Aggiornamenti sui Centri di reclusione per emigranti senza i documenti “giusti”
I CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) di Gradisca d’Isonzo, Modena e Milano, che dovevano riaprire a
giugno, sono ancora chiusi.
Sono in funzione quelli di: Bari (riaperto a novembre 2017, Ente gestore Cooperativa Badia Grande), Brindisi
(riaperto nell’autunno 2015, Ente gestore Cooperativa sociale Auxilium, è in corso una nuova gara d’appalto),
Caltanissetta (chiuso a fine 2017 dopo una rivolta, riaperto a dicembre 2018, Ente gestore San Filippo Neri),
Roma – Ponte Galeria (dove è stata riaperta anche la sezione maschile, prima era solo femminile, Ente gestore
Gepsa), Potenza – Palazzo San Gervasio (in funzione dal 12 gennaio 2018, Ente gestore Engel Italia srl ), Torino
(Ente gestore Gepsa) e Trapani (che da Cie era diventato Hotspot e poi riconvertito in Cpr da ottobre 2018, Ente
gestore Cooperativa Badia Grande)

UN LAGER PER IMMIGRATI STA PER RIAPRIRE A MILANO
A Milano, sabato 29 giugno, per tutto il pomeriggio si è tenuta una giornata al parco di fronte al Cas di via
Corelli contro l’apertura del CPR, concerti, banchetti informativi, mostre, cibo, torneo di calcetto. Segue il
testo del volantino distribuito a firma Punto di Rottura.

Nell’autunno 2019, il CPR di via Corelli a Milano dovrà riaprire. I Centri di Permanenza per il Rimpatrio sono
lager in cui vengono rinchiusi gli emigranti senza documenti per essere poi deportati nei loro paesi d’origine. Si
tratta di una segregazione su base razziale che utilizza pestaggi, psicofarmaci, stupri e violenze di ogni natura
come strumenti di controllo dei reclusi. L’esistenza di queste strutture è inaccettabile.
Il CPR fa parte di un programma, in fatto di politiche sull’immigrazione, che parte da lontano con la legge Turco-
Napolitano che istituì questo genere di reclusione amministrativa, recentemente riaggiornato con la legge Minniti-
Orlando e infine ripreso dal governo Lega-M5S con un inasprimento in materia di odio razziale e guerra ai poveri.
L’applicazione della legge Salvini su sicurezza e immigrazione coinvolge chi non si conforma al sistema dominante,
emigranti e non. L’introduzione di regole sempre più complesse per ottenere i documenti, il potenziamento della
repressione e degli strumenti di controllo hanno lo stesso scopo: limitare la libertà di tutti e tutte e
abbassare, fino a eliminare, il livello di conflitto.
Ricordando le lotte contro il CPR avvenute in passato e discutendo della situazione presente, vogliamo iniziare a
organizzarci contro il nostro nemico comune.

LIONE – COMUNICATO DELLE PERSONE RECLUSE NEL CRA IN SCIOPERO DELLA FAME
Da martedì 2 luglio, le persone detenute nel centro di reclusione amministrava di Lione Saint-Exupéry hanno
iniziato uno sciopero della fame per denunciare le condizioni che vivono. Ecco un comunicato firmato dalle persone
detenute nel CRA, in due blocchi, quello giallo e quello blu, che vogliono fare girare il più possibile; così come
una lettera consegnata agli sbirri della polizia di frontiera (PAF) del CRA.
“A nome di tutte le persone detenute nel Centro di Reclusione Amministrativa di Lione Saint-Exupéry.
Oggetto: Descrizione e spiegazione delle condizioni di reclusione nel CRA Saint-Exupéry
Signora, Signore, a nome di tutte le persone detenute nel Centro di Reclusione Amministrativa di Lione Saint-
Exupéry, vi scrivo per segnalarvi la situazione ad oggi nel centro. Siamo sottoposti a decisioni e ordini
arbitrari e disumani da parte dei poliziotti della PAF, ovvero violenze fisiche, isolamento, divieti di portare
cibo nelle stanze (la cena è servita alle 19 e la colazione alle 8.30 =>13.30 tra i due pasti).
Subiamo inoltre violenze psicologiche, ovvero ripetuti insulti, spegnimento delle luci nei corridoi durante la
notte per “punirci”… Siamo anche stati testimoni di mancate cure per alcuni reclusi, della confisca di materiale
medico di loro proprietà (stampelle).
Chiediamo e reclamiamo che questa situazione cambi e chiediamo e reclamiamo la visita di responsabili che possano
verificare con i loro occhi ciò che dichiariamo… Abbiamo iniziato uno sciopero della fame generale il 2/07/2019
alle 18.30.
Questa è una richiesta di aiuto. Troverete sul retro della pagina il nome e le firme di tutte le persone recluse”
Solidarietà alle persone imprigionate! Forza a tutte le persone in lotta! Abbasso i CRA! Fuoco alle frontiere!

BARI – ARRESTI DOPO LA RIVOLTA DI APRILE NEL CPR
Il 28 giugno i media hanno riportato la notizia dell’arresto di sette persone ritenute responsabili della rivolta,
incendio e tentativo di fuga avvenute la notte del 27 aprile 2019 nel CPR di Bari Palese. Dei 7 fermati, tre sono
stati rintracciati nello stesso CPR di Bari, dove erano ancora reclusi, e quattro catturati a Taranto, Milano,
Udine, e La Spezia. Per altre 4 persone, denunciate insieme ai 7 per “devastazione in concorso”, sono ancora in
corso le ricerche.
Secondo le accuse, la notte del 27 aprile “una ventina di ospiti [!] hanno, in un primo momento, incendiato alcuni
materassi e del materiale cellulosico posizionato a ridosso delle porte d’ingresso interne alle sale benessere dei
moduli nr. 6 e 7, in seguito hanno dato fuoco ad altro materiale accatastato nel corridoio centrale del modulo
nr.1 ed infine hanno incendiato svariati materassi nel modulo nr.3, distruggendolo completamente e rendendolo
inutilizzabile”.
Gli investigatori sostengono di essersi avvalsi, per l’identificazione dei responsabili della rivolta, sia delle
riprese delle telecamere di sorveglianza, sia delle “importanti testimonianze di personale della cooperativa
addetta ai servizi ed all’assistenza all’interno del Centro”.
Quello di Bari è forse il lager con le condizioni peggiori in Italia, usato anche come centro punitivo dove
trasferire le persone che protestano negli altri CPR. Eppure anche in questo campo di concentramento sono
frequenti gli scioperi della fame, i tentativi di evasione, le rivolte e le proteste individuali, che a volte
assumono la forma dell’autolesionismo. Qualche giorno fa un recluso è stato trasportato in ospedale per aver
ingerito delle batterie. Un quotidiano locale riportava ieri le lamentele di dirigenti e operatori del 118 barese:
“Dal CPR di Bari, le ambulanze del 118 vanno e vengono più volte al giorno, nonostante il Centro di Permanenza per
il Rimpatrio abbia, o almeno dovrebbe avere, una convezione per il trasporto degli ospiti da e verso gli ospedali
per gli interventi sanitari non in emergenza. Per i controlli, insomma, esami, e via dicendo. A questo si
aggiungerebbe poi la circostanza, quanto mai grave, di trovare a volte l’infermeria del centro di Permanenza
chiusa, cosa che impedirebbe agli operatori del 118 l’accesso alla cartella clinica dell’ospite da trasportare, e
non poter somministrare una eventuale terapia farmacologica per il rischio di allergie o interazioni con altri
medicinali.”
Ai primi di giugno una familiare di un recluso ha raccontato la testimonianza diretta di un mancato soccorso: la
persona soffriva da giorni di dolori al petto, nel lager non aveva ricevuto nessuna assistenza medica ma una
volta chiamata e arrivata l’ambulanza gli è stato impedito l’ingresso. Per chi ha problemi di salute nel CPR,
spesso l’unico trattamento ricevuto è quello a base di psicofarmaci, tra ansiolitici, antidepressivi e
tranquillanti.
Ci sono devastazioni e devastazioni. Da una parte c’è la devastazione subita dalle vite delle persone che a
migliaia vengono imprigionate in questi campi di concentramento “democratici”. Dall’altra c’è quella per cui
festeggiamo: di ogni CPR solo macerie. Solidarietà a chi, dentro o fuori le mura dei lager, vi si oppone.

SCIOPERI DELLA FAME, RIVOLTE ED EVASIONI
Da mercoledì 3 luglio, 72 persone recluse nel CPR di CALTANISSETTA-PIAN DEL LAGO sono in sciopero della fame per
protestare contro la detenzione e la deportazione di 18 persone verso la Tunisia prevista per giovedì.
Veniamo a sapere di questa lotta non grazie a una comunicazione diretta da parte dei reclusi, o dai contatti che
spesso si riescono a intessere durante un presidio solidale all’esterno delle mura, o ancora leggendo qualche
media locale o nazionale (i quali in genere danno spazio alle proteste, per criminalizzarle, solo quando provocano
danni ai lager).
Questa volta a dare notizia della protesta è stato lo stesso ministro dell’interno con un post sui social network
dove prende in giro gli scioperanti (“peggio per loro”) e gongola per il risparmio di soldi ottenuto in
conseguenza dello sciopero della fame.

La sezione maschile del CPR di PONTE GALERIA A ROMA, ristrutturata e riaperta da circa un mese, è stata finalmente
inaugurata nel migliore dei modi: tra il 5 e il 6 luglio una grande rivolta è divampata nella sezione maschile,
per protestare contro le invivibili condizione nel lager. Secondo quanto riportato dall’unica fonte al momento
disponibile, un articolo di un sindacato di guardie, diverse decine di reclusi, dopo aver divelto porte divisorie
e infissi, “hanno scavalcato e forzato il presidio interforze posto a protezione e vigilanza della struttura”. I
fuggitivi si sono dispersi nella zona, alcuni sono stati catturati e riportati nelle celle, al momento 17 persone
sono riuscite a riconquistare la libertà. Si parla di alcuni feriti, per “essersi procurati lesioni con lamette e
altre armi improvvisate”.

DI MORTE NATURALE
Piu che un’osservazione medica, questa valutazione iniziale del medico legale ha il sapore acre ed artefatto della
sentenza.
Sahid da quello che raccontano i detenuti del CPR TORINESE era dello Sri Lanka, cingalese, con problemi psichici
che rendevano la sua detenzione ancora più insopportabile. Se ne lamentava, ma nessuno riusciva a capire cosa
dicesse di preciso perché non parlava nessuna lingua che gli altri conoscessero; vedevano che veniva spostato
dall’amministrazione del centro da un’area all’altra con continui sfottò: “occupatevene voi di questo qui!”. Alla
mercé.
Tutti dentro sapevano che le sue condizioni fisiche non erano adatte alla detenzione, non perché vi sia qualcuno
più idoneo, ma perché formalmente anche in questi gironi d’inferno sono stabilite delle soglie di sopportabilità
rispetto alle quali alcuni individui non dovrebbero finirci dentro, o al massimo dovrebbero essere liberati.
Questo è avvenuto pochissime volte negli ultimi anni e persone allo stremo sono state tenute dentro, come Tomi
qualche mese fa.
Così Sahid, lasciato a sbavare e sbraitare, con 40° e un solo litro di acqua potabile, data calda, la razione che
spetta giornalmente nonostante la canicola. Al trattamento dell’afflizione detentiva si è poi aggiunta la violenza
da parte di due detenuti, l’hanno stuprato e inferto ferite tali che ci ha lasciato la pelle. La sua morte è
tutt’altro che naturale, e non solo per la violenza sessuale e le sue conseguenze, ma perché dopo che è avvenuta,
per più di dieci giorni, Sahid è stato lasciato a marcire in isolamento, marcire letteralmente: da quello che si
sa è morto il 7 luglio di sera, se ne sono accorti solo alla mattina di ieri. Una persona stuprata e ferita non è
stata portata all’ospedale ma in isolamento, lasciata senza cure, come da norma, in un centro in cui la polizia
non fa entrare neppure le ambulanze presentando come scusa la presenza di un infermieria, “l’ospedaletto”, dove
tutto si cura magicamente con un cocktail di paracetamolo e psicofarmaci.
Gli altri reclusi nei giorni dopo il fatto, si sono scagliati contro gli aggressori di Sahid, uno dei quali è
stato successivamente deportato, l’altro arrestato, e hanno formalmente segnalato quello che era accaduto alla
Procura, anche se da ieri nelle alte stanze di tribunali e polizia fanno tutti spallucce dicendo di non aver
saputo quanto stava accadendo. Alla notizia della morte i detenuti hanno iniziato una serie di proteste che ha
coinvolto tutti dentro al centro con battiture, rifiuto dei cibo e casino per tutta la giornata di ieri. Alla sera
è arrivato in c.so Brunelleschi un folto gruppo di solidali per inneggiare insieme alla libertà e andare oltre la
divisione delle mura e del cordone di celere e Digos. Da subito la rabbia dei ragazzi dentro si è fatta sentire,
colonne di fumo hanno iniziato ad alzarsi, probabilmente hanno appiccato il fuoco a ciò che avevano nelle stanze.
Poco dopo, anche a chi era fuori, era chiaro che cosa stesse avvenendo nel centro torinese: la celere all’interno
della struttura stava lanciando lacrimogeni e utilizzando l’idrante per reprimere la rivolta. I colleghi in
antisommossa fuori, non da meno, durante tutto il presidio piuttosto nervosi, hanno allora caricato più volte i
solidali mentre erano intenti a raggiungere la strada per un blocco del traffico. Non sono riusciti però a
disperdere il gruppo, nuovamente tornato sotto al centro per continuare a sostenere le proteste dei rinchiusi.
Questa è una storia che non deve passare come una triste cronaca, non c’è nulla di naturale in questa morte perché
Sahid è stato lasciato a morire intenzionalmente e non è la prima volta, avvenne anche nel 2008 quando un ragazzo
venne lasciato a crepare di polmonite nel suo letto.
Due morti in dieci anni, lasciati morire perché non curati.
Ma per quel posto non c’è nessuna cura possibile, quel posto dev’essere distrutto e stasera è necessario tornare
là sotto per ribadirlo.
Ore 20:00 presidio sotto al lager di Torino.
9 luglio 2019, da autistici.org/macerie

MACOMER (NU), LA PRIGIONE VIENE DESTINATA AI MIGRANTI
Diverse ex caserme verranno convertite in carcere, alcune ex carceri verranno invece convertite in centri di
permanenza e rimpatri (cpr).
È il caso della Sardegna, in particolare l’ex carcere di massima sicurezza di Macomer. La struttura, finiti i
lavori di sistemazione, dovrebbe ospitare un centinaio di “ospiti”, anche se, forse, bisognerebbe scrivere
“detenuti”, perché di fatto lo sono, anche se non hanno commesso nessun reato. Infatti si parla di “detenzione
amministrativa”. Secondo le direttive del ministero dell’Interno, già quest’anno dovrebbe entrare in funzione per
una cinquantina di migranti. “I bandi di gestione sono già stati emessi – ha spiegato Francesca Mazzuzi, referente
per la campagna LasciateCIEntrare dell’isola. Nelle intenzioni del ministro Matteo Salvini, come di chi l’ha
preceduto e degli amministratori regionali e locali, questo dovrebbe fungere da deterrente per chi sbarca in
Sardegna lungo la rotta algerina ma sappiamo bene che non ci sono deterrenti che reggono per chi non ha
alternative a quella di scappare da fame e guerre e per chi, come gli algerini, desidera fortemente un futuro
migliore. Proprio come è stato per i Cie, questa struttura non servirà a nulla se non a raccattare facili consensi
in campagna elettorale ed a calpestare i diritti di chi ha già sofferto troppo”.
L’ex carcere di Macomer era stato chiuso proprio perché non rispondeva ai parametri minimi di legge previsti per
la detenzione. Celle strettissime, compresi gli spazi interni. Già l’anno scorso era nel programma di convertirlo,
ma il bando era stato revocato dalla Prefettura di Nuoro visto che era saltato l’accordo con la Regione, gli Enti
Locali e il Ministero dell’interno. Quest’anno invece ci si riprova.
Sette ditte hanno concorso e tra queste compare anche quella che aveva gestito il Cara di Mineo, a suo tempo molto
contestato per la gestione.
I Cpr, ricordiamo, servono per ospitare gli immigrati in attesa di essere rimpatriati pur non avendo commesso
alcun reato che ne permetta la custodia. Tutto ha origine dalla legge del 1998, detta la Turco – Napolitano, la
quale ha stabilito la realizzazione di Cpt ( Centri di Permanenza Temporanea) in cui le persone potevano essere
trattenute per un periodo massimo di 30 giorni.
L’esperienza si dimostrò sin dall’inizio a dir poco problematica: nei centri finirono soprattutto ex detenuti e
persone che non sono poste in condizione di regolarizzare la propria posizione. Le stesse strutture ( ex ospizi,
caserme dismesse, container etc…) si dimostrarono inadatte a garantire condizioni di vita decenti. Da subito
diventano teatro di rivolte, di fuga, di atti di autolesionismo in alcuni casi con esito tragico. Già da allora
anche la gestione dei centri risente di numerosi aspetti critici: la sorveglianza esterna viene affidata alle
forze dell’ordine e la responsabilità affidata alle locali prefetture, la gestione a enti privati che ottengono
l’appalto con gare a trattativa privata gestite dalle prefetture competenti.
Dopo una parziale messa in discussione delle politiche fallimentari di detenzione e una sensibile diminuzione dei
giorni di trattenimento (a ottobre del 2014, un emendamento dei senatori Manconi e Lo Giudice ha consentito la
riduzione del periodo massimo di trattenimento degli stranieri all’interno dei CIE a novanta giorni) e del numero
dei centri, le recenti e nuove disposizioni della legge Minniti-Orlando, – riprese dal ministro dell’Interno
Salvini –, vanno in tutt’altra direzione: prevedono la riapertura dei centri chiusi, portandoli a uno per regione.
Oltre all’incremento del tempo di trattenimento che vanno da 90 a 180 giorni. (9 luglio 2019, da ildubbio.news)

