di legge qualunque, dove chiaramente viene penalizzata l'espressione d'opinione. Si tratta di articoli ritirati momentaneamente, però saranno presentati prossimamente come ha dichiarato il ministro S. Kontonis, non lasciando spazio per fraintendimenti all'ambasciata statunitense e alle famiglie dell'alta borghesia indigena.
La continuazione della politica repressiva da tutti i governi dei memorandum, dimostra il fatto che l'isolamento, la penalizzazione e la repressione dell'azione rivoluzionaria e delle lotte sociali e di classe, non vengono prodotte dalla mania di qualche governo di estrema destra, ma soddisfano precisi bisogni del capitale.
Oggigiorno, in un ambiente di crisi capitalistica, d'inasprimento delle contraddizioni di classe e con il personale politico borghese talmente screditato, si trovano dinanzi al bisogno di annientare le forze rivoluzionarie, gli anarchici ed i comunisti. Di spezzare le parole d'ordine per l'organizzazione della classe operaia e degli altri strati popolari, per il conflitto diretto con il regime, per la resistenza, per la solidarietà attiva, per la lotta antimperialista. Di spazzare via gli ideali della rivoluzione sociale, per l'anarchia ed il comunismo.
Ai giorni d'oggi, per poter l'Unione Europea fortificare la competitività dei suoi monopoli e per poter superare la sua crisi la borghesia indigena, devono essere colpite le avanguardie politiche. La crisi deve essere pagata dai lavoratori, senza però l'inasprimento della lotta di classe, senza lasciar il popolo alzare la testa. Altrimenti, come sarà salvato l'euro? Come saranno messe in atto tutte le proposte dei sindacati dei padroni indigeni? Come sarà diventato l'intero paese ad una Zona Economica Speciale? Come saranno trasportati ricchezza e valore - tramite i tassi d'interesse, i prestiti per il pagamento del debito statale e la svendita della proprietà pubblica - dalla periferia ai centri imperialisti?
Durante gli ultimi mesi, il governo ha lanciato in silenzio un attacco continuo e sistematico ai suoi avversari politici.
L'anarchico Marios Seisidis è stato condannato a 36 anni di reclusione, dopo un processo-farsa, basato soltanto ad un “foglio di analisi DNA”, uscito dai laboratori della polizia. Si tratta di una condanna vendicativa, una sorta di rivincita' per gli 11 anni di latitanza del compagno e per la sua dichiarazione politica davanti ai giudici:
“Le banche sono gli strozzini legali, oppressori moderni che terrorizzano quotidianamente il popolo con le aste [per debiti bancari] di case [come unica proprietà], potendo cosi sfruttare il fatto che molti, in una fase della loro vita, si sono rivolti alle banche per poter acquistare una casa per le loro famiglie. Cosi rispedisco al mittente le accuse di terrorista e rapinatore, come per anni venivo chiamato io ed i miei compagni. Terroristi e rapinatori sono lo stato ed il suo personale politico borghese, loro terrorizzano il popolo quotidianamente con nuovi memorandum, nuove tasse, il continuo rialzo dei prezzi per beni di prima necessità. Quelli sono che li minacciano di prendere le loro case se non pagano una rata per i loro debiti. Quelli sono che hanno spinto al suicidio migliaia di uomini e donne con problemi economici e non noi che lottiamo al loro fianco”.
La pm Anna Kalouta ha proposto la colpevolezza dell'anarchico comunista Tasos Theofilou per tutte le accuse. Si tratta di una proposta arrogante, dalla quale il compagno viene minacciato con la condanna ad ergastolo [2]. Questo, malgrado il fatto che durante il processo è crollata la ridicola storia con il capello, i rapinatori ed il DNA, una bugia chiara, una favola degli “anti”-terroristi. Una scenata caratteristica di questa montatura farsesca è stata quando il capo del “reparto terrorismo interno” della direzione “anti”-terrorismo, E.Hardalias, durante la sua testimonianza ha dovuto ammettere “può darsi che quest'uomo non era alla rapina”. Il compagno però non si chiama Michalis Christoforakos, non è stato un amministratore delegato Siemens, ne presidente della camera di commercio greco-tedesco per poter girare libero. Non era implicato e poi assolto allo scandalo di Vatopedi. È un compagno in lotta che dichiara esplicitamente: “Dirò per ancora una volta e concludendo che non ho commesso i reati per i quali sono accusato. Ho commesso però il reato che include tutti i reati. Sono anarchico. Nella guerra di classe ho preso posizione con gli esclusi ed i diseredati, i ricercati ed i maledetti, con i poveri, i deboli e gli oppressi.”.
