Opuscolo n. 136

Sciopero della fame dei prigionieri palestinesi
L’8 aprile 2019, circa 120 prigionieri palestinesi hanno iniziato uno sciopero della fame a tempo indeterminato contro il deterioramento della situazione nelle carceri israeliane. Hanno aderito tutte le fazioni in tutte le prigioni. All’inizio sono entrati in sciopero i cosiddetti manager delle celle, per ogni cella il responsabile e rappresentante di partito. Al 9 aprile c’erano 353 prigionieri in sciopero della fame così distribuiti: 120 nella prigione di Ramon; 20 in Algoub; 120 nel Nakab; 33 in Affa; 35 a Megiddo; 20 in Ofer e 25 in Eashel. Il 10% del totale dei prigionieri. Immediatamente, gli israeliani hanno messo in isolamento chi ha iniziato lo sciopero. Fuori, nelle strade, non c’è stato un pronto rilancio, probabilmente si attendevano gli sviluppi. E dentro aspettavano la reazione fuori.

PREMESSE
Il 19 febbraio i servizi carcerari israeliani (IPS) avevano confiscato tutti i dispositivi elettronici dall’interno della sezione 1 del carcere di Negev, dopo che i prigionieri avevano protestato contro l’installazione di dispositivi di disturbo intorno alle sezioni della prigione.
I nuovi “dispositivi di disturbo a onde sonore” hanno l’obiettivo di limitare qualsiasi possibilità di contatto dei prigionieri con il mondo esterno e di oscurare i segnali di televisione e radio. Emettono un continuo segnale sonoro, producono un rumore “assordante” che provoca “forti mal di testa, malattie croniche e impedisce ai detenuti anche di poter dormire” come riportato dal “Movimento dei prigionieri palestinesi”.
Il 4 aprile, le forze israeliane avevano fatto irruzione nella sezione 1 del carcere israeliano del Negev perquisendo e saccheggiando le celle dei prigionieri di Hamas, del Jihad islamico e del Fronte popolare. Sembra che un prigioniero abbia cercato di pugnalare un soldato durante l’incursione. Secondo l’ufficio stampa Asra, le forze israeliane hanno preso d’assalto anche la sezione 10 del carcere di Eshel, dove si trovano detenuti di Hamas, e hanno realizzato delle perquisizioni provocatorie e violente nelle celle.
Il nuovo inasprimento del regime di detenzione, da parte del governo israeliano, si va ad aggiungere alle altre forme di “tortura” già utilizzate: le continue deportazioni da un carcere all’altro, la privazione del cibo e del sonno, il divieto di poter incontrare avvocati, familiari o le limitazioni di potersi far visitare, per motivi di salute, se non per “gravi condizioni fisiche”. Limitazioni e pratiche utilizzate anche nei confronti delle donne detenute – circa una sessantina – con l’obiettivo di “umiliare e mortificare la loro stessa condizione femminile”, come recentemente denunciato da un’avvocata ed esponente del Fplp.

RISPOSTE
In risposta all’utilizzo di questi nuovi dispositivi aumentano progressivamente le proteste da parte dei prigionieri palestinesi. Due prigionieri hanno colpito due guardie carcerarie nel centro di detenzione del Neghev, i “reparti anti-sommossa delle forze speciali israeliane” sono intervenuti e hanno ferito quasi tutti i detenuti di quel settore, oltre 250 prigionieri, ferendone 25 in modo grave.
Tensioni e scontri sono avvenuti anche nelle altre carceri di Ofer e Ramon, dove i detenuti, in segno di protesta, hanno incendiato vari oggetti.
In un comunicato congiunto il Fplp ha dichiarato che “i detenuti sono oggetto di un attacco senza precedenti nella violazione dei loro diritti fondamentali, con pratiche che incidono sulla loro salute fisica e psicologica”. Il “Movimento dei prigionieri palestinesi”, di cui fanno parte tutte le principali fazioni politiche (Fatah, Fplp, Fdlp, Hamas e Jihad islamico) ha dichiarato che la repressione non “fermerà le proteste e la lotta dei detenuti nelle carceri israeliane”.

SCIOPERO DELLA FAME
L’8 aprile, i leader dei prigionieri hanno annunciato il fallimento dei colloqui con i carcerieri israeliani dopo che le loro richieste sono state respinte, in particolare per quanto riguarda l’uso dei telefoni.
Parte lo sciopero della fame. Circa 400 prigionieri palestinesi in diverse carceri israeliane si sono uniscono da subito allo sciopero a tempo indeterminato. Altri prigionieri si uniranno alla protesta nei giorni successivi.
Lo sciopero della fame di massa si svolge principalmente nelle prigioni di Negev, Ramon, Nafha, Eshel, Ofer, Gilboa e Megiddo. La fase della protesta è soprannominata “al-Karama (dignità) 2”.
Secondo la Società per i prigionieri palestinesi (PPS) sono in corso colloqui indiretti con i carcerieri israeliani e tentativi egiziani per spingere gli israeliani a rispondere alle richieste dei prigionieri.
Le principali richieste dei prigionieri sono: 1) comunicare con le famiglie, fornendo le carceri di servizi telefonici; 2) rimozione dei disturbatori di frequenze all’interno delle prigioni; 3) permessi per tutti i prigionieri, compresi quelli di Hamas a Gaza, di ricevere visite dalle loro famiglie e di permettere a tutte quelle della Cisgiordania di vedere i loro cari due volte al mese; 4) revoca di tutte le nuove e vecchie misure punitive.
Lunedì 15 aprile, lo sciopero viene sospeso. I prigionieri avevano programmato di intensificarlo una settimana dopo, astenendosi dal bere acqua, se le autorità israeliane non avessero accettato le loro richieste.
In una dichiarazione rilasciata a nome dei Movimenti dei prigionieri, il Comitato congiunto dei prigionieri delle Fazioni islamiche e nazionali ha dichiarato: “Il movimento dei prigionieri ha confermato di aver raggiunto un accordo con il Servizio penitenziario israeliano rimuovendo dispositivi elettronici di disturbo e permettendo loro di avere dei telefoni fissi in carcere per chiamare le famiglie”. I prigionieri in isolamento potranno ritornare nelle celle con i loro compagni.
Dalle organizzazioni politiche viene considerata una vittoria raggiunta dopo solo una settimana di sciopero della fame.
Fuori dalle organizzazioni, molti sono rimasti amaramente delusi.
Solo per rammentare un orrore che questi presunti accordi certo non rimediano, Israele sta tenendo prigionieri 114 bambini palestinesi nella prigione di Ofer. Il Club dei prigionieri palestinesi ha dichiarato che il 60% di loro è stato sottoposto a torture fisiche e psicologiche: vengono arrestati durante la notte, subiscono percosse, sono costretti a fare confessioni sotto minaccia, sono lasciati senza cibo né acqua per ore, sono interrogati per periodi di tempo prolungati e vengono insultati. I bambini nella sezione 13 della prigione di Ofer hanno iniziato a lamentarsi di emicranie a seguito dell’installazione da parte di Israele dei disturbatori di segnale che hanno una frequenza elevata. In più vengono comminate multe altissime per la loro detenzione che le famiglie devono pagare.

23 APRILE 2019, SCIOPERO DELLA FAME DI PRIGIONIERI IN DETENZIONE AMMINISTRATIVA
Le condizioni di salute di cinque prigionieri palestinesi, in detenzione amministrativa nelle carceri israeliane, si stanno deteriorando e richiedono procedure salvavita efficaci, secondo quanto dichiarato dalla Commissione palestinese per i prigionieri ed ex-prigionieri.
Hanno iniziato uno sciopero della fame a tempo indeterminato, come forma di protesta contro la loro detenzione illegale – senza né accuse né processo – da parte delle autorità israeliane.

Notizie tratte da contatti diretti in Cisgiordania, da infopal e da nenanews.


CPR, Centri di Permanenza per il Rimpatrio con alcune note sul Dl Salvini ora Legge 132
COS’È UN CPR
I Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) sono prigioni per gli immigrati privi di documenti in regola; qui si viene incarcerati per essere rimpatriati. Le condizioni di vita all'interno sono terribili: dalla cattiva qualità del cibo alla somministrazione di psicofarmaci, dalla mancanza di cure mediche e di supporto legale a standard igienici inaccettabili. Di fronte a condizioni del genere, molte sono state e continuano ad essere le proteste dei reclusi, sia individuali (scioperi della fame e della sete, atti di autolesionismo) che collettive (evasioni, rivolte, danneggiamenti e incendi), che hanno portato all'inagibilità parziale o definitiva di molti di questi centri: dei 13 che esistevano all'inizio, prima della loro riapertura voluta dal governo Renzi e oggi ribadita dal governo Lega-5 Stelle, ne rimanevano funzionanti solo cinque, e a capacità ridotta.
I CPR non hanno lo scopo di deportare tutti i clandestini, cosa impossibile oltre che non auspicabile, ma di ficcare bene in testa a chi è irregolare che, se non rimane zitto e buono e se non china la testa di fronte al padrone che lo sfrutta, può essere preso e rispedito nel suo Paese d'origine. Il CPR è un anello di una lunga catena di ricatti. A monte di questa lunga catena stanno gli accordi presi dall'Italia con Marocco, Tunisia, Algeria, Libia, Egitto e Nigeria. Ciò significa che gli uomini e le donne provenienti da questi Paesi sono quelli più a rischio. A Milano è prevista l'apertura di un CPR in via Corelli, zona Ortica, nella stessa struttura che fu bruciata dai reclusi nel 2013. Il "decreto sicurezza" (Salvini) nega ai richiedenti asilo l'iscrizione anagrafica, necessaria per il rilascio del certificato di residenza e del documento d'identità, presupposto per il godimento dei servizi sociali (es.: accesso all'edilizia pubblica, eventuali sussidi, iscrizione al servizio sanitario nazionale e a un centro per l'impiego): la catena dell'esclusione che termina col CPR si allunga e soffoca le vite di sempre più persone, ma in questo modo aumentano gli anelli in cui può essere spezzata. Che fare? Opporsi con ogni mezzo alla costruzione del nuovo CPR di Milano: solidarizzando con i reclusi nei CPR esistenti o ristretti in ogni grado della scala dell’accoglienza; tagliando i fili della ragnatela di interessi e complicità che rendono possibile il funzionamento del lager - enti gestori, fornitori di servizi e chiunque tragga profitto dalla sua esistenza. Bisogna capire, prima che sia troppo tardi, che non ci sono santi ai quali votarsi, né protettori. Nessuno può illudersi di salvarsi da sé: o tutti o nessuno!

Da fb Punto di Rottura - Chi ha amore e rabbia ci contatti
Volantino distribuito in alcuni Mercati di quartiere a Milano

QUALE RUOLO HANNO QUESTE STRUTTURE ATTUALMENTE
Lo scenario che ci si pone di fronte è diventato molto più complicato rispetto a qualche anno fa. Sgomberi di insediamenti informali, caccia all’emigrante nei luoghi di frontiera, perfezionamento delle operazioni di deportazione da un campo all’altro e fuori dall’Italia, studio approfondito dei dispositivi di controllo invisibile attraverso i centri d’accoglienza, aumento della repressione.
I CPR sono la punta di un gigantesco iceberg, fortificatosi con il peggiorare delle politiche repressive e di controllo. Tutte le leggi e le prassi di gestione dell’immigrazione, governo dopo governo, hanno sempre mirato a degli obiettivi comuni: produzione di una categoria-nemico (l’immigrato) sempre pronta all’uso in caso di bisogno; precarizzazione delle condizioni lavorative dei capri espiatori prima e di conseguenza del resto degli sfruttati; sperimentazione e incremento della repressione e del contenimento delle persone emigranti al fine di un più allargato rafforzamento delle forze di polizia.
In previsione del Corteo a Modena del 25 aprile 2019 contro i CPR e il Razzismo di stato
P.za della Pomposa – Modena – ore 15.00

DECRETO SICUREZZA SALVINI
In quest’ottica il DL Salvini (ormai legge 132) è perfettamente coerente col passato. Molte delle disposizioni introdotte legalizzano pratiche di fatto già attuate in precedenza e la continuità è evidente se consideriamo che le modifiche e le novità introdotte sono state possibili anche grazie allo “spazio di manovra” messo a disposizione dai governi precedenti e dalla richiesta di politiche securitarie voluta dall’UE. L’attuale governo, al di là delle continuità che può avere con quelli passati e con l’Unione Europea, ha due specificità. La prima è il rafforzamento e l’istituzionalizzazione in chiave autoritaria di strumenti e procedure giuridiche già presenti, e la legge 132 è una dimostrazione di ciò. Per ciò che concerne la parte immigrazione del decreto si assiste alla volontà di creare un contesto sociale oggettivamente inospitale ed espulsivo, in cui per chi emigra risiedere o attraversare l’Italia diventa quasi impossibile.
Elencando per punti:
• Aumento dei reati che portano al diniego e alla revoca della protezione internazionale.
• Stretta sulle tipologie di permessi di soggiorno (sempre temporanei).
• Introduzione lista paesi sicuri con relativa restrizione di chi avrà la possibilità di rimanere in Italia.
• Procedure accelerate in frontiera.
• Estensione a 30 giorni della durata di detenzione nei luoghi hotspot a fini identificativi.
• Possibilità di finire in un CPR direttamente da un luogo hotspot per continuare la procedura identificazione e nel caso agevolare l’espulsione.
• Maggiori finanziamenti per la costruzione e la manutenzione dei CPR.
• Aumento di luoghi finalizzati alla detenzione amministrativa (questure, zone di attesa, di transito, hotspot, ecc.)
• Tagli a progetti integrativi nel sistema accoglienza; liquidazione del sistema Sprar, indirizzamento degli emigranti nel sistema CAS; fine dell’accoglienza diffusa e rilancio dei grandi centri.
• Maggiori finanziamenti per espulsioni e deportazioni.
Le nuove disposizioni sono tutte collegate tra loro in una grande rete di coerenza razzista e coloniale, che porta un maggior controllo su chi emigra, alla sua criminalizzazione, clandestinizzazione e dunque a una maggior sfruttabilità. Il discorso su un peggioramento delle condizioni di vita, sulla base della legge 132, può essere fatto anche per altre categorie sociali, basti vedere le misure in merito alle occupazioni di case, all’accattonaggio, all’irrigidimento del daspo, al rafforzamento dei poteri della polizia municipale e l’aumento delle pene per i blocchi stradali (questi ultimi volti a colpire quelle pratiche del conflitto sociale tipiche delle lotte della logistica), così come ai prossimi inasprimenti delle pene inerenti i reati verso il patrimonio e più in generale la modifica della legge sulla “legittima difesa”.
Attualmente si assiste alla produzione di un discorso pubblico dichiaratamente autoritario e razzista da una parte protegge le istituzioni nell’uso dei propri poteri; dall’altra crea nella società quel clima di insicurezza e rancore assolutamente funzionale a rafforzare quei soggetti che sono in grado di autorappresentarsi come garanti di giustizia e sicurezza, in questo caso lo Stato. Leggi e discorsi xenofobi porteranno gli sfruttati a frazionarsi ulteriormente e a cercare rassicurazioni nell’unico punto di riferimento che vedono, attualmente il ducetto di turno, in futuro lo Stato in toto. In questo orizzonte i CPR rappresentano sia lo strumento di internamento e ricatto più visibile nei confronti di una parte della popolazione, sia l’espressione del discorso forte che lo Stato vuole fare in tema sicurezza e immigrazione. Ciò li rende ancora un obiettivo prioritario del nostro attacco.