DALLA FRANCIA
Qualche settimana fa le prigioni per stranieri e straniere di Oissel e poi di Rennes sono state in parte distrutte
dalle rivolte dei prigionieri. Lo scorso fine settimana, il 22/23 giugno, nel CRA 2 del Mesnil – Amelot ha avuto
luogo un’altra rivolta. Risultato: tutta la sezione 9 del CRA 2 è stata bruciata. La prefettura si è data da fare
per mettere in atto la repressione: deportazione violenta il giorno dopo l’incendio, trasferimento negli altri
centri di detenzione, GAV, minacce di processi.
Sabato 22 giugno, in molte città francesi (Sète, Marsiglia, Rennes, Toulouse e Parigi) hanno avuto luogo diverse
mobilitazioni contro i centri di detenzione e a sostegno dei prigionieri di Rennes detenuti perché accusati di
essere stati all’origine dell’incendio che ha distrutto la metà del centro.
Riportiamo qui le parole dei prigionieri del CRA di Mesnil e/o delle persone trasferite in seguito all’incendio:
“È stato di sera, tra le undici e mezzanotte. Tutti l’hanno visto. Sono venuti nella sala della televisione, hanno
portato delle lenzuola e dei materassi. Alcuni volevano impedirlo. Ma non volevano sentire ragioni. Dopo ci siamo
allontanati e tutto ha preso fuoco. Più tardi sono venuti i pompieri. Ieri sono stato messo in custodia cautelare
(GAV), fino alle 3 o 4. Poi mi hanno trasferito in un altro centro. Ti dico perché hanno fatto questo. Perché ci
sono dei civili che ci trattano sempre male, che ci picchiano. Alcune volte, vengono presto la mattina e buttano
fuori dalla sezione fino a mezzogiorno. Dicono che è per la pulizia, ma dopo il bagno puzza … è un casino,
bisognerebbe esserci per credere! Il cibo… il cibo…. Ogni giorno ci danno del pesce. Un giorno era guasto il
pesce. Anche l’acqua qui fa schifo. Non è fresca anche con il sole. Alcune volte, mentre siamo fuori vengono con
le macchine di fronte alle recinzioni e accendono i fari. Per colazione, se non ti svegli alle 7 non hai diritto a
niente. Per l’infermeria, e la Cimade (un’associazione di solidarietà con le persone immigrate NdT.), capita di
aspettare delle ore al sole. E’ per questo che l’hanno fatto! Aspetti delle ore al sole e poi ti dicono: Bah è
chiuso.
C’è stata un’espulsione, 3 trasferimenti negli altri centri, 1 o 2 trasferimenti nel CRA 3 (perché qui ci sono due
centri).
Prima di questa rivolta ci sono state altre lotte. Ce n’è stata una di una settimana intera, durante il Ramadan.
Soprattutto i marocchini e gli algerini. Una settimana intensa! Non vedevamo neppure i medici, perché qui sono
delle guardie non dei medici. Ma questo sciopero non è servito a nulla. Le guardie sono diventate più violente, è
stata dura per niente. Non ci hanno dato nulla, neppure la pulizia dei bagni. Poi, dopo l’incendio, hanno
sgomberato tutto il blocco.
Ci sono dei Palestinesi e dei Libanesi qui, mentre c’è la guerra laggiù. È dura no?! È il seguito della
colonizzazione. Poi parlano dei diritti dell’uomo…
C’è una famiglia e dei bambini e bambine. I genitori erano handicappati. Li hanno liberati, ma comunque li hanno
messi dentro un centro di detenzione! Perché? Perché non avevano i documenti giusti.
Io dopo l’incendio sono stato portato all’ospedale… a causa del fumo, lo sai, quando respiri il fumo è dura. Alla
fine dei 3 giorni mi hanno riportato al centro…”

Notizie tratte dal blog hurriya.noblogs.org

***
COMUNICATO DEI RIFUGIATI IN SVIZZERA
Nuove leggi sconvolgenti e inaccettabili vengono introdotte ai rifugiati nel Canton Ticino, in Svizzera.

Il Cantone e la Croce Rossa stanno per imporre ai rifugiati una nuova legge che li costringe a lasciare il campo
contro la loro volontà alle 6:00 del mattino e tornare alle 21:00.
Noi rifugiati abbiamo deciso di respingere questo ordine del Cantone perché sappiamo che ci stanno spingendo verso
il muro in modo che siamo costretti a fare qualcosa fuori dagli schemi aprendo la strada alla Croce Rossa e al
Cantone di deportarci dal paese. Questo non è altro che una semplice politica sporca che viene giocata con noi,
rifugiati civili, e minacciati che stanno affrontando una persecuzione a casa.
Ci hanno già messo in uno stato di depressione. È ignoto che cosa vuole fare di più la Croce Rossa con noi? Il
pensiero che attraversa le nostre menti è che sarebbe meglio prendere le nostre vite da soli piuttosto che essere
perseguitati in modo disumano a casa, dove il Cantone sembra che ci vogliano mandare via.
Trovano sempre un nuovo modo di molestare tutti qui creando ostacoli e leggi e problemi spiacevoli. Ci hanno
minacciato di chiamare la polizia. Ci minacciano e non ci lasciano uscire, non ci trasferiscono mai negli
appartamenti. Se le molestie sono un crimine, allora perché è consentito contro i rifugiati in Svizzera?
Siamo stanchi del comportamento dello staff. Tuttavia, non faremo nulla di immotivato per danneggiare noi stessi o
gli altri in modo che la Croce Rossa trovi una ragione per essere più dura. Abbiamo deciso di resistere a questa
ingiustizia. Non usciremo dal campo seguendo questo orario forzato e imposto, anche se chiamano la polizia. Non
stiamo facendo nulla di illegale. Ci sederemo in sciopero della fame, ci rifiuteremo di mangiare e protesteremo
contro questa illogica imposizione di leggi insensate sui rifugi e seguiremo tutte le procedure pacifiche per
evitarlo.
Chiediamo a tutti voi di prendere posizione con noi contro l’atto disumano del Cantone e la Croce Rossa.

Fatto girare da CSOA il Molino

***
USA: I LAVORATORI DELLA WAYFAIR SCIOPERANO
Oltre 500 lavoratori di Wayfair - impiegati, ingegneri, product manager, artisti visivi e informatici - hanno
lasciato il lavoro alle 13:30 del 26 giugno per protestare contro i profitti dell'azienda dalle vendite ai campi
di concentramento con bambini immigrati/immigranti alla frontiera. La settimana prima, un lavoratore ha fatto
trapelare che Wayfair aveva eseguito un ordine di 200.000 dollari di mobili per camere da letto in un campo di
detenzione per 3.000 bambini migranti a Carrizo Springs, Texas.
I lavoratori Wayfair, prevalentemente giovani, hanno ricevuto sostegno in tutto il mondo quando sono usciti e
hanno detto al datore di lavoro: "Non permetteremo che il nostro lavoro sia utilizzato per sostenere i campi di
concentramento per i bambini migranti". Sono usciti in risposta alle esposizioni della Pattuglia di frontiera
degli Stati Uniti sul terribile trattamento dei bambini nei campi di concentramento al confine tra Stati Uniti e
Messico.
Le dogane e la protezione delle frontiere tengono migliaia di bambini, dai neonati alle madri adolescenti, in
condizioni disgustose. Non forniscono cibo o acqua pulita a sufficienza, vestiti puliti, pannolini, coperte, cure
mediche o altri bisogni primari. I bambini dormono sul pavimento in condizioni di ghiaccio con luci accese 24 ore
al giorno per 7 giorni. Sopportano abusi fisici e sessuali, senza alcun supporto psicologico per traumi e
depressione.
I centri di detenzione sono riforniti da fornitori convenzionati. L'ordine di 200.000 dollari di Wayfair è stato
inviato dall'appaltatore governativo Baptist Children's Family Services, che gestisce un campo a Tornillo (vicino
a El Paso) che ospita migliaia di bambini migranti. Gli organizzatori di Wayfair walkout hanno anche scoperto un
precedente ordine di materassi da 86.000 dollari per un altro campo di detenzione.
L'ultimo audit di assistenza presso la struttura del BCFS Tornillo da parte del Ministero della Sanità e dei
Servizi Umani ha evidenziato gravi problemi, tra cui il mancato completamento degli esami medici entro le 48 ore
previste dal mandato, la mancata documentazione del processo di ricongiungimento familiare e il mancato rispetto
delle normative statali in materia di spazio minimo all’interno delle camere da letto, standard di salute e
sicurezza e controlli sui precedenti personali dei dipendenti.

NON VOGLIAMO TRARRE PROFITTO DAI CIE IN FRONTIERA USA/MX
Wayfair impiega 14.000 persone in tutto il mondo, di cui 7.000 nel centro di Boston. Vendono prodotti per la casa
online - divani, lampade, tappeti e mobili. Nel 2018, l'azienda ha realizzato profitti per 6,8 miliardi di
dollari.
Nei giorni scorsi più di 500 lavoratori di Wayfair hanno firmato una lettera di protesta. L'apertura recita: "Noi,
lavoratori, vi scriviamo preoccupati ed indignati per le atrocità commesse al nostro confine meridionale. Il
governo degli Stati Uniti e i suoi appaltatori sono responsabili della detenzione e del maltrattamento di
centinaia di migliaia di migranti che chiedono asilo nel nostro Paese. Vogliamo che questo finisca. Vogliamo anche
essere sicuri che Wayfair non abbia alcun ruolo nell'attivare, sostenere o trarre profitto da questa pratica".
I dirigenti dell'azienda hanno dichiarato, in una lettera firmata dai co-fondatori Steve Conine e Niraj Shah, che
la vendita sarebbe continuata e che i lavoratori avrebbero dovuto convocare una assemblea per poi votare eventuali
cambiamenti. Non contenti di questa risposta, i lavoratori hanno tenuto una riunione del municipio all'interno
dell'azienda il 25 giugno con Conine.
A.J., un impiegato di Wayfair e organizzatore, ha detto ai lavoratori: "Era chiaro che la dirigenza non aveva
alcun interesse nel dialogo, contrariamente a quanto affermato in precedenza. Steve ha parlato con noi e ci ha
fatto vergognare per aver preso in considerazione lo sciopero. Ha rifiutato di muoversi e si è impegnato a
continuare il lavoro con la vendita, nonostante la stanza fosse piena di dipendenti che chiedevano una risposta.
Non vogliono che i lavoratori abbiano un’etica e non vogliono assolutamente che i profitti dell’azienda vengano
tagliati. Scendere in corteo era l'unico modo in cui potevamo dimostrare al management che ci eravamo impegnati a
impedire a Wayfair di fare affari con organizzazioni come queste in futuro".
I lavoratori chiedono a Wayfair di donare il ricavato della vendita contestata a specifiche organizzazioni che
lavorano alla frontiera per aiutare i migranti e rendere conto dei danni causati dalla vendita. Poco prima
dell'uscita, Wayfair ha dichiarato che avrebbero donato 100.000 dollari alla Croce Rossa Americana, che non era
nella lista raccomandata dagli organizzatori.

I LAVORATORI ESCONO IN CORTEO IN SOLIDARIETÀ
Una folla forte ed entusiasta di 1.000 sostenitori del movimento progressista e dei sindacati locali ha applaudito
il corteo di Wayfair mentre i lavoratori si univano a loro in Piazza Copley il 26 giugno. Il supporto sindacale
comprendeva delegazioni di UNITE/HERE Local 26, autisti della Uber Guild, dipendenti del servizio locale 32BJ e
Harvard Graduate Student Union-United Auto Workers.
Molti lavoratori di Wayfair che sono rimasti all'interno hanno guardato il corteo in diretta streaming.
"Prima dello sciopero, quello che ho visto attraverso i media mi ha fatto sentire come se avessimo il sostegno
della maggior parte delle persone. Non c'era migliore conferma che uscire dal nostro ufficio e finire tra le
braccia di una folla solidale", ha detto A.J.
I lavoratori hanno realizzato cartelli con materiali a portata di mano: carta, cartone e materiale da imballaggio.
Alcuni dei cartelli sono stati letti: "Una prigione con un letto è ancora una prigione".
Molti lavoratori erano visibilmente tesi a parlare al microfono, perché perdere il lavoro era una possibilità
reale. I lavoratori di Wayfair non hanno un sindacato che protegga le azioni lavorative, e la maggior parte non ha
mai parlato pubblicamente. Ma uno ad uno ad uno, incoraggiati dai compagni di lavoro e dai solidali, si sono
fatti avanti per parlare. Il tema che ha fatto eco è stato "Nessun profitto dai campi di detenzione".

UNO SCIOPERO POLITICO PER DIFENDERE I MIGRANTI
Alla domanda sull'importanza di dimostrare solidarietà, A.J. ha risposto: "Speriamo che un'azione come questa
possa costituire un precedente e spingere altri lavoratori a chiedere ai loro datori di lavoro di interrompere i
contratti o vendere forniture ai Cie e agenzie simili. Ci rifiutiamo anche di lavorare per un'organizzazione che
genera profitti dalle violenze subite dalle famiglie di migranti".
Gli organizzatori di Wayfair prevedono di inviare un'altra lettera ai dirigenti per riaffermare le loro richieste,
una delle quali è quella di creare un codice etico per impedire vendite come quelle ai campi di detenzione.
Chiedono ai sostenitori di continuare a fare pressione sulla compagnia.
Lo sciopero mostra che la coscienza politica tra i lavoratori è in aumento. I lavoratori di Wayfair hanno
trasformato questa coscienza in concreta solidarietà e difesa della classe operaia internazionale. Privi della
protezione di un sindacato, rischiano di essere licenziati, molestati o oggetto di ritorsioni. I loro corpi (non
al lavoro) sono diventati la loro arma.
Questo è uno sciopero politico, che riflette la crescente consapevolezza di classe e la consapevolezza che i
lavoratori possono esercitare il potere per il bene della loro classe. Nonostante i numerosi muri eretti per
dividere i lavoratori, questi muri possono essere abbattuti e creare una estesa rete di solidarietà.