Al processo per “Chalandri”, la pm El. Karkabouna concludendo dopo 130 minuti di sforzo retorico per apparire convincente, ha proposto dure condanne per i membri della CCF, come anche per l'anarchico Panagiotis Masouras. Per quanto riguarda i membri, ha come suo obiettivo condanne di molti anni per tutti quelli che hanno rivendicato la responsabilità politica per la loro partecipazione all'organizzazione, hanno contestato con l'azione il monopolio statale alla violenza ed hanno sostenuto pubblicamente questa azione.
Per quanto riguarda il compagno P. Masouras é chiaro che la pm ha come obbiettivo di farlo rinchiudere nuovamente ad una prigione, dopo la sua detenzione alle carceri di Malandrino, Avlona, Coridallos e Grevena [3]. La pm e la direzione “anti”-terrorismo non possono accettare la sua presenza continua nelle file del movimento rivoluzionario. Una presenza quotidiana e combattiva nello scontro di classe, che é stata rispecchiata anche dal suo intervento politico durante il processo:
“Non abbiamo creato noi le armate dei disoccupati, degli affamati e dei senza tetto. Non abbiamo terrorizzato noi la società con manganelli e lacrimogeni, con armi e divieti degli scioperi, con leggi speciali sul lavoro, con memorandum e pignoramenti di case. Non sono nostre creature né i suicidi né le droghe. Non abbiamo fondato noi le multinazionali che sfruttano il sangue ed il sudore del popolo lavoratore. Non abbiamo assassinato né abbiamo portato ai tribunali la gioventù d'avanguardia in lotta. Non abbiamo strappato noi il pane dalle mani dei lavoratori, né abbiamo giustificato gli assassinii chiamandoli incidenti sul lavoro. Non abbiamo strappato noi i farmaci ai malati di cancro, i libri dagli allievi delle scuole, i diritti dai lavoratori e dagli studenti, la vita dai profughi e dagli immigrati, il giusto processo dagli accusati”.
Per seconda volta consecutiva il consiglio del carcere ha rigettato la richiesta per ottenimento del permesso di uscita presentato dall'anarchico Giorgos Karagiannidis. Questa volta il trucchetto legale riguardava l'episodio del pestaggio di un secondino il 2013, per il quale il compagno era stato punito. La sua pena però, all'interno del carcere era stata prescritta già dal Luglio del 2016, e quindi non poteva costituire motivazione per la negazione del permesso di uscita. La scorsa volta, il consiglio del carcere aveva creato un ostacolo burocratico, negando il permesso di uscita perche G. Karagiannidis, ufficialmente risulta iscritto al carcere della città di Larissa, anche se durante gli ultimi 4/5 anni si trova sempre al carcere di Coridallos (Atene). Il compagno però non si arrende, non abbandona la lotta, e parla chiaro:
“Il dispotismo del consiglio del carcere di Coridallos nega a decine di prigionieri una uscita – anche temporanea – dalla condizione soffocante della detenzione. Però, appunto perché i permessi di uscita sono stati conquistati dalle generazioni passate dei detenuti e non sono stati assolutamente rilasciati volontariamente da nessun consiglio del carcere, la loro difesa e la loro espansione costituisce un obbiettivo per ognuno ed ognuna che vive dietro le mura. Anche solo questo motivo, mi basta per continuare a cercare con ogni mezzo opportuno questo “respiro di libertà”.