IL CPR DI MODENA
L’ex CIE di Modena è sempre stato all’avanguardia in tema di controllo. Una struttura particolarmente restrittiva per gli internati e modello per le successive strutture. È poi stato chiuso da una serie di rivolte. L’amministrazione comunale e il governo ne hanno annunciato la riapertura a giugno con il nuovo nome, CPR.
È essenziale rendere chiaro che, al di là di come sarà la struttura, che la si apra o meno, che funzioni o meno, esiste chi resta indisponibile alla sua presenza e che porta avanti una critica radicale al CPR e al mondo che rappresenta.
La società finanziaria Alba Leasing è attualmente proprietaria della struttura del futuro CPR di Modena. I soci partecipanti sono quattro banche (BPER, BPM, Credito Valtellinese, Banca Popolare di Sondrio), su di esse si è diretta l’attenzione in merito al discorso delle responsabilità.
Il contesto emiliano e modenese è inoltre caratterizzato da una rinnovata proliferazione delle formazioni neofasciste. Se il sottobosco razzista dell’“aiutiamoli a casa loro” è una polveriera reazionaria, i fascisti organizzati rischiano spesso di fare da scintilla. La diffusione degli episodi di violenza contro “stranieri” e “diversi” è preoccupante. Gli incendi di baracche, bivacchi, roulotte o strutture in cui dormono gli emigranti non si contano più, così come gli altri episodi di violenza. Lasciare che i neofascisti si riorganizzino è pericoloso, occorre capire come si muovono, contrastarli, organizzarsi e stroncarne l’avanzata. In un territorio tradizionalmente a loro ostile, come l’Emilia-Romagna, Modena è la città su cui costoro hanno scelto di provare a convergere e mettere radici. Da qualche anno a Modena esiste Terra dei Padri, centro sociale di destra sul modello di Casaggì a Firenze, uno spazio in cui sono di casa tutte le anime dell’estrema destra da Lealtà Azione, passando per Veneto Fronte Skinhead arrivando a Forza Nuova. Il progetto è quello di dare agibilità a quei gruppi e formazioni neofasciste che sul territorio non hanno uno spazio, ma che su quello stesso territorio già lavorano. Il tentativo è per quei gruppi quello di passare da una presenza periferica, nella provincia e nei paesi, a una all’interno di una città strategica per l’Emilia, in cui far confluire militanti da tutta la regione della Padania limitrofa. Una lotta contro il razzismo di Stato in questa città non può non tenere in considerazione questa dimensione di contrasto.
Scendiamo in strada il 25 aprile contro tutto ciò.
Solidali con chi è prigioniero perché ha lottato e si è ribellato contro tutto ciò.
OPPORSI AI LAGER DI STATO!
OPPORSI AL RAZZISMO E ALLO STATO DI POLIZIA!
OPPORSI AI FASCISTI!
CONTINUARE A LOTTARE!

Tratto da “Riflessioni sparse per un percorso di lotta contro i Cpr” - Bologna, 2019


NOTA SULL’ULTIMA DI SALVINI, LA DIRETTIVA SUI NUOVI POTERI DEI PREFETTI
La Circolare Direttiva di Salvini, del 17 aprile 2019, consegna ai prefetti poteri straordinari quando i nuovi strumenti, come il Daspo urbano del suo stesso Decreto Sicurezza, non funzionano abbastanza. Allora, zone rosse più rapide da istituire per tenere lontani gli indesiderabili fastidiosi. I prefetti potranno disporre l'allontanamento delle persone individuate "nei centri urbani caratterizzati da una elevata densità abitativa e sensibili flussi turistici oppure che si caratterizzano per l'esistenza di una pluralità di istituti scolastici e universitari, complessi monumentali e culturali, aree verdi ed esercizi ricettivi e commerciali", insomma ovunque si decida di voler fare piazza pulita in fretta senza aspettare i sindaci.
La direttiva invita i prefetti a convocare subito i Comitati per l'ordine e la sicurezza pubblica per individuare ed emanare le ordinanze antidegrado ritenute necessarie e indifferibili. I prefetti dovranno inviare ogni tre mesi relazioni sul monitoraggio condotto e sulle ricadute delle ordinanze adottate.

Sabato 13 aprile, 6 persone hanno tentato la fuga dal CRA (l’equivalente dei CPR in Italia) di Saint-Exupéry a Lione. 3 di loro ci sono riuscite, le altre 3, pestate dalle guardie, sono passate dall’ospedale alla custodia cautelare prima di essere recluse di nuovo nel CRA. Questo lunedì, 15 aprile, una persona ha tentato di suicidarsi.
Tratto da hurriya.noblogs.org
Brevi aggiornamenti dal Sistema Campo
I CAMPI DI SAN FERDINANDO E BORGO MEZZANONE (8/4/2019)
Nel corso degli ultimi mesi, in tutto il paese, si sono intensificati sgomberi di molti luoghi occupati e baraccopoli, accompagnati da deportazioni da un (non) luogo a un altro di migliaia di persone, principalmente immigrate e rom. In questo quadro generale ai grandi ghetti calabresi e pugliesi viene dedicata un’attenzione particolare. Difatti in questi posti – come più volte è stato raccontato – da diversi anni si mettono in campo le più “sofisticate” e aberranti sperimentazioni sia rispetto alla gestione della manodopera, prevalentemente immigrata, necessaria soprattutto nei periodi di raccolta, dove si gioca tutto sulla velocità della prestazione lavorativa, sia rispetto alla realizzazione e gestione dei campi, per lavoratori o per immigrati, alla fine poco importa. L’importante è spostare le persone, così si muovono anche i soldi.
A San Ferdinando, terminato lo sgombero, da una tendopoli a un’altra, il comune e la prefettura sembrano aver rimosso il “problema tendopoli”, o meglio scelto di ignorarlo. Due settimane dopo la morte di Noumou, imprigionato dalle fiamme nelle “tende ignifughe” della Protezione Civile, il sistema elettrico della tendopoli rimane pericolante e privo di salvavita, l’acqua calda continua a mancare ed è difficilissimo cucinare. In tutto ciò, sempre più persone vengono cacciate dalle tende con criteri totalmente arbitrari e che variano di continuo: alcune sono state mandate via perché in possesso del tipo sbagliato di permesso di soggiorno (un permesso di sei mesi e non un permesso umanitario…), mentre altre hanno perso il posto dopo essersi allontanati per tre giorni per lavorare altrove, con la motivazione di essere state assenti durante un “appello” fatto senza preavviso. Peggio che in caserma. Mentre delle case vuote di contrada Serricella, costruite appositamente per i braccianti agricoli stagionali, non si parla più, e nemmeno dei container sui quali fino ad un paio di settimane fa si erano fatte numerose riunioni tra Regione, sindaci, sindacati e associazioni varie. Riunioni che evidentemente, ancora una volta, non hanno portato a nulla. L’unico fronte su cui le istituzioni non faticano a muoversi è quello della repressione: sempre più frequenti in questi giorni sono stati i controlli nelle aziende agricole che spesso, invece di indirizzare verso una regolarizzazione dei rapporti di lavoro e dei contratti, hanno avuto come esito l’espulsione dei lavoratori senza permesso di soggiorno, che quindi hanno perso il lavoro senza che gli venisse data la possibilità di regolarizzarsi. Questi sono gli effetti della celebratissima ‘legge sul caporalato’.

A Foggia, la situazione non è molto diversa. Quest’anno il ghetto sotto attacco è quello dietro il campo di Borgo Mezzanone, la pista dove, da un paio di mesi le ruspe, sorvegliate da poliziotti ed esercito, stanno smantellando edifici e baracche adibiti ad attività commerciali, spesso illecite (!). Nella realtà la distruzione di luoghi che fungevano anche da abitazione per molte persone che ora si trovano nuovamente costrette a vivere una precarietà sempre più pericolosa, poiché lasciate senza alcuna alternativa. Questo vale in maniera ancor più eclatante per le donne, che non sono nemmeno formalmente contemplate nei progetti di rialloggiamento (progetti ovviamente autoritari, repressivi e per nulla risolutivi). Insieme alle attività di sgombero compaiono anche qui – come in Calabria da tempo – le operazioni di censimento di chi vive nel ghetto. Esercito e Croce Rossa raccolgono nomi e documenti, con la solita vaga spiegazione di offrire luoghi più “dignitosi” dove andare a vivere: ovviamente si tratta di altri campi di container o di tende, isolati, lontani da tutto, luoghi ideali per essere sfruttati 24 ore su 24.
Tutto questo senza dimenticare il recente omicidio di Daniel [ucciso il 28 marzo in città a Foggia], le cui dinamiche sono state distorte in funzione razzista e minimizzante, dimostrando ancora una volta quanto le vite degli immigrati siano spendibili e ignorabili.
Ci siamo stancati di contare le morti di persone uccise dal razzismo e dallo sfruttamento, eppure sembra che in molti si siano abituati, come se ci si rassegnasse all’impossibilità di cambiare la situazione. Il momento è difficile, lo sappiamo molto bene, ma sappiamo anche che la rabbia e la voglia di prendersi tutto è tanta, serve solo tempo.
Vogliamo documenti, case e contratti! Vogliamo tutto!

SAN FERDINANDO: ANCORA UN ALTRO MORTO NEI LAGER DI STATO: MALEDETTI ASSASSINI!
Anche oggi (22 marzo 2019) la giornata inizia con immensa rabbia e dolore. Il feroce business dei lager di Stato ci ha portato via un altro fratello. Non conosciamo ancora il suo nome perché l’ordine è quello di non far avvicinare nessuno, per coprire l’ennesima strage e le forze dell’ordine hanno sequestrato i telefoni per evitare ogni forma di testimonianza. Il giovane uomo, che aveva circa 20, è morto bruciato vivo per un corto circuito del sistema elettrico, che dal giorno dello sgombero non ha mai funzionato. Infatti le persone che erano costrette a vivere nell’ennesima (nuova ) tendopoli, da diversi giorni stavano facendo pressione sul sindaco di San Ferdinando perché venisse a far riparare la corrente, per avere almeno luce e l’acqua calda, soltanto ieri i tecnici si sono presentati e questa mattina avrebbero dovuto finire i lavori…
Che il dolore si trasformi in rabbia, pagherete tutto!

Testi tratti da “Campagne in lotta”

26 APRILE, BORGO MEZZANONE, MUORE UN RAGAZZO DI 26 ANNI
Un ragazzo di 26 anni originario del Gambia, da poco tempo trasferito alla baraccopoli dall’adiacente centro per richiedenti asilo, è morto carbonizzato per un rogo scoppiato nella baracca in cui dormiva. La sua domanda di asilo era stata respinta ed era così stato reso clandestino

***
FOGGIA: CONTRO GLI SGOMBERI, PER CASA, DOCUMENTI E CONTRATTI
Sono diversi mesi che nella baraccopoli di Borgo Mezzanone vediamo le ruspe e centinaia di uomini delle forze dell’ordine, venuti per distruggere le nostre case, costruite con fatica per trovare riparo dopo una giornata di duro lavoro in campagna. La chiamano “Law and Humanity”, ma di umano questa operazione non ha proprio nulla. Ci trattano come animali, o nella migliore delle ipotesi come bambini stupidi. Dicono che è colpa nostra, che siamo criminali, che ci piace vivere nei ghetti, che non vogliamo accettare le proposte della Prefettura. Ma con noi non è venuto nessuno a parlare, a spiegarci quali sarebbero le alternative abitative di cui parlano i media. A meno che, quando dicono che sono venuti a parlare con noi, non si riferiscano a quella volta che la polizia si è presentata insieme alla Croce Rossa per distribuire coperte e articoli per l’igiene personale in cambio del nostro nome e cognome su una lista. A cosa servisse la lista, non ce l’hanno spiegato. Dicevano che fosse per i documenti, ma sappiamo che si tratta di menzogne: è dal 2015 che chiediamo la regolarizzazione per chi si spacca la schiena nelle vostre campagne, ma i fatti parlano da soli. Pochissimi sono riusciti ad avere quei documenti, quasi nessuno a Borgo Mezzanone. È come se la Prefettura e la Questura volessero tenerci in questo stato di irregolarità, che fa comodo a chi ci sfrutta. Per poi sgomberarci e lasciarci in mezzo ad una strada, a trovare un altro ghetto, per fare un favore ai politici che fanno campagna elettorale sulla nostra pelle, vantandosi di voler distruggere le nostre case qui a Borgo, come è già successo nel 2017 al Gran Ghetto e pochi mesi fa alla tendopoli di San Ferdinando. Le autorità sanno benissimo che darci i documenti è il primo passo necessario per svuotare i ghetti.
Ma se pensano che ci faremo incantare dai loro specchietti, hanno fatto male i conti. Il 6 maggio gli abitanti della baraccopoli di Borgo Mezzanone, e di tutti gli altri ghetti, saranno in sciopero. Sappiamo benissimo che senza di noi, l’economia di questa provincia, come di molte altre parti d’Italia, crollerebbe. È grazie a noi che le aziende agricole possono rimanere a galla anche davanti alle pratiche ricattatorie della grande distribuzione. Viviamo e lavoriamo in questo territorio, costretti ad accettare condizioni durissime, e meritiamo di essere trattati con rispetto – dalla polizia, negli uffici, per strada. Vogliamo vivere tranquilli. Il nostro lavoro deve essere pagato il giusto, dobbiamo avere i documenti per essere liberi di muoverci, e chi trae profitto dal nostro lavoro deve garantirci il trasporto e l’alloggio! Conosciamo bene le vostre leggi, le leggi che voi stessi non rispettate. Fino a quando non avremo ottenuto risposte reali e soddisfacenti, non ci fermeremo. Ora basta!
DOCUMENTI, CASA, CONTRATTI PER TUTT*! NO AGLI SGOMBERI, NO AI CAMPI! WE STILL NEED YES!

Da Campagne in lotta


Lettere dal carcere di Verona
Il carcere di Verona fa ancora vittime. Oggi, il 06/02/19, neanche 2 mesi dopo la morte di un tunisino, è arrivato il turno del nigeriano Adelalaja Aboduntin, un 45enne arrestato da poco. Dicono che si è suicidato perché troppo fragile per accettare la tortura psicologica del sistema. Ed ho assistito a una scena terribile che venuto nella nostra sezione pestato dalle guardie che gli hanno spaccato la caviglia, finché con un ferro gli hanno lasciato lividi in tutto il corpo, volevano uccidere anche lui.
Non so com'è finita. Io da domani comincio uno sciopero della fame. È una protesta individuale affinché venga fatta chiarezza su questi terribili fatti.

metà febbraio 2019
Eddi Karim, via S. Michele 15 - 37144 Verona

***
Ciao, innanzitutto vi ringrazio per l'opuscolo, per il vostro sostegno, ringrazio Dio che voi esistete.
Io sono ancora qua nel lager di Verona, dove come al solito regna l'abuso di potere, di autorità, di ricatti e istigazione al suicidio da parte della direttrice e dell'ufficio comando e dei loro scagnozzi. Negli ultimi 8 mesi ci sono state sei (6) morti, cinque ragazzi e una ragazza alla quale avevano bloccato il colloquio interno con suo marito.
Per dirla tutta il carcere di Verona produce morti, ovvio, visto che i detenuti che si trovano qua sono quasi tutti merdosi. Per tutti i morti non c'è stata nessuna reazione dei detenuti, neanche una battitura pacifica, niente proprio niente sia nel maschile che nel femminile. Sono l'unico che si ribella in questo schifoso posto. Detenuti e detenute schiavi lavorano quasi tutti in una coop di assemblaggio che si chiama 'Lavoro e Futuro', per 120 euro al mese, 6 ore di lavoro al giorno per 6 giorni su 7: paga di 5 euro al giorno.
Addirittura, se rifiuti di lavorare, ti fanno rapporto. Ovvio, io non faccio parte dei lavoratori, preferisco mangiare dal carrello e fumare tabacco e l'isolamento, piuttosto di essere schiavo, e non è una novità, noi anarchici non lavoriamo, siamo esclusi dalla graduatoria – fanculo al loro sistema di merda. Scusatemi la parolaccia, sono sempre più arrabbiato. Sono preoccupato, per il mio compagno di cella, un ragazzo tunisino, e per la sua fidanzata che è qui nel femminile: gli hanno sospeso il colloquio per un rapporto di merda.
Oggi ho anche ricevuto una lettera da Davide dal carcere di Augusta che mi ha fatto tanto piacere. Sono contento che Maurizio Alfieri sia finalmente fuori, rimane sempre un amico, un fratello compagno che ci ha insegnato tanto, e sono fiero di averlo conosciuto nel 2009 proprio qui al carcere di Verona. Abbiamo condiviso tante battaglie, senza dimenticare ovviamente Davide e Pasquale e tutti i compagni in lotta.
Io vi reputo una famiglia e sono contento di essere uno di questa famiglia, viva la lotta e fuoco alle galere!
Saluto tutt* compagn* e li invito a non mollare mai… un saluto a pugno chiuso anarchico
Eddi Karim, aspetto una vostra lettera