2 luglio 2019, da workers.org
Aggiornamento sui prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane
Al 4 giugno erano ancora in sciopero della fame contro la detenzione amministrativa nelle carceri israeliane tre
dei prigionieri palestinesi di cui si è scritto nell’ultimo numero di Olga. Uno di loro, di 35 anni, era in
sciopero della fame da 64 giorni, aveva perso 22 kg e non era più in grado di mantenersi in piedi. È stato
trasferito al Kaplan Medical Center per ricevere trattamento.
Al 4 luglio 2019, il numero di prigionieri palestinesi in sciopero della fame nelle prigioni israeliane, in
protesta contro la loro detenzione amministrativa, è salito a 11. I palestinesi nelle carceri israeliane detenuti
amministrativamente sono 500.
La Commissione palestinese per gli affari dei detenuti ed ex-detenuti ha dichiarato che il servizio di detenzione
israeliano (IPS) ha trasferito lunedì mattina (1 luglio 2019) tutti i prigionieri palestinesi della prigione di
Ashkelon in altre carceri come forma di punizione collettiva.
I prigionieri di Ashkelon avevano appena sospeso uno sciopero della fame a tempo indeterminato in seguito alle
promesse di Israele di esaudire le loro richieste: fornire una cucina, porre fine alle punizioni economiche,
prendersi cura delle condizioni mediche di molti detenuti malati e di fare tornare il loro rappresentante, dal
carcere di Nafha a quello di Ashkelon.
Dallo scorso aprile, i prigionieri di Ashkelon sono sottoposti a inasprite misure repressive da parte dei
carcerieri israeliani. (da InfoPal)
Il prigioniero palestinese Muhammad Maghalseh (17 anni) ha dovuto rimuovere il suo apparecchio ortodontico con
l’aiuto di altri prigionieri usando un tagliaunghie, poiché l’amministrazione della prigione israeliana di Ofer si
è rifiutata di fornire cure mediche e ha ignorato le sue ripetute richieste. (da I giovani Palestinesi d’Italia)


Sullo sciopero della fame per la chiusura della Sezione AS2 de L’Aquila
Segue una cronologia delle iniziative e delle azioni in solidarietà con lo sciopero della fame iniziato il 29
maggio 2019 da Silvia e Anna detenute in AS2 al carcere de L’Aquila, quasi interamente occupato dalle sezioni
maschili e femminili in regime di 41bis. Nei giorni successivi si aggiungeranno altri compagni e compagne.
I motivi dello sciopero sono indicati nel Comunicato riportato sotto insieme a quello, del 28 giugno, per la
conclusione dello sciopero della fame.

29 MAGGIO 2019 Inizia lo sciopero della fame di Silvia e Anna. Ecco il loro comunicato:
“Ci troviamo da quasi due mesi rinchiuse nella sezione AS2 femminile de L’Aquila, ormai sono note, qui e fuori, le
condizioni detentive frutto di un regolamento in odore di 41bis ammorbidito.
Siamo convinte che nessun miglioramento possa e voglia essere richiesto, non solo per questioni oggettive e
strutturali della sezione gialla (ex-41bis): l’intero carcere è destinato quasi esclusivamente al regime 41bis,
per cui allargare di un poco le maglie del regolamento di sezione ci pare di cattivo gusto e impraticabile, date
le ancor più pesanti condizioni subite a pochi passi da qui, non possiamo non pensare a quante e quanti si battono
da anni accumulando rapporti e processi penali. A questo si aggiunge il maldestro tentativo del DAP di far
quadrare i conti istituendo una sezione mista anarco-islamica, che si è concretizzato in un ulteriore divieto di
incontro nella sezione stessa, con un isolamento che perdura.
Esistono condizioni di carcerazione, comune o speciale, ancora peggiori di quelle aquilane. Questo non è un buon
motivo per non opporci a ciò che impongono qui.
Noi di questo pane non ne mangeremo più: il 29 maggio iniziamo uno sciopero della fame chiedendo il trasferimento
da questo carcere e la chiusura di questa sezione infame. Silvia e Anna”
A Torino, presidio dentro e fuori il tribunale, corteo e blocco stradale dopo la dichiarazione di Silvia e Anna.
A Roma, volantinaggio in centro a partire dal Ministero della giustizia. A Trento, bloccata una via del centro con
cavi di acciaio e filo spinato.
Stecco e Alfredo iniziano lo sciopero della fame nell’AS2 del carcere di Ferrara, Marco dal carcere di
Alessandria.
Numerosi striscioni e scritte iniziano a comparire in diverse città italiane e all’estero (Australia, Palestina,
Kurdistan, Germania, Spagna, Svizzera).
30 MAGGIO Giovanni inizia lo sciopero della fame, dal carcere di Firenze-Sollicciano.
31 MAGGIO Presidio al Carcere de L’Aquila. Striscioni e scritte in solidarietà compaiono in svariate città.
Ghespe inizia lo sciopero della fame, dal carcere di Firenze-Sollicciano.
2 GIUGNO Presidio al carcere di Ferrara. A Cagliari, scritte e striscioni alla Curva del Dal Pozzo. A Milano,
striscione e intervento prendendo il palco allestito per la Stra-Woman.
A Torino, biciclettata contro il razzismo di stato e in solidarietà con lo sciopero della fame. Leonardo dichiara
uno sciopero di 3 giorni, dal carcere di Lucca.
3 GIUGNO Altri striscioni appaiono in diverse città. Roma, assemblea pubblica alla Facoltà di Fisica de La
Sapienza.
A Eboli, serata in solidarietà con lo sciopero della fame
4 GIUGNO A Milano, un folto gruppo di compagne e compagni entra a Radio Popolare e, visti i tentennamenti ad
accogliere la richiesta, impone di trasmettere durante il giornale radio delle 19.45 il comunicato delle compagne
Silvia e Anna. A Foligno danneggiate 5 auto delle Poste italiane.
5 GIUGNO A Roma, Presidio davanti al Ministero della giustizia.
6 GIUGNO A Torino, Presidio e Corteo, la polizia carica. Sempre a Torino, attacchinaggio sulle vetrine del
negozio Freedhome, concept store dedicato alle eccellenze dell’economia carceraria italiana e in serata viene
interrotta al Duomo la messa del vescovo Nosiglia, alcuni compagni e compagne sono entrati nel duomo da una porta
laterale posizionando uno striscione per la chiusura della sezione AS2 de L’Aquila sui gradini dell’altare.
Presidio al carcere di Poggioreale.
7 GIUGNO Giornata in solidarietà. Presidi sotto il DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) a
Torino, Milano, Roma, a Trento una decina di anarchici entra di mattina nell’Ufficio Esecuzione Pene Esterne,
dipendente dal DAP.
A Bologna, Sciopero del pranzo in Piazza Verdi. Nelle stesse ore un gruppo di compagne e compagni interrompe la
mostra “Ri#belle”, su donne e carcere, esposta in Sala Borsa, con volantini, interventi e striscioni.
A Genova, Presidio al carcere di Marassi. Giovanni interrompe lo sciopero della fame. A Pisa, Presidio sotto il
carcere. A Lucca, saluto sotto il carcere.
8 GIUGNO Presidio al carcere di Cuneo contro il 41bis e in solidarietà con lo sciopero della fame.
A Bologna, Presidio zona Pratello cui segue una presenza in strada fino alla zona universitaria. A Firenze,
Presidio al carcere di Sollicciano. A Saronno, Presidio in solidarietà. A Lucca, Presidio al
carcere.
Da una lettera datata 8 giugno, Maddalena comunica che anche lei si è aggiunta per tre giorni allo sciopero della
fame, dal carcere di Uta a Cagliari.
A Berlino, striscione in solidarietà appeso sulla recinzione di un parco.
9 GIUGNO Arluno, Milano, striscioni esposti tra il pubblico e sul palco durante il concerto di Atari Teenage
Riot.
10 GIUGNO A Bolzano, attacchinaggio in solidarietà.
Striscioni a L’Aquila, Pescara, Parma e Catania. Scritte a Genova. A Trento, blocco nelle vie del centro,
volantini, interventi e scritte su negozio Vodafone e su Deutsche Bank. Ghespe interrompe lo sciopero della fame.
11 GIUGNO Manifestini sugli autobus di Firenze. A Bologna, Presidio più Corteo. Striscioni a Bari e Viterbo.
Grecia, scritte.
12 GIUGNO A Bologna incursione a Radio Città del Capo, le trasmissioni sono state coperte con la lettura negli
studi della radio della dichiarazione di inizio dello sciopero della fame e vengono lasciati volantini nei locali.
Striscioni a Roma, Padova e Trieste.
13 GIUGNO A Roma, un gruppo di compagne e compagni fa visita a Radio Radicale con la richiesta di leggere in
diretta il comunicato di Silvia e Anna. Il capo redattore accetta che venga letto a fine notiziario poiché la
trasmissione successiva, Radio Carcere, ha dichiarato che non era nella possibilità di farlo.
A Bolzano, due incappucciati bloccano il traffico nei pressi della stazione con una catena e uno striscione.
Imbrattata la sede Rai di Genova.
14 GIUGNO A Milano, intervento al concerto a Carroponte.
A Torino, blocco di corso Regina Margherita con copertoni incendiati. Lasciata a terra la scritta “Anna e Silvia
libere”. Presenza in aula durante udienza in videoconferenza di Silvia. Nel pomeriggio lettura in musica di
lettere dal 41 bis in via Garibaldi, davanti alla chiesa dei SS. Martiri.
15 GIUGNO A Torino, calato da un’impalcatura un grande striscione in Piazza Castello: “18° giorno di sciopero
della fame. Chiudere l’AS2 de L’Aquila”.
Da Berlino, da compagne e compagni anarchici comunicato in solidarietà.
16 GIUGNO Un altro striscione compare a Torino. Striscioni e scritte a Piacenza, Roma, Macerata, Pavia e Verona.
Incendiati copertoni di un camion ripetitore a Roma.
A Claviere, Francia, rovinato un campo da golf della Lavazza, azienda coinvolta nella ristrutturazione del
quartiere Aurora a Torino e di fatto mandante dell’arresto di Silvia.
17 GIUGNO Striscioni a Lecce, Genova, Palestre popolari trentine e sotto atesine.
A L’Aquila, occupata una gru in pieno centro storico e calati striscioni per la chiusura dell’AS2 de L’Aquila e
contro il 41bis. Parallelamente viene occupata anche la sala consiliare comunale, il gruppo di compagni
barricatovisi decide di non uscire finché non sarà resa nota dal TG3 la notizia dello sciopero e le annesse
motivazioni. Dopo la notizia parte una battitura che rimarrà costante nei giorni sia dalla sezione femminile che
da quella maschile del 41bis del carcere de l’Aquila.
A Bologna viene occupata la Torre degli Asinelli. Presidio in Piazza Verdi, mentre due compagni occupano la torre
e vi si barricano dentro. Il presidio si sposta sotto la torre, traffico in tilt. Una volta scesi, si spostano in
Corteo verso la zona universitaria. Stecco termina lo sciopero della fame.
18 GIUGNO Scritte a Brisbane in Australia. Striscioni a Bologna, Vicenza e Imperia. Spagna, Comunicato della
prigioniera anarchica Lisa in solidarietà con le compagne e i compagni in sciopero della fame in Italia.
19 GIUGNO Striscione a Rovereto. In varie città interruzione del film su Sole e Baleno. Al carcere di Terni,
saluto a Juan detenuto e in solidarietà allo sciopero della fame delle compagne e dei compagni. A Taranto,
Presidio sotto il carcere di Magli. All’ex ospedale di Collemaggio a L’Aquila presentazione dei libri “L’inferno
dei regimi differenziati” e “Mi chiamano sbandato” sul 41bis, in solidarietà con lo sciopero della fame.
20 GIUGNO A Bardonecchia, danneggiato un mezzo dei carabinieri.
21 GIUGNO Natasha trasferita a L’Aquila prosegue lo sciopero della fame iniziato il 18 giugno a Rebibbia.
A Bologna intervento a “Cinema sotto le stelle”, lo schermo gigante in piazza Maggiore, compagne e compagni si
lanciano sul palco con fumogeni e megafono e stendono uno striscione. Poco dopo lo stesso gruppo sale sul palco di
Sara Hebe e si ricava lo spazio per intervento e striscioni.
A Parigi, bloccate le entrate di Eataly con striscione e megafono. Gli striscioni sono poi stati appesi su un
ponte della Senna.
22 GIUGNO A Vicenza, interventi, striscione e fumogeni in pieno centro.
23 GIUGNO Presidio molto partecipato al carcere de L’Aquila, partono le battiture dall’interno. A seguire, Corteo
in città con volantini e interventi. Striscione sul palco del concerto Punkreas a Parabiago (MI).
24 GIUGNO Striscioni a Vicenza e a Viterbo.
A Lipsia, incendiato veicolo di Eurovia-Vinci, multinazionale coinvolta nella costruzioni di prigioni, in
solidarietà con Anna e Silvia.
25 GIUGNO A Milano, striscione a Scienze Politiche. A Genova, fuoco a un ripetitore
27 GIUGNO A Livorno, striscione solidale esposto dalla scalinata del palazzo comunale. A Parigi, nella notte un
furgone della Eiffage, impresa francese coinvolta nella costruzione di prigioni, viene bruciato.
28 GIUGNO Termina lo sciopero della fame, al trentesimo giorno. Segue il Comunicato:
“Un coup de dés
Che la vita sia una partita a dadi contro il destino lo scrisse un poeta, che agli anarchici piaccia giocare lo
sappiamo. Una prima partita l'abbiamo conclusa. Un mese per tastare il terreno e annusare i confini della gabbia,
un mese di sciopero della fame per far capire che siamo materiale difficile da inscatolare.
Al trentesimo giorno sospendiamo con il proposito di tornare con maggior forza. Un primo bilancio positivo è nella
solidarietà viva, spontanea, immediata dentro e fuori le carceri, che ha sollevato chiaro e forte il problema.
Da dentro: un mese in sciopero anche Marco e Alfredo in AS2 ad Alessandria e Ferrara, a cui si è aggiunta Natascia
al suo arrivo a Rebibbia e con cui abbiamo proseguito una volta arrivata qui, poi altri compagni, Stecco, Ghespe,
Giovanni, Madda, Paska e Leo.
Da vicino: abbiamo sentito le battiture dal 41bis femminile e maschile aquilani, musica che rompe il silenzio di
questa fortezza montana e a cui abbiamo risposto e continueremo a rispondere finché dureranno, solidali con quante
e quanti subiscono da anni sulla propria pelle questo regime infame.
Da fuori: azioni dirette, incursioni informative, azioni di disturbo in giro per l'Italia e nel mondo hanno fatto
da megafono a qualcosa che non è un gioco: differenziazione carceraria, circuiti punitivi, affinamento delle
strategie repressive, in chiave anti-anarchica e non solo. Non è nulla che non conoscessimo e manteniamo la
consapevolezza che dentro come fuori le scintille pronte a propagarsi sono ovunque, questo ci dà forza e
determinazione.
È solo un inizio che speriamo sia stato un'iniezione di fiducia nelle potenzialità e nella forza che portiamo,
dentro e fuori, con noi.
L'Aquila, 28 Giugno 2019
Silvia, Natascia, Anna”.
A Spoleto, in seguito all’operazione di “decorosa ripulitura” dei muri cittadini promossa dall’amministrazione
comunale in vista del Festival dei Due Mondi, nella notte la città è tappezzata di scritte in solidarietà con la
lotta delle compagne a L’Aquila.
Da Berlino arriva la notizia di uno striscione esposto in solidarietà.
29 GIUGNO A Cremona, striscione volante in Galleria XXV Aprile e a terra un fiume di volantini.
1 LUGLIO A Bologna, Presidio per la chiusura della sezione AS2 a l’Aquila in zona universitaria.
2 LUGLIO A Torino, presenza solidale all’udienza che vede imputati Leo e Silvia.

