indice n.141

Sul presidio al porto di Genova contro la Bahri Yanbu
dalle lotte dentro e contro i campi di internamento
sulle rivolte esplose a marzo nelle carceri
rassegna di alcune testimonianze dalle carceri
da una lettera dal carcere di milano-opera
I colloqui al tempo del coronavirus
Lettera dal carcere di Uta (CG)
Liberarsi dal virus del carcere
Breve rassegna delle ultime leggi
lettera-Reclamo dal carcere di reggio-emilia
da una lettera dal carcere di tolmezzo (ud)
Ennesima morte nel carcere di Udine
Lettera dal carcere di Agrigento
Lettera dal carcere di San Michele (Al)
Sulle mobilitazioni operaie in corso
La vita fuori adesso funziona così


Sul presidio al porto di Genova contro la Bahri Yanbu
Sono passati alcuni giorni dal presidio a Varco Etiopia contro l'arrivo della Bahri Yanbu e può essere il momento per alcune riflessioni e un abbozzo di bilancio.
Provando a districarsi nel grande meccanismo della guerra si corre il rischio di perdersi e di incrociare un'ipocrisia dopo l'altra. Di fronte a quest'enormità pare solitamente che non si possa fare nulla o che i gesti e le azioni rimangano di fatto inefficaci. A noi invece pare che quello che è successo negli ultimi mesi attorno alla lotta contro la Bahri sia importante e produca degli effetti reali: mentre conoscevamo conflitti semisconosciuti e luoghi dai nomi difficili abbiamo conosciuto altri compagni, vicini e lontani e che in qualche caso avevano cominciato questa battaglia ben prima di noi. Una dimostrazione della dimensione assunta è la variegata (e se consideriamo il giorno feriale e la pioggia, pure significativa) partecipazione al presidio di lunedì 17: volevamo bloccare l'ingresso principale del porto e chi c'era è stato da subito disponibile a porsi su questo piano e il blocco è durato più di sette ore, in barba agli avanzamenti repressivi dei governi. Danni reali forse non molti, perché probabilmente le contromisure per la gestione del traffico portuale, deviato sui varchi secondari, erano state prese in anticipo. Ma comunque un segnale significativo.
Un segnale altrettanto importante crediamo sia stata la discussione sorta tra i lavoratori chiamati quel giorno a lavorare sulla Bahri Yanbu e il fatto che alcuni si siano rifiutati di farlo, optando per una sorta di obiezione di coscienza. Le operazioni di carico (solo materiale “civile”, lo ricordiamo) non sono state pregiudicate da queste scelte singole, ma di questi tempi il rifiuto di collaborare non è poca cosa.
Se poi allarghiamo lo sguardo, le iniziative direttamente collegate alla Bahri, o in solidarietà, o più genericamente contro la guerra ma con esplicito riferimento alla sua logistica e al ruolo della compagnia saudita sono state davvero tante, nei porti (Anversa, Tilbury, Cherbourg, Bilbao) come altrove (Marsiglia, Firenze, Pisa, Milano, Livorno, Catania, Roma, Siena, Bologna, Torino, Trieste, Cagliari, Sassari, Basilea, Zurigo, Vienna, Berlino, Norimberga, Santander, Motril, Atene) mostrando come le fabbriche di armi, le basi militari, i centri di ricerca universitari al militare subordinati, così come tutto ciò che costringe alla migrazione e le condizioni di vita e di lavoro degli stranieri in Europa facciano parte dello stesso ingranaggio di guerra.
Dai primi momenti di lotta di maggio e giugno 2019 non è passato solo del tempo, ma si è anche allargata la consapevolezza del ruolo della compagnia saudita Bahri nei vari contesti di guerra che, lo ribadiamo ancora, non sono soltanto la guerra in Yemen, ma anche quella in Kashmir e in Rojava e Siria del Nord. La Bahri non è una compagnia navale qualsiasi ma svolge un servizio specializzato, perché la guerra è una merce che trova sempre spazio nelle sue navi, e verso qualsiasi destinazione; inoltre tra i suoi proprietari c'è l'impresa leader mondiale nella produzione petrolifera, la Saudi Aramco (che vanta anche il primato mondiale di inquinamento da anidride carbonica dal 1952 ad oggi). La guerra in Yemen serve a tutti i paesi occidentali, perché in gioco c'è il controllo dello stretto di Bab el Mandeb (e quindi gli alti profitti e i bassi costi) che garantisce all'Europa l'arrivo di tutte le merci cinesi e di tutto il petrolio mediorientale.