13 marzo 2019
Eddi Karim, via S. Michele, 15 - 37144 Verona


L’inferno del carcere di Viterbo
Dal contatto con compagni e compagne che con frequenza fanno presidi fuori dal carcere per incontrare parenti ed amici dei detenuti, sono arrivate notizie molto pesanti. Si parla di un carcere punitivo che fa delle minacce, dei pestaggi e delle morti la sua quotidianità. Si fa riferimento ad almeno tre squadrette addette a queste azioni.
Il carcere di Mammagialla di Viterbo, in cui sono rinchiusi 548 prigionieri, più della metà stranieri, al suo interno è una macchina che produce morte. Sembra che i cosiddetti “suicidi” siano i più alti d’Italia, almeno 3 all’anno. L’ultimo è stato Hassan “suicidato” a 21 anni poco prima della sua scarcerazione.
La gravità di questa situazione ha portato anche ad un’inchiesta giornalistica che è comparsa su Rai 2 nella quale sono state raccolte diverse testimonianze dei detenuti di cui riportiamo alcuni stralci.
“È un inferno in terra, le persone sono trattate in modo abominevole, mi sono sentito perso. In isolamento c’è una sporcizia indicibile, sudiciume indescrivibile e sangue ovunque, nel lavandino e sui muri”.
"Sono stato malmenato dalle guardie, picchiato talmente forte da farmi perdere la vista all'occhio destro”.
"Tu qua muori!".
"Qui hanno quasi 3 squadrette solo per menare i detenuti”.
“Mi hanno portato per le scale centrali e hanno cominciato a picchiarmi: calci, schiaffi e pugni. Poi ne sono arrivati altri con il viso coperto. Vedevo solo i loro occhi. Erano in 8/9 mentre mi menavano dicevano: "Noi lavoriamo per lo stato italiano, negro di merda! Perché non ritorni al Paese tuo”.
Nelle lettere si fa riferimento alla sezione d'isolamento come il luogo in cui accadono le violenze, in modo particolare ad una scala dove non ci sarebbero le telecamere di sorveglianza e che porterebbe alla sezione di isolamento.
Proprio in questo carcere punitivo è stato recentemente trasferito Paska, un compagno che non ha mai chinato la testa e che certamente si è sempre contrapposto alle guardie.

Pubblichiamo di seguito un volantino distribuito ai familiari in occasione dei colloqui al carcere Mammagialla di Viterbo.

É ormai da qualche mese che veniamo davanti al carcere di Mammagialla per incontrare le persone che vengono per fare i colloqui. Siamo persone che vivono nel viterbese e non ci fa affatto piacere che vicino casa nostra ci sia un luogo come questo. I carceri per loro natura sono luoghi fatti per annientare personalmente e socialmente le persone. Prima con politiche di esclusione sociale ci impoveriscono e isolano, poi ci rinchiudono e marchiano a vita se cerchiamo di tirare a campare nei modi che lo stato ha dichiarato illegali. Chi cerca di migliorare la propria vita depredata da un sistema ingiusto finisce facilmente nelle celle della cosiddetta giustizia, dove spesso a suon di botte e privazioni di ogni tipo lo stato tenterà di rieducarlo al rispetto delle regole che ci impongono sfruttamento sul lavoro, quotidiana miseria, repressione e controlli ovunque.
Sappiamo che avvengono spesso pestaggi da parte delle guardie carcerarie, che il vitto é caro perché hanno il coraggio di speculare anche su chi é privato della libertà, che la burocrazia del carcere è volutamente lunga, difficile da capire, estenuante.
Nel carcere di Viterbo muoiono 3 persone ogni anno nell'indifferenza generale.
Il DAP (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, articolazione del ministero della giustizia cui spetta il governo delle carceri) qui non si fa alcuno scrupolo democratico a mostrare il proprio volto più vero e violento. Dalla sua inaugurazione come carcere di massima sicurezza, oggi Mammagialla è considerato dalla stessa amministrazione penitenziaria un carcere punitivo in cui ammassare i detenuti "ingestibili". Tra questi, chi ha mostrato in altre carceri di non voler subire passivamente la violenza delle guardie e gli abusi della burocrazia; chi ha problemi psichiatrici, di tossicodipendenza o malattie gravi; stranieri. Ed ecco che il carcere appare distintamente per quel che è: un contenitore di marginalità sociali create da un contesto in guerra coi poveri con politiche sociali ridotte all'osso, politiche sul lavoro al ribasso e repressione e controllo per tutti.
Al Mammagialla più della metà dei detenuti è di origine straniera e questo non può che spiegarsi alla luce della crescente criminalizzazione dell'immigrazione per mezzo di decreti che associano la sicurezza sociale alla repressione dell'immigrato. Mentre ci impoveriscono tutti, lanciano campagne di allarme sociale che indicano nello straniero il nemico contro cui accanirsi per distogliere l'attenzione dal politico, dal banchiere, dal militare, dal datore di lavoro, da chiunque si riempie le tasche con il nostro sudore e la
nostra oppressione.
Al Mammagialla è presente anche una sezione per il regime 41 bis, un vero e proprio regime-tortura in cui le ore d'aria sono solo due nell'arco dell'intera giornata e sono trascorribili in gruppi di socialità imposti dal carcere stesso; i colloqui sono limitatissimi e disumanizzati dalla presenza di invasivi divisori; le udienze in tribunale avvengono tramite videoconferenza. Il magistrato di sorveglianza del Tribunale di Viterbo ha mostrato un particolare accanimento imponendo ai detenuti in 41 bis l'interpretazione restrittiva del provvedimento che limita a due le ore d'aria: così a Viterbo (e purtroppo anche in altre carceri) in queste due ore sono incluse anche le ore dedicabili alle cosiddette attività risocializzanti.
Per affermare la propria esistenza e resistenza di fronte a continue vessazioni, violenze e intimidazioni, i detenuti ovunque protestano: individualmente con atti di autolesionismo e scioperi della fame, ma anche con proteste collettive e solidarizzando tra loro.
Eppure le voci cui viene dato spazio quando si parla di carcere sono sempre solo quelle dei secondini, persone che invece di vergognarsi di un lavoro infame di carcerieri, reclamano a gran voce più tutele, dipingendo un carcere alla rovescia in cui pochi sfruttati carcerieri subiscono i soprusi dei detenuti.
Non vogliamo più ascoltare in silenzio queste assurdità. Vogliamo ascoltare e dare eco alle voci di chi là dentro é rinchiuso e a quelle dei familiari stanchi della difficile burocrazia del carcere e dei viaggi interminabili e costosi verso un carcere isolato. Abbiamo pensato di incominciare un percorso per dare visibilità alla situazione di violenza perpetrata dentro queste orribili mura e abbiamo deciso di cominciare dai familiari che vengono a fare i colloqui con i propri cari. Le mille difficoltà sono spesso nascoste dalla vergogna per lo stigma sociale legato al carcere e dalla stanchezza per le lunghe attese, per le pretese assurde dell'amministrazione carceraria, per i viaggi della speranza verso questo posto.
Pensiamo che il primo passo per migliorare la condizione dei detenuti sia quello di sollevare l'attenzione sulla situazione reale del carcere di Mammagialla. Se fuori ci sono persone che ascoltano, si informano, si confrontano e manifestano interesse e rabbia, forse chi adesso propina con facilità dinieghi e ostacoli ai familiari e isolamenti e punizioni ai detenuti si sentirà osservato.
Insieme a voi vorremmo andare a portare la nostra rabbia davanti al tribunale di Viterbo, in cui ha sede l'ufficio del magistrato di sorveglianza competente per i carceri di Viterbo e Rieti. Il magistrato di sorveglianza è responsabile del presunto percorso di rieducazione dei detenuti e della tutela dei loro diritti attraverso costanti colloqui in carcere per riceverne i reclami circa l'operato dell'amministrazione penitenziaria. É ancora il magistrato di sorveglianza il responsabile della concessione dei permessi per colloqui, ricoveri, visite mediche... É questa figura a decidere circa
la censura sulla corrispondenza, a provvedere al riesame della pericolosità sociale e alla conseguente applicazione delle misure di sicurezza, a decidere le eventuali espulsioni di detenuti stranieri, a concedere le misure alternative.
Cosa dice questa persona quando muore un detenuto? Ad agosto 2018 un ragazzo di 21 anni é stato trovato morto nella cella d'isolamento a pochi giorni dalla scarcerazione. Il magistrato avrebbe dovuto ascoltare le sue denunce circa i pestaggi subiti in carcere e quantomeno applicare la legge che avrebbe previsto che quel ragazzo scontasse la pena in un carcere minorile. Ora lui é morto e nessuno si sente responsabile.
Il confine tra dentro e fuori a volte é molto sottile e per questo ci sentiamo coinvolti in prima persona.
Vogliamo rompere l'isolamento e l'invisibilità di chi resiste ogni giorno dentro le odiate mura del carcere, massima incarnazione di un'oppressione sociale che ci riguarda tutti e tutte. Vorremmo farlo con voi in un percorso che faccia sentire la nostra presenza solidale a chi é rinchiuso, la nostra rabbia e determinazione a chi rinchiude, picchia, uccide.

Fuori dal tribunale di Viterbo per il giorno 19 aprile è stato indetto un presidio per far sapere quanto accade dentro a Mammagialla e rendere chiaro chi sono i responsabili


Il carcere oggigiorno: riguardo il rapporto detenuti-secondini
Il carcere odierno propone un'infinità di possibilità trattamentali e agevolazioni rispetto a quello degli anni '70, '80 e '90, ovvero il carcere negli anni dove sostanzialmente ci sono stati moti, rivolte e conquiste di diritti fino a prima inesistenti.
Chi scrive probabilmente non può neanche lontanamente immaginarsi concretamente la realtà che i detenuti vivevano all'epoca dato che, essendo in carcere da meno di un anno ed avendo girato solo 3 carceri, l'idea che si è fatto può essere fuorviante rispetto al resto delle prigioni italiane (parlerò solo di queste dato che per fortuna, fino ad ora, non sono mai stato in carcere all'estero).
All'oggi, innanzitutto si può fare una prima divisione delle carceri in base ai regimi applicati, ovvero quelli detentivi aperti o chiusi. Essere a regime aperto vuol dire che si può liberamente girare in sezione dalla mattina fino all'orario di chiusura, che varia da carcere a carcere in base ai regolamenti stabiliti dalla direzione e da comandanti e ispettori: per esempio, in alcune carceri si è aperti dalle 7 alle 21, dalle 7 alle 19, dalle 8:30 fino alle 17:30, o dalle 8:30 fino alle 16 e poi si può fare socialità nelle stanze degli altri, aperti tipo orario negozio 8:30-12:00/13:00-17:30... Insomma, non c'è un criterio comune, carcere che vai orario che trovi! Essendo aperti, si può dunque andare nelle celle degli altri a giocare a carte, bersi un caffè, andare in qualsiasi orario in doccia o in “saletta”, risalire all'aria (solitamente 9-11/13-15) a qualsiasi ora... Questo è, più o meno; molte volte, le guardie provano a farti firmare incartamenti chiamati “PATTO RESPONSBILITA'” o senza neanche accennartelo lo danno per assodato che sei responsabile e collaborerai se noterai situazioni “strane od illegali” in sezione. Ma questo argomento lo riprenderemo dopo.
A regime chiuso, invece, solitamente si sta sempre in cella e si hanno gli orari d'aria per uscire (come già detto approssimativamente 9-11 e 13-15) più la socialità (16/16:30-17:30/18:00 o giù di lì), oltre all'immancabile passeggiatina per la doccia (se ce l'hai in cella, neanche quella) o la telefonata (dove, anche se hai chiamato il giorno prima, ci provi uguale per sviare la noia di star chiusi).
Logicamente, ci sono anche carceri dove ci sono entrambi i regimi, od anche alcuni con regimi aperti ma se ti comporti male o sei considerato troppo pericoloso per andare in sezione, rimani in apposite sezioni, talvolta miste ma non sempre, insieme ai nuovi giunti o ai transitanti.
E' difficile fare un'analisi piena, ma dal poco di esperienza che mi sono fatto, solitamente nelle sezioni a regime chiuso c'è sempre un rapporto differente o comunque più conflittuale con i secondini rispetto a quelle aperte dato che, banalmente, se ti serve avere informazioni dal carceriere riguardo, ad esempio, una chiamata o i colloqui, devi gridare, rigridare, aspettare, a richiamare urlando e magari pure sbattere porte o blindati… Quindi, instaurare un rapporto confidenziale con i porta-chiavi (come loro stessi si autodefiniscono) è più complicato... o almeno, opinione mia, è molto meno facile rispetto un regime aperto dove talvolta pare quasi annullarsi la differenza tra le due figure che al posto di vivere in contrapposizione costante diventano quasi solidali a vicenda. Certo, la buona condotta, la premialità, la confidenza con le guardie per mettere in cattiva luce altri reclusi o quella che io chiamo l'infameria (ovvero andare in infermeria dopo il carrello serale, che diventa una scusa per andare a riportare i fatti a preposti od ispettori...) possono sicuramente registrarsi anche da dietro i blindati chiusi, ma magari le percentuali sono probabilmente più basse, anche perché a regime chiuso hai anche meno da perdere.
Sì, perché questo è il ragionamento di molti detenuti che sono aperti durante la giornata...“Eh, ma dopo ci chiudono, eh ma dopo non mi danno più il lavoro, eh ma dopo perdo i giorni”. Il paradosso di girare in sezione con i guardiani fianco a fianco è, oltre appunto questa cosa appena citata, il fatto che saluti la guardia come fosse un tuo amico (ma se mi chiude a chiave in 3mt per 2 come faccio ad esserci amico?) ci scherzi, ti ci confidi, se hai problemi in famiglia magari parli con lui piuttosto che con un detenuto.
Consideri più leale una guardia di un detenuto, perché la guardia ti fa i favori se ti comporti bene, magari ti fa inserire bene nella lista del lavoro, ti fa passare cibo dal pacco che altrimenti non entrerebbe, e capace che ti butta pure scartina perché viaggia (questa la lasciamo alla comprensione dei carcerati e delle carcerate).
Insomma, si annulla il rapporto carcerato-carceriere, si annulla il fatto che loro sono sbirri che portano comunque avanti il sistema carcere, senza il quale tra l'altro noi detenuti/e non saremmo incarcerati, ma liberi (più o meno..); li si umanizza dicendo le solite frasi: “è un lavoro come un altro” o “questi si fanno più carcere di noi”, fin quasi a offrirgli il caffè o farli entrare in cella. E poi non si contano i “li rispetto perché mi hanno sempre aiutato e trattato bene”: sì, ma sono sempre tutti colleghi di quelli che picchiano altri detenuti, li uccidono di botte e poi fingono suicidi, e portano una divisa, quindi no che non siamo uguali! E no che loro non si fanno la galera, dalla parte delle sbarre, rinchiusi e senza chiavi ci siamo noi, e non loro, che quando vogliono possono tranquillamente andarsene! Noi invece siamo costretti a uscire quando loro ci aprono. C'è differenza, o forse sbaglio?
Per non parlare della visione del carcere migliore, che offre mille corsi/lavori/opportunità per il recupero del detenuto che, se modello, prenderà i giorni ed usufruirà dei benefici: basta bendarsi gli occhi, tapparsi il naso e chiudersi la bocca quando si vedono abusi, soprusi, pestaggi, malefatte, ecc. ecc...
Con queste scuse, tra l'altro, si prova a fare leva e si saggia la resistenza addormentata dei detenuti, facendo continue prove e vedendo reazioni inesistenti: da 75 a 45 giorni di liberazione anticipata (discorso valevole per chi è interessato a prendere i giorni), firma di patti di responsabilità (un po' come le APP per denunciare i reati fuori, ma dal vivo!), inserimento di 58/ter in sezione (i cosiddetti collaboratori di giustizia interni alle carceri) ecc. ecc... Però nella spesa, se manca quel dolce o quel profumo allora si può fare la battitura; se la fai per i tuoi diritti, allora sei un rompicoglioni (concedetemi il termine).
Scusate i mille esempi ed il discorso un po' ridondante e prolungato, che proverò a concludere... iniziando con una frase fatta: il carcere è lo specchio della società. Se ciò è vero, la struttura carceraria in sé è appunto l'emblema massimo e la rappresentazione della società perfetta, sotto forma di rispetto dell'autorità, dell'essere diligenti e bravi con buona condotta, servizievoli e confidenziali. Quello che il carcere vuole fare oggi è qualcosa di più della semplice riabilitazione del detenuto, in quanto componente illegale della società, a livello comportamentale: lo vuole trasformare in un vero e proprio amico e confidente delle guardie, in qualcuno che porta rispetto all'autorità, perché gli agenti “eseguono solo gli ordini, è un lavoro come un altro, io ce l'ho con i magistrati, non con loro!”. Lavora ai fianchi, in maniera psicologica, cercando di far passare l'idea dell'accettazione dell'uguaglianza di chi sta dietro le sbarre e di chi le chiude ogni notte, di chi ci controlla e monitora, di chi ci autorizza a scendere all'aria, ecc... Accettare lo sbirro, accettare l'infame sia dentro che fuori la galera, il patto di responsabilità e la responsabilità del cittadino nella società; due facce della stessa medaglia che sarebbe giusto svelare. Certo, non lo si può fare solo da fuori le mura che ci imprigionano, ma si deve partire da dentro di nuovo con questi ragionamenti: sia ben chiaro, c'è anche chi lo fa per mangiare un po' di merda, uscire prima possibile e fare falsa politica e buona amministrazione, e non cade nel loro tranello perché sa bene dov'è la verità; ma si deve star ben accorti, perché dal saluto come forma di rispetto all'uomo o donna dietro la divisa, all'accettazione della divisa come unico strumento per agevolazioni fino alla libertà, il passo è veramente breve. Conclusione? Mai fidarsi di uno sbirro, qualsiasi divisa indossi! La disoccupazione t'ha dato un bel mestiere, mestiere di merda il carceriere!
Un detenuto.