***
IL PROGRESSO DELLA SOFFERENZA
«Come fa un uomo a ottenere il potere su un altro uomo, Winston?» Winston ci pensò un po’ su.
«Facendolo soffrire» disse infine.
«Esattamente… Il potere consiste appunto nell’infliggere la sofferenza e la mortificazione…
Il progresso, nel nostro mondo, vorrà dire soltanto
il progresso della sofferenza».
George Orwell, 1984

In Italia lo Stato tortura. Non parliamo soltanto delle brutalità commesse dalle forze dell’ordine nelle varie
caserme e prigioni. C’è dell’altro.
In questo paese esiste un regime di carcerazione speciale chiamato 41 bis. Ad esso sono destinati principalmente
gli accusati di reati di mafia e “terrorismo”. Il 41 bis consiste nell’isolamento pressoché totale, nel restare
chiusi in cella 22 ore al giorno, nel non poter vedere nessuno o al massimo una o due persone durante l’ora
d’aria, nella censura e limitazione della posta, dei libri e dei giornali, nel non poter vedere i propri cari che
dietro i vetri. Una forma di tortura “bianca” e legalizzata.
Questo regime infame viene giustificato come un modo per recidere i legami tra il prigioniero e l’organizzazione
d’appartenenza. Falso. Dalle telecamere ai microfoni ambientali, fino a fittissime reti di spionaggio, lo Stato ha
oggi tutti i mezzi per tenere sotto controllo le vite di tutti persino “fuori”, figuriamoci nelle prigioni. Le
carceri speciali hanno tutt’altro scopo: piegare l’individualità del prigioniero per spingerlo a collaborare.
Tortura, appunto. I tanti che si rifiutano di parlare e mandare qualcun altro al loro posto, lo fanno pagando un
prezzo altissimo.
Da almeno vent’anni lo Stato cerca di estendere sempre più la tortura della carcerazione speciale. A questa logica
corrisponde la recente assegnazione di diverse anarchiche e anarchici carcerati a sezioni di Alta Sorveglianza
collocate all’interno di carceri 41 bis, come L’Aquila, Opera e Tolmezzo. La prossimità con strutture e guardie
“programmate” per il carcere speciale fa sì che le restrizioni del 41 bis dilaghino anche nelle altre sezioni. È
questo, tra gli altri, il caso di Silvia e Anna, due anarchiche che da aprile si trovano detenute nella nuova
sezione AS dell’Aquila, sperimentando l’inizio del “nuovo corso”: blindo sempre chiuso, letto saldato a terra,
massimo 4 libri in cella e 7 capi di abbigliamento, controlli col metal detector all’uscita o entrata in cella,
all’andata e al ritorno dalla socialità, dalla doccia e dall’aria, posta bloccata per mesi, rapporti disciplinari
per ogni sciocchezza (spegnere la luce elettrica da sole, portare una biro all’ora d’aria…). Perciò queste
compagne hanno deciso di entrare in sciopero della fame dal 29 maggio: per essere trasferite e perché quella
sezione AS sia chiusa per sempre.
Sono tempi cupi. Tra morti in mare e lager per immigrati, tra licenza d’uccidere alle forze dell’ordine e decreti
sicurezza che promettono anni e anni di carcere per chi porta un casco a una manifestazione, lancia un fumogeno o
blocca una strada, a sempre più persone viene promessa anche la tortura dell’isolamento: un “carcere nel carcere”
che si completa con i processi in videoconferenza (resi possibili dalla collaborazione di TIM-Telecom). La maniera
forte contro i ribelli fa il paio con la persecuzione dei più poveri, braccati nelle strade dalla polizia e spesso
spediti tra il filo spinato dei lager libici finanziati dai “nostri” governi. Cosa sapremo opporre a questo
progresso della sofferenza?
SPEZZIAMO L’ISOLAMENTO! SOLIDARIETÀ CON ANNA E SILVIA IN SCIOPERO DELLA FAME!

Trento, 29 maggio 2019, Anarchici e anarchiche

***
NEL BEL PAESE SUCCEDE CHE…
Il sistema penitenziario italiano presenta una complessità di differenti trattamenti rivolti alle persone
detenute. A seconda del trattamento a cui si viene sottoposti si verrà rinchiusi in determinate sezioni. Il punto
più rigido della scala del trattamento differenziato che regola il sistema carcerario, è rappresentato dal regime
di 41bis.
Adottato trent’anni fa come provvedimento temporaneo, di carattere emergenziale, si è via via stabilizzato e
inasprito. In questa condizione detentiva ci sono oggi ben 748 prigionieri e prigioniere rinchiusi/e in una decina
di sezioni all’interno di carceri sparse in tutt’Italia.
Il 41bis prevede:
- isolamento per 23 ore al giorno (soltanto nell’ora d’aria è possibile incontrare altri/e prigionieri/ e,
comunque al massimo tre, e solo con questi è possibile parlare nell’arco dell’intera giornata);
- colloquio con i soli familiari diretti (un’ora al mese) che impedisce per mezzo di vetri, telecamere e citofoni
ogni contatto diretto;
- esclusione a priori dall’accesso alle misure alternative alla detenzione in carcere;
- utilizzo dei Gruppi Operativi Mobili (GOM), il gruppo speciale della polizia penitenziaria, tristemente
conosciuto per i pestaggi nelle carceri e per i massacri compiuti a Genova nel 2001;
- “processo in videoconferenza”: l’imputato/a detenuto/a segue il processo da solo/a in una cella attrezzata del
carcere, tramite un collegamento video gestito a discrezione da giudici e del personale penitenziario, quindi
privato/a della possibilità di essere in aula;
- la censura-restringimento nella consegna di posta, stampe, libri.
Affinché tali condizioni detentive finiscano, la persona deve decidere di collaborare con gli organi della
magistratura. Nulla, quindi, a che fare con una sincera ed intima revisione delle proprie responsabilità quanto,
piuttosto, una costrizione dovuta alla ferocia quotidiana vissuta sulla propria pelle. Esattamente ciò che accade
quando si subisce una tortura: si può essere disposti a tutto pur di non soffrire più.
Le leggi e le norme di natura emergenziale, col passare del tempo, si estendono cosicché ogni restrizione adottata
nelle sezioni a 41bis prima o poi, con nomi e forme diverse, penetra nelle altre sezioni previste dal sistema
penitenziario italiano.
È quello che sta accadendo a due nostre compagne, rinchiuse nella sezione di Alta Sicurezza all’interno del
carcere di L’Aquila in cui il 95% delle persone detenute è in regime di 41bis.
Ciò significa che l’ombra di quel regime si estende su tutto il carcere e anche nelle sezioni non di 41bis le
condizioni di vita sono pesantissime.
Ecco ciò che ci viene da loro raccontato:
“Si tratta di una microsezione fatiscente di 4 celle singole, chiamata “sezione gialla”, uno spazio configurato e
utilizzato in passato come 41bis femminile. Uso maniacale del metaldetector ad ogni ingresso e uscita dalla cella,
dal passeggio, dalla socialità, senza dimenticare quelli dalla doccia – se ne contano dalle 12 alle 16 volte;
l’impossibilità di avere CD e lettore e di ascoltare musica (sono utilizzabili solo per misteriosi e non meglio
specificati “motivi di studio”); il numero di libri permessi in cella, solo 4, con l’aggiunta del Corano o altro
testo religioso e Codice Penale; il numero contingentato di vestiario in cella, oltre che di generi di uso e
consumo, quel poco d’altro che si può avere, viene tenuto in un armadietto esterno a cui si accede sotto controllo
visivo e conteggio da parte delle guardie tramite apposita tabella; l’impossibilità di portare all’aria carta e
penna; l’ordine, il controllo, la conta da parte delle GOM che contano minuziosamente ogni cosa
e aggiornano le loro debite liste di tutti gli oggetti tenuti in cella e nel magazzino. Il passeggio dell’aria è
di pochi metri (8×10), e la cosiddetta “socialità” è una barzelletta di cattivo gusto che dovrebbe assolvere negli
stessi orari e nella stessa stanzetta spoglia le funzioni di socialità (c’è solo un tavolino con 4 sedie),
palestra (c’è solo una cyclette), e luogo di preghiera. Lo spezzettamento della giornata imposto (ore 7 apertura
blindo, 7:15 ritiro posta, 7:30 carrello colazione, 8 battitura, 9/11 aria, 11:30 vitto, 12/13 condivisione
pranzo, 13/15 socialità, 15 battitura, 15:30/17:30 aria, 17:30 vitto), sono tipici di un carcere-
caserma. Insomma, se la sezione AS2 risulta non avere un regolamento vero e proprio, ha di fatto adottato norme da
41bis con le relative pressioni”.
Tale trattamento non è conforme alle regole previste per i circuiti di Alta Sicurezza che invece,
dal codice di Ordinamento Penitenziario, contemplano una custodia più attenuata rispetto a quella del 41bis.
È per questo che dal 29 maggio due compagne, Silvia ed Anna, sono entrate in sciopero della fame al fine di
ottenere il trasferimento e il rispetto, quanto meno, delle condizioni di AS nonché la totale chiusura della
sezione di L’Aquila affinché nessuna possa più incorrere in condizioni detentive così infami!
Riteniamo che sia nostro dovere non lasciarle sole in questa battaglia, portando le loro voci fuori da quella
tomba!
Solidarietà con Anna e Silvia! Contro il 41bis e le sue estensioni!

Compagne e compagni di Roma

***
COMUNICATO DAL CARCERE DE L’AQUILA
Questo è un documento scritto da Nadia Lioce, inviato al Direttore del Carcere de L’Aquila e, per conoscenza, al
Magistrato di Sorveglianza de L’Aquila e al Garante Nazionale dei detenuti, attraverso il quale comunica che il
giorno 18/06/2019 ha iniziato una battitura quotidiana di 20 minuti, in solidarietà allo sciopero della fame di
Anna e Silvia.
Un comunicato che con determinazione e coraggio denuncia, ancora una volta, la funzione del 41bis di
annichilimento della persona e della sua dignità e del tentativo, da parte dello Stato, di estenderlo al resto
delle sezioni, in particolare a quelle di Alta Sicurezza.
Lo diffondiamo condividendone l’analisi e riconoscendone la combattività e la tenacia.
Il 9 luglio, dalle 15:00, saremo davanti il carcere di L’Aquila al fianco di chi lotta.

Al Direttore del carcere de L’Aquila. Per conoscenza al
– Magistrato di Sorveglianza de L’Aquila
– Garante Nazionale dei Detenuti
Il 18 giugno 2019 alle ore 12:00 ho iniziato una battitura di venti minuti al giorno delle sbarre della finestra
della camera detentiva come gesto di solidarietà e condivisione della protesta attuata con sciopero della fame dal
29/05/2019 da due detenute, anarchiche, della “sezione gialla” del carcere de L’Aquila attualmente classificata
AS2 femminile.
La protesta è contro il regime del 41bis e la pressione permanente che esercita sul prigioniero, innanzitutto
tramite la segregazione, e poi con tutto ciò che essa rende possibile praticare all’Amministrazione Penitenziaria
in termini afflittivi/punitivi. Pressione che, nel vantaggio politico ottenuto dal DAP con quelle sentenze della
Magistratura che vanno sottraendo le misure restrittive e di azzeramento delle libertà residue dei detenuti a
41bis al controllo giurisdizionale, si sta estendendo anche a settori di alta sicurezza, quale la sezione gialla,
riclassificata AS2 alla sua riapertura nel febbraio del 2018.
Una sezione decenni prima adibita ad area di isolamento del reparto femminile, poi chiuso; rimessa in funzione
quando il Ministero nel 2005 decise di dislocarvi le “politiche” sottoposte a 41bis e che fu chiusa nuovamente a
fine 2012, quando il 41bis femminile fu trasferito in reparto.
Essendo stata in origine area di isolamento l’attuale AS2 femminile è una sezione particolarmente angusta, vi
possono essere detenute soltanto quattro prigioniere in altrettante celle, e quelle ora presenti sono vigilate da
personale GOM come lo sono i detenuti in 41bis.
Infatti il tipo di segregazione a cui soggiacciono è simile a quanto prevede il regime speciale.
Diverso per numero e modalità di colloqui, telefonate e ore d’aria, non lo è affatto invece sia per esiguità di
rapporti sociali, essendo presenti tutt’al più tante detenute quante costituiscono il tetto massimo del “gruppo di
segregazione” con cui in 41bis dal 2009 è stata normalizzata l’ “area riservata” a suo tempo stigmatizzata dalla
CEDU, sia per le misure di regolamentazione della vita quotidiana che sono in gran parte le stesse del “carcere
duro”, motivo per cui alla vigilanza è deputato il GOM.
Limitazioni di stampa, pretese di censura della corrispondenza, rapporti disciplinari ad ogni sciocchezza, e tutto
il resto, sono espressioni dello spirito del 41bis, di sospensione di tutti quegli ordinari diritti e facoltà del
detenuto dei circuiti comune/alta sicurezza, almeno per quel tempo occorrente all’iter giudiziario di un ricorso
che – eventualmente – disponga diversamente e per il quale di norma occorrono anni, non giorni, saturata com’è
l’agibilità delle prime istanze giudiziarie di garanzia con la creazione da parte dell’Amministrazione di
innumerevoli ragioni di reclamo, con ovvio pregiudizio dell’effettività della tutela giurisdizionale.
Anche la “sterilizzazione” del tempo trascorso insieme agli altri ai passeggi, con ciò intendendo l’impossibilità
di recare con sé un libro, un giornale, un caffè, qualunque cosa che possa fare da materiale di una
socializzazione concreta tra esseri umani civilizzati, è tipica della condizione di prigionia in 41bis.
Lo stato estremo di segregazione che caratterizza la vita del detenuto in 41bis, un’ipotesi – ad oggi – per
sempre, è stato nella “sezione gialla” generalizzato anche alla condizione del detenuto ad alta sicurezza.
La logica segregativa e punitivo/afflittiva, volta ad esercitare una pressione costante e crescente sul nemico da
sottomettere o annichilire, è uscita dalla originaria eccezionalità ed emergenzialità del 41bis che l’aveva fatta
apparire plausibile a suo tempo ed è diventata dapprima perpetua e, avendo sempre rappresentato l’istanza
eminentemente politica che la muove, fin dalla definizione di “carcere duro” comunemente adottata e sbandierata ma
anche nelle motivazioni di deterrenza verso il referente sociale dei militanti BR e rivoluzionari prigionieri,
contenute nei loro decreti di 41bis, si è insinuata nel circuito dell’alta sicurezza e perfino in quello comune,
come dimostrano anche recenti proteste e addirittura rivolte provocate dalla direttiva DAP di spegnimento delle
televisioni a mezzanotte che generalizza quanto dispose in merito il regolamento del DAP del 2017 per il 41bis.
Né del resto poteva essere diversamente una volta legiferato, e legittimato, che il 41bis potesse essere un
trattamento perpetuo in assenza di collaborazione; implicare divieti di parlare al di fuori del gruppo di
segregazione – tale diventato di fatto e di diritto – e prevedendo che chi faccia comunicare un detenuto in 41bis
con “l’esterno”, a prescindere dalla “reità” del contenuto della comunicazione, sia penalmente sanzionabile.
L’ultimo tassello necessario era quello di ottenere il vantaggio di alcuni riconoscimenti giudiziari alla pretesa
dell’Amministrazione di sottrarsi al controllo giurisdizionale, se esso non si adatta a restituire mera
legittimazione della sua arbitrarietà, così da garantirsi, in ipotesi il regime speciale in sé dovesse decadere in
generale o per il singolo, che la sua sostanza rimanga impregiudicata e faccia da modello di un ordinamento
penitenziario libero da vincoli di un sistema giuridico di tipo costituzionale.
In un carcere come quello de L’Aquila che secondo la relazione del Garante dei detenuti del 2019 si pregia del
primato delle sanzioni disciplinari irrogate – il 74% del totale degli undici reparti di 41bis del paese -, cioè è
il carcere duro più duro di tutti, l’istituzione dell’unica sezione AS2 femminile e, prima di essa, della sezione
41bis femminile a cui furono assegnate le “politiche”, può apparire persino una scelta con un profilo anche di
misoginia, aspetto che sempre integra un quadro culturale-sociale retrogrado quale quello che è invalso e si è
andato strutturando in ambito penitenziario eppure in generale nel paese negli ultimi decenni. Un aspetto però
eventualmente del tutto secondario rispetto al contesto più complessivo che inevitabilmente ha condotto, e va da
sé continuerà a condurre, a resistenze di ogni tipo, spesso estreme per qualche verso, come lo sono le condizioni
detentive a cui siamo sottoposti.
La segregazione che ci è imposta del resto attacca l’integrità della persona che sociale lo è in se stessa non
circostanzialmente, ne suscita perciò una resistenza a propria difesa proporzionale al sopravvivere.
Condividere questa condizione fa sì che la resistenza di Anna e Silvia sia anche la mia come di altri detenuti e
che sia interesse di ognuno che l’AS2 femminile de L’Aquila venga chiusa e venga messo termine a ciò che
rappresenta.

L’Aquila, 25 giugno 19
Nadia Lioce, via Amiternina, 3–Loc. Costarelle di Preturo–67100 L’Aquila
da inventati.org/rete_evasioni/


Sul presidio al carcere di Cuneo
Riportiamo un breve resoconto del presidio tenutosi davanti al carcere di Cuneo e, in particolare, sotto la
sezione a 41bis dove, anche lì, la risposta è stata molto sentita e calorosa ed è stata fatta una lunga battitura
durante la lettura delle lettere giunte dalle compagne in sciopero della fame a L’Aquila e le testimonianze di
lotta di Alessio Attanasio, da poco lì trasferito.