Varrebbero discorsi simili per quel che accade in Libia, e visto che tanto si parla della Bana ormeggiata in porto al Terminal Messina, sequestrata da giorni e con il comandante arrestato mercoledì, viene da chiederci come mai tutto questo scalpore: forse che tutta questa attenzione dei francesi ha anche a che fare con gli interessi (concorrenti) di Total ed ENI in Libia? E come mai nessuno dice che i mezzi portati con la Bana in Libia (e destinati al governo sostenuto anche dall'Italia, formato anche da qaidisti e miliziani Isis) sono sì di produzione turca, ma sempre in collaborazione con imprese europee (Bae Systems, Rheinmetall)?
E tanto per aggiungere un elemento: mentre eravamo a Varco Etiopia lunedì, stavano passando a Ponte Assereto (Terminal Traghetti) mezzi militari Iveco destinati ufficialmente alla Tunisia (e poi Libia??). Tutti i capitalisti vendono armi a chi fa la guerra non solo perché è redditizio ma perché la guerra serve a tutti i capitalisti.
Di fronte a questi scenari, occorre rimarcare che quello che è accaduto nelle ultime settimane è frutto principalmente dell'iniziativa autonoma di lavoratori, compagni e tanti solidali ma davvero poco dei sindacati. La stessa “politica” a più riprese chiamata in causa ha risposto in modo allo stesso tempo chiaro, ambiguo e ipocrita e ne prendiamo atto: la legge vigente (185/90) non si applica alla guerra in Yemen perché sarebbe stato il governo yemenita a chiedere a quello saudita di... bombardare il paese; ugualmente, la stessa legge che recita “l'esportazione, l'importazione e il transito dei materiali di armamento […] nonché la cessione delle relative licenze di produzione, sono soggetti ad autorizzazioni e controlli dello Stato”, non si applica al... transito di materiali di armamento.
Quindi la legge italiana che regolamenta il traffico di armamenti, con le relative limitazioni per i contesti di guerra è, nei fatti e per le autorità stesse, ampiamente aggirabile – con buona pace dei sindacati che, da statuto, dichiarano “la pace bene supremo dell’umanità”. Motivo di più per rimanere, ora e per il futuro, sul solco della lotta e accanto a tutti coloro che su quel solco hanno scelto di collocarsi. Porti chiusi alla guerra.

febbraio 2020, Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di Genova


dalle lotte dentro e contro i campi di internamento
Durante questi giorni convulsi anche dentro le prigioni per migranti è divampata la rabbia tra chi si ritrova recluso. Si sono susseguiti scioperi della fame e rivolte in tutta Europa che in alcuni casi hanno portato alla liberazione dei reclusi.

Milano. Tornando indietro ai primi giorni in cui venivano applicate le nuove norme di sicurezza, come ad esempio il divieto di assembramento, in data 1 marzo c’è stato un presidio davanti al futuro CPR (Centro Per il Rimpatrio) di via Corelli, dove attualmente si trova il CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria). Qui di seguito il racconto: “Oggi eravamo in tanti e tante sotto il futuro cpr di via corelli. Dopo un primo momento in cui il presidio ha comunicato con i passanti e gli abitanti della zona e fermato gli automobilisti, si è partiti in corteo verso il CAS. Nonostante l'impressionante dispiegamento di forze dell'ordine, siamo riusciti a farci sentire dalle persone dentro il centro, le quali hanno accolto con gioia la nostra presenza. Questo non è che un primo momento in cui siamo sotto il CPR. Sempre solidali con chi vive in uno stato di privazione di libertà. C'eravamo oggi e ci saremo nei giorni a venire. I CPR bruceranno ancora e noi saremo lì fuori”. (Punto di Rottura)
Potenza. Verso metà marzo al CPR di Palazzo san Gervasio è iniziato uno sciopero della fame, i familiari dei ragazzi reclusi hanno spiegato che le ragioni dello sciopero hanno riguardato la paura per il contagio, in un contesto dove le condizioni sanitarie sono già estremamente precarie. Lamentavano anche la completa assenza di materiale per tutelare la salute dei detenuti.
Gradisca d’Isonzo (GO). Anche qui ci sono state proteste per via della paura del Covid-19. Qui di seguito il racconto delle compagne e dei compagni di No Cpr e No frontiere-Fvg: “Oggi sono stati bruciati dei materassi nella zona verde del Cpr di Gradisca. Un giovane ragazzo marocchino si è tagliato tutto il corpo, chiedeva di essere rilasciato o deportato ma non trattenuto nel Cpr; il giudice, invece, gli ha comminato un ulteriore mese di permanenza, come sta continuando ad avvenire abitualmente da quando è nel Cpr. I reclusi hanno paura del Corona virus. Ci raccontano di condizioni igieniche pessime: le stanze semi-fatiscenti non sono riscaldate; le lenzuola non vengono mai cambiate; un’impresa di pulizia viene a ritirare la spazzatura circa ogni due settimane, ma le pulizie non vengono fatte se non dai reclusi; i pasti arrivano da Padova, dove ha sede la cooperativa Edeco; gli psicofarmaci vengono distribuiti su richiesta. Nella situazione emergenziale che si sta vivendo in questo momento, a quanto ci raccontano, nel CPR di Gradisca, stanno continuando a entrare persone nuove di origine prevalentemente srilankese o pakistana, a nessuno è stato fatto un tampone o alcun esame”.