Scritto a metà novembre, inviato varie volte, mai arrivato. Pubblicato su Aracne, bollettino anticarcerario n. 1 (febbraio 2019)


Lettera di Antonio dal carcere di Parma
Salve a tutti di Ampi Orizzonti, ho saputo che potevo ordinare qualche libro e così eccomi qua nel richiedere due libri; voi fate ciò che dovrebbe essere normale per il sistema Paese, come si dice la cultura circolare. Ma per lo stato se non hai possibilità a parole nessuno viene escluso, ma nei fatti se non hai di che vivere pensi alla scuola?!, beato chi vive di retorica, la realtà è questa vissuta.
Va bè, vi saluto con stima per tutto quello che fate.
Un abbraccio circolare a tuti i compagni di Ampi Orizzonti. Antonio. Grazie per quello che fate.

(inizio di marzo 2019)
Antonio De Feo, via Burla 59 - 43122 Parma


Aggiornamenti su alcuni processi
PROCESSO A MILANO, DOMUS LIBERA
Il 2 aprile è iniziato il processo per direttissima per gli 8 arrestati, ora liberi con obbligo di firma tre volte a settimana, del 13 dicembre 2018. Sono accusati di associazione a delinquere (art. 416) legata a occupazioni nel quartiere Giambellino. Gli avvocati difensori hanno sollevato delle eccezioni rispetto alle quali il pm si è preso tempo. Il processo quindi riprenderà il 7 maggio, udienza in cui il pm replicherà e il 14 maggio, udienza nella quale si esprimerà il giudice.

SCRIPTA MANENT
Processo per associazione sovversiva con finalità di terrorismo e reati specifici definiti attentati. I compagni e le compagne sono in carcere da settembre 2016.
Il 24 aprile 2019 è arrivata la sentenza allucinante, che fa tremare le vene ai polsi: condannati i compagni anarchici Alfredo a 20 anni, Anna a 17 anni, Nicola a 9 anni, Alessandro e Marco a 5 anni. Assolti gli altri imputati e imputate.
Per scrivere:
Anna Beniamino, CC de l’Aquila, Via Amiternina n.3, località Costarelle di Preturo, 67100 L’Aquila
Alfredo Cospito, Nicola Gai, Alessandro Mercogliano, CC Via Arginone, 327 - 44122 Ferrara
Marco Bisesti, strada Casale 50/a – 15122 Alessandria

A FIRENZE il 9 maggio ci sarà la sentenza di un processo che vede imputatx 28 compagnx accusatx di associazione a delinquere e alcuni attacchi anonimi alle sedi fasciste. Tre di questi compagni, Paska, Giova e Ghespe, già da tempo si trovano in carcere, ed oltre alle altre accuse sono imputati per trasporto, fabbricazione e detenzione di materiale esplodente e tentato omicidio, per il ferimento di un artificiere che armeggiò senza alcuna precauzione con un ordigno collocato davanti ad una sede fascista, la notte del 31 dicembre 2016. Per loro in carcere le provocazioni e le violenze non si sono risparmiate, in risposta all’attitudine conflittuale mantenuta.
SABATO 20 APRILE
PRESIDIO DI SOLIDARIETÀ ORE 16 p.zza dell’ Unità Zona Santa Maria Novella FIRENZE
Dal volantino Senza tregua per l’anarchia.
Per scrivere:
Pierloreto Fallanca, CC Mammagialla Strada Statale, Str. Santissimo Salvatore, 14/B, 01100 Viterbo (VT)
Salvatore Vespertino e Giovanni Ghezzi, CC Sollicciano, Via Girolamo Minervini, 2r, 50142 Firenze (FI)

CREMONA. Nella mattinata di mercoledì 10 aprile si è svolto il processo a carico di Tommy, un nostro compagno che ha tentato di resistere ad un fermo di polizia sotto casa di un fascista (che nei giorni precedenti si era messo in mostra con alcune provocazioni vigliacche) nel pomeriggio di venerdì 5 aprile. Fuori da un tribunale militarizzato, un gruppo di compagne e compagni ha espresso la propria solidarietà ribadendo che è giusto attaccare polizia e fascisti. Durante il presidio alcuni giornalisti hanno cercato di rendere omaggio al loro lavoro di infami (ben protetti dalla polizia) ed è volato qualche insulto nei loro confronti, soprattutto alla nota giornalista de ”La Provincia” Francesca Morandi, confermandosi avanguardia dei pennivendoli di regime nostrani. Dopo circa un’ora è uscita la sentenza: un anno, otto mesi e dieci giorni di reclusione per le accuse di resistenza, danneggiamento aggravato, lesioni, minacce e oltraggio. L’istanza di scarcerazione è stata rigettata.
Dal Kavarna di Cremona
Per scrivere:
Tommaso Fontana C.C. Ca del Ferro Via Palosca 2, 26100 Cremona

PROCESSO DEL BRENNERO, VIDEOCONFERENZA E ALTRE COSE
Oggi, 15 aprile 2019, si è tenuta a Bolzano l’udienza filtro per la manifestazione del 2016 al Brennero. Partiamo da una fotografia. Di fronte al tribunale c’è un gigantesco monumento fascista al quale la Provincia di Bolzano – soprattutto su pressione degli autonomisti sudtirolesi – ha fatto giustapporre una frase di Hannah Arendt: “Nessuno ha il diritto di obbedire”. Sotto la scritta, c’erano blindati della Celere e dei carabinieri e un tank dell’esercito (nonostante a Bolzano non ci sia “strade sicure”, i militari stazionavano nella piazza da un mese appositamente per il processo). E poi parcheggi rimossi, furgoni e auto di polizia e carabinieri ovunque a chiudere la zona del tribunale.
Gli imputati in carcere non erano presenti al processo perché gli è stata imposta la videoconferenza, su disposizione del DAP e su richiesta del presidente del tribunale. In una decina di imputati a piede libero (o ai domiciliari) siamo entrati in aula. Indossando in diversi delle magliette con scritto “No videoconferenza” abbiamo interrotto l’udienza in solidarietà con i compagni arrestati urlando “terrorista è lo Stato”. Al giudice che diceva: “La videoconferenza è prevista dalla normativa”, un compagno ha riposto: “Anche i campi di concentramento nazisti erano previsti dalla normativa. Voi continuate a obbedire, alla faccia della frase di Hannah Arendt qui di fronte. I terroristi siete voi”.
Qualche imputato in carcere ha rifiutato la videoconferenza. Altri l’hanno usata per esporre dei cartelli e denunciare questa misura di ulteriore isolamento. Agnese ne ha approfittato per dire che la sezione dell’Aquila in cui sono rinchiuse è una tomba e per far sapere che stanno subendo il blocco totale della posta.
L’impronta del 41 bis – a L’Aquila e a Tolmezzo – si estende al resto del carcere. Un carcere di guerra.
Dobbiamo fare una battaglia anche contro tutto ciò.
Apprendiamo dai giornali che il pomeriggio stesso dell’udienza un treno è stato bloccato a Trento da un gruppo di “incappucciati”: striscione in solidarietà con gli arrestati e gli imputati del Brennero e catene sui binari. Causati 90 minuti di ritardi ferroviari.
Da un testo a firma di Anarchici e Anarchiche.

AGGIORNAMENTO SULLE OPERAZIONI RENATA E SCINTILLA
Quattro compagni e una compagna che si trovavano in carcere dopo gli arresti del 19 febbraio a Trento e Rovereto con accuse per associazione sovversiva e per diversi reati contestati sono ora ai domiciliari con tutte le restrizioni. La compagna che era già ai domiciliari ora ha l’obbligo di dimora a Rovereto con rientro notturno.
Resta detenuto per un definitivo di pena:
Luca Dolce, CC di Tolmezzo via Paluzza 67, 33028 Tolmezzo (UD)

Dal carcere di Ferrara sono usciti con le firme due dei compagni arrestati a Torino il 7 febbraio, quando l’Asilo occupato venne sgomberato. Resta in carcere:
Silvia Ruggeri, CC de l’Aquila, Via Amiternina n.3, località Costarelle di Preturo, 67100
***
QUANDO IL “MOSTRO” NON SI DEVE NEANCHE VEDERE...
Come se non bastassero il carcere speciale, i continui trasferimenti e il blocco della posta, ora ai nostri compagni arrestati il 19 febbraio si vuole persino impedire di essere presenti ai processi nei quali sono imputati, come quello di oggi per la manifestazione del 2016 contro le frontiere al Brennero. In che modo? Con la videoconferenza (l’imputato “partecipa” al processo da una saletta del carcere in cui è detenuto). Inizialmente prevista per i detenuti accusati di “associazione mafiosa” e sottoposti al 41 bis (una sorta di tortura legalizzata), dal 2002 questa misura processuale può essere applicata anche a chi è accusato di “terrorismo”. Non bastava. Dal 2014 può essere estesa a tutti i detenuti ritenuti “pericolosi”. Non basta. A richiederla può essere anche un giudice per “ragioni di sicurezza e di ordine pubblico”, indipendentemente dai reati contestati durante il processo. Lo scopo dichiarato è risparmiare sui costi per le traduzioni dei detenuti (se così fosse basterebbe spostare i detenuti nelle carceri più vicine ai tribunali dove si svolgono i processi), quello reale è isolarli dalla solidarietà, ostacolare la loro difesa, toglier loro la parola: provare ad annientarli.
Con la videoconferenza un imputato non può più vedere e salutare i propri compagni in aula (un’occasione che un carcerato aspetta sempre con emozione), non può parlare in privato con il proprio avvocato durante il processo, non può fare dichiarazioni spontanee perché solo il giudice può stabilire e interrompere il collegamento audio e video. Non vede tutta l’aula e la sua immagine arriva in differita. Si tratta di una deprivazione tecnologicamente equipaggiata.
Fuori dall’ambito del 41 bis, la videoconferenza è stata applicata nel 2014 ai compagni in carcere per un attacco al cantiere del TAV in Valsusa (nella sentenza contro di loro è poi caduta l’accusa di “terrorismo”) e in seguito ad altri anarchici. Facciamo notare che il Riesame di Trento, il 14 marzo scorso, ha fatto cadere le “finalità di terrorismo” contro i sette compagni arrestati il 19 febbraio. Eppure, come successo in altri casi e come sta succedendo anche ad altri compagni, rimangono ancora in carcere speciale (Alta Sorveglianza 2, regime istituito formalmente per gli accusati di “terrorismo”), ed ora li si vuole privare persino della possibilità di presenziare ai processi.
Come ha dichiarato un’avvocatessa: «ma che tipo di processo pubblico si può fare se manca addirittura l’accusato? neanche l’inquisizione si sognò mai di fare una cosa del genere».
Qui non si tratta solo dei nostri compagni. Questa è una prassi di guerra, volta all’annientamento di ogni dissenso reale. Gli imputati devono poter presenziare ai processi!
Non possiamo accettare in silenzio questo ennesimo attacco alle lotte e alla solidarietà!
Sasha, Agnese, Rupert, Stecco, Giulio, Poza e Nico liberi!
Terrorista è lo stato!
anarchiche e anarchici

Una sezione femminile A.S. 2 a L’Aquila
Stamattina chi si è trovato allo sportello dei colloqui di Rebibbia Femminile ha potuto vivere personalmente quegli istanti misti di sconcerto e rabbia raccontati più e più volte da chi, dopo aver fatto magari diverse centinaia di chilometri per poter incontrare in carcere il proprio figlio, la propria compagna, il proprio padre, ecc… si è sentito rispondere: “Il detenuto, la detenuta è assente per trasferimento”. “Trasferimento per dove”? Stamattina la guardia di Rebibbia ha risposto. “Per L’Aquila”.
Così si è appreso, prima per una, poi per l’altra, poi per l’altra, che tutte e tre le compagne anarchiche detenute nell’Alta Sicurezza 2 di Rebibbia risultavano assenti. E presumibilmente tutte e tre destinate al carcere de L’Aquila. Ne abbiamo avuto conferma qualche ora dopo perché Silvia, nel carcere di arrivo, è riuscita a vedere la propria avvocata, potendole quindi confermare che: da stamattina lei, Anna e Agnese si trovano nella sezione A.S.2 di questo carcere istituita circa 2 anni fa e dove, non sappiamo da quanto tempo, è già detenuta una donna per reati relativi al cosiddetto “terrorismo Islamico”; si trovano in cella singola; hanno tutte e tre la censura della posta.
Poiché giunte lì solo da poche ore, la compagna non ha potuto riferire su quali siano effettivamente le condizioni detentive che si troveranno a vivere in questa struttura, cioè le ore di socialità e aria concesse, così come l’accesso a biblioteca, palestra, ecc… semmai esistano lì.
Quello che possiamo affermare con sicurezza è che l’aria che si respira in un carcere in cui il 95% della popolazione carceraria sta scontando la pena o una detenzione preventiva in regime di 41bis, non può che essere molto pesante. Abbiamo specificato altrove perché secondo noi 41bis è tortura. Sarà impegno anche di tutti e tutte noi occuparci di far fronte all’isolamento cui, proprio per la natura che caratterizza questa struttura, guardie (G.O.M.) e D.A.P. proveranno ad applicare, di default, alle compagne.