La docente universitaria Irianna V.L. è stata condannata e rinchiusa con una pena di 13 anni di detenzione, senza attenuanti e senza condizionale [4]. Unico elemento accusatorio con il quale è stata mandata al carcere di Thiva era la sua relazione con K.P., che era stato accusato per appartenenza a CCF ed e poi assolto definitivamente. Per questo motivo durante il processo, la pm chiedeva con arroganza a Irianna, per quale motivo non ha lasciato il suo compagno.
“Irianna è stata condannata per porto d'armi con unico elemento un campione di dna, di piccola quantità e di bassa qualità, il quale quando è stato richiesto alla fase iniziale dell'interrogatorio per un secondo controllo da laboratorio riconosciuto e specializzato, che collabora con autorità giudiziarie in tutta l'Europa, la riposta data dalla polizia era che il campione di dna era già finito”, ha scritto ad un giornale K.P., dopo la sentenza di condanna. Ovviamente la presidente della corte Apostolidou-Dimopoulou Zoe, (la stessa che alcuni mesi fa aveva condannato anche il compagno M.Seisidis), è stata premiata da ministero di Giustizia, e quindi dal governo per i suoi servizi, assumendo la poltrona del Presidente della Corte d'Appello!
Per seconda volta consecutiva è stata rigettata la richiesta per ottenimento del permesso di uscita di cui ha diritto il compagno Kostas Gournas. Il rifiuto, da parte dell'anarchico e membro dell'organizzazione Lotta Rivoluzionaria, di firmare una dichiarazione di dissociazione è chiaro che non può essere supportata nè dal pm del carcere, nè dal consiglio di giudici del Pireo. Perché la militanza per gli interessi popolari e per la questione della rivoluzione sociale non può essere tollerata dallo stato. La proposta da parte del pm non lascia spazio per fraintendimenti e costituisce una presa di posizione politica: “con questo suo comportamento ha lasciato chiari segnali di disaccordo con le regole del funzionamento della società odierna, parte integrante della quale sono le leggi”.
Malgrado tutto, il compagno dalle celle sotterranee di Coridallos manda il suo messaggio di resistenza:
“Nelle capacità di ogni uomo e donna in lotta, di ogni resistente, oggi, di contribuire con ogni mezzo che ritiene necessario per la lotta dei prigionieri politici contro il regime d'eccezione e per l'ottenimento dei permessi di cui hanno diritto. Perché se permetteremo oggi l'imposizione in modo informale o ufficiale, dell'approfondimento del regime di eccezione tramite delle dichiarazioni di dissociazione, allora automaticamente stiamo creando un rapporto di forza negativo per tutta la società. Perché la questione della costruzione della rivoluzione sociale, oggi, non è solo questione di un imprecisato risveglio sociale, è anche una questione di lotta politica quotidiana per l'abbattimento dei memorandum e del regime d'emergenza”.
Non possiamo che stare a fianco dei prigionieri politici. Di organizzare di nuovo, un fronte ampio di solidarietà. Per la difesa combattiva dei loro diritti. Per la rottura del regime d'emergenza. Per la loro liberazione immediata. Per la vittoria. Per l'anarchia e per il comunismo.

Contrattaco di Classe (Gruppo di Anarchici e di Comunisti).
Ταξική Αντεπίθεση (Ομάδα Αναρχικών και Κομμουνιστών)
Atene, 6/2017

Note (del traduttore):
[1] Per la doppia rapina (ad una banca ed la posta) nella citadina di Velventos del 1/02/13, sono stati condannati 6 compagni anarchici (G.Michailidis, N.Romanos, A.D.Bourzoukos, D.Politis, A.Dalios, F.Harisis) sono stati condannati (in primo grado) a pene da 11 anni e 9 mesi fino 7 anni e 2 mesi di detenzione.
[2] Il 7 del Luglio del 2017, con l'assoluzione da tutte le accuse da parte del Corte d'Appello (riguardanti l'uccisione di un autista taxi che ha tentato di fermare i rapinatori di una banca e la rapina stessa all'isola di Paros l'estate del 2012), dopo la condanna del primo grado a 25 anni e dopo 5 anni di detenzione, il compagno Tasos Theofilou è tornato libero, con una vittoria ottenuta da tutto il movimento di solidarietà durante questi 5 anni.