Diversi reclusi sono entrati in sciopero della fame lunedì 23 Marzo, le motivazioni riguardano: il cibo, le condizioni igieniche, la paura per il contagio (visto che fino a cinque giorni prima hanno continuato a internare nuove persone), la volontà di uscire dal CPR per tornare alle proprie case.
Roma. Nel CPR di Ponte Galeria sembra non ci siano state rivolte, ma le ragazze pare sia siano rinchiuse volontariamente nelle loro celle per evitare il contagio.
In Francia nelle prigioni per migranti c’è stata la sospensione dei colloqui, misure sanitarie ridicole e nessuna informazione è stata data ai reclusi. In più molti paesi hanno chiuso le frontiere ai voli provenienti dalla Francia, impedendo i rimpatri allungando il periodo di permanenza nel libro dei CRA (CPR francesi).
Il 16 Marzo a Vincennes, Mesnil-Amelot, Lyon e Lille-Lesquin i prigionieri hanno iniziato lo sciopero della fame. In alcuni centri sono stati appiccati incendi, ci sono state evasioni ed è divampata la rabbia. I detenuti hanno denunciato la mancanza di igiene, nessun materiale per la impedire il contagio come guanti o mascherine, né in mano a loro né in mano alle guardie, la violenza da parte della polizia. Chiedono la liberazione di tutti e tutte.
Dopo il 16 Marzo la situazione è rimasta accesa. Nei giorni successivi alcuni dei reclusi sono stati liberati, specialmente coloro che sono riusciti a comparire davanti a un giudice e che hanno avuto la possibilità di avere un avvocato o che sono stati aiutati dalle associazioni attive nei centri. Altri sono rimasti rinchiusi nei centri in condizioni già precedentemente disgustose. Le guardie hanno reso la situazione ancora più difficile, hanno fatto spesso circolare delle voci riguardo la liberazione di tutti i prigionieri a Vincennes e anche in altri CRA per poi tacere in merito alla questione. In alcuni centri ci sono state delle liberazioni, in altri hanno continuato a rinchiudere altre persone, nel CRA di Mesnil-Amelot il 16 e il 17 Marzo, di mattina, sono state recluse altre persone.
A Bordeaux un’azione giudiziaria collettiva ha permesso la liberazione di tutti i detenuti del CRA, come a Nimes e a Montpellier. Tolosa un’azione dello stesso tipo sarebbe in corso per 62 prigionieri. A Rennes tutte le domande di messa in libertà sono state rifiutate mercoledì 18 Marzo. A Palaiseau, Strasburgo, Hendaye, Oissel, Plaisir le persone hanno cominciato a uscire. In alcuni CRA, a Hendaye come a Strasburgo, delle persone sono state trasferite da un centro all’altro.
Il 22 marzo nel centro di detenzione di Uzerches, i prigionieri stremati dalle nuove misure di confino e per il fatto di essere tenuti all’oscuro di tutto quello che riguarda la malattia sono riusciti ad accedere al cortile dell’aria e sono saliti sul tetto. In alcuni video che sono stati diffusi su internet, si sentono dei giovani urlare che hanno paura di morire perché le ERIS (Équipes régionales d’intervention et sécurité, equivalente dei GOM) e la polizia sono armati, e loro no; e che sparano con proiettili veri, com’è stato il caso settimana scorsa nella casa circondariale di Grasse. Trasmettiamo qui le loro rivendicazioni: “Vogliamo un DEPISTAGGIO per ogni detenuto e per ogni membro dell’amministrazione penitenziaria; vogliamo che tutti gli agenti penitenziari senza nessuna eccezione siano muniti di guanti e di maschere (sono loro i più esposti al virus poiché sono loro che entrano ed escono dal carcere); vogliamo essere informati dell’evoluzione della situazione: A che punto siamo, i colloqui verranno ripristinati? Che fine ha fatto il sopravvitto? Che fine ha fatto la biancheria? Qual è la situazione delle cure mediche in caso di Coronavirus? E per finire, per proteggerci, vorremmo che ogni detenuto abbia del gel antibatterico e una mascherina a disposizione (il minimo per quanto riguarda l’igiene attualmente)”.