Roma, 6 aprile 2019 - Rete Evasioni


Lettera dal carcere de L’Aquila
CRONACHE DI VIAGGIO E ATTERRAGGIO NEL REGNO DELL’AQUILA
Sveglia anticipata sabato 6 aprile: trasferimento in 3 dall’AS2 di Roma Rebibbia con destinazione L’Aquila. In pratica la sezione AS2 a Rebibbia è stata chiusa nei giorni successivi al nostro trasferimento, e si può ipotizzare un suo cambio d’uso in AS3, visto il sopraffollamento in cui vivevano le detenute accusate e/o condannate per 416 c.p. (una cosa analoga era avvenuta nel marzo 2017 quando l’intera AS2 femminile – comuniste e anarchiche – di Latina era stata spostata a Rebibbia, convertendola poi in AS3). Quella in cui ci troviamo ora l’AS2 abruzzese, che ha il triste primato di essere ormai l’unica sezione di Alta Sicurezza femminile, classificata AS2, sull’italico suolo. Si tratta di una microsezione di 4 celle singole, chiamata “sezione gialla”, uno spazio configurato e utilizzato in passato come 41bis femminile, e che ora ospita oltre a noi “nuove giunte” (mi si perdonino gli eccessi di terminologia galeotta, ma questo è), anche una prigioniera di religione musulmana classificata AS2: quest’ultima, dopo la liberazione a febbraio delle altre 2 recluse nella sezione, è stata più di 20 giorni in isolamento, per cui si può presumere che il nostro arrivo sia servito a togliere dall’imbarazzo il DAP per questa sua condizione. Sin dall’inizio è risultata evidente una gestione militaresca e demenziale da parte dei GOM (è loro, qui a L’Aquila, la gestione della sezione), che vorrebbero applicare il rigore e il controllo propri del 41bis. D’altra parte la galera aquilana ospita 41bis maschile e femminile (dove è murata viva da anni l’unica prigioniera comunista classificata in questo regime), una REMS, sezioni di AS3, la nostra di AS2 e una sezione di “comuni”, una ventina, che fungono da lavoranti visto che il resto del carcere è blindato. La prima mossa della direzione è stata il tentativo di una barocca applicazione dell’articolo 18 o.p. sulla censura della corrispondenza e della stampa, spiegata da un’ispirata ispettrice GOM e giustificata dal fatto che l’AS2 preveda in automatico la censura (questione che spetta invece non al carcere, ma all’autorità giudiziaria di competenza di ognuna di noi), arrivando anche all’assurdo di un’eventuale valutazione di applicazione di 41bis per qualcuna di noi. Le motivazioni che ci sono state fornite sono sintomo di una (patologica) mania di onnipotenza, di potere, che coinvolge tutta la scala gerarchica, dalla direttrice all’ultima agente.
Dopo una settimana di blocco effettivo della corrispondenza in entrata e uscita, contornato da discussioni con divise di ogni ordine e grado, è emerso che la c.c. de L’Aquila, più realista del re, aveva chiesto ai vari tribunali di competenza suddetta censura di quotidiani “per evitare contatti con la zona di provenienza criminale”, e della corrispondenza vista l’allerta dei “superiori uffici del DAP ad estendere un maggior controllo e monitoraggio sulla corrispondenza della detenuta in oggetto, soprattutto in questo momento storico che vede coinvolta l’Europa tutta in una serie di attentati terroristici”: è insomma censurabile sia la stampa della zona di provenienza (sic) che qualsiasi scritto dell’universo mondo. Dopo richieste di delucidazioni, il capolavoro della logica è stato svelato: era una semplice richiesta prestampata. Peccato che appunto i criteri valutativi della censura siano quelli del 41bis, secondo i quali fra l’altro, è previsto il concreto ritaglio degli articoli del quotidiano, che viene mondato dalle notizie pericolose.
Sono continuate nei giorni successivi a emergere altre usanze tipiche del 41bis, la cui continua contestazione provoca una manciata di rapporti disciplinari, pratica locale molto in voga: ne abbiamo totalizzati 9 nella prima settimana, 6 nella seconda, per futili motivazioni e arbitrarie, se non inventate, interpretazioni. Tali usanze riguardano l’uso maniacale del metal-detector ad ogni ingresso e uscita dalla cella, dal passeggio, dalla socialità, senza dimenticare quelli della doccia – se ne contano dalle 12 alle 16 volte; l’impossibilità di avere CD e lettore e di ascoltare musica (sono utilizzabili solo per misteriosi e non meglio specificati “motivi di studio”); il numero di libri permessi in cella, solo 4, con l’aggiunta del Corano o altro testo religioso e Codice Penale (alla richiesta di sostituire breviari religiosi o penali con qualcosa di più consono… i GOM dimostrano scarso senso dell’umorismo); il numero contingentato di vestiario in cella, oltre che di generi di uso e consumo, quel poco d’altro che si può avere, viene tenuto in un armadietto esterno a cui si accede sotto controllo visivo e conteggio da parte delle guardie tramite apposita tabella; l’impossibilità di portare all’aria carta e penna; l’ordine, il controllo, la conta da parte delle GOM, che contano minuziosamente ogni cosa e aggiornano le loro debite liste di tutti gli oggetti tenuti in cella e nel magazzino, e verificati nelle due perquisizioni settimanali. Il passeggio dell’aria è di pochi metri (8×10), e la cosiddetta “socialità” è una barzelletta di cattivo gusto che dovrebbe assolvere negli stessi orari e nella stessa stanzetta spoglia (una ex sala colloqui) le funzioni di socialità (c’è solo un tavolino con 4 sedie), palestra (c’è solo una cyclette), e luogo di preghiera. Lo spezzettamento della giornata imposto (ore 7 apertura blindo, 7:15 ritiro posta, 7:30 carrello colazione, 8 battitura, 9/11 aria, 11:30 vitto, 12/13 condivisione pranzo, 13/15 socialità, 15 battitura, 15:30/17:30 aria, 17:30 vitto) assieme al controllo visivo pressoché continuo, dato l’obbligo del blindato aperto fino alla chiusura alle 20, tranne un’ora e mezza un cui è consentito accostarlo dopo pranzo, sono tipici di un carcere caserma. Insomma, se la sezione AS2 risulta non avere un regolamento vero e proprio, ha di fatto adottato norme da 41bis con le relative pressioni, ovviamente senza chiamarlo come tale (l’unico regolamento interno della gabbia aquilana risale al 2002, periodo fra l’altro in cui i circuiti di AS non erano ancora stati istituiti), ma modificandone solo alcuni aspetti, come ad esempio poter tenere in cella il fornelletto anche dopo le 20, o poter condividere il pranzo.
Per quel che riguarda la convivenza, dopo qualche giorno “blasfemia”, o meglio ateismo anarchico e religione sono parsi ben poco compatibili per la detenuta musulmana, che ha chiesto il trasferimento per “incompatibilità”, per cui la direzione se la risolve per ora con un divieto d’incontro particolarmente odioso e ridicolo viste le ridotte dimensioni della sezione, che cerchiamo di contrastare vista la condizione di isolamento di fatto. Il tentativo di sperimentazione carceraria applicato dal DAP pare traballare, vista l’ingestibilità ammessa dalle stesse guardie locali.
Ultima nota di colore: non riuscendo ad applicare la censura, almeno a chi non l’aveva già, la direzione ha comunque disposto il trattenimento del temutissimo, a quanto pare, libro “Cucinare in Massima Sicurezza”. Viene da chiedersi cosa mai disporrà la “competente” Autorità Giudiziaria.
Non c’è comunque da stupirsi della brutale stupidità dell’istituzione totale, soprattutto quando questa si manifesta chiara, palese nella sua ottusità.
Quello che però abbiamo avuto modo di tastare con mano è quanto sia sempre utile gridarglielo in faccia.

Dalla sezione AS2 aquilana, testo datato 26 aprile 2019


L’Aquila, Tolmezzo, Ferrara: contro il 41bis, contro l’isolamento, la lotta continua
Domenica 28 aprile si è tenuto il presidio convocato davanti al carcere di L’Aquila. Un centinaio di compagne/i si sono mossi da diverse città, talvolta con tragitti lunghi e scomodi (la città è un’enclave fra gli Appennini abruzzesi). Ma proprio chi veniva da lontano era anche fortemente motivato poiché le tre compagne qui incarcerate recentemente provengono da Torino e Trento. Silvia Ruggeri e Agnese Trentin fan parte delle due ultime retate repressive, quelle che a partire dal 7 febbraio, e insieme allo sgombero dell’Asilo occupato di Torino, hanno segnato questa fase sia di escalation militarizzante del potere sia di una nuova determinazione di lotta che ha attraversato il movimento e alcuni settori proletari. Finalmente si vedono spunti di nuova e più diffusa combattività, di risposta all’opprimente ondata reazionaria che intossica tanti ambiti sociali. E che tutto ciò sia partito dall’attacco all’Asilo non è un caso, perché attorno ad esso, negli anni, si era costruita una realtà di resistenza e solidarietà nei quartieri circostanti. Perché creava aggregazione e comunità contro i poteri, centrali e locali, che all’opposto diffondono disgregazione e disperazione sociali. Quello che nelle politiche urbanistiche si concretizza nei piani di espulsione dei proletari e gentrificazione.
Così è molto significativo che le imputazioni contro le/i compagne/i traducano in associazione sovversiva e terrorismo lotte e militanza solidale a fianco dei settori proletari più sfruttati e oppressi e contro le strutture militari loro indirizzate, come i CPR. Lottare, attaccare queste strutture diventa un crimine. Impoverire, sfruttare popolazioni intere, deportare, affogare migranti, invece, lo chiamano “gestione dei flussi migratori”, o ancor più cinicamente “cooperazione internazionale”. Il rovesciamento della realtà non ha più limiti, una classe dominante semplicemente criminale e terrorista bolla con tali epiteti chi resiste e lotta, magari per la rivoluzione sociale. I nazisti hanno fatto scuola.
Il fatto è che la loro repressione, diventata forma di governo rispetto ad una realtà sociale sempre più insopportabile per tanta gente, si assimila ad una forma di guerra interna, seppur di bassa intensità. Ma è ciò che loro stessi , ogni tanto, dicono. Come il questore di Torino durante gli scontri di febbraio (per non parlare dell’energumeno del Viminale e delle sue continue istigazioni alla violenza di Stato), oppure come dice e fa il governo francese di fronte al grande movimento di massa in corso. E così la forma di carcerazione inflitta a Silvia, Agnese ed Anna ne è un ulteriore salto di qualità: Alta Sicurezza aggravata, informata dal regime 41bis. È grave per le prime due compagne, appena arrestate, e lo è anche per Anna Beniamino che è stata appena condannata a ben 17 anni. Ed è ancor più grave il trattamento perpetuato ai danni di Nadia Lioce che da 15 anni resiste al 41bis.
Per tutti questi (ed altri) motivi ci siamo mobilitati. E contemporaneamente altri due presidi si son tenuti a Tolmezzo e Ferrara, dove sono stati incarcerati altri 7 compagni anarchici, sempre per le stesse retate. La solidarietà con chi viene incarcerato è non solo un dovere, ma una vera e propria linea di fronte dell’attuale guerra di classe. Non solidarizzarsi con i/le nostri/e prigioniere/i, del campo proletario, significa accettare la sconfitta del movimento. Le differenze politiche, ideologiche e di pratiche di lotta sono comunque interne al nostro campo. E sicuramente le pratiche di lotta rivoluzionaria. La repressione è ormai aspetto inerente a qualsiasi lotta di classe, bisogna affrontarla collettivamente, facendone un’occasione di crescita e maturazione per noi stessi. Le barricate han solo due lati!
Nei vari interventi è stato anche sottolineato il rapporto fra questa militarizzazione interna con quella esterna, con l’impegno imperialista italiano in tante aggressioni “umanitarie” nel mondo. La guerra che loro conducono è contro il proletariato internazionale, fatta dei mille modi con cui occupano, sfruttano, deportano e bombardano. Perciò, ancor più, la nostra dimensione è internazionalista: la resistenza dei/lle nostri/e militanti nelle carceri è in rapporto con quelle in Turchia, Kurdistan, Palestina, India, Irlanda, Grecia,USA … è in rapporto con le lotte rivoluzionarie e di liberazione nel mondo.
Il compagno “vento favorevole” avrà portato al di là delle mura, si spera, queste voci. Nonostante le orribili chiusure in plastica oltre le sbarre, a privare le compagne della vista di un orizzonte, abbiamo colto l’agitarsi di qualche straccio a mò di bandiera, e tanto ci basta.
OLTRE LE MURA LA LOTTA CONTINUA – SOLIDARIETA’ ALLE/AI PRIGIONIERE/I DELLA GUERRA DI CLASSE
FRONTE PROLETARIO E INTERNAZIONALISMO PER LA RIVOLUZIONE

Primo Maggio 2019
Proletari Torinesi per il Soccorso Rosso Internazionale
Collettivo Contro la Repressione per un Soccorso Rosso Internazionale

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A L'Aquila eravamo un centinaio di compas attivi in collettivi di diverse città nel sostegno alle lotte contro sfruttamento, razzismo, occupazioni per l'abitare, guerra imperialista. Da subito, come ormai consuetudine, visti i numerosi presidi realizzati in questi anni, ci siamo presi l'intero campo antistante il carcere sotto lo sguardo distante delle forze di polizia e ci siamo rimasti per circa tre ore.
Nei numerosi interventi si è parlato di isolamento, 41bis, videoconferenza, trasferimenti punitivi e delle iniziative di lotta per contrastare l'approfondirsi dei dispositivi repressivi oltre a raccontare e difendere l'identità delle compagne lì tenute prigioniere, ricordando le recenti mobilitazioni avvenute in solidarietà alla compagna Nadia Lioce.
Si è così concretizzato un saluto-presidio cosciente, caldo, attraversato da interventi comunicativi, al punto di veder sventolare fuori da alcune bocche di lupo piccoli indumenti, gesti che hanno testimoniato la seppur breve rottura dell'isolamento assoluto regnante a L'Aquila e rafforzato la comunicazione.