Le voci che dal presidio, tenutosi sotto le mura del carcere di Cuneo, sabato 8 giugno, nell’ambito della campagna
contro il 41bis, hanno dato animo ai detenuti non sono state ascoltate solo dalle orecchie attente dei reclusi ma
anche da quelle mai distratte dello Stato.
Spostando delle lose da un muretto che costeggia il sentierino, nel punto più vicino alle sezioni in 41bis, in cui
abitualmente i presidianti sistemano l’impianto, un compagno attento ha notato uno strano pacchetto avvolto in un
sacco di plastica nero. Al suo interno è stato trovato un dispositivo di registrazione per immagini e suoni
(formato da un monitor e uno slot per schede SD), una powerbank, un microfono e una telecamera nascosta dietro a
una pietra a cui era stato praticato un foro.
Il dispositivo in questione non aveva possibilità di inviare i dati ma li salvava nella scheda SD. Gli agenti
contavano di recuperare il tutto a fine presidio e visionare con calma negli uffici della questura le immagini
registrate. Sbirciando tra le ore di video già salvate si è scoperto che la memoria era stata “attivata” il 3
Giugno e che la telecamera era stata istallata il pomeriggio del 7, il giorno prima del presidio.
Con buona pace di giudici e detective la rabbia contro questi luoghi di detenzione non è placata, come testimonia
la battitura che ha preso il via nelle celle durante il presidio, come dimostra la rabbia del ragazzo che il
giorno dopo ha incendiato la sua cella e aggredito alcuni agenti e come palesano le rivolte avvenute in giro per
le carceri d’Italia in questi ultimi mesi.

12 giugno 2019, da autistici.org/macerie

Riportiamo di seguito due lettere di Alessio Attanasio dal carcere di Cuneo, reparto 41bis, degli inizi di giugno
che testimoniano della difficoltà a ricevere qualsiasi tipo di posta nelle sezioni a 41bis ma anche della tenacia
di alcuni prigionieri a non rassegnarvisi.

Carissimi amici, ho tentato più volte di inviarvi mie varie per dirvi che la vostra è stata trattenuta, ma anche
le mie sono state trattenute solo perché l’associazione avrebbe una matrice anarchica. Solo che così io passo per
maleducato, per cui scriverò fin quando una delle mie verrà inoltrata.

Carissimi amici, tutte le missive che vi invio vengono trattenute. Vediamo chi si stanca prima.

Alessio Attanasio, via Roncata, 75 - 12100 Cuneo CN


Presidi al carcere di Terni e Alessandria
Dopo un mese di sciopero della fame e di solidarietà dentro e fuori dsal carcere a sostegno di chi resiste
all'isolamento carcerario.
A fianco di Juan, Robert e Beppe, arrestati nelle ultime operazioni repressive senza scordare i compagni che hanno
difeso dignità e lotte in decenni di prigionia, continuiamo la mobilitazione.
Ancora contro il carcere, il 41bis, l'AS2, l'isolamento.
Ancora in solidarietà con i detenuti in lotta, a fianco dei compagni prigionieri.
Ancora in difesa dell'azione diretta.
Domenica 14 luglio, presenza solidale sotto le carceri di Terni ed Alessandria.
Ore 15 Terni, via delle campore, 32.
Ore 18 Alessandria, strada per Casale, 50/a.


Sulla rivolta del 16 giugno dei detenuti del carcere di Poggioreale a Napoli
Nel luglio del 1968, 51 anni fa, detenute e detenuti a Poggioreale, stanchx delle inaccettabili condizioni della
loro detenzione, decisero di prendersi il carcere, di organizzare la loro rabbia e dirigerla contro
quell’istituzione che ogni giorno li schiacciava. Quella rivolta, supportata anche da fuori da parenti e solidali,
costrinse le istituzioni a incontrare le detenute e i detenuti e ascoltare le loro richieste: il miglioramento
delle condizioni di detenzione ancora ferme alla disciplina degli anni ‘30.
La rivolta di Poggioreale aprì una stagione di lotte che per 7 anni infuocò le carceri di tutta Italia; la
repressione reagì duramente con trasferimenti, pestaggi, violenze, ma non riuscì a spezzare la determinazione
delle detenute e dei detenuti. Quelle lotte portarono a una riforma dell’ordinamento penitenziario e a un
miglioramento delle condizioni detentive, e costrinsero le istituzioni a ripensare il sistema carcerario: la
differenziazione dei regimi detentivi e i sistemi di premialità furono pensati proprio per anestetizzare ogni
possibilità futura di rivolta rompendo i legami di solidarietà interni al carcere e soffocando il loro potenziale
esplosivo.
Oggi il carcere è e rimane un luogo di violenza istituzionalizzata che schiaccia e avvilisce l’esistenza di chi lo
subisce. Ne è un esempio il carcere di Poggioreale, dove, a fronte di circa 1.600 posti, sono rinchiusi circa
2.400 detenuti; a questo si aggiungono condizioni sanitarie inaccettabili, l’assoluta mancanza di un’assistenza
medica (che negli ultimi mesi hanno anche causato la morte di alcuni detenuti per mancanza di cure), le violenze e
gli abusi costanti dei secondini, i suicidi. L’insofferenza per questa situazione e la potenziale insubordinazione
dei detenuti vengono anestetizzate con la somministrazione continua di psicofarmaci. Una condizione costantemente
invisibilizzata nel discorso pubblico, e di cui si parla poco; d’altra parte il carcere rimane un luogo riservato
ai settori più marginali della società, ai soggetti indisciplinati e indecorosi, alle persone migranti, a chi non
si sottomette al ricatto del lavoro salariato e dello sfruttamento, a chi vive nell’illegalità perché costrettx da
un sistema ingiusto, a chi non risponde ai valori morali egemonici, ai corpi non normalizzati, a chi si ribella
contro la violenza di questa società.
Oggi ci sembra ancora più urgente lottare contro l’istituzione carceraria, in particolare in una fase in cui
giustizialismo e populismo penale invadono ed egemonizzano il discorso pubblico, in un momento storico in cui alle
politiche di austerity, alla compressione di diritti sul lavoro e alla riduzione evidente di forme di welfare,
corrisponde un’ondata securitaria apparentemente irresistibile, che ci promette una giustizia e un carcere sempre
più spietati (come nel caso dell’evidente disinvestimento sulla sorveglianza dinamica dentro le carceri o della
richiesta del taser da parte dei secondini).
L’idea che abbiamo bisogno di più sicurezza – intesa come più polizia, più carcere, più militari per le strade –
sembra ormai del tutto normalizzata nel senso comune. Questo governo sta dimostrando di saper produrre, cavalcare
e sfruttare queste ansie securitarie, e lo ha dimostrato con un nuovo piano di edilizia penitenziaria che mira a
moltiplicare le carceri sul territorio e ad aprire nuovi centri di detenzione per persone migranti in ogni
regione. È recente la notizia che il protocollo d’intesa firmato dal ministro della difesa e dal ministro della
giustizia prevede, per esempio, la riconversione a strutture detentive di immobili militari nel rione Cavalleggeri
d’Aosta a Napoli, in un'area già soggetta a speculazioni edilizie e tentativi di turistificazione.
Ma questa tendenza non è immutabile e irresistibile come sembra. Lotte e resistenze esistono in varie parti
d’Italia, stanno crescendo e si stanno diffondendo: pensiamo agli scioperi della fame contro le forme di carcere
duro e l’isolamento, alle rivolte delle persone migranti nei CPR ed alle numerose rivolte e proteste in tutte le
carceri del paese e, da ultimo, alla imponente rivolta che domenica 16 giugno ha visto protagonisti i detenuti del
padiglione Salerno nel carcere di Poggioreale.
In particolare in quella giornata, centinaia di detenuti di quel padiglione del carcere di Poggioreale, hanno
assunto il controllo di una intera sezione, a causa delle mancate cure prestate ad un compagno malato, e delle più
generali condizioni disumane cui sono costretti quotidianamente. Con ciò, hanno costretto la Direzione, la Procura
ed il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria a fare i conti con le ragioni della protesta. Solo tre giorni
dopo, un detenuto dello stesso padiglione è morto, scatenando una battitura che ha interessato tutta la sezione.
Queste lotte hanno bisogno di tutta la nostra solidarietà, per rompere l’isolamento e il silenzio assordante che
circondano l’istituzione carceraria e la sua violenza quotidiana.
Per questo abbiamo deciso di chiamare tutti, parenti e amici dei detenuti, tutte le realtà sociali e le persone
solidali, ad una mobilitazione sotto il carcere di Poggioreale, il 12 luglio alle 18.30, nel giorno della rivolta
che 51 anni fa gridò il suo odio contro le forme di internamento, per affermare che la sicurezza non è fatta di
confini, muri e sbarre, per urlare la nostra solidarietà con tutte le persone che resistono e lottano contro il
carcere, dentro e fuori, per far sì che questo fuoco continui a divampare, per ribadire che non c’è nessuna
riforma possibile per il carcere, che l’unica soluzione è una società senza più prigioni e gabbie.
12 luglio ore 18,30: mobilitazione al carcere di Poggioreale, lato piazzale Cenni. Invitiamo tutti a portare
pentole e cucchiare per farci sentire il più possibile dai detenuti.
Luglio 2019, da facebook
Parenti e amici dei detenuti a Poggioreale, Pozzuoli e Secondigliano


Cosa sta succedendo nelle carceri?
Le rivolte nelle carceri di tutta Italia delle ultime settimane, da Poggioreale a Voghera, da Palermo a Rieti, da
Agrigento a L’Aquila a Velletri, rappresentano la cartina di tornasole di un sistema malato che è giunto a un
punto di non ritorno.
Quasi 61.000 persone ammassate in meno di 50.000 posti regolamentari e la chiusura di qualsiasi prospettiva
alternativa al carcere, sono dati allarmanti e destinati a crescere. In realtà questi dati non rispecchiano un
aumento dei reati, nettamente in calo negli ultimi 10 anni, ma scelte politiche precise da un lato mentre,
dall’altro, denunciano la farraginosità della macchina giudiziaria e il carattere classista dell’istituzione
carceraria.
Le leggi varate negli ultimi 30 anni in materia di stupefacenti, contraffazione di marchi e immigrazione, hanno
determinato la criminalizzazione di marginalità sociali che, scientemente, sono stati oggetto alternativamente di
campagne mediatiche mostrificatorie, determinando paura e allarme nella società. I 3/4 della popolazione
attualmente detenuta è costituita da assuntori e “spacciatori” di sostanze stupefacenti, autoctoni e migranti,
provenienti prevalentemente dai quartieri periferici delle città e dai ceti sociali medio-bassi, ladruncoli e
scippatori, parcheggiatori e ambulanti “abusivi”, malati psichici, prostitute. Un’operazione chirurgica che ha
selezionato i destinatari, tenendo le sirene allarmistiche, e di conseguenza anche la criminalizzazione e la
repressione, ben lontane dai trasgressori appartenenti alle classi più agiate. Per intenderci: il cocainomane col
suv viene percepito differentemente dall’assuntore con l’utilitaria, così come l’espediente di sopravvivenza è
reato, mentre la finanza criminale è “creativa”. A differente condizione economica corrisponde una differente
percezione sociale ed anche la pretesa punitiva nei confronti dei soggetti più agiati viene mitigata a partire
dalla tutela della privacy. Difficilmente troveremo su Mario Rossi i titoloni di giornale riservati a Ciro
Esposito, e difficilmente troveremo Mario Rossi tra i 61.000 destinatari delle patrie galere. Ci chiediamo anche
cosa succederà con il regionalismo differenziato se verrà approvato. Se già oggi non si può negare l’esistenza di
una correlazione tra questione meridionale e politiche penitenziarie (basti pensare “all’area 416bis” e alle
percentuali di meridionali tra la composizione della popolazione detenuta pari ad oltre il 70% dei detenuti
italiani, mente è il 100% delle sezioni di Alta sicurezza), con il regionalismo differenziato la gestione del Sud
sarà demandata verosimilmente alla sola amministrazione penitenziaria.
L’estensione continua del concetto di “condotta penalmente rilevante” mira (da sempre) a criminalizzare e
reprimere un corpo sociale ben determinato che, in parte, non riesce ad avere i mezzi per soddisfare i bisogni
primari per cui è costretto a ricorrere ad espedienti per sopravvivere mentre, un’altra parte, “approfitta” delle
abitudini di quella larga, e trasversale, parte di società che fa regolarmente uso di sostanze stupefacenti.
Un corpo sociale vittima, prima ancora che reo, della condizione di marginalità cui l’attuale sistema politico ed
economico lo ha relegato, delegando al carcere il contenimento di questa “eccedenza” che mal si incastra
nell’Italia bellissima favoleggiata dagli abili mercanti, di ieri e di oggi, improvvisatisi statisti, che hanno
trasformato lo Stato in azienda prima e bancarella poi. Uno Stato ridotto a vetrina, ormai decadente, di un corpo
politico e di una società che il senso dello stato, dell’equità, dell’umanità e della giustizia sociale ha
smarrito.
E nelle galere stanno esplodendo tutte le contraddizioni socio-politiche che all’interno della società fanno
fatica a trovare il minimo comune multiplo. Esplodono su restrizioni e privazioni che narrano tutta l’ipocrisia
dei Rossi “clienti, compari e complici” degli Esposito.
In altri tempi si sarebbe scritto a fiumi su questa “soggettività di classe” in rivolta nelle carceri, si sarebbe
analizzata la composizione variegata e meticcia rivendicante la propria alterità rispetto al potere costituito.
Eppure le parole d’ordine non sono cambiate: Sante Notarnicola ci ricorda che se oggi nelle carceri c’è il
fornellino nelle celle e ci fu la riforma Gozzini, il merito va riconosciuto alle lotte che tra gli anni ‘70 e ‘80
attraversarono le carceri di tutta Italia. In quegli anni la composizione era variegata più che meticcia e
l’incontro in carcere tra i prigionieri comuni e quelli politici determinò una presa di coscienza della condizione
soggettiva anche tra i detenuti comuni, ed innescò una serie di rivendicazioni che, dal momento che non si
riusciva a abbattere il carcere, individuato quale pilastro fondamentale del sistema capitalista, migliorassero le
condizioni di vivibilità all’interno dello stesso.
Negli ultimi venti anni c’è stata una torsione autoritaria, dentro e fuori le carceri, inversamente proporzionale
allo smantellamento del welfare. Gli esempi richiamati in apertura rappresentano gli obbrobri giuridici
macroscopici di un legiferare ossessivo-compulsivo teso a mantenere in attivo la fabbrica penale. Punire e
incarcerare coloro i quali sono stati resi poveri, esclusi, emarginati assolve a molteplici funzioni: tenere in
piedi il sistema penale e carcerario, offrire alla società capri espiatori utili a sedare le insicurezze sociali e
nascondere dalla vista dei moderni signorotti i pezzenti, i reietti. E, infine, il capolavoro: offrire manodopera
a costo basso o nullo alle imprese e alle multinazionali. Le ultime riforme in materia di lavoro penitenziario e
ammortizzatori sociali hanno cancellato buona parte dei diritti del detenuto/lavoratore. Nel 2018 sono state
adeguate le c.d. “mercedi”, ferme dal 1994 ma, se da un lato hanno adeguato i salari, dall’altro hanno innalzato
le spese di mantenimento e ridotto le ore contrattualizzate retribuite. Prendiamo ad esempio i c.d. “piantoni” (ma
questo, in diversa misura, vale anche per le altre mansioni di lavoro intramurario), cioè i detenuti che prestano
assistenza ai detenuti disabili, hanno un contratto di 1 ora al giorno ma assistono il disabile/concellino, altre
23 h su 24 a titolo di umanità gratuita. Per quanto concerne gli accordi dell’amministrazione penitenziaria con
società ed imprese esterne, l’ultimo esempio, in ordine temporale, è dato dal “Programma 2121”, su cui l’azienda
Plus Value, partner del Progetto Mind – Milano Innovation District per la riqualificazione dell’area dell’Expo
2015 assieme al Ministero di Giustizia a alla multinazionale di sviluppo immobiliare Lendlease, che ha avviato la
valutazione dell’impatto socio-economico e delle ricadute che il programma avrà. Il progetto prevede l’impiego di
manodopera detenuta e i detenuti avranno sì un contratto, ma la retribuzione andrà all’amministrazione
penitenziaria ad “estinzione del debito” che il detenuto ha nei confronti dello Stato. Attraverso l’inserimento
del meccanismo premiale in vece della retribuzione nel rapporto di lavoro si (re)introduce la pratica del lavoro
forzato.
Si è gradualmente tornati quindi, alla funzione che le carceri ebbero nel periodo pre e post rivoluzione
industriale: contenere, disciplinare e sfruttare le marginalità che lo sviluppo della società capitalistica aveva
prodotto. Ieri erano i contadini che in massa abbandonavano le campagne col miraggio della fabbrica che,
esattamente come le bestie da soma, venivano selezionati mentre i più deboli venivano scartati. E gli scarti
vennero marginalizzati prima e criminalizzati poi. Esattamente come è avvenuto con i meridionali dall’Unità
d’Italia in poi e come avviene oggi con i migranti.
I detenuti che oggi si stanno ribellando contro l’istituzione carceraria sono quelle stesse eccedenze al sistema e
alla società capitalistiche che rivendicano prepotentemente spazi vitali e diritti: salute, acqua, vitto congruo,
affetti. E accanto alle rivendicazioni ci chiedono il senso di questo carcere, a cosa serve? A chi? Certamente non
a loro che, nella migliore delle ipotesi, usciranno come sono entrati o, nella peggiore e più probabile, saranno
incattiviti da anni di segregazione fine a se stessa ma molto utile all’industria penale.