Belgio. Nel centro di Merksplas, i detenuti si sono rifiutati di mangiare, sei di loro sono stati reclusi nei sotterranei, mentre altri sono stati rilasciati dall’amministrazione.  Anche nel centro di Votten è iniziato uno sciopero della fame è sono circolate delle voci in merito a dei possibili rilasci. Nel centro femmiline di Bruges pare che non siano più state rinchiuse altre donne e pare che in quello di Hoolbeck ne abbiano rilasciate alcune.
Spagna. Nel CIE di Aluche (Madrid) martedì diversi detenuti sono saliti sul tetto chiedendo la libertà dopo che si era sparsa la voce di un possibile contagio nel centro. Quest’ultima protesta ha avuto una risposta e sono stati rilasciati tutti quei migranti che non possono essere rimpatriati perché il paese di destinazione ha chiuso le frontiere alla Spagna. Qui di seguito il comunicato dei reclusi di Aluche: “1. Il cibo che stiamo ricevendo è preparato da persone che stanno tornando a casa come niente fosse e entrando di nuovo dentro la struttura e quindi ci espongono al Coronavirus. Se i bar, le sale da pranzo e i ristoranti sono chiusi, perché noi, che siamo imprigionati per una questione amministrativa, dobbiamo esporci a questo rischio? Chiediamo il diritto all’uguaglianza. 2. C’è una pandemia e i poliziotti che sorvegliano i detenuti svolgono le loro funzioni e cambi di turno in completa normalità, tornando quotidianamente nelle loro case e inquesto modo possono infettarci. 3. C’è un medico che ci ha trattato con antidolorifici ma molti di noi presentano i sintomi di questa malattia e non abbiamo avuto test clinici medici per sapere se siamo infetti. 4. Inoltre, il dottore va anche a casa sua in totale normalità, anche le infermiere. Non sappiamo se lavorano in altre istituzioni e il rischio aumenta ancora di più. 5. Chiediamo aiuto immediato poiché siamo esseri umani e non siamo trattati come tali. 6. Alleghiamo su altri 2 fogli la firma di tutti i detenuti. 7. Da questo momento ci dichiariamo in sciopero della fame”.
A Valencia e Barcellona i detenuti sono stati rilasciati per l’impossibilità di rimpatrio.
Nel CIE di Sangonera (Murcia) metà dei reclusi hanno iniziato uno sciopero della fame per una soluzione rispetto alla questione della pandemia del corona virus.

Milano, marzo 2020

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USA: "NESSUNO VUOLE MORIRE IN PRIGIONE"
I lavoratori immigrati senza documenti detenuti presso il penitenziario della contea di Essex a Newark (New Jersey) sono in sciopero della fame da martedì 17 marzo per protestare contro le pessime condizioni in cui vivono all’interno del carcere, che non fanno altro che aumentare notevolmente la possibilità di contrarre il Coronavirus. Pertanto chiedono all'Immigration and Customs Enforcement (ICE) statunitense l’immediato rilascio in libertà.
Il penitenziario di Essex può ospitare fino a 928 detenuti maschi e dal 2010 ha un accordo di servizio con l'ICE per detenere coloro che vengono dai centri di espulsione. E proprio da questi ultimi è partito lo sciopero martedì scorso coinvolgendo un'intera unità del carcere che vi ha partecipato subito entro il giorno successivo.
"Chiediamo ai nostri fratelli in carcere di unirsi a noi" hanno detto i detenuti immigrati “Chiediamo anche ai detenuti addetti alla cucina che lavorano qui dentro di non andare al lavoro. Lo scopo di tutto questo è chiedere il rilascio dei detenuti in particolar modo di coloro che sono ingiustamente trattenuti qui, senza aver compiuto alcun reato ma si ritrovano qui a causa della detenzione amministrativa! Che sia un rilascio vero e proprio, tramite cauzione o braccialetto e coloro che hanno l’ordine di espulsione finale che vengano fatti salire sull’aereo il prima possibile in modo da ricongiungersi alle proprie famiglie. Non dovremmo rimanere rinchiusi durante una pandemia mortale come questa. Speriamo che vi unirete a noi perché siamo tanti e questa è una lotta non solo per la nostra libertà, ma anche per la salute e la sicurezza di tutti".
Le linee guida dell'ICE indicano che “i detenuti che rifiutano il cibo per un lungo periodo devono essere trattenuti e alimentati con la forza attraverso i tubi nasali ma questo non ha intimorito chi ha proclamato lo sciopero non lasciandosi condizionare dall’ennesima tortura dell’alimentazione forzata, spesso usata per destabilizzare momenti di ribellione in carcere e sottomettere psicologicamente i detenuti (tecnica usata a Guantanamo nel 2013).