41BIS = TORTURA
Sabato 8 giugno: presidio al carcere di Cuneo
Come Campagna "Pagine contro la tortura" abbiamo deciso di lanciare un presidio davanti al carcere di Cuneo per sabato 8 giugno. Certamente, come abbiamo fatto in altre occasioni, per ribadire il fatto che il 41bis è tortura, ma ci sentiamo di condividere altre riflessioni alla base di questa mobilitazione.
Si tratta innanzitutto di supportare e dare voce a chi, tra enormi difficoltà, trova il coraggio e la forza di opporsi da dentro a questo regime, a quanti osano ribellarsi agli abusi quotidiani pur consapevoli delle conseguenze cui vanno incontro: pensiamo alle mobilitazioni tramite scioperi della fame e battiture effettuate nella sezione maschile del 41bis a L'Aquila contro le vessatorie limitazioni sull'uso della tv, così come lo sciopero della fame da parte degli internati al 41bis di Tolmezzo (carcere in cui era stata da poco trasferita in blocco – e qui non funzionante - la “casa lavoro” dal carcere de L’Aquila), per il ripristino del minimo di attività lavorative necessarie alla cessazione della misura di sicurezza cui sono sottoposti pur avendo terminato di scontare la pena. Abbiamo sostenuto e seguito da vicino la protesta della compagna Nadia Lioce, processata (e assolta...) per una serie di battiture motivate dalla sottrazione di alcune carte processuali; di fatto le sue dichiarazioni rese al processo e le memorie difensive, oltre a dimostrarsi un boomerang nei confronti dell'amministrazione penitenziaria, hanno contribuito a squarciare il velo rispetto alle angherie e ai soprusi di chi è recluso nelle sezioni 41bis, in questo caso del carcere de L'Aquila.
La sezione 41bis di Cuneo, riaperta di recente, è una delle "peggiori" come conferma Alessio Attanasio, sepolto nelle sezioni 41bis ininterrottamente dal 2002, nelle pagine del suo libro, "L'inferno dei regimi differenziati". Frutto di una serie di corrispondenze, dopo anni di sforzi e difficoltà, è riuscito a essere pubblicato. Il testo, una preziosa testimonianza dell'inferno del 41bis e dei regimi differenziati, ci ha sollecitato, come Campagna, a supportare la sua lotta attraverso presentazioni del libro in diverse città.
Ci sembra utile riportare degli estratti dal "Rapporto tematico sul regime detentivo speciale ex art 41bis dell'O.P. (2016-2018)" che danno una descrizione della sezione 41bis del carcere di Cuneo.
"(...) Gravemente critiche le condizioni strutturali della sezione 41-bis o.p. della Casa circondariale di Cuneo, riaperta a marzo del 2018 a seguito della chiusura della sezione della Casa circondariale di Ascoli Piceno con il trasferimento di tutti i detenuti provenienti da tale Istituto. La precedente generale situazione di degrado dei locali, che aveva portato alla chiusura del reparto due anni prima, a maggio 2016, per necessarie ristrutturazioni al fine di renderlo adeguato ai parametri internazionalmente stabiliti, non ha trovato una soluzione accettabile nei lavori realizzati per permetterne la riapertura. (...) Sulle condizioni generali degli ambienti, la visita all’Istituto di Cuneo ha confermato le molte criticità segnalate al Garante nazionale in decine di reclami ex articolo 35 o.p.: infissi delle finestre che non chiudono, con grande dispersione di calore in inverno, in una città a clima rigido come Cuneo; bagni privi di acqua calda e senza porta e dotati di uno spioncino sul corridoio di circa 15 x 40 cm e inevitabile mancanza di privacy; lavandini molto piccoli (25 x 40 cm) da usare anche per lavare i vestiti; docce comuni in numero ridotto (una per sezione) con attivazione a tempo (7 minuti per ogni doccia); acqua calda insufficiente rispetto alle esigenze; interruttori della luce delle stanze detentive esterni alla stanza stessa; materassi con data di scadenza il 2015. A questo si aggiunge la scarsa qualità del materiale utilizzato per dipingere le pareti che ‘sfarinandosi’ determina un persistente pulviscolo che viene respirato da personale e ristretti. (...)
Un discorso a parte meritano poi le sale colloqui: nell’Istituto di Cuneo, contrariamente a quanto previsto dalla più volte citata circolare (Circolare DAP n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017, articolo 16, capoverso 4), sono cabine di 1x 1,5 m, chiuse fino al soffitto, con una fascia di vetro alta 50 cm che costringe le persone che fanno il colloquio a stare piegate per vedere in volto, seppure oltre il vetro, i propri familiari. Le pareti divisorie delle cabine non isolano dai rumori, lasciando passare le voci (...)".
Questo presidio s'inserisce in un contesto di duro attacco a chi tenta di resistere - e a volte anche solo di “rivendicare la propria esistenza” - all'interno delle carceri, come dimostrano i sempre più numerosi “suicidi”. Censura della posta sempre più frequente, pestaggi, trasferimenti punitivi a centinaia di chilometri di distanza dai luoghi di origine o di residenza, ricorso alla sorveglianza particolare (14 bis) e in genere all'isolamento sono solo alcuni degli strumenti utilizzati per continuare a punire, mantenere “esterno”, lontano dagli occhi e isolato, questo pezzo di società che nonostante tutto si oppone, in alcuni casi anche con pratiche radicali come avvenuto nel carcere di Trento dove neanche un anno fa i detenuti hanno distrutto un'intera sezione.
Un duro attacco che si estende anche a chiunque porti avanti la propria opposizione contro lo stato di cose attuali, lottando contro devastazioni ambientali, sgomberi di spazi e case occupate, licenziamenti sul lavoro, opposizione alle espulsioni di immigrate e immigrati e la loro reclusione nei campi d'internamento.
Sta diventando infatti sempre più frequente, per chi si espone nelle lotte, l’accusa di associazione sovversiva e quindi la carcerazione in sezioni di alta sicurezza (AS2) - sezioni “dedicate”, per come previsto dalla circolare del DAP (n. 6069 del 2009), a chi è accusato di 270, 270-bis, 270-ter, 270-quater, 270-quinquies, 280, 280-bis, 289-bis, 306 c.p. Sezioni in qualche modo “sperimentali”, in cui, come in 41bis, e subito dopo rispetto al 41bis, vengono testati meccanismi di controllo e/o di carcerazione che poi a cascata vengono imposti alle altre sezioni, così come accaduto per l'applicazione del processo in video-conferenza. Prima sistema applicato solo ai detenuti in 41bis, ora diffuso anche ai prigionieri in Alta Sicurezza e già esteso agli immigrati nei processi per la richiesta di asilo.
E certamente il recente trasferimento di tre compagne nella sezione AS2 del carcere de L'Aquila così come la carcerazione di altri tre compagni nel carcere di Tolmezzo, due carceri con sezioni a 41bis, può rendere più facile il “passaggio” delle sperimentazioni verso una consuetudine.
In quest'ottica valutiamo l'importanza di non abbassare la guardia e proseguire e intensificare la lotta contro la "punta di diamante" di questo sistema repressivo, il regime 41bis; contro la legittimazione della tortura volta a spingere alla collaborazione con lo Stato, contro gli sporchi interessi che rappresenta e difende, contro i suoi carnefici.

Appuntamenti:
Sabato 8 giugno ore 15 - Presidio al carcere di Cuneo
Domenica 9 giugno ore 11 - Torino
Assemblea della Campagna “Pagine contro la tortura”
presso El Paso Occupato, via Passo Buole, 47

Approfondimenti rispetto alle questioni trattate si possono trovare ai seguenti link:
http://www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/internati-al-41bis-sciopero-della-fame-a-tolmezzo
paginecontrolatortura.noblogs.org
https://www.inventati.org/rete_evasioni/?p=3198
http://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/it/rapporti.page


Lettera collettiva dal carcere di Ferrara
IL REGALO PIÙ BELLO
Spesso negli anni è capitato di giocare di fantasia, provando a immaginare come e quando sarebbe giunto lo sgombero dell’Asilo. Quanta polizia avrebbe invaso il quartiere quanto avrebbero retto le barricate, quanto avrebbe resistito chi fosse riuscito a raggiungere il tetto, se fosse coinciso con un’operazione repressiva, quale sarebbe stata la risposta fuori.
Oggi a distanza di due settimane, tante domande hanno avuto risposta. Ma ancora non riusciamo a farcene una ragione. Sarà perché ci hanno portato via, uno dopo l’altro, prima alle Vallette in isolamento poi nella sezione speciale del carcere di Ferrara. Colpiti da un’inchiesta che ci descrive una setta interna e nascosta alla più ampia compagine di chi negli anni si è organizzato all’Asilo. Un’ordinanza che ha schifosamente selezionato e travisato pezzi di conversazione intime, politiche e amicali, al fine di avvalorare la tesi inquisitoria. Una ricostruzione che in nessun modo può cogliere la varietà di tensioni, idee e slanci ribelli che a partire da quel posto si sono scatenati nel mondo intorno.
Sarà perché non abbiamo visto blindati e celerini chiudere per oltre una settimana interi pezzi di quartiere, allontanando chiunque non abitasse in zona o non potesse dimostrarlo per isolare completamente l’oramai ex-covo di sovversivi. Sarà perchè non abbiamo sentito gli operai al lavoro giorno e notte per rendere la struttura inaccessibile, ma soprattutto inutilizzabile.
Sarà che in fondo non ci interessa. Gli ultimi giorni, qui dentro, non sono trascorsi nella nostalgia dei tanti ricordi e momenti vissuti all’interno, di cosa abbia significato per ciascuno di noi, delle lotte che vi si sono affacciate e che lo hanno attraversato negli anni, ma nel rimpianto di non essere stati con voi in questi giorni là fuori: lungo la strada dal centro fino ad Aurora, nell’assemblee concitate, in un bar a smaltire i lacrimogeni.
Perché se con lo sgombero qualcuno ha perso la casa, un luogo dove organizzarsi e confrontarsi, tanti si sono sentiti privati di un pezzo di libertà, strappato con una forza e una modalità tali da segnare un punto di non ritorno. Una “scintilla”. Una dichiarazione di guerra a cui tutti si sono sentiti di reagire e i cui echi sono arrivati fin’oltre i chilometri, le mura e le sbarre che ci dividono.
Questo è il regalo più bello che potevate farci: sapere che lo sgombero dell’asilo e la risposta a questa inchiesta siano stati un’occasione per esprimere ognuno il suo malessere, la propria rabbia e ribellione ben oltre le singole lotte e iniziative di chi da anni si organizzava con costanza là dentro.
E poi che importa se quando usciremo non riconosceremo l’Asilo per quello che è stato, se negli occhi di chi ci sarà, ritroveremo lo stesso amore e la stessa rabbia che oggi si respirano a Torino.
Una speranza c’è. Quella speranza non è in un asilo occupato, ma nel cuore, nella mente e nelle braccia di chi ha deciso.

“i prigionieri” Antonio, Beppe, Lorenzo e Niccolò
Ferrara, 18 febbraio 2019

macerie @ Febbraio 28, 2019

Lettera dal carcere di Torino
La cena della domenica può essere speciale.
Speciale quando il porta-vitto passa a consegnarti la solita razione di brodaglia fredda e una manciata di patate lesse ripassate in padella per distinguerle da quelle mangiate a pranzo. Meno speciale, quasi ordinaria, quando nessuno passa a riempirti il piatto e non ti rimane che una salutare merendina e un po’ di frutta accumulata nei giorni precedenti. La cena della domenica può essere speciale quando, finito di mangiare, inizi a interrogarti su come passerai le ore successive scegliendo tra i libri che non ti hanno bloccato in matricola, scrivendo a qualcuno in attesa di recuperare un francobollo prima della spesa del martedì, scambiando due chiacchiere con i compagni di sezione dallo spioncino del blindo almeno fin quando qualche secondino non comincia a invocare il silenzio perché sta iniziando la partita o più semplicemente perché gli gira così…
No, aspettate, sto facendo confusione… scusate, ricomincio.
La cena della domenica può essere speciale quando finito di mangiare inizi a interrogarti su come passerai le ore successive ma vieni subito interrotto da un boato in lontananza. Fischi e grida che si fanno sempre più vicini. Un secondo boato. E tutto il carcere in un attimo si risveglia. Si prova ad accompagnare i cori, spesso con scarsi risultati, e allora se ne inventano di nuovi o si urla e basta, si colpiscono le sbarre con tutto ciò che si trova a portata di mano perché ogni occasione è buona nella speranza remota che vengano giù. I volti di chi si trova da questa parte delle sbarre non nascondono lo stupore data la marea di gente che sembra essersi riversata nel pratone di fronte al carcere. Qualcuno si lancia in stime approssimative: “Oh, ma quanti sono? Cinquecento?!”.
Parte anche qualche fischio quando i celerini, fino a quel momento nascosti dal muro di cinta, si avvicinano ai manifestanti. La sezione femminile, troppo distante per riuscire ad ascoltare gli interventi al megafono o i cori, viene comunque raggiunta dalla risposta dei blocchi del maschile, ma soprattutto dai petardi, ai quali immancabilmente seguono continue ovazioni.
Lo spettacolo pirotecnico finale sancisce come di consueto il termine del saluto.
Ma i commenti a quanto accaduto poco prima perdurano ancora quando nuove grida, questa volta partite dall’interno delle Vallette, danno inizio alla seconda parte della serata: “al fuoco, al fuoco!”. Per molti non è ancora chiaro cosa stia succedendo ma nuovamente la risposta non può che essere un’immane battitura che coinvolge presto tutti. I secondini sfrecciano da una parte all’altra delle sezioni mentre le fiamme lambiscono il secondo piano della struttura in un clima di incredulità, panico e risate. Tre esplosioni in rapida successione illuminano a giorno i passeggi e qualcuno non può non iniziare a sperare: “tutti liberanti!”.
All’orizzonte iniziano ad affacciarsi i lampeggianti. Luci blu. Come buona prassi prevede, sono sempre gli sbirri a fiondarsi per la qualunque e soprattutto i primi ad arrivare. E senza gli idranti (veneziani?), che avevano percorso nei giorni scorsi le vie di Aurora e di tutta Torino a tenere a distanza chiunque volesse avvicinarsi all’Asilo di via Alessandria sprovvisto di uniformi e distintivi di sorta. E chissà che qualcuno dei vigili “finalmente” sopraggiunto non si fosse proprio attardato in Aurora dopo aver sfondato portoni e barricate, gonfiato inutili materassini, accecato per tutta la notte chi continuava a resistere sui tetti.
Le fiamme vengono domate, il fumo entra dagli infissi e dalle finestre di plexiglass attaccate con lo sputo. Chi lamenta problemi respiratori viene ignorato o minacciato. Le celle rimarranno chiuse per tutto il tempo. ma si fosse trattato di una situazione di reale pericolo probabilmente qualche secondino avrebbe semplicemente lasciato scivolare le chiavi lungo il corridoio della sezione prima di darsela a gambe, come già successo in altre occasioni.
Arrivano anche le ruspe - senza Salvini - a raccogliere i resti di quel che è bruciato… solo macerie!
(Anche se per il momento siamo ancora qui).
Nel corso della mattinata successiva si parlerà di bengala, di cortocircuito e di molotov, di rifiuti accatastati alla buona, di bombole del gas in condizioni di insicurezza e di laboratori di pasticceria. Ma siamo già a lunedì e qui dentro oggi non c’è più niente di speciale.
Fuori come sempre ci siete voi.
Grazie. Tutti liberi, tutte libere. Larry.