29 giugno 2019, Osservatorio Repressione, Associazione Yairaiha Onlus

***
Seguono alcuni estratti da panorama.it del 13 giugno 2019 a proposito della bocciatura da parte della
Corte di Strasburgo dell'ergastolo ostativo; un articolo tratto da il diario1984.it del 21 giugno sui ricorsi del
detenuto in regime di 41 bis Alessio Attanasio autore del libro “L’inferno dei regimi differenziati” e, in ultimo,
un articolo dell’ansa nel quale la Cassazione conferma che le ore d’aria al 41 bis sono due e non una come
rivendicato con una fermata all’aria nel carcere di Spoleto dell’Alessio poc’anzi citato che gli è costato il
trasferimento a Cuneo.

I giudici della Corte europea dei diritti dell'uomo stabiliscono che l'ergastolo ostativo italiano è una
"punizione inumana". La Corte europea dei diritti umani ha chiesto oggi all'Italia di rivedere le sue norme in
materia di ergastolo ostativo. La Corte ha infatti affermato che l'ergastolo ostativo è contrario all'art 3 della
Convenzione europea per i diritti umani, che vieta i trattamenti e le punizioni inumane e degradanti. In assenza
di ricorsi, la sentenza diverrà definitiva in tre mesi.
Per ergastolo ostativo s'intende la pena che prevede la reclusione a vita: il cosiddetto "fine pena mai". In base
alla legge italiana, anche chi viene condannato all'ergastolo ha diritto ad alcuni benefici (come la semilibertà)
e può usufruire di permessi-premio; dopo 26 anni di carcere, inoltre, al condannato all'ergastolo può essere
concessa la libertà condizionale se, durante la detenzione, ha tenuto una buona condotta e un comportamento tale
da far ritenere sicuro il suo ravvedimento.
L'ergastolo ostativo è l'eccezione alla regola, in quanto non permette di concedere al condannato alcun tipo di
beneficio o di premio.
La decisione di Strasburgo riguarda in particolare il caso di Marcello Viola, un condannato per associazione
mafiosa, per omicidi e per rapimenti, che era stato condannato all'ergastolo ostativo all'inizio degli anni
Novanta, al quale ora il governo italiano deve versare 6mila euro per i costi legali.
Nella sentenza i giudici di Strasburgo evidenziano che "la mancanza di collaborazione è equiparata a una
presunzione irrefutabile di pericolosità per la società" e questo principio fa si che i tribunali nazionali non
prendano in considerazione o rifiutino le richieste dei condannati all'ergastolo ostativo. La Corte osserva che se
"la collaborazione con la giustizia può offrire ai condannati all'ergastolo ostativo una strada per ottenere
questi benefici", questa "strada" è però troppo stretta.
Nella sentenza si osserva che la scelta di collaborare non è sempre "libera", perché per esempio certi condannati
hanno paura che questo metta in pericolo i loro familiari. I giudici di Strasburgo scrivono anche che "non si può
presumere che ogni collaborazione con la giustizia implichi un vero pentimento e sia accompagnata dalla decisione
di tagliare ogni legame con le associazioni per delinquere". La Corte non nega la gravità dei reati commessi da
Marcello Viola, ma critica il fatto che l'uomo, soltanto perché non ha collaborato con la giustizia, si sia visto
rifiutare le richieste di uscita dal carcere, nonostante molti rapporti indicassero la sua buona condotta e un
cambiamento positivo della sua personalità.
Nella sentenza si afferma che privare un condannato di qualsiasi possibilità di riabilitazione e quindi della
speranza di poter un giorno uscire dal carcere viola il principio base su cui si fonda la convenzione europea dei
diritti umani, il rispetto della dignità umana. Come tutte le sentenze della Corte europea, anche questa farà
giurisprudenza e avrà effetti più ampi: potrà essere applicata nei confronti di chiunque si trovi a scontare una
pena di quel genere. L'ergastolo nell'ordinamento italiano è regolato dall'articolo 17 e seguenti del Codice
penale. L'articolo 22 dice che "la pena dell'ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò
destinati, con l'obbligo del lavoro e con l'isolamento notturno".
Con questa sentenza la Corte di Strasburgo di fatto "svuota" l'articolo 4 bis dell'ordinamento penitenziario, che
prevede uno sbarramento automatico ai benefici penitenziari, alle misure alternative al carcere e alla liberazione
condizionale in assenza di collaborazione con la giustizia. La Corte fa cadere la collaborazione con la giustizia
come unico criterio di valutazione del ravvedimento del detenuto.
[n.d.r. Le sentenze della Corte dei Diritti dell'Uomo se sono in contrasto con le leggi di uno Stato membro, non
sono immediatamente esecutive. Di conseguenza la disapplicazione delle norme nazionali nel caso specifico oggetto
di ricorso e devono attendere l'intervento della Corte Costituzionale nazionale sulle norme censurate dalla CEDU].

***
Cuneo. La decisione di protestare battendo insistentemente contro le inferriate della cella detentiva costa cara
ad Alessio Attanasio, 49 anni, sottoposto al regime del 41 bis. Su richiesta della Direzione della Casa di
Reclusione, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha comminato ad Alessio Attanasio la sanzione
disciplinare della sorveglianza particolare e ordina al personale di custodia di svuotare la cella occupata dal
detenuto siracusano di televisore, radio, specchio, fornellino personale, armadio con ante. ed ogni altro
soprammobile, e di lasciare nella sua disponibilità il letto, il tavolo e lo sgabello. Alle disposizioni decise
dal Dap la Direzione della Casa di Reclusione di Cuneo ha aggiunto pure la sanzione della chiusura 24 su 24 del
blindo. Il provvedimento dell’Amministrazione Penitenziaria è stato adottato il 16 maggio scorso ed è diventato
immediatamente esecutivo. Ma non tutto. Secondo L’Ordinamento Penitenziario la sorveglianza particolare può essere
prorogata di ulteriori sei mesi. E proprio per impedire di passare un anno come un emarginato e in condizioni
disumane, Alessio Attanasio ha proposto reclamo che ha inviato sia al Magistrato di Sorveglianza di Cuneo che al
Tribunale di Sorveglianza di Torino. Il 29 maggio scorso, il Magistrato di Sorveglianza, nella persona del giudice
Alessandro D’Altilia, ha accolto il reclamo di Attanasio contro la chiusura del blindo (la finestrella posta ad
ogni porta di una cella per consentire agli agenti di polizia penitenziaria di controllare i detenuti) e ha
ordinato alla Direzione dell’istituto penitenziario di provvedere all’esecuzione del provvedimento. Per quanto
riguarda le disposizioni decise dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria il Magistrato di Sorveglianza
si è dichiarato incompetente in quanto la legge prevede che a decidere sulla legittimità delle sanzioni
disciplinari debba essere il Tribunale di Sorveglianza. Il quale esaminerà il reclamo di Attanasio nella giornata
di martedì 25 giugno. Tocca quest’organo giudicante stabilire se ha ragione Attanasio che “ritiene illegittima
l’adozione di restrizioni non giustificabili con le esigenze di ordine e di disciplina connesse al regime di
sorveglianza particolare” o se, viceversa, sono da considerare legittime.
Nell’attesa dell’udienza di martedì 25 giugno e delle decisioni del Tribunale di Sorveglianza di Torino, il
Magistrato di Sorveglianza di Cuneo, Alessandro D’Altilia, ha ricordato alla Direzione della Casa di Reclusione
“che le restrizioni non possono riguardare l’igiene e le esigenze della salute, il vitto, il vestiario e il
corredo, l’acquisto e la ricezione di generi e oggetti permessi dal Regolamento nei limiti in cui ciò non comporta
pericolo per la sicurezza, la permanenza all’aperto per due ore al giorno, i colloqui con i difensori, nonchè
quelli con il coniuge, il convivente, i figli, i genitori e i fratelli”.
Alessio Attanasio ha allertato il proprio difensore di fiducia, avvocato Maria Teresa Pintus che sabato 22 giugno
dovrebbe recarsi al carcere di Cuneo per incontrarlo e approntare la strategia difensiva da attuare innanzi al
Tribunale di Sorveglianza. Attanasio ha comunicato al difensore che si è visto costretto ad attuare la protesta
della battitura delle inferriate per chiedere alla Direzione dell’Istituto penitenziario di eseguire tutti i
provvedimenti a lui favorevoli emessi dai giudici di mezza Italia che hanno accolto i suoi reclami. Attanasio si
lamenta di essere osteggiato nella sua legittima pretesa di ricevere libri, di poter studiare, di poter usare il
pc per motivi di studio e di difesa, di essere bersagliato dall’ufficio censura che gli trattiene la posta in
partenza e in arrivo, nonostante nelle missive non ci siano frasi che possano essere interpretate come un
messaggio pericoloso per la sicurezza dell’istituto.
Il timore del difensore è che il Dap, consapevole che le rivendicazioni del detenuto siracusano siano legittime e
sacrosante, emetterà il decreto di “sfratto” dal carcere di Cuneo per Alessio Attanasio, che verrebbe dichiarato
recluso “indesiderabile e non gradito” dalla Direzione di quell’Istituto penitenziario. Se dovesse essere così,
dove sarà tradotto Alessio Attanasio? Il boss siracusano, laureato in Scienza delle Comunicazioni e laureando in
Giurisprudenza, non può ritornare in tutte le carceri nelle quali è stato ospitato dal 2001 al 2019, dalle quali è
stato “cacciato” a causa delle sue proteste e delle denunce che ha presentato contro i direttori e i comandanti
delle guardie.

***
Sì alle due ore d'aria per i detenuti al 41 bis, a meno che non ci siamo ragioni individuali nei confronti del
singolo detenuto che giustifichino un trattamento ancor più restrittivo. Lo precisa la Cassazione confermando
quanto disposto dal tribunale di sorveglianza, in favore di alcuni detenuti del carcere di Sassari, e respingendo
il ricorso del Casa circondariale, del Dap e del ministero della Giustizia.
I detenuti hanno presentato reclamo contro la limitazione a una sola ora d'aria imposta dall'istituto di pena, che
una circolare del Dap del 2017, ammetteva un'ora al giorno all'aria aperta e un'altra in biblioteca, invece che
due ore d'aria "effettive". La legge prevede che i detenuti al 41 bis, il regime cui previsto per i mafiosi,
possano stare all'aria aperta in gruppi selezionati di non più di quattro persone e per un massimo di due ore al
giorno, il limite si riduce a un'ora in caso di motivi eccezionali. La circolare del Dap e il regolamento interno
del carcere l'hanno invece interpretata in senso restrittivo, ponendo un limite unico giornaliero di due ore, per
la permeanza all'aperto e la socialità. La prima sezione penale della Cassazione ammette che la legge in proposito
"non spicca per adamantina chiarezza" ma nell'interpretazione va tenuto conto del divieto di trattamenti contrari
al senso di umanità. In questo caso, spiegano i giudici, la circolare del Dap "non appare certamente idonea a
rafforzare l'ordine e la sicurezza" e a prevenire "flussi comunicativi illeciti tra appartenenti alla stessa
organizzazione criminale o a organizzazioni criminali contrapposte". "Quello che potrebbe accadere in due ore,
potrebbe accadere anche in un'ora di permanenza all'aria", quindi a limite più pressante non corrisponde un
incremento della tutela assicurata alle esigenze di ordine e sicurezza.


Lettera dal carcere di Oristano
Ciao compagni ho ricevuto il vostro plico e vi ringrazio molto. I compagni di Sassari mi hanno scritto che avete
fatto insieme la presentazione del libro di Alessio Attanasio, ne sono molto contento. Spero che pubblicherete su
Olga la recensione del libro che ho scritto e inviato a Sassari. Nell’aggiornamento del Catalogo dei libri ce ne
sono due che mi interessano…
Il 22 ottobre hanno fissato l’udienza alla Consulta per discutere l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo,
speriamo che va in porto così potrei iniziare a uscire.
Un abbraccio a voi tutti con affetto.

6 giugno 2019
Pasquale De Feo, Loc. Su Pedriaxu - 09170 Massama (Oristano)


Lettera dal carcere di Uta (CA)
Ciao, ho ricevuto la lettera del 28 maggio, rispondo oggi così impiego il tempo che ho dividendomi le cose da fare
così mi sento sempre impegnata. Questo perché è dal 4 giugno che sto scontando 15 giorni di isolamento per un
rapporto di maggio poi dovrò fare altri 10 giorni di esclusione dalle attività ricreative e sportive. Sarò
comunque chiusa anche in sezione dato che qua siamo a “regime aperto” e considerano ricreativa anche il
socializzare tra di noi! Mi sembra di ricordare che vada così ma con tutte le volte che mi hanno chiusa neanche me
lo ricordo eheheh.
Sapevo degli arresti di Torino e di Trento e Rovereto e pure delle scarcerazioni. Tra l’altro è un bel po’ che
scrivo a S. ma non ho ancora avuto risposta. So anche della situazione di Silvia e Anna, mi hanno mandato un
telegramma e una lettera dalla Cassa antirep con il loro comunicato dell’inizio dello sciopero della fame. Invece
non sapevo di B. e degli altri tre per i plichi. Di Juan ho sentito al Tg e vorrei sapere in quale carcere è per
scrivergli.
La corrispondenza è sempre allo stesso punto, Olga e il resto che mi avete inviato non me l’hanno dato ovviamente…
pensa che la guardia che mi consegna la posta e che manda al setaccio ha detto che “questo lo sa bene che
assolutamente non glielo do” intendeva l’opuscolo… infatti è al casellario tra le mie cose… fanculo! Quindi appena
hai tempo mandami tu le novità.
Per le misure alternative per ora non se ne parla dato che gli ultimi rapporti presi sono recenti e pensare che
per tre mesi ero rimasta linda! Proverò forse a impugnarli o no, l’ultimo, o quello che credevo l’ultimo, l’ho
discusso in udienza il 22 maggio e il magistrato si è riservata di rispondere ma ancora nulla. Io li impugno anche
se rimangono solo carta da tribunale, che ne so, magari trovo il giorno che quel magistrato si sveglia a cazzo
dritto o meglio a ovaie dritte dato che è una donna e me l’accoglie eheheh. Su alcune impugnazioni mi ha aiutata
il libro di Attanasio che ho visto ha molti esempi che poi troviamo utili in certe situazioni.
Il mio fine pena è arrivato a maggio 2022 ma rientro nei termini per una richiesta di misura alternativa… il punto
è che finché ho tutti questi rapporti è inutile chiederla visto che il magistrato guarda la sintesi. Vabbè ora
lasciamo passare un po’ di tempo. Non ho scritto ancora di Uta, ma le dinamiche sono le medesime ovunque, cambia
di poco rispetto le altre carceri.
Saluta tutta la ciurma di Ola e grazie per la costante vicinanza e solidarietà.