[3] Con la conclusione del processo per “Chalandri” gli accusati che hanno assunto la responabilità politica come membri dell organizzazione CCF (Ch. Chatimihelakis, P. Argyrou, D. Bolano, G. e M.Nikolopoulos, Ch.Tsakalos) sono stati condannati a pene che vanno dai 16 a 6 anni di detenzione, 2 altri anarchici (G. Karagiannidis, Em.Giospas) sono stati condannati rispettivamente a pene di 5 e 2 anni di detenzione mentre gli altri accusati, tra i quali anche il compagno P. Masouras, sono stati assolti.
[4] il 17/07/17 dopo il mantenimento della detenzione preventiva per Irianna V.L da parte della corte, durante un corteo notturno al centro di Atene di centinaia di manifestanti, a via Ermou, alla strada più commerciale del centro ateniese (“alla 25sima più cara strada commerciale del mondo”), le vetrine dello sfruttamento e dell'alienazione vengono attaccate da decine di compagni e compagne. Il sindacato dei commercianti parlerà per danni di 155.000 euro a 42 negozi.



Incendi domati in Val di Susa
L’ennesima emergenza italiana ambientale che ha fatto acqua. Una storia di ore frenetiche riorganizzate dal basso. Vigili del fuoco incaricati di spegnere incendi boschivi, cosa mai fatta e corpo forestale che da 40 anni aveva la direzione di spegnimento mandato a fare le indagini per rintracciare il piromane. Il prefetto che corre nei paesi montani (Monpantero, Marzano…) senza riuscire a dirigere le operazioni. Il vigile del fuoco da Arezzo che abbraccia commosso (e non poco) lunedì mattina Piera, sindaca no tav e maestra elementare di Bussoleno, dicendo: “Piera è finita, è finito il combustibile, è finito il bosco.”
Invece no, il bosco come il paese vengono salvati. A Monpantero accorre la forza dei volontari, forse si supera il migliaio. Il re è nudo. La macchina crolla e nel giro di poche ore se ne accende un’altra, fantastica, magnifica e poderosa dove gli ingranaggi sono sostituiti dalle compenetrazioni di cuori, braccia e teste libere e pensanti.
Mario il postino di Bussoleno guida sapientemente la squadra anti incendi boschivi del paese, nata nel 1979. L’esperienza di quasi 40 anni di attività, potente si scatena. Arriva Renato, di Mompantero, volontario da sempre, che coordina le squadre Aib valsusa con molti altri. Coordina e guida con i gesti dalla sala del comune le operazioni ai vigili del fuoco che comprendono e si fidano. Di mestiere progetta “solamente” impianti antincendio delle più grandi linee metropolitane.
Su nel bosco con loro le cose iniziano a migliorare. Proprio dove le fiamme infuriano gli anti incendi boschivi volontari sono gli unici a combatterle, spegnerle. Il fuoco imperversa e cadono i primi tronchi infuocati. L’area è interdetta ma i volontari giungono comunque a dar manforte. Vengono abbattuti (segati via) alberi per creare le linee tagliafuoco per fare terra bruciata metri dietro alle case. Donne e uomini autorganizzati, con roncole, rastrelli, pale e motoseghe prendono il sopravvento e mettono in sicurezza quasi due chilometri di case. Si continua così per tutta la giornata e alla sera tardi quando il vento cala Mompantero è di colpo un altro luogo, le fiamme calano e poi svaniscono. Siamo in Valle di Susa e la parola solidarietà assume un valore reale, mai astratto. 420 evacquati su seicento abitanti che il giorno dopo sono rientrati nelle loro case sane e salve.
Dovremmo cercare le colpe? Governo o piromane che sia? No troppo facile. Come per l’alta velocità, i mostri, i governanti sono i medesimi. Progetti inutili, sprechi di denaro, corruzione, potere che alimenta altro potere. Le stesse persone che vorrebbero far diventare la nostra Valle e i territori, tutti dei corridoi o delle merci essi stessi da consumare, dovrebbero salvarci dalle fiamme? Chi ha vissuto queste giornate la risposta ce l’ha.