Torino, lunedì 11 febbraio
Da autistici.org/macerie

Due lettera dal carcere di Tolmezzo
Ciao a tutti, probabilmente vi sarà già arrivata notizia, ma provo a descrivervi brevemente il clima di Tolmezzo di questi giorni. Dalla mattina del 2 maggio sono iniziate le battiture e c’è stato uno sciopero dei lavoranti (scopino, spesa, cucina...). Si fanno tre battiture al giorno di più o meno 30 minuti. Ora, le problematiche qui sono molte, a partire dal fatto che anche i detenuti delle sezioni “comuni” risentono dei regimi per cui esiste questo carcere. L’aria è piccola, il garante è praticamente inesistente, alle richieste di trasferimenti e varie non ci sono nemmeno risposte… Nello specifico la protesta però si riferisce al dimezzamento dei fondi per il lavoro interno che è arrivato a 3 ore la settimana (1 ora al giorno pagata, nella quale non è materialmente possibile fare il lavoro richiesto). A quanto pare questo è dovuto al fatto che sono stati tolti i fondi a disposizione del carcere per compensare le richieste del “reddito di cittadinanza”. Insomma, per una manovra squisitamente propagandistica del governo (5 stelle nello specifico) quelli che ne accusano il colpo sono i detenuti. E’ chiaro che qualcuno i lavori per far funzionare il carcere “li dovrà fare”, e le richieste di lavorare oltre l’orario che viene retribuito potrebbero essere nemmeno così velate. Sappiamo quanto questo tipo di cose potrebbero divenire dei ricatti all’interno delle carceri. Così come lo sono già altre cose: corsi, scuole ecc. che vanno a finire nella relazione del detenuto che andrà poi al magistrato o a chi di dovere. Per fare solo un esempio, qui ci sono 11 detenuti che fanno il corso di giardinaggio in previsione di ottenere un lavoro, ma poi saranno solo 3 di loro ad essere scelti per un lavoro estivo effettivo. Per il momento lo sciopero è fatto a metà, come dire, nel senso che a differenza del primo giorno alcuni non lavorano, altri il tempo per cui vengono pagati, il carrello è tornato a passare. L’aspetto positivo, però, è che sembra ci sia una certa unione (a differenza, per esempio, dello sciopero della fame al 41) ma questo è forse dovuto a un po’ di ottimismo mio e difficoltà di comprensione visto che dall’isolamento non è facilissimo capire che succede. Ora, è ovvio che la situazione è particolare, una protesta per mantenere un lavoro sottopagato e sfruttato all’ennesima potenza, ma è anche vero che per alcuni quelli sono gli unici soldi disponibili. La cosa importante, in ogni caso, penso sia il fatto chela protesta sia di tutti, o quasi; oltre al piacere di rompere il silenzio costante di questo cubo di cemento, seppur in una maniera semplice. Devo dire che – a parte le motivazioni di questo caso specifico – se fatto con coscienza e unità, lo sciopero dei lavoranti può essere piuttosto significativo in un carcere. Detto questo, non mi sento di dire che sia questo il caso, però anche qui qualche piccolo disagio è stato creato. Ora vedremo come va avanti. Comunque vi scrivo queste poche righe anche per capire se in qualche altro carcere si è mosso qualcosa, se lo sapete, così da avere notizie e pensare a condividerle. Se sono dei tagli che stanno avvenendo a livello nazionale o meno, se avete letto qualcosa, anche per capire un po’ meglio. Intanto ad oggi è il terzo giorno di battiture, fischi, urla, e solo questo è stato qualcosa di insolito in quel di Tolmezzo. Con amore e rabbia

Rupert, carcere di Tolmezzo, 4 maggio 2019

***
Cari compagni e compagne, è giunta l’ora di dire qualcosa riguardo a quello che è successo in febbraio.
Sono passati poco più di due mesi dal nostro arresto con l’operazione “Renata”, e posso dire di essere sereno e forte, sicuro come non mai che la lotta prosegue nonostante i colpi inferti dallo Stato.
Il mio arresto a Torino, nelle vicinanze di corso Giulio, è avvenuto intorno alle 17,00 in modo tranquillo. Mentre stavo lasciando il compagno con cui mi trovavo, avevo notato il tipico poliziotto in borghese davanti a me alla fermata del tram, pochi secondi dopo mi sono trovato circondato. Posso dire che tutto si è svolto con molta tranquillità, e mi vien da dire con una fastidiosa “gentilezza”, al contrario di come sono stati trattati i miei compagni e compagne in Trentino.
Prima di partire per Trento pensavo ancora che il mio fermo fosse legato a dei definitivi che aspettavo da tempo. Qualcosa di strano lo percepivo: troppa gente con stellette in quei corridoi della caserma di Torino. Solo alla prima visita dell’avvocato ho scoperto che il giorno stesso dell’arresto mi sono state confermate le misure alternative al carcere. Una casualità? Sta di fatto che attorno alle 20,00 mi consegnano alcune carte riguardo ad una perquisizione nei miei confronti e nella casa in cui vivo. Ovviamente ho notato i “nostri” fatidici 270 bis, 280 bis ed una sfilza di altri reati. Sul momento, date e luoghi elencati non erano comprensibili, ma comprensibile era la mia reazione. Mentre leggevo, non mi sono sorpreso di quello che stava accadendo; niente agitazione né batticuore, ma la semplice certezza delle mie idee e convinzioni, certezza di aver sempre lottato per degli ideali di giustizia, di libertà, di uguaglianza tra tutti gli uomini e le donne.
Così, con questa strana tranquillità, ho affrontato il viaggio ai 70 km all’ora fino a Trento con quattro Ros. Arrivati alla caserma di Trento intorno alle 2,00 di notte, ho capito subito la vastità dell’operazione. La caserma era un formicaio di uomini e donne in divisa e non, valigioni, carte e cartacce.
È la terza volta in 8 anni che lo Stato mi accusa di “terrorismo” assieme a tanti miei compagni e compagne, ed un po’ la trafila la conosco, anche se ’sta volta sono anch’io uno di quelli a finire in gattabuia. Quando ci hanno fatto uscire dalla caserma, tutto era preparato per bene: sirene e lampeggianti spiegati per le foto dei miseri giornalisti appostati lungo la strada. Ho capito che la caccia agli anarchici era studiata nei particolari più infami, in modo da far da grancassa a chi sta in alto, i cui discorsi contro la libertà – oggi tristemente appoggiati da gran parte degli sfruttati – vengono rafforzati e propagandati sotto la luce dei riflettori.
Un’altra convinzione che mi ha tenuto, e mi tiene, tranquillo, è che qualsiasi cosa mi fosse successo o mi succeda i miei compagni non solo ci sono, ma hanno la forza di reagire a questo nuovo attacco. Respirare, anche se per poco, l’aria di Torino mi ha dato forza. Quella forza che dai compagni e solidali di quella città si è trasmessa in tanti luoghi. Sentire un clima coeso, determinato, non può che far bene a tutti e tutte, nonostante le difficoltà degli ultimi tempi. La cascata di telegrammi e lettere arrivataci ha confermato quelle mie sensazioni.
Da tanti anni pensavo quello che ha scritto il mio compagno Roberto: “L’ho sempre saputo, lottare per la libertà significa anche poterla perdere”. Parole semplice, chiare e soprattutto veritiere. Ora che in carcere ci sono, vedo e sento cose che a volte mi sono sfuggite (le due mie prime e brevi esperienze di carcere erano un assaggio di quello che vivo ora). Ora tocco con mano tanti miei ragionamenti fatti in questi anni di lotta. Stare qui a Tolmezzo vuol dire percepire come lo Stato e il suo apparato repressivo siano in costante lavoro e aggiornamento sui modi di isolare chi si ostina a lottargli contro. E ancor più dure sono le condizioni in cui si trovano le nostre compagne a L’Aquila, in quell’ibrido fra AS2 e 41 bis.
Vogliono togliere a questo carcere la fama di posto di aguzzini e picchiatori meritata all’epoca dell’ex direttrice Silvia Dalla Barca, anche se quelle mani pesanti sono ancora qui. Solo che ora i detenuti sono per la maggior parte in AS e provenienti dal sud Italia, non stranieri isolati a cui si può fare tutto quello che si vuole senza che nessuno lo sappia. La tattica ora è diversa. Il carcere è tutto spezzettato nelle varie categorie: mafia qui, mafia là, 41 bis, comuni, islamici, anarchici ecc. Tattica che sembra funzionare, se si pensa che tra i pochi “comuni” che ci sono alcuni si sono menati per insulti razzisti e pregiudizi vari, con gran favore per la Direzione. Penso che comprendere l’evoluzione delle carceri, la loro storia, i cambiamenti nel codice penale, il modo in cui vengono condotte le inchieste, non solo contro noi anarchici, sia molto utile per capire cosa dire e fare oggi sia fuori che dentro.
Oggi è il 25 aprile. Alcuni detenuti mi hanno chiesto se festeggiavo ed è stato interessante come in pochi minuti si convenisse che non c’è stata alcuna liberazione. La storia del movimento partigiano è molto complessa. Posso portare rispetto per quella lotta, ma anch’io parteggio. Se penso a quella lotta, penso a compagni come Pedrini, Tommasini, Mariga, Mariani e tanti altri, che il fascismo e lo Stato li hanno combattuti ben prima dell’8 settembre e ben dopo il 25 aprile. Soprattutto non hanno combattuto per fini politici e di potere, non hanno tradito gli scopi che tanti giovani, uomini e donne, si prospettavano con i loro sacrifici. È anche grazie a quei compagni, alle loro esperienze, ai loro racconti che io ora ho le conoscenze per affrontare il carcere con forza e dignità. Per me esiste un filo sotterraneo che mi unisce a quei compagni, non perché io abbia lo stesso coraggio – tante cose che loro hanno vissuto io non le ho provate sulla mia pelle –, ma perché cerco umilmente di portare avanti le stesse lotte e idee. Trovo ipocrita che, come ogni anno, su giornali quali il “Corriere della Sera” venga ricordato un grande fotografo come Robert Doisneau, il quale durante la guerra falsificò documento per il movimento francese della Resistenza, e allo stesso tempo si condanni e criminalizzi chi oggi scappa dai lager finanziati dall’Occidente dove è rinchiuso perché senza documenti e che solo tramite la fuga e la falsificazione dei documenti può cercare di sottrarsi alle autorità e rimanere libero. Questa giornata rispecchia l’ipocrisia della società in cui viviamo, in cui tutto può essere il contrario di tutto.
Questi sono tempi tristi. Le notizie di massacri indiscriminati si susseguono in modo angosciante. I fatti in Libia, Sri Lanka, Nuova Zelanda, Venezuela e tutti quelli tenuti nascosti fanno parte dello stesso lato della medaglia di altri massacri compiuti dai vari eserciti in giro per il mondo.
Tutti questi avvenimenti parlano di morti indiscriminate, sommarie, barbare, compiute non per scopi di emancipazione, ma che mirano a brutalizzare la vita per la sopraffazione e il potere.
In questo contesto di guerre e cambiamenti sociali di varia natura per l’ennesima volta il movimento anarchico nella sua storia viene accusato di “terrorismo”. Questa accusa è una grave offesa, la quale ha come scopo di denigrare le nostre idee e i nostri metodi. Lo Stato, che usa i metodi più sporchi e infami, quando ha paura o necessità va a colpire gli sfruttati più coscienti che lottano. In tanti modi gli anarchici si sono difesi da questi attacchi ribadendo la giustezza delle loro idee e pratiche nel tempo.
Anch’io ora voglio dire la mia. L’isolamento e questa cella non possono riuscire a tenermi zitto. Non mi passerà mai la voglia di portare chiarezza dove c’è la peggior confusione. Per farlo citerò dei fatti e delle parole di alcuni anarchici.
Da tanti anni in Russia, gli anarchici e non solo vengono uccisi, torturati, la propaganda imbavagliata, i familiari arrestati. Nel 2001 il giovane anarco-sindacalista Nikita Kalin viene ucciso con un colpo di pistola alla testa per via della sua attività nella fabbrica dove lavorava. Tanti altri sono stati colpiti da una feroce repressione dello Stato e dei suoi servi fascisti che negli ultimi anni non ha fatto che aumentare. Il 31 ottobre 2018, alle ore 8,52, ad Arkhangelsk, un giovane anarchico, Mikhail Zhlobitsky, muore dilaniato dalla sua bomba all’interno della Direzione regionale del FSB (il servizio segreto russo). Tre agenti vengono feriti e l’edificio viene danneggiato. Questo fatto drammatico ci fa capire che da una parte abbiamo perso un coraggioso compagno e che dall’altra la colpa di quanto successo è dello Stato. Se si mettono all’angolo le idee e la libertà, esse reagiranno con gli uomini e le donne più coraggiosi e determinati. Sono le condizioni sociali che fanno sì che simili episodi avvengano. E questo fatto non è “terrorismo”. Noi ora possiamo piangere il compagno scomparso, ma ancor più capire che la lotta debba andare avanti finché fatti come questi non siano più necessari.
Il 20 settembre 1953 uscì un articolo di Mario Barbari sul giornale anarchico “Umanità nova”, in cui quel compagno così commentava il libro di Giuseppe Mariani a proposito dei fatti del Diana del 1921:
“E il tiranno non è forse un leone famelico – sempre in cerca di brame conquistatrici – quando nella sua dispotica brutalità non esclude nessun mezzo ai danni di chi tenta di liberarsi dalla tirannia stessa nel timore che altri siano resi edotti della realtà che li schiaccia? Il tiranno è dunque l’espressione genuina della violenza e chi lo combatte combatte la violenza”.
Noi anarchici dobbiamo tenere una bussola che ci distingua sempre da chi usa la violenza per i suoi scopi cattivi. Malatesta la chiamava “ginnastica morale”, grazie alla quale il senso della violenza rivoluzionaria sia diverso da quello della violenza utilizzato dallo Stato tramite i suoi mezzi e servi. Uno dei nostri compiti è portare chiarezza in questa società basata sulla violenza, lottare perché finalmente la brutalità venga sostituita con la fratellanza e la solidarietà per tutto il genere umano. Forse oggi quella per rimanere umani è la battaglia più difficile, sottrarsi all’odio che ci circonda lo è ancora di più. Se ci riusciamo i nostri scopi potranno emergere con forza e lucidità.
Con le loro accuse ci vogliono buttare in un paniere il cui contenuto è più che marcio; noi invece dobbiamo rimanere incorrotti davanti alla barbarie.
Continuava Barbani:
“Non si tratta quindi più di violenza o non-violenza; di amare od odiare; di comprendere o compatire; ma di lottare strenuamente con tutte le nostre energie di uomini coscienti per estirpare la tirannia ed eliminare il giogo della schiavitù materiale e spirituale; e per questo, incitiamo ciascuno a comprendere se stesso per comprendere nel pari tempo gli altri.
Se domani una nuova aurora ci trovasse presenti alla realtà d’una rivolta di oppressi e di relitti umani, non disdegneremo di essere presenti nel fragore delle barricate ed anche allora saremo certi di non commettere alcuna violenza, ma di combattere la violenza!”.
Il libro Memorie di un anarchico di Giuseppe Mariani mi ha fatto più volte fare profonde riflessioni che mi hanno aiutato ad avere chiarezza su pratiche e metodi. Finisco questo discorso con le parole di Gigi Damiani presenti nell’introduzione al libro di Mariani:
“… Ma la storia ci insegna che vi sono momenti in cui la violenza diventa una necessità sociale. Solo è necessario, per quanto possibile, che essa non colpisca alla cieca e che non faccia pagare agli umili le colpe dei grandi”.
Penso che in questo momento, grazie purtroppo anche agli attacchi dello Stato contro il nostro movimento, abbiamo l’occasione di tornare con ancora più forza a parlare delle nostre idee, pratiche e sogni. Degli spazi, se pur piccoli, si stanno aprendo e noi dobbiamo criticare i movimenti riformisti e in malafede. Negli ultimi mesi tante persone si pongono diversi quesiti rispetto alla direzione che sta prendendo questa società, soprattutto con cortei di opinione che purtroppo hanno un carattere difensivo, riformista e non condivisibile. Tocca a noi, con chi ci sta, creare rotture e stimolare la realtà in modo tale che questa tenue ripresa di coscienza vada alla radice dei problemi sociali e non si faccia incantare da parole come democrazia-diritti-progresso-civiltà. La chiarezza e le nostre pratiche siano ora fondamentali per riuscire a creare un rapporto di forza necessario a far arretrare lo Stato e i padroni dai loro intenti. Anche qui ci vuole una sana ginnastica.
E se procuratori al di sotto di ogni sospetto come Raimondi e i questori di Torino e di Trento si sorprendono della solidarietà espressa a noi anarchici invitando la cosiddetta società civile a starci lontano, vuol dire che la strada è giusta, e non possono che farmi felice. Le nostre lotte, la nostra propaganda, le nostre pratiche, anche se in piccolo, spaventano in qualche modo chi di dovere.
Ringrazio di tutto cuore tutti i compagni e compagne che in questi mesi si stanno caricando di tante fatiche per portare avanti le lotte e la solidarietà a tutti noi in galera. Ringrazio tutti quelli che tramite assemblee, riviste, approfondimenti portano avanti il dibattito e la crescita delle nostre idee.
La mia sincera vicinanza va ai compagni e compagne indagati e rinchiusi in prigione per i processi “Scripta Manent”, “Panico”, “Scintilla” e tutti i compagni e compagne detenuti nelle galere di ogni dove.
La mia più viva preoccupazione va alla compagna anarchica Anahi Salcedo rinchiusa in Argentina in condizioni fisiche precarie e con mancanza di cure appropriate.
Un saluto fraterno vada a tutti i compagni latitanti che camminano sulle strade del mondo.
Ancora una volta: Per la Rivoluzione sociale, per l’Anarchia

Luca Dolce, carcere di Tolmezzo, 25 aprile 2019


Riflessioni sul Venezuela
Questo scritto nasce dal desiderio di fornire un contributo che possa aiutare a comprendere quanto in questi ultimi mesi sta veramente avvenendo in Venezuela. Inoltre, va sbugiardato l’insopportabile e gigantesco circo di menzogne, invenzioni ed interessate omissioni, che il governo Trump ha propagato nei media mainstream a livello mondiale e che vediamo tutti i giorni nei nostri giornali e televisioni.
Chi scrive ha vissuto e lavorato laggiù per alcuni anni, non tanto tempo fa, ha da poco visitato il paese e non ha mai creduto che le trasformazioni strutturali di una società possano avvenire con il voto ma attraverso la lotta e la solidarietà.
Si tratta di introdurre alcune questioni generali riguardanti alcuni fatti ed elementi evidenti, cercando di descrivere il più possibile la realtà concreta, senza fare difesa di ufficio di una posizione politica in quanto meno peggio o vedendo rivoluzioni dove non ci sono.
Ci sarà una seconda parte in cui si parlerà di alcuni fattori che hanno favorito l’attuale situazione politica e sociale, aggiornando su quanto successo nel frattempo.