6 maggio 2019
Maddalena Calore, Strada II Ovest – 09010 Uta (Cagliari)


Da una lettera dal carcere di Rossano Calabro (CS)
Ciao a tuttx di OLGa, anche l'avv. lo sa, comunque vi comunico che sono di nuovo sotto censura in base a una nota
del “Comitato Analisi Strategica Antiterrorismo” (C.A.S.A.) e le motivazioni si sapranno tra qualche mese.
L'indirizzo di qui è un po' cambiato, di qualche numero pure il CAP. Molte lettere non sono arrivate col vecchio
recapito, questo prima della censura. L'opuscolo vostro che fine ha fatto? Dai vediamolo quando esce, e speriamo
che nonostante la censura vi sarà la possibilità di sentirci anche tramite la C.A.S.A.
Mi stanno arrivando “chiusure d'indagini” a pioggia, per tutte le denunce prese ad Augusta. Intanto il 30 maggio
ho il processo a Siracusa per la “tentata evasione”, e non volevo più presentarmi, dato che ora mi trovo in
Calabria ma l'avv. mi ha chiesto di andarci, perchè ha bisogno di me, e quindi controvoglia ci andrò.
Qua a Rossano anche se è un carcere punitivo, tutto chiuso, e le restrizioni ulteriori che vi sono nell'AS2, si
estendono a tutto il penitenziario, almeno non ho il vuoto attorno come là in Sicilia. Di certo la mia esperienza
in quell'isola è totalmente negativa riguardo a solidarietà in loco.
Saluti d'affetto e ribelli! Un abbraccio carichissimo!
Sempri ainnantisis! Davide

Galera di Rossano 10 maggio 2019
Davide Delogu C.R. Rossano C. Contrada Ciminata SNC - 87064 Rossano-Corigliano (Cosenza)


Lettera dal carcere di Montacuto (AN)
Compagni, la mia voce è quella di uno di voi, che parla del passato. Io ho creduto e creo ancora. Oggi nelle
avanguardie di un passato che ritorna e di un futuro che vuole essere ancora presente.
Dovete continuare a combattere come potete, anche con le sole idee, ma dovete farlo, come lo hanno fatto mille e
mille compagni, che sono nei ricordi vostri e di chi ha vissuto quel sogno di utopia tarpata… che viviamo. Qualche
decennio fa molti di noi non ci sono più, la “rivoluzione” non voleva eroi, ma spesso lo sono stati inconsapevoli
nella loro semplicità. Molti si sono persi… altri sono nel limbo del nullismo. Altri ancora hanno gettato la vita
nella produzione di sogni artificiali, voluti da un sistema che ha permesso lo “sconvolgimento emotivo” di una
droga di stato. Per non ritrovarsi mille giovani furenti che avrebbero voluto quel tutto e subito di una vetrina
del desiderio.
Compagni vi giunga il mio saluto e quello di altri militanti del passato, che non hanno tempo.
Sono, siamo con voi.
Un saluto rosso Comunista Anarchico
Né Dio né stato né servi né padroni.
Un sorriso e avanti. Noi siamo con voi… Riccardo.

via Montecavallo, 73/A - 60129 Ancona AN


Lettera dal carcere di Reggio Emilia
La ribellione è sustanzia di cosa sperata.
Compagni, come sarete stati informati dalla Cassa AntiRep di Cuneo, il 20 febbraio 2019 sono stato tradotto da
Montacuto (An) a Reggio Emilia in una sezione penale.
I lagher di stato sono un po' tutti uguali e (oramai) si differenziano poco per il trattamento e la “qualità”, dei
reclusi. E quindi non voglio tediarvi con i soliti discorsi sulle istituzioni totali. Voglio invece inviarvi, in
primis, se ci sono ancora le possibilità di ricevere l'opuscolo OLGa e il giornale Lotta Continua; ma altresì vi
invio il risultato di un processo edificato endogenicamente ed espletato con voci di militanti di organizzazioni
combattenti, ancor oggi ostaggi nei lagher di stato. Di seguito vi invio loro conclusioni auspicando di vederle
pubblicate sull'opuscolo OLGa.

PROCESSO ALLE ISTITUZIONI TOTALI
Uno degli indotti capitalistici dello stato è certamente il carcere. Tale, di per sè, si potrebbe definire binario
morto per gli inclusi. In primis mancano progetti di riqualificazione e argomenti che tendano a disarticolare
pensieri e dogmi strutturati nell'io criminogeno.
Le direzioni degli istituti penali sono prive, per lo più, di contatti con enti impegnati a dar forza al mercato,
ai contratti di lavoro senza progetti di riposizionamento dei detenuti nella società. I corsi endogeni, quando
riescono, vanno a sopperire la mancanza di relazioni esterne. Ai fattori elencati si aggiungono il lavoro di
educazione delle masse che in maniera aprioristica esprimono pareri negativi nei confronti di progetti e singoli.
E' pensiero corale della moltitudine dire che i reclusi sono un tessuto sociale privo di senso critico e violento.
Tutto ciò appesantito dalla burocrazia dell'apparato giuridico (magistratura di sorveglianza ed enti
assistenzialistici). Lo stato, nelle istituzioni totali, ha palesato il fallimento.
Il “progetto carcere”, creato a tavolino non funziona e così come è messo diviene fonte di spreco di denaro
pubblico. In vigore all'interno degli istituti di pena, vige la “tortura democratica” che si sviluppa su fronti
conosciuti da medici, psicologi, psichiatri ed educatori – lesiva per la psicologia e per il fisico dei
prigionieri.
Auspicando di avere al più presto vostre notizie, vi saluto da parte di tutti i prigionieri politici che hanno
contribuito alla costruzione di questo scritto. A pugno chiuso, Marco.

5 giugno 2019
Marco Ricci, via Settembrini, 8 - 42123 Reggio Emilia


Dal porto di Genova, contro la guerra
Per due volte in un mese i lavoratori del porto di Genova insieme ad antimilitaristi e pacifisti hanno bloccato il
carico di 8 generatori a uso militare prodotti dalla Teknel srl di Roma. Erano destinati alla Guardia Nazionale
Saudita per la guerra che sta devastando lo Yemen con armi prodotte in Canada, Stati Uniti e diversi paesi europei
tra i quali l’Italia, appunto.
Di seguito riportiamo due comunicati di giugno del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (CALP) a proposito
delle due giornate di sciopero e blocco.

SUL BLOCCO DELLA BAHRI YANBU E QUEL CHE NE È SEGUITO...
A CHE GIOCO GIOCHIAMO?
Dopo che i portuali di Genova, sacrificando il loro lavoro, con lo sciopero indetto dalla Cgil hanno respinto il
carico di armi diretto in Arabia Saudita per fomentare la guerra civile in Yemen ottenendo consensi e
riconoscimenti da tutto il mondo, autorità portuale, prefettura, capitaneria di porto e sindacato ipocritamente
sposano la versione della fabbrica di armi: non sono armi ma “proteggono la popolazione da alluvioni, frane e
terremoti”. Giudicate voi e arrivederci al prossimo carico di armi, noi ci saremo a dire di no.
Ricapitoliamo. Un mese fa lavoratori del porto di Le Havre rifiutano di imbarcare un carico di cannoni Caesar
della Nexter, fabbrica di armi francese, che ha in corso un ordine di più̀ di un centinaio di questi micidiali
armamenti alla Guardia Nazionale Saudita che li schiera al confine con lo Yemen dove sta intervenendo militarmente
a favore di una delle due parti che si combattono nella guerra civile.
La Guardia Nazionale Saudita è un corpo militare scelto di pretoriani, composto su base etnica, a difesa delle
persone e degli interessi dei dittatori sauditi. L’Arabia Saudita è una monarchia assoluta fondata sulla
repressione violenta interna e esterna, la cui legge costituzionale è la Sharia, la legge sacra dell’Islamismo.
Dal confine la Guardia nazionale Saudita grazie ai cannoni Caesar e altri armamenti è in grado di bombardare il
territorio dello Yemen, dove si annoverano migliaia di vittime civili e catastrofi umanitarie. Ma l’Arabia Saudita
è il più̀ grande e ricco produttore di petrolio e come ogni dittatura, per di più̀ impegnata in guerra, spende somme
ingenti in armamenti dall’estero. Per questo è il più̀ appetito partner commerciale dei produttori di armi. La
guerra che conduce tuttavia è così sporca che in tutto il mondo si è sollevata l’indignazione e la richiesta ai
governi nazionali e transnazionali di impedire questi commerci e fare cessare i massacri e le sofferenze dei
civili. Qualche governo sta considerando l'interruzione di questi commerci, non senza ipocrisie: la Germania, per
esempio, vieta il commercio d'armi all'Arabia, ma permette alla tedesca Rheinmetall di produrre in Italia le
medesime bombe aeree vendute ai sauditi dalla RWM di Domusnovas in Sardegna e caricate nel porto di Cagliari.
La nave dal porto di Le Havre riparte senza cannoni, tocca la Spagna, dove carica ancora armi, e arriva a Genova.
È un’unità della flotta statale araba, la Bahri, specializzata in logistica militare e periodicamente le sue unità
partono da Jedda, raggiungono il Nordamerica e tornano nel mar Rosso dopo avere caricato armi in Canada, Uk,
Belgio, Francia, Italia a Genova e a Cagliari ecc. La nave che stavolta tocca Genova, la Yanbu, deve caricare due
generatori prodotti dalla Teknel di Roma. La Teknel è una fabbrica di armi che ha in corso un contratto con la
Guardia Nazionale Saudita per apparati di alimentazione e controllo degli armamenti. I lavoratori del porto di
Genova, come i compagni di Le Havre, annunciano che impediranno il carico perché́ contrasta con i valori di pace e
di internazionalismo del movimento operaio.
L’appello dei portuali genovesi riscuote attenzione e consenso da parte di forze antimilitariste e pacifiste
italiane e estere. La CGIL, spinta dai lavoratori, sostiene il loro motivato rifiuto, proclama lo sciopero delle
operazioni di imbarco e chiede alle autorità di intervenire a evitare il carico illegale. Le autorità, colte di
sorpresa e costrette dalla grande risonanza dei fatti, nonché́ dalla mobilitazione in corso, riconoscono che se si
tratta di armi per l’Arabia allora il rifiuto dei portuali diventa legittimo. Vogliono però essere certi che si
tratti di armi e non di materiale a uso civile come sostengono il caricatore e l’agenzia marittima. Il carico in
attesa non viene imbarcato ma stoccato in un magazzino portuale.
Dopo 20 giorni, al termine di una riunione in Autorità portuale esce un comunicato che “vista la documentazione
prodotta dalla Teknel”, sostiene che quei generatori sono destinati alle funzioni di protezione civile svolte
dalla Guardia saudita e non a scopi militari, “per proteggere la popolazione da alluvioni, frane e terremoti” (in
Arabia!). Parola di Teknel. Vedi qui sotto il suo sito in cui è illustrato il mestiere di questa azienda dove i
Power Generator System sono inseriti nei sistemi integrati militari, per cui Teknel ha il contratto in corso con
la Guardia saudita. Per cui è probabile che al prossimo passaggio di una Bahri, il 23 giugno, il carico verrà̀
imbarcato. I sindacati hanno accettato inopinatamente questa versione senza una riga di obiezione. Non sappiamo se
ridere o se piangere.
Abbiamo però capito meglio un paio di cose.
Per una volta i fabbricanti di armi si sono preoccupati davvero. Per la prima volta infatti i primi a protestare
non sono stati i compagni e le compagne che pure lottano quotidianamente su questo fronte o le associazioni
umanitarie e pacifiste. Sono stati i lavoratori!! Non ancora quelli che sono dentro il ciclo produttivo delle
armi, ma quelli che stanno nell’anello essenziale della catena del trasporto internazionale, i lavoratori
portuali. Senza il lavoro dei quali i carichi di morte, le armi vendute a chi fa la guerra, i sistemi militari per
uccidere le popolazioni civili non passano. Prima a le Havre, poi a Genova, e ancora a Marsiglia.
Grazie alla nostra lotta insieme ai tanti compagni solidali che l'hanno sostenuta e fatta propria, si è creato un
precedente. Non resta che aspettare. Le Bahri passano di mese in mese al terminal GMT (la prossima il 23 giugno).
Dai F.lli Messina, un giorno sì e uno no, si imbarcano carri armati e blindati. Andremo a controllare le polizze
di carico per vedere se vanno a uccidere o semplicemente in parata. E se vanno a uccidere non le faremo salire a
bordo. Siamo certi che non saremo soli.

***
Una nave saudita carica di armi, la Bahri Yambu, è in arrivo nel porto di Genova. Ormai è noto, ed è noto grazie
all'impegno e all'impulso dei lavoratori del porto che hanno sollevato la gravità dei fatti. Le rassicurazioni
della Capitaneria di Porto sulla natura “civile” del carico che dovrebbe essere imbarcato a Genova non ci bastano.
Quella nave è già piena di armi caricate ad Anversa e la medesima compagnia con altre navi (la Bahri Jeddah, ad
esempio) ha già imbarcato in questi anni al Terminal GMT genovese carichi di bombe italiane prodotte dalla RWM e
decine e decine di carri armati.
Le ipocrisie di chi se n'è accorto l'altro ieri ma finché stava al governo stipulava proprio quegli accordi
milionari con l'Arabia Saudita (P.D., ministro Pinotti) per la vendita d'armi devono restare fuori da questa
partita che tutto dev'essere fuorché un giochetto politico.
Le bombe sono prodotte per uccidere e distruggere. Dove vadano queste armi e che ne dicano i trattati
internazionali a noi interessa poco: non facciamo distinzioni tra “guerra” e “operazioni di pace”. Un generatore
elettrico militare serve ad uccidere tanto quanto un cannone.
QUELLA NAVE NON DEVE ATTRACCARE A GENOVA, NE ORA NE IN FUTURO!!
Dopo la partecipata assemblea di ieri tra lavoratori, delegati sindacali e cittadini solidali, invitiamo tutta la
cittadinanza a partecipare ad una battaglia che non può essere solo dei lavoratori portuali ma di chiunque abbia a
cuore la vita di altri esseri umani uguali a noi, di chiunque voglia opporsi alla violenza della guerra in ogni
sua forma, a partire da quando è in casa nostra.
Lunedì mattina presidio al varco Etiopia, Lungomare Canepa, dalle ore 6:00 in poi. L'orario del presidio potrà
subire modifiche a seconda dell'arrivo della nave.
Un generatore elettrico ad uso militare è un'arma da guerra? Se alimenta un campo da cui partono incursioni o
bombardamenti, come lo considera la Capitaneria di porto? Questa "merce varia" è già a ponte Eritrea, Genoa Metal
Terminal, pronta per essere imbarcata lunedì sul Bahri Yanbu, destinazione Jeddah. La ditta che li produce,
Teknel, è convenzionata con la N.A.T.O. e produce servizi logistici militari.