A sciopero iniziato, grazie a famigliari e solidali che hanno fatto eco al di fuori delle mura carcerarie di quello che stava succedendo all’interno, i media hanno riportato la notizia e il giorno dopo l'inizio dello sciopero, mercoledì 18 marzo, è stato annunciato dall’ICE che avrebbe limitato gli arresti in giro per gli Stati Uniti ma non li avrebbe sospesi.
Venerdì 20 marzo sette detenuti immigrati irregolari nelle carceri della contea di Bergen, Hudson e dell'Essex (NJ) hanno intentato una causa – attraverso i legali solidali – nel distretto meridionale di New York contro alcuni importanti funzionari federali, tra cui Thomas Decker, direttore dell'ufficio sul campo dell'ICE di New York, e Chad Wolf, segretario ad interim del Dipartimento per la Sicurezza Nazionale (DHS) in quanto essendo persone che soffrono di una serie di disturbi, tra cui patologie renali, polmonari ed epatiche e diabete sono fortemente a rischio per l'infezione da COVID-19 e chiedono quindi di essere rilasciati immediatamente.
Un avvocato del team legale Bronx Defenders (organizzazione in sostegno agli immigrati a basso reddito che devono affrontare cause, processi, etc) ha dichiarato: "Il modo più semplice e umano in cui l'ICE può aiutare a prevenire l'imminente contagio disastroso del coronavirus tra i detenuti è quello di rilasciare tutti coloro che si trovano in carcere e farli stare vicini alle loro famiglie mentre aspettano le udienze di convalida o meno dell’espulsione dagli Usa. Quello che chiediamo è che i tribunali agiscano subito per costringere l'ICE a cominciare dal minimo indispensabile, ovvero mettere le persone più vulnerabili fuori pericolo prima che sia troppo tardi".
Le condizioni del penitenziario di Essex sono state atroci per anni come ad esempio, cibo scaduto, pane inutilizzato conservato in sacchi della spazzatura in modo da poter essere trasformato in budino di pane; celle con perdite di acqua e muffa estesa dalle docce ai corridoi. Non c’è alcuna opportunità di svago all'aperto e nemmeno un cuscino sul quale dormire. Uno dei molti detenuti è stato mandato in carcere per il possesso di un'arma e per resistenza: "Molti ragazzi hanno finito di pagare qualunque fosse il loro debito verso la società e noi siamo qui trattenuti contro la nostra volontà dal governo e dall'ICE... è una follia! Potrebbero lasciarci tornare a casa su cauzione e potremmo stare a fianco dei nostri famigliari in un periodo di pandemia come questo... Nessuno vuole morire in prigione".
Il carcere di Essex non è l'unico in cui i lavoratori immigrati sono detenuti nel New Jersey e a New York in condizioni pessime. I detenuti del penitenziario della contea di Hudson a Kearny (NJ) hanno riferito di essersi visti negare il sapone e il disinfettante per le mani. Un detenuto è stato trasferito bruscamente in una cella totalmente sporca e gli è stato ordinato di limitare il numero di volte in cui tira lo sciacquone. Un altro detenuto ha detto alla moglie che il personale non gli avrebbe permesso di farsi la doccia regolarmente. Inoltre, il carcere non offre ai detenuti la possibilità di richiedere assistenza medica. Il personale chiede ai detenuti se hanno lamentele, annota le loro risposte e poi le mette da parte senza seguire la vicenda. Un detenuto della prigione della contea di Bergen, a Hackensack (NJ), ha dichiarato che, sebbene il personale del carcere abbia accesso al lisol e alla candeggina, ai detenuti vengono negati mentre viene addirittura centellinata la sola acqua per pulirsi le celle.
Le condizioni sono simili nella Orange County Jail a Goshen (NY), dove vi sono solo gli immigrati senza documenti. I funzionari del carcere considerano l'igienizzante per le mani come un articolo da contrabbando perché contiene alcool e vietano ai detenuti di averlo. Un detenuto e sua moglie hanno riferito che i nuovi detenuti vengono portati in cella e viene negato loro di lavarsi per una settimana.
La notizia dello sciopero ha coinvolto anche i detenuti di Rikers Island (NY) che dal 22 marzo sono in sciopero. Nella loro dichiarazione si legge: "In due dormitori del carcere, più di 45 detenuti si rifiutano di lasciare i dormitori per lavoro o per i pasti. Scioperiamo contro la mancanza di dispositivi di protezione individuale (DPI) e di prodotti per la pulizia che non ci vengono forniti; contro le condizioni di vita affollate che ci sono state imposte prima della pandemia e che sono state aggravate dall'aggiunta quotidiana di nuovi detenuti provenienti da altre strutture, alcuni dei quali sono stati molto probabilmente esposti al COVID-19. Dalla mattina dell’inizio dello sciopero, inoltre, hanno tolto la connessione ai nostri telefoni togliendoci la possibilità di comunicare con l’esterno. Vogliamo quindi la riconnessione, subito! E vogliamo che tutti i detenuti, soprattutto quelli ad alto rischio per le condizioni di salute e per coloro che hanno meno di un anno di condanna, siano immediatamente rilasciati. Scioperiamo in solidarietà con i prigionieri in sciopero della contea di Hudson".