GUERRA ECONOMICA, EMBARGO E SANZIONI DEGLI STATI UNITI CONTRO IL GOVERNO BOLIVARIANO
Prima di tutto, vanno spese alcune parole sulla legittimità di questo governo, ovvero se Maduro è effettivamente stato votato dalla maggioranza dei venezuelani. Il 20 Maggio 2018 si svolgono le elezioni in uno scenario in cui l’opposizione a Maduro non presenta candidati perché tanto avrebbero perso. L’unica persona che si candida per l’opposizione, Henry Falcon, viene sabotata dalle sue stesse file, in quanto i partiti tradizionali dell’opposizione antichavista lo disconoscono. Quindi in generale è stata una tornata elettorale dove gli elettori di destra hanno votato molto meno. Il campo bolivariano sembra aver avuto un calo di votanti ma meno della destra venezuelana.
Ci sono le immagini delle operazioni di voto, ci sono stati tantissimi osservatori internazionali, anche se nessuno può dire di avere una prova certa, scientifica e inattaccabile, ha vinto il candidato bolivariano. I due opponenti a Maduro hanno timidamente protestato per il risultato elettorale, parlando di illegittimità, senza fornire nessuna prova, senza presentare nessun ricorso e soprattutto, senza avere gli amici del nordamerica ad appoggiarli.
Il Venezuela oggi è un paese duramente colpito dalle sanzioni1 volute dal governo statunitense di Obama nel 2013, che si sommano ad anni di violenze e sabotaggi degli Usa, iniziati poco dopo il primo insediamento di Chavez nel 1999. Va detto che la situazione difficile in termini sociali non è quella presentata dai nostri media e dall'imperialismo, non è la grave situazione umanitaria di Haiti, e allora l'invito a tutti quelli che credono alla propaganda dei nostri media, è di andare a vedere cosa succede ad esempio ad Haiti in termini di fame e oppressione, con un governo, quello haitiano, che a differenza di quello venezuelano, è amico dell'occidente.
Le recenti sanzioni contro il Venezuela sono state successivamente ampliate ed approfondite dall’attuale governo Trump e sono pubblicate sulle pagine web dei ministeri del governo statunitense e negli atti pubblici del congresso di quel paese, chiunque può leggerle se volesse veramente fare informazione o capire bene perché il Venezuela vive ora questa crisi.
Gli Usa presentano le sanzioni come misure atte a proteggere il popolo venezuelano dai vari presunti violenti del campo chavista (istituzioni e movimenti popolari), ma è falso: di fatto mirano a impedire al Venezuela di operare sulle piazze commerciali mondiali come invece poteva fare prima e come avviene in generale per tutti gli altri paesi. Non è certo il primo caso, anzi a livello mondiale ci sono diverse nazioni colpite da misure simili da parte degli USA: Russia, Iran, Siria, Cuba…
L’implementazione delle sanzioni, dopo la loro iniziale applicazione ristretta ad alcuni rappresentanti del personale politico bolivariano, si è estesa a tutta la società. Ora ad esempio una banca europea con sedi e sportelli anche negli Usa, blocca anche i bonifici interni, ovvero tra due conti della stessa banca, solo perché uno dei due intestatari è venezuelano, anche se è un semplice privato cittadino. La motivazione ufficiale del divieto è proprio: embargo economico.
Bisogna provare a immaginare che ripercussioni queste misure possono avere sul normale funzionamento sociale e produttivo di un paese, nel peculiare caso del Venezuela. Questo ha da svariate decine di anni una economia e una società basata sull’estrazione del petrolio, di cui è ricchissima, insieme ad alti minerali preziosi. La rendita del petrolio e la sua socializzazione sono fattori determinanti della sua struttura economica, sociale e lavorativa. Di fatto, in un paese di questo tipo, avviare una produzione, ad esempio, di alimenti, sarebbe sempre un affare molto poco redditizio in quanto è generalmente più economico importare dall’estero. Una società con queste caratteristiche vive quindi nella dipendenza degli acquisti nel campo internazionale di tutti i tipi di prodotti, quelli dell‘agro industria, dell'industria e delle tecnologie, una dipendenza maggiore di altri casi. Il governo bolivariano/chavista aveva avviato percorsi di creazione della propria industria e agroindustria, per costruire la propria indipendenza produttiva, ma ciò non si è generalizzato ed è stato riassorbito dal sabotaggio dei governi nordamericani che non gli hanno dato pace e che recentemente, hanno saputo approfittare dello scenario regionale di accerchiamento e della struttura economica venezuelana che, come si diceva, è fortemente legata alla rendita del petrolio. Questo aspetto è conosciuto, voluto e viene ampiamente sfruttato dalle sanzioni che quindi hanno impatti enormi sulla società venezuelana. L'obiettivo è sempre stato quello di affamare il popolo venezuelano e accusare poi di ciò il governo bolivariano, lo dicono i gringos stessi nelle loro dichiarazioni e sono anche stati intercettati documenti riservati che pianificano questa strategia2 per il Venezuela già da oltre 10 anni.
È a causa delle sanzioni e delle altre ingerenze degli Stati Uniti in Venezuela (come il sabotaggio della produzione del petrolio e lo stimolo al contrabbando) che quindi si arriva a questa difficile situazione sociale. Il potere di acquisto dello stipendio minimo, dal 2015 in avanti, ovvero dal momento in cui le sanzioni sono diventate legge negli Usa, è sceso progressivamente. Si è ridotto fino al punto che, con il salario di un mese da impiegato pubblico, uno stipendio con cui, anni fa, si poteva normalmente vivere, oggi si possono comprare solo tre pacchetti di sigarette! Questo aspetto ha eroso fortemente il consenso attorno al governo bolivariano, ha galvanizzato l’opposizione antichavista che comunque non ha saputo portare in piazza più manifestanti: è la propaganda dei nostri media qui che ci da l’idea che tutto il popolo venezuelano sia contro il governo bolivariano, perchè nelle giornate di mobilitazioni ci fanno vedere solo la manifestazione contro il governo e omettono apposta le immagini di quella pro governo, che comunque rimane la piazza più gremita.
È quindi per il bassissimo potere di acquisto dei salari venezuelani che solo in questi ultimi mesi Trump ha deciso di passare a un conflitto più aperto e diretto contro il Venezuela, il più forte mai visto. Il 9 Marzo 2019 vengono annunciate manifestazioni da parte del settore antichavista. Guaidò3, dopo la messa in scena degli aiuti umanitari dalla Colombia, è tornato nel paese e guida le “masse”, ma non da solo. Infatti, il giorno prima della manifestazione del campo imperialista e dell’opposizione venezuelana, avviene un primo blackout, in tutto il paese, che si protrae per 10 ore, poi a seguire torna l’elettricità ma poco dopo, sparisce ancora, per altre 10 ore. Di 10 ore, in 10 ore, per 4 giorni almeno, ancora all’11 di Marzo, una gran parte del Venezuela è al buio. In questo modo, oltre agli impatti enormi nella società, si scongela la riserva degli alimenti che i venezuelani hanno in casa stipati nei refrigeratori, scarseggia l’acqua, ma soprattutto serve agli Usa per dire che Maduro non controlla il paese. Non c’è bisogno di stare a dimostrare che sono stati gli Stati Uniti, è tanto evidente che anche lo stesso Guaidò ammette che è così. Si tratta di terrorismo, “se Maduro se ne va, torna la luce”, così Guaidò tranquillizza la popolazione.
Trump continua a gettare sempre più nel caos la società venezuelana, ricattando di fatto l’esercito bolivariano perché appoggi il colpo di stato. Va sottolineato che, fino a quando gli emissari di Trump fanno appelli all’esercito, allora vuol dire che le forze armate continuano ad essere schierate in maggioranza con la costituzione venezuelana e quindi con il governo bolivariano di Maduro.
Già prima di queste sanzioni, il governo venezuelano ha subito anni di sabotaggi e tentativi di colpo di stato. Ad esempio, quello più conosciuto del 2002, a soli 3 anni dal primo insediamento del governo Chavez. In ogni caso, fino al 2013-2015, la situazione sociale in Venezuela era stata molto migliore di quella attuale e sicuramente meglio di quella di molti altri paesi del latinoamerica in quanto era possibile vivere del proprio salario e accedere a una vasta quantità di prodotti, alimentari e non, sussidiati dallo stato a prezzi bassissimi (il governo aveva acquisito catene di supermercati presenti in tutto il territorio nazionale, ora chiusi). Questo aveva permesso una importante riduzione della povertà, specialmente estrema ed infantile e un azzeramento dell'analfabetismo. Inoltre era stato migliorato di molto il rapporto del cittadino con lo stato, generando politiche contro la corruzione negli uffici pubblici e di riduzione dell'oppressione delle istituzioni dello stato nei confronti del popolo, oppressione che invece aveva caratterizzato, insieme alla fame, tutti i governi precedenti a quello di Chavez. Ad esempio, con Chavez sono stati bloccati gli sgomberi e gli sfratti delle abitazioni e delle sedi di tutti i movimenti popolari e della sinistra. Per quanto riguarda la questione abitativa (ma anche nelle fabbriche e nei territori), è stato stabilito con il governo di organizzarsi in assemblee e rappresentanti (che si turnano) per ogni edificio occupato, per “elevare” al governo i progetti per le ristrutturazioni di ogni singola situazione. Sia negli ambiti popolari più o meno organizzati e/o militanti, sia nell’ambito delle istituzioni bolivariane, si è sviluppato l’interesse storico, culturale e politico per la “Comune di Parigi” e altre esperienze simili, anche le declinazioni “tropicali”, come forma di organizzazione assembleare legittima e riconosciuta, attorno alla quale costruire una nuova società4. Per quanto riguarda la polizia, dopo vari scioglimenti, accorpamenti e rifondazioni, è stato avviato il progetto di creazione di quell'improbabile figura di un “poliziotto non oppressore del popolo”, cosa che comunque ha garantito che non succedesse quanto avveniva negli anni ‘90, prima dei governi bolivariani, dove, ad esempio le proteste degli studenti medi a Caracas venivano represse coi fucili a pompa dei poliziotti. Va segnalato inoltre che, con la nuova costituzione approvata all’inizio del governo Chavez, sono stati introdotti una serie di elementi legali che garantiscono la libera possibilità di protesta popolare e dove, ad esempio, il blocco stradale generato da proteste sociali legittime, non è sanzionato o comunque non è configurato come reato penale, come invece viene fatto nel fascismo e nell'attuale governo italiano giallo-verde, che prevede pene che vanno dai 2 ai 12 anni. Questo strumento è in uso oggi: nel lavoro o nel territorio si ha il pieno diritto a organizzarsi e lottare e in generale la polizia non può reprimere come faceva negli anni ‘90. Va ribadito che però qui si sta parlando di lotte popolari, questioni ad esempio legate a fatti specifici di mala amministrazione locale e nazionale su temi sociali.
Le proteste dell'opposizione venezuelana contro governo bolivariano invece non sono lotte ed inoltre non è vero che sono duramente represse dal governo bolivariano. Prima di tutto, non sono lotte, l’opposizione solamente straparla di libertà ma inteso come libertà di impresa, sfruttamento e repressione contro il popolo, il loro modello sono i governi anteriori a quello attuale. Sono mosse politiche pianificate e finanziate dagli Usa, sono estremamente violente contro i “rossi” che incrociano al loro passaggio5 e sono colossali messe in scena mediatiche dove i Guaidò sono solo delle comparse: in 20 anni di scontri contro l’imperialismo, il Venezuela ha conosciuto vari “Guaidò”. Si tratta qui di capire che nei manuali dell’imperialismo è da tempo suggerito in questi casi di fare ampio uso di attentati di bandiera falsa, come hanno fatto anche in Italia, ad esempio, con piazza Fontana, dove i colpevoli, secondo la versione imperialista, sarebbero stati gli anarchici ed invece sappiamo come è andata davvero. Poi riguardo alla presunta repressione verso l’opposizione, ad esempio, i giornali italiani sul Venezuela usano titolare, “Giornata di proteste contro Maduro in Venezuela, 10 morti”, ma quei 10 morti sono causati dagli imperialisti e le vittime sono spesso quasi tutti nel campo bolivariano. Questa è la forma in cui solamente usando i titoli dei telegiornali, la stampa italiana e mondiale, cerca di confonderci e purtroppo troppo spesso ci riesce. La abile manovra mediatica in questi casi, prevede che rimanga impresso il primo annuncio di una notizia e non il fatto che poi si rivela falsa.
Siccome poi in Italia hanno ampiamente e scientificamente omesso i sabotaggi e le sanzioni degli Usa contro il Venezuela, e ora ci giungono notizie di quanto sia difficile vivere laggiù, è ovvio che ci chiediamo da dove arrivi questa situazione. Ed è facile concludere che la responsabilità stia tutta nel campo bolivariano, questa è la manipolazione mediatica da smontare. Altre notizie che ci vengono omesse apposta sono ad esempio il furto delle risorse venezuelane depositate all'estero, come l’oro venezuelano che è stato sequestrato/rubato dal governo inglese.
Oltre a quanto detto circa la perdita di acquisto dei salari in Venezuela, più in generale, gli Usa fino a qualche anno fa, con i governi progressisti latinoamericani in carica in quel momento, avevano perso l'egemonia sul controllo delle ricche risorse latino americane. Ovvero i governi di Bolivia (Morales), Ecuador (con il precedente governante Rafael Correa), del Brasile (quello anteriore di Lula), dell'Argentina (quello anteriore di Cristina Fernández de Kirchner), Cuba e naturalmente del Venezuela, avevano costituito un blocco di paesi latino americani che privilegiavano rapporti commerciali con Cina, Russia e Iran. Oltre a questo aspetto, in particolare il Venezuela, ha da un anno a questa parte, iniziato una cooperazione militare con la Russia, prefigurando la presenza militare russa nel suo territorio, con forse una base navale. Quindi sia la perdita di egemonia economica che le cooperazioni strategiche nel campo militare, sono i due aspetti che negli ultimi anni rendono aggressivi gli Usa, che tentano l’affondo con il Venezuela dopo aver creato un accerchiamento regionale a questo paese e dopo averne debilitato fortemente l’economia e la società.

Note:
1) “S.2142 - Venezuela Defense of Human Rights and Civil Society Act of 2014”, le sue applicazioni e le sue successive estensioni da parte di Trump.
2) “13 Passi per uscire dal labirinto”, documento intercettato dai servizi di intelligenza bolivariana che contiene il piano di un colpo di stato contro Chavez, poi fallito, previsto per il 2007 e 2008.
3) Guaidò, formatosi nella scuola di Belgrado delle “rivoluzioni colorate”, strategia Usa per imporre colpi di stato “non violenti”.
4) “Comuna o nada”, slogan coniato da Chavez, è il risultato del contatto diretto che c’é sempre stato tra le organizzazioni popolari e il governo.
5) Nel 2017 al passaggio delle manifestazioni dell’opposizione, a Caracas in vari casi sono state attaccate delle persone per il solo fatto di avere la maglietta di Chavez. Accerchiate, torturate e poi bruciate.