1 novembre 2017, liberamente tratto da infoaut.org

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Lettera dal carcere di Regina Coeli (rm)
Ciao a tutte e tutti. Sono stato arrestato il 4 agosto con la misura cautelare di custodia nel carcere “Lorusso e Cotugno” di Torino insieme ad altr* 4 compagn* e due compagne con la misura cautelare di divieto di dimora dal comune di Torino e provincia per esserci frapposte all’ennesima retata nel nostro quartiere, ma già molto abbiamo detto al riguardo e non mi dilungherò oltre.
Dopo due settimane in carcere, il Tribunale della Libertà ha modificato la misura cautelare per i/le cinque arrestate alla custodia cautelare presso i domicili da noi presentati. Per quel che mi riguarda ho deciso di andare da una compagna presso il comune di Roma. Li i controlli si sono susseguiti di giorno in giorno fino al 22 settembre; giornata nella quale, alle sette del mattino circa si sono presentati alla mia porta vari poliziotti in borghese e due volanti per notificarmi un aggravamento di pena, richiesto dai carabinieri preposti al mio controllo della caserma di La Storta per una presunta evasione effettuata in daa 31 agosto. Da quel momento (22/9) sono quindi stato tradotto al carcere di Regina Coeli.
Non cercherò certo qui, tra queste righe, di difendermi da tale accusa, ma quanomento e approfitterò per salutare e abbracciare col cuore le mie sorelle e i miei fratelli, compagne e compagni. Ripetendo a me stesso che, nonostante la repressione, le angherie e i soprusi ci saremo sempre l’un per l’altra. Che non smetteremo di lottare. Che ci ritroveremo ancora sulle barricate, sorridenti, determinate e a testa alta. Che per quanto possano temporaneamente o meno togliere di mezzo una/o di noi, altre ed altri saranno lì a colmare il vuoto. Che non ci sarà pace ne tregua per chi ci opprime e reprime.
Con rabbia e amore, vostro compagno. Beppe.

Dal 13 ottobre Beppe si trova al carcere di Torino. Il 22 settembre dagli arresti domiciliari era stato trasferito a Regina Coeli perché le forze dell’ordine sostengono non abbia risposto a un controllo di routine (da autistici.org/macerie).
Per scrivergli e sostenerlo: Giuseppe De Salvatore, via A. Aglietta 35 - 10151 Torino


la lotta in sda: LO STATO DELL'ARTE
L'avvio cova nel centro di smistamento di Carpiano (paese situato fra Milano e Pavia) dove l’11 settembre 2017, e cioè quando di fronte al licenziamento di 43 operai - nella loro totalità giovani immigrati dall'estero - a tempo determinato (con contratto in scadenza gennaio 2018), 200 operai della SDA entrano in sciopero spontaneamente.
SDA è un’azienda nata nel 1984 per operare nel settore delle spedizioni espresse, dal 1988 fa parte del gruppo Poste Italiane e conta attualmente circa 1.500 lavoratori 'diretti' e 7mila 'indiretti', di cui 4.500 sono corrieri e gli altri facchini.
I 43 operai erano assunti a tempo determinato dal novembre 2016, il cui ultimo rinnovo andava in scadenza a fine 2017. Invece il 4 settembre il Consorzio Progresso Logistico (CPL, che ancora deteneva l’appalto nei centri SDA di Milano e Roma, oltre che in diverse filiali periferiche) decide di sospenderli in anticipo.
Immediata è la risposta operaia, in particolare sostenuta dal sindacato SOL (Sindacato Operaio di Lotta) Cobas che l’11 settembre, di fronte ad una palese accondiscendenza di SDA alla manovra del CPL, entra in sciopero.
Lo sciopero si estende ai centri SDA di Piacenza e alle filiali di Novara, Vimodrone, Gorgonzola, Como, Bergamo, Cuneo e Ascoli e riesce a far rientrare nei capannoni i 43 operai, anche scontrandosi con la polizia. Dopo 4 giorni di sciopero, gli operai a Carpiano raggiungono il loro obiettivo, cioè:
a) reintegro dei 43 licenziati;
b) estromissione del CPL;
c) apertura della trattativa a Piacenza per l’uguaglianza salariale e normativa con Carpiano.