Il primo caso confermato di COVID-19 per un detenuto di Rikers Island è stato annunciato il 18 marzo, poche ore dopo la conferma che una guardia di un posto di controllo di sicurezza era risultata positiva. Da allora, il numero di persone detenute a Rikers risultate positive al virus sono state almeno 38. Date le condizioni insalubri, il sovraffollamento e la mancanza di accesso alle cure mediche a Rikers (le infermerie non hanno ventilatori polmonari), è necessario e doveroso dare priorità alla scarcerazione prima che questa popolazione vulnerabile e prigioniera venga decimata.
Un giornalista di The Intercept denuncia: "Sono rinchiusi in luride celle con decine di altre persone per giorni interi, confinati in dormitori con decine di altre persone, dipendenti dal personale per l’uso del sapone e dipendenti dai secondini per il permesso di andare in una clinica medica. I circa 5.400 uomini e donne detenuti nelle carceri cittadine di Rikers Island non hanno nulla per proteggersi dalla virus, anche se sono costantemente esposti ai contagi del mondo esterno attraverso il continuo alternarsi di tre turni giornalieri di agenti penitenziari e personale amministrativo".
Il carcere di Rikers Island, uno dei più famosi e peggiori di New York City ha una lunga storia di iper sfruttamento del lavoro dei detenuti che rientrano appieno nel sistema produttivo dell’intera città e lo sciopero contribuirà sicuramente a frenare l’ingranaggio capitalista. Le risposte a questa pandemia globale mostrano che il momento attuale non è avulso da secoli di storia violenta all'interno e all'esterno delle mura del carcere. Ma il governatore Andrew Cuomo ha annunciato che lo Stato di New York intende utilizzare il lavoro dei detenuti per produrre 100.000 galloni di disinfettante per le mani alla settimana (circa 378.000 Litri). I detenuti riceveranno 1,15$ all'ora o meno per il loro lavoro e nessun disinfettante per le mani in quanto considerato di contrabbando in prigione!
Inoltre New York City ha un piano di emergenza per la gestione delle morti dentro e fuori dagli ospedali che descrive minuziosamente l'uso del lavoro dei detenuti di Rikers per seppellire i corpi nelle fosse comuni di Hart Island se i depositi di cadaveri e le strutture di cremazione della città sono sovraccarichi. Basti ricordare che negli anni '80 e '90 i detenuti scavavano fosse ad Hart Island, dove venivano seppelliti i corpi inviati da varie parti del Paese di coloro che morivano di AIDS.
Nel carcere di Rikers le condizioni stanno rapidamente peggiorando e sia il sindaco De Blasio che il governatore Cuomo non hanno nessuna intenzione di intervenire. Il fatto che non stiano dando priorità al rilascio delle persone dalla detenzione sta preparando il terreno per un genocidio. In atto in questi giorni è nata anche una campagna che chiede la chiusura di Rikers Island e la liberazione immediata di tutti i prigionieri.

marzo 2020, liberamente tradotto da www.wsws.org


sulle rivolte esplose a marzo nelle carceri
7 marzo scoppia la dura protesta delle persone detenute nel carcere di Salerno.
Già da un paio di mesi i Tg riportano notizie sull’epidemia di coronavirus in Cina, con il suo elevatissimo numero di contagiati e deceduti. Già da più di un mese e mezzo che il virus è in Italia. I Tg continuano con il loro incessante susseguirsi di notizie. L’allarme si diffonde, diventa sempre più forte e sempre più vicino a noi tutti. Sappiamo come noi, persone fuori da galere, abbiamo reagito alla nostra paura, alla nostra quotidianità che cambiava in peggio giorno dopo giorno. Alle notizie di ospedali pieni ed incapaci a garantire le adeguate cure a chi si ammalava. Anche in Italia il numero di contagiati e deceduti aumentava di ora in ora.
Nelle carceri sovraffollate celle per lo più stracolme di persone, di detenute e detenuti anche anziani, anche malati. Un’assistenza sanitaria che lascia al quanto a desiderare, che già in tempi di non emergenza sanitaria, riusciva a garantire solo psicofarmaci e, a malapena, qualche tachipirina. La tensione aumenta.