Il decreto-Salvini bis è un attacco alle lotte
Il decreto-sicurezza bis, voluto dalla Lega, sottoscritto da 5S, e firmato da Mattarella l'11 giugno, completa e
indurisce la normativa anti-proletaria contenuta nel primo decreto-sicurezza.
Il primo decreto-Salvini (del giugno 2018) aveva come suo bersaglio anzitutto i richiedenti asilo e i lavoratori
immigrati, ma colpiva con altrettanta durezza i picchetti e le occupazioni di case, cioè le lotte. Il secondo
decreto-Salvini concentra il fuoco proprio contro la libertà di manifestare e contro il diritto elementare di
difendersi dalle aggressioni delle "forze dell'ordine".
Ogni forma di opposizione e di resistenza un minimo attiva alle "forze dell'ordine" diventa reato (da violazione
amministrativa che era), e viene punita anche se l'offesa arrecata è lieve. L'uso di caschi, fumogeni, petardi e
materiali "imbrattanti" (!) è punito con l'arresto, se in flagranza, fino a 3 anni (anziché 2) e con l'ammenda
fino a 6.000 euro (invece che 2.000). Sono inasprite le sanzioni per danneggiamenti o devastazioni (che sono
equiparati tra loro) compiuti nel corso di manifestazioni. Manifestare senza preavviso diventa, da
contravvenzione, delitto. La pena prevista per interruzione, o anche solo ostacolo, di pubblico servizio nel corso
di manifestazioni o eventi pubblici (ad esempio un intervento o una protesta durante un consiglio comunale), può
arrivare a 2 anni (anziché 1). Mentre l'oltraggio a pubblico ufficiale è ora punibile con pene fino a 3 anni e sei
mesi.
Queste misure aggravano le pene previste dalla legislazione fascista (T.U. sulla pubblica sicurezza del 1931), dai
decreti di emergenza del 1944 in periodo di guerra, e dalla liberticida legge Reale del 1975. Il tutto in nome
della "straordinaria necessità e urgenza di rafforzare le norme a garanzia del regolare e pacifico svolgimento di
manifestazioni in luogo pubblico e aperto al pubblico". Poiché la conflittualità sociale in Italia è oggi ad un
livello bassissimo, si tratta - è evidente - di un insieme di misure essenzialmente preventive per contrastare e
scoraggiare il più possibile la ripresa in grande delle lotte quando non basterà più la squallida demagogia
"sovranista" o pentastellata a deviarla, e l'intervento di Cgil-Cisl-Uil e del Pd (e soci) a contenerla e
svuotarla. [Mancando chiaramente i requisiti di “straordinaria necessità e urgenza”, diversi giuristi ritengono
che il decreto possa essere giudicato incostituzionale - vedremo, ma non crediamo che tali obiezioni siano in
grado di fermare il Salvini-bis, come non hanno fermato il primo decreto.].
Nel decreto-sicurezza bis ce n'è, naturalmente, anche per gli emigranti e gli immigrati. Colpendo le residue ong
che si trovano nel Mediterraneo, e criminalizzando il soccorso in mare in generale, si militarizza ulteriormente
il Mediterraneo, e si fa salire in misura vertiginosa il rischio e il prezzo della sua traversata. Si favorisce
così quella selezione di classe degli emigranti dall'Africa pretesa dall'Unione europea e dai padroni di "casa
nostra", che vogliono qui, per quanto è possibile, gente dotata di adeguata istruzione e delle professionalità
richieste dalle imprese, che la scuola italiana non fornisce in numero adeguato (di lavoratori immigrati di
origini contadine e proletarie ce n'è già una certa abbondanza).
Non abbiamo il minimo debole per le ong (come istituzioni - fermo restando il rispetto per tutte le persone che
nutrono genuini sentimenti di solidarietà con gli emigranti schifosamente vessati dal governo italiano). Ma
dev'essere chiaro che la liquidazione delle ong non c'entra proprio niente con lo strombazzato contrasto al
traffico di emigranti. Al contrario! Serve a lasciare il campo libero, oltre che alle navi da guerra, proprio alle
organizzazioni della malavita organizzata. È di oggi la dichiarazione del sindaco di Lampedusa: nei giorni scorsi,
ha detto, sono sbarcati sull'isola almeno 200 emigranti su barche e barchini (dei trafficanti, aggiungiamo noi) -
sono i cosiddetti sbarchi-fantasma, chiamati così perché il ministero dell'interno ha dato l'ordine di non
vederli. Sbarchi che continuano senza soste, permessi e protetti dal silenzio di stato e di stampa. Del resto, è
scritto nero su bianco nel 2019 Trafficking in Persons Report del Dipartimento di stato statunitense, reso noto il
20 giugno: "Il governo italiano non soddisfa pienamente il minimo [notate bene: il minimo] standard per
l'eliminazione del traffico degli esseri umani". Secondo tale rapporto, gli atti compiuti dal governo di Roma "non
sono stati importanti e non sono stati al livello del rapporto dell'anno scorso". Lo dicono i fatti: "c'è stato un
calo nel numero degli arresti e delle indagini sulla tratta, rispetto al periodo precedente di riferimento".
Il primo decreto-sicurezza fece un doppio regalo alle organizzazioni della criminalità producendo (con
l'abolizione di fatto della protezione umanitaria) decine di migliaia di immigrati irregolari, e dando ai boss
mafiosi la possibilità di riacquistare i beni loro sequestrati tramite dei prestanome. A ruota la Lega ha preteso,
nello "Sblocca cantieri", l'allentamento dei controlli sugli appalti pubblici e l'ampliamento del ricorso ai sub-
appalti - proprio là dove si concentrano, secondo il presidente dell'Anticorruzione Cantone, "i rischi delle
infiltrazioni mafiose e quelli [strettamente connessi] per la sicurezza dei lavoratori". L'accanimento mediatico
di Salvini contro la Sea Watch negli stessi giorni in cui altri 200 immigrati sbarcavano a Lampedusa e altri 100
(solo 100? ne dubitiamo) entravano in Italia dal confine di Trieste; l'accanimento governativo-giudiziario contro
ogni forma di accoglienza in qualche modo gratuita, consolida il duopolio stato/criminalità organizzata sul
controllo delle migrazioni internazionali in entrata. Immigrazione zero? Non scherziamo! Nel Def (decreto di
economia e finanza), passato all'unanimità in consiglio dei ministri il 9 aprile, è scritto: quest'anno servono
almeno 165.000 nuovi immigrati... Servono, se possibile, "accolti/e" alle frontiere terrestri o marine dai
militari e da Frontex, incatenati/e dai debiti (meglio se contratti con la malavita organizzata), e irregolari, il
che vuol dire: almeno per un po' di anni irregolarizzati/e dalle politiche di stato.
Hanno ragione gli organismi impegnati contro la repressione quando denunciano "una lunga deriva istituzionale
verso la configurazione di uno stato penale", di uno "stato di polizia" che usa in modo sempre più intensivo il
diritto penale e dispositivi "pan-penalisti". E condividiamo in pieno anche la denuncia dell'applicazione
dell'art. 41 bis alle compagne e compagni anarchici e ad altri militanti politici detenuti all'Aquila, Ferrara,
Alessandria, Sollicciano, Lucca: si tratta di una vera e propria tortura con i suoi divieti di parola, di
socialità, di corrispondenza, di rapporti con i familiari, di lettura, la sorveglianza asfissiante nelle celle (le
perquisizioni fino a 12 volte al giorno!), e perfino l'impossibilità di presenziare al proprio processo attraverso
il ricorso al video-interrogatorio.
La sola cosa che vogliamo sottolineare è che il bersaglio grosso, il bersaglio ultimo di questi decreti, del
governo, degli apparati repressivi dello stato democratico, come e più di sempre stato dei padroni, è la lotta di
classe autonoma degli sfruttati - e tutto ciò che può favorirla. Non solo in prospettiva, già oggi. Se nel 2001 e
negli anni immediatamente successivi il bersaglio primario della repressione statale era stato il nascente
movimento "no global"; se dal 2011 a seguire il posto d'onore è stato attribuito dagli organi dello stato al
movimento "no Tav"; negli ultimi anni è fuori discussione che la repressione statale e padronale ha martellato i
facchini e i driver immigrati della logistica, e in modo particolare il SI Cobas, anche fuori dalla logistica.
Oramai non c'è uno sciopero del SI Cobas che non veda schierate in forze decine di poliziotti e carabinieri,
pronti a manganellare duro e gasare con i lacrimogeni (come all'Italpizza di Modena) tanto gli attivisti sindacali
che le lavoratrici immigrate.
E non si tratta più solo delle "forze dell'ordine", l'ordine dei padroni, s'intende. Con i decreti-Salvini e
l'attività del governo del "cambiamento" la militarizzazione del controllo e del contrasto alle lotte degli
sfruttati, specie se immigrati, ha fatto un così deciso passo in avanti che i padroni e gli ambienti più o meno
mafiosi a loro vicini si sono sentiti incoraggiati, spronati, a darsi da fare per lanciare contro i lavoratori
proprie milizie private. Si era appena formato il governo Conte e in Calabria, fiutando l'aria nuova, c'era chi,
in nome del diritto di proprietà, si sentiva autorizzato ad assassinare il bracciante maliano dell'Usb Soumayla
Sacko, colpevole dell'imperdonabile "furto" di lamiere abbandonate. Episodio casuale? Tutt'altro. Ne abbiamo
conferma anche in alcuni fatti di questi ultimi giorni. Ad esempio al Salumificio Bellentani di Vignola, in quel
di Modena (il famoso "modello emiliano", quello di cui la 'ndrangheta è parte integrante...), una squadretta
(squadraccia) padronale di guardie senza uniforme è impegnata quotidianamente a molestare e provocare le operaie e
i militanti del SI Cobas per arrivare a denunciarli per presunte "aggressioni". Alla Gruccia Creations di Prato
un'altra squadraccia messa su dal padrone (cinese, questa volta - ma i padroni, come gli operai, non hanno patria,
sono la stessa identica razza di vampiri sotto qualsiasi cielo) ha aggredito e pestato a sangue gli operai
pakistani in sciopero, colpevoli di non voler più lavorare 12 ore al giorno senza riposo settimanale. In
precedenza sempre a Prato, alla tintoria DL e alla tintoria Fada aveva provveduto lo stato a svolgere la sua
funzione di difensore intransigente (manganello alla mano) della proprietà privata e del diritto padronale a
sfruttare il lavoro salariato. Incoraggiato da questo e dal clima generale creato dal governo, alla Gruccia
Creations il padrone cinese ha pensato bene di sbrigarsela da solo, con i suoi mezzi privati di intimidazione.
L'uno (lo stato) incoraggia l'altro (il capitalista singolo), mentre la questura - che fa? - emette un foglio di
via contro due militanti del SI Cobas accusati di essere "socialmente pericolosi" - risponde così all'appello
degl'imprenditori pratesi a non mettere a rischio con le lotte i loro smisurati profitti (il padrone della Fada si
era fatto immortalare con il cartello "Cobas comanda Prato, aiuto istituzioni").
Non è da escludere in assoluto che a Modena o a Prato, per le contraddizioni inter-borghesi tra le aziende e tra i
partiti, possa esserci qualche momentaneo passo indietro o di lato di qualche settore delle istituzioni locali o
della magistratura (come lo è stata l'assoluzione di Aldo Milani in un processo, peraltro, dai fondamenti
grotteschi). Per l’aggressione alla Gruccia Creations, ad esempio, è avvenuto che si siano indignati tutti, dalla
CGIL al presidente della Regione Toscana (resta da vedere, comunque, cosa di concreto ne deriverà). Ma quando è la
polizia a attaccare gli scioperanti, nessuna indignazione. E la scesa in campo con prese di posizioni
intimidatorie del SAP e del Siulp di Modena a difesa e rivendicazione dei pestaggi contro i sindacalisti del SI
Cobas e le lavoratrici di Italpizza, mostra fino a che punto è arrivata la convinzione di chi attua una
repressione delle lotte, tanto violenta quanto vigliacca, di avere diritto alla più totale impunità. Costoro sono
così sicuri dell'impunità che, dopo avere picchiato e gasato a volontà gli scioperanti, si permettono la ridicola
messa in scena di farsi "medicare" in ospedale al solo scopo di poter fare denunce più pesanti contro chi resiste.
L'incremento della repressione padronale-statale dentro e fuori i luoghi di lavoro non si limita certo ai casi fin
qui nominati - come dimostrano diversi episodi di discriminazioni e rappresaglie denunciati da CUB e ADL, o
l'introduzione delle impronte digitali e del controllo biometrico nella pubblica amministrazione. Intanto, a 30
anni dal varo della legge 146/1990 sulla regolamentazione dello sciopero nei "servizi pubblici essenziali", la
Commissione di garanzia prepara nuove misure ancora più restrittive nei trasporti, nei servizi pubblici locali,
nelle attività di igiene ambientale, in nome della tutela delle "fasce deboli" (è il massimo dell'ipocrisia). E
appare evidente la volontà dei suoi committenti di allargare il più possibile il concetto di servizio pubblico
essenziale per arrivare a rendere quasi impraticabile il ricorso allo sciopero. Così come è evidente che i
promotori dello squallido convegno internazionale di Verona sulla famiglia non hanno affatto sospeso la loro
azione volta a restringere e reprimere i pur parziali diritti conquistati dal movimento delle donne, negli anni
'70 e oggi.
Questo incremento della repressione padronale-statale è legato anche alla previsione di una fase economica ancora
più pesante, per i lavoratori, di quella attuale. In queste settimane stiamo assistendo a una vera e propria
ecatombe di posti di lavoro, in particolare nel meridione, con centinaia di crisi aziendali vere o presunte,
chiusure, delocalizzazioni e cassa integrazione a più non posso: i casi della Whirlpool a Napoli, di Mercatone
Uno, di Jabil e del corriere espresso SGT sono solo quelli più eclatanti, peraltro in un contesto in cui a una
parte dei lavoratori (i dipendenti diretti) viene garantita quantomeno la possibilità di accedere agli
ammortizzatori sociali, mentre a tutti i lavoratori in appalto, in subappalto e dell'indotto è negato persino
questo “salvagente”. Di fronte a un quadro talmente drammatico i sindacati confederali Cgil-Cisl-Uil, invece di
indire un vero sciopero generale, si limitano a co-gestire la crisi e ad indire scioperetti senza la minima
convinzione che si risolvono in inutili e logore passeggiate in questa o quella città e qualche comizietto in cui
i leader di turno invocano come un disco rotto “una nuova politica di sostegno agli investimenti da parte del
Governo”. In pratica, di fronte alla rapina sistematica di salario compiuta dai padroni, la prima preoccupazione
dei sindacalisti di stato è… come far fare ancor più profitti alla borghesia! Non vi è dubbio che la Lega, con
l'imminente varo della Flat Tax, sta dando una risposta a queste “preoccupazioni” tanto concreta e succulenta per
i padroni quanto devastante per i lavoratori. Lo sciopero dei metalmeccanici dello scorso 14 giugno, al di là dei
proclami dei leader confederali non ha fatto altro che mettere a nudo, da un lato l'impotenza e la profonda crisi
di consenso di Cgil-Cisl-Uil, dall'altro la volontà di queste ultime di alzare un vero e proprio “muro divisorio”
tra le burocrazie confederali e le esperienze di lotta e di conflitto reale. Il caso della manifestazione del 14
giugno a Napoli, in cui centinaia di agenti in assetto antisommossa hanno tenuto alla larga (su richiesta dei
dirigenti di Fiom-Fim-Uilm) lo spezzone dei “rompiscatole” del SI Cobas, dei licenziati Fca, dei disoccupati e di
alcuni delegati Usb di Melfi, la dice lunga al riguardo…
Sarebbe imperdonabile infantilismo illudersi di poter sbaragliare questa linea d'azione di padroni, governo e
istituzioni statali, in quattro e quattr'otto con la sola determinazione di piccoli gruppi, per di più isolati gli
uni dagli altri. La forza di questa azione repressiva è anche nella paura che sa generare, nella paralisi della
grande massa dei lavoratori, nel consenso che ha saputo conquistarsi tra settori di lavoratori italiani e nel
silenzio-assenso dei sindacati confederali Cgil-Cisl-Uil. Né si tratta solo dell'Italia: la brutalità con cui
Macron e la polizia francese hanno aggredito i gilet jaunes e prima ancora il movimento degli studenti, non è
minore di quella del governo Lega-Cinquestelle. L'UE è compatta in questa direzione. E non solo in Italia questo
clima repressivo e razzista alimenta la rimessa in moto dei gruppi neo-fascisti, sempre più attivi come forza di
complemento del fronte padronale, pronti, come in passato, ai più sporchi servigi a comando (o anche auto-
promossi).
Lo scorso anno, a partire dai cortei di Milano (7 luglio, organizzato dal SI Cobas) e di Ventimiglia (14 luglio,
promosso dai No Borders), il primo decreto-Salvini ha ricevuto un crescendo di risposte, di differente intensità
ed estensione andato avanti fino alle iniziative di ottobre-dicembre. Siamo rimasti, però, assai lontani dal
raggiungere, come numeri e come chiarezza politica, la massa critica indispensabile a stoppare l'iniziativa
repressiva del governo. La molteplicità delle risposte locali, parziali o settoriali (dimostrazioni di piazza,
assemblee, convegni, etc.) non è confluita in un unico movimento generale capace di parlare alla massa dei
lavoratori e dei giovani - inclusi i tanti che si aspettano qualcosa dal governo Lega-Cinquestelle. Il pericolo
ora è che il decreto-Salvini bis, che completa e inasprisce il primo, possa passare più liscio del precedente.
Sarebbe un vero paradosso, perché meriterebbe una risposta ancora più ampia, forte e unitaria. Che si deve
ampliare alla denuncia dell'intera azione anti-proletaria di questo governo, con una critica di classe di ciò che
ha fatto finora e di ciò che si appresta a fare, in materia di lavoro, di fisco, di politica internazionale.
Lavoriamo a questa risposta con la massima determinazione, serrando le fila, vincendo i localismi e le spinte
disgregatrici, mettendo avanti ciò che unisce rispetto a ciò che divide. E facendo ogni sforzo per arrivare alla
massa dei lavoratori oggi passiva, sbandata o perfino schierata a sostegno del governo. L'abbiamo detto fin dal
primo giorno: il governo Lega-Cinquestelle è un governo trumpista, piccolo ma pericoloso. In quest'anno si è visto
che la forza potenziale per dargli una battaglia seria, c'è. Dobbiamo però riuscire a schierarla in campo
unitariamente per fermare la repressione padronale e statale, e sollecitare una dinamica di riscossa del movimento
di classe. A questo fine proponiamo ai tanti collettivi impegnati nei singoli territori contro la repressione,
agli organismi del sindacalismo di base, e a tutte le realtà sociali, sindacali e politiche intenzionate a
battersi contro questo governo, di tenere quanto prima un'assemblea nazionale per costituire un Comitato nazionale
contro la repressione che si dia come suo primo obiettivo la cancellazione dei decreti Salvini-1 e Salvini bis.

27 giugno 2019
Il Cuneo rosso - GCR (Gruppo comunista rivoluzionario) - Pagine Marxiste; Compagni/e per una tendenza
internazionalista rivoluzionaria