Così, all’indomani del picchetto del 14 settembre, SDA annuncia l’estromissione del CPL e l’affidamento dell’appalto, con gara di urgenza, al consorzio UCSA. L'accordo raggiunto, in sintesi, prevede:
a) mantenimento delle condizioni economiche e normative pre-esistenti, compresi i livelli occupazionali;
b) integrazione del pagamento, al 100%, dei giorni di malattia;
c) mantenimento dell’anzianità di magazzino al fini di garantire l’applicazione dell’art.18 (garanzia di non-licenziamento);
d) mantenimento delle condizioni economiche di miglior favore rispetto al CCNL (contratto nazionale), in vigore dal 2015;
e) pagamento del premio di risultato, nei tempi di lavoro - pari a circa 750 € annui;
f) trasformazione del ticket cartaceo di €5.29 in indennità mensa detassata;
g) riduzione dell’orario lavorativo a 36,5 ore settimanali tramite mezz’ora di pausa retribuita giornaliera.
Di fronte a questi sviluppi SDA decide la serrata. Cioè la chiusura momentanea del centro di smistamento di Carpiano.
L'impostazione di non-cedimento al licenziamento, alla trottola infernale delle assunzioni-sospensioni periodiche e dell'orario di lavoro, all'abbassamento dei salari, all'assenza di ogni rispetto della salute … non è seguita da tutti i sindacati, pur essendo Cobas. Una realtà presente anche a Carpiano. Qui, per esempio, il sindacato Si-Cobas entra in campo contestando le modalità del cambio di appalto e l’accordo siglato da UCSA e SOL Cobas; cerca di far passare l'assunzione condizionata da una rotazione con orari di lavoro ridotti dell'80 percento assieme alla cassa integrazione – uno schema già respinto dalla maggioranza degli operai nel centro di smistamento di Bologna.
A Carpiano la mobilitazione compie salti in avanti soprattutto perché gli obiettivi sono stati decisi direttamente dagli operai (organizzati soprattutto nel Sol Cobas):
1. fine della serrata e riapertura immediata del centro di smistamento merci di Carpiano;
2. difesa dell’accordo di cambio appalto e delle condizioni economiche e normativa acquisite;
3. rifiuto di siglare accordi capestro sulla Cassa Integrazione;
4. limitazione del danno salariale immediato derivante dalla serrata e garanzie salariali.
Mentre gli operai del SOL si organizzano attraverso assemblee per organizzare l’ingresso nei capannoni, e mentre le difficoltà organizzative di SDA cominciano a fiaccare lo stesso contrattacco padronale, con la prefettura sotto pressione per porre fine ad una serrata spacciata per un blocco dei Cobas... il 12 ottobre lo scontro padrone-operai si concretizza in una tregua momentanea, bilaterale e transitoria.
I contenuti dell’accordo del 12 ottobre oltre a confermare i contenuti del verbale di cambio appalto, fissano le condizioni transitorie per il riavvio del lavoro dopo la serrata:
1. giornate di lavoro ogni mese ridotte a 15, almeno fino al 20 novembre;
2. garanzia dell'impegno di SDA verso il saldo di eventuali mancanze retributive da parte di CPL e anticipo immediato del 50% del TFR (Trattamento di Fine Rapporto) maturato;
3. tregua bilaterale fino al 20 novembre, corrispondente alla fine della rotazione e all’inizio della campagna natalizia.
L'accordo mette fine alla serrata, riavvia il lavoro nei capannoni SDA con gli operai coscienti di aver fatto passi importanti quanto concreti nel far rispettare la propria dignità umana continuamente calpestata dai padroni che si chiamino SDA o meno.
La lotta di chi lavora nella logistica è dunque importante per la conquista dell'umanizzazione vivibile solo con la scomparsa-morte del capitalismo, con la vittoria sulle congreghe statali, a cominciare da quelle che costituiscono la NATO, come l'Unione Europea, l'Italia che ne è parte attiva...

Milano, ottobre 2017