Lo Stato decide, per contenere il contagio, di adottare misure, le più restrittive: sospensione di ogni attività, interruzione dei colloqui con i familiari. In compenso, gli operatori e gli agenti penitenziari continuano a rispettare i loro turni di lavoro ed entrano ed escono dalle galere, senza alcuna precauzione, nemmeno dotati di mascherine e guanti. Nessuna misura di prevenzione di carattere sanitario.
I detenuti rivoltosi del carcere di Salerno chiedono che se non possono vedere i loro familiari, ricevere le adeguate attenzioni sanitarie, allora che si interrompano anche le entrate e le uscite di chi lavora in quel carcere. L’interruzione dei colloqui con i familiari significa tagliare completamente i ponti con l’esterno, significa enorme preoccupazione.
La rivolta si estende, in pochissime ore, a ben 27 carceri di tutta Italia, dal sud al nord. 14 i morti tra Modena, Alessandria e Rieti. Tutte morti, ci dicono (dagli esiti di autopsie fatte in fretta e furia e, probabilmente, in assenza di figure legali nominate dalle famiglie dei deceduti) dovute ad abuso di psicofarmaci presi dalle infermerie interne alle carceri.
Ci volevano le rivolte affinché il Ministro della Giustizia, oltre ad esprimere il pugno di ferro nei confronti di chi ha partecipato alle rivolte, distribuisse 100 mila mascherine.
Il numero delle persone detenute, nello scorso febbraio, era 61.230 (a fronte, per altro, di una capienza di 50.931 posti). Chissà quante sono le persone che là dentro ci lavorano, per un motivo o per un altro, e quindi necessitano anche loro delle mascherine… Ad oggi sappiamo che in moltissime carceri ancora non le hanno distribuite.
Ma come si sedano le rivolte? In campo si possono mettere due strumenti: uno è la contrattazione con i prigionieri. Ma c’era poco da contrattare, le decisioni erano state prese dall’alto e andavano attuate: i detenuti e le detenute dovevano rimanere isolati.
L’altro sono i pestaggi, violentissimi, reiterati. Non è una novità. Lo sa chiunque abbia vissuto direttamente o indirettamente (avendo un proprio caro lì rinchiuso) il carcere.
In questo momento poi, a causa della totale chiusura, nessuna presenza esterna, né familiare né volontario né insegnante, potrebbe monitorare la situazione, riportare all’esterno di cosa è stato testimone, ciò che ha ascoltato e visto.
Ad oggi sappiamo, tutti noi anche chi “vuole o vorrebbe non sapere”, che lì dentro centinaia di detenuti sono feriti, lesionati, intimoriti dai pestaggi. E sempre nell’inquietudine data dalla probabilità che il contagio si diffonda anche lì dentro. Già ci sono casi conclamati, ancora pochi dalle notizie ufficiali. Ma le notizie ufficiali, spesso, lasciano il tempo che trovano. In questi difficilissimi giorni, in cui l’impegno di ognuno di noi è tutto volto alla tutela della collettività, c’è chi non ha alcuna tutela. (marzo 2020, da ondarossa.info)
Segue una cronologia presa da fonti dirette e articoli di stampa e alcuni resoconti più dettagliati di quanto accaduto a Milano, Modena e Bologna.

7 marzo. Viene emanato il decreto ministeriale che rende l’Italia un’unica grande zona protetta, limitando gli spostamenti e istituendo restrizioni alle libertà individuali e collettive in risposta alla diffusione del covid-19. Tocca anche le carceri: sono infatti sospesi i colloqui (che potranno, ove possibile, svolgersi via videoconferenza), i permessi premio, i regimi di semi-libertà. Anche le udienze sono sospese. Inizialmente il blocco è previsto fino al 31 maggio, notizia smentita nei giorni seguenti (il blocco ora è previsto fino al 3 aprile). Queste misure erano già state adottate da tutte le carceri di Lombardia e Veneto a partire dal 2 marzo.
Vicenza. Un secondino risulta positivo al covid-19.
Salerno. Scoppia la rivolta. Per cinque ore, in quasi duecento hanno devastato un'intera sezione dell'istituto di Fuorni, sfondando una cancellata e salendo sul tetto della struttura armati di ferri divelti dalle brande. I detenuti hanno chiesto di sottoporre tutta la popolazione carceraria a tamponi per il test sul coronavirus e di accedere a misure alternative al carcere. All’esterno, erano presenti familiari di detenuti.
8 marzo, Napoli. Scoppia la rivolta al carcere di Poggioreale. Decine di detenuti sono saliti sul tetto e hanno bruciato materassi chiedendo provvedimenti contro il rischio dei contagi dal Coronavirus all'interno della struttura. Hanno gridato frasi come “Stiamo morendo” e “Poggioreale è uno schifo”. La rivolta è proseguita fino a sera, poi i reclusi sono rientrati nelle loro celle, mentre i familiari hanno proseguito a manifestare all'esterno.
Cassino e Frosinone. In entrambe le carceri comincia una battitura che si protrae per diverse ore. A Frosinone la protesta si fa più intensa: sono state occupate, devastate e rese inagibili due sezioni del penitenziario, mandando a fuoco i materassi e in frantumi gran parte delle suppellettili. Approfittando del caos e passando dalle zone di passeggio del carcere, alcuni detenuti sono riusciti a uscire in strada, e qualcuno a scappare. Si parla di decine. La rivolta è stata sedata a metà giornata, e verso sera è cominciato il trasferimento dei detenuti.
Carinola, Caserta. Proteste all’interno del carcere.
Foggia. La protesta contro la gestione dell’epidemia comincia con una battitura e diventa guerriglia, dentro e fuori dal carcere; i carcerati hanno divelto un cancello della zona che li separa dalla strada, al grido di "indulto, indulto”. In una cinquantina si sono riversati in strada. Molti si sono poi arrampicati sui cancelli del perimetro del carcere. Un gruppo è riuscito a salire sul tetto, a rompere le finestre e ad appiccare un incendio all'ingresso della casa circondariale. Sei risultano in fuga. Negli scontri con le forze dell'ordine, un detenuto è rimasto ferito alla testa ed è stato portato via in barella.
Bari. E’ cominciata una rivolta. Un gruppo di parenti dei detenuti, all’esterno, ha iniziato a gridare slogan e invocare maggiore tutela: “Liberi, liberi”, bloccando anche il traffico a tratti. Dalle celle, grida e urla d’aiuto, oltre al rumore di oggetti di metallo sulle grate delle finestre e a oggetti incendiati lanciati dalle sbarre. L’intervento della polizia ha sedato le proteste in giornata.
Palermo. Proteste in entrambe le carceri di Palermo, con battiture, oggetti dati alle fiamme, e una presenza solidale all’esterno da parte di parenti che hanno anche bloccato il traffico. Protesta di 300 detenuti nel carcere Pagliarelli di Palermo per la sospensione dei colloqui nell’area dove si trovano i carcerati di media sicurezza. Il 9 marzo, tentativo di evasione da parte di detenuti dell’Ucciardone, che hanno provato a divellere la recinzione, venendo bloccati dai secondini. Il 10 marzo continuano le proteste all’Ucciardone: dalle finestre delle celle si levano le grida “assassini” e vengono lanciate lenzuola incendiate.
Brindisi. Alla sera comincia la protesta, con grida, incendi nelle celle; anche qui gruppi di familiari si sono riuniti all’esterno, unendosi alle grida dei detenuti.
Ariano Irpino (AV). Nella serata, battiture e lancio di oggetti dalle finestre delle celle.
Uta (CG). Nascono disordini in cucina, pare a causa della mancanza di mascherine, con lo scoppio delle bombolette del gas. Si parla anche di una dura repressione da parte dei secondini, di vari pestaggi. Il 9 marzo sera, un gruppo di solidali fa un saluto sotto le mura del carcere, le grida da dentro sono vive e forti, raccontano che era successo “un casino”, e qualcuno urlava “arrogaus totu!”, distruggiamo tutto.
Barcellona Pozzo di Gotto (ME). battiture che si sono protratte per ore.
Trani. Alcuni detenuti hanno fatto esplodere delle bombolette del gas e danneggiato alcune celle, ma tutto è rientrato dopo circa due ore, dopo una trattativa con il comandante della Polizia penitenziaria.
Augusta (SC). Sono cominciate delle lunghe battiture. Il 9 marzo, una quarantina di detenuti si rifiutano di rientrare dopo l’ora d’aria. La protesta rientra dopo qualche ora di trattative con la penitenziaria.
Matera. Una decina di detenuti si rifiuta di rientrare dopo l’aria. Un detenuto riesce a raggiungere il tetto. Intervento di polizia, carabinieri e finanza.
Reggio Emilia. Una prima protesta comincia, danneggiata l’infermeria e distrutte due sezioni. In serata, il magistrato di sorveglianza incontra una delegazione di detenuti. Il 9 marzo, una quarantina di detenuti rifiuta di rientrare dall’ora d’aria: vengono riportati in cella uno per uno, opponendo resistenza passiva. In seguito, comincia un lancio di oggetti dalle celle e vengono appiccati incendi. Lo stesso giorno comincia il trasferimento dei detenuti.
Vercelli. Battiture in protesta per il nuovo regolamento.
Cremona. Una cinquantina di detenuti ha cominciato a protestare, incendiando materassi e altre suppellettili. Rivolta sedata alla fine della giornata dall’intervento di penitenziaria, carabinieri, polizia in antisommossa. I giornali non riportano alcun ferito, sia fra i detenuti che fra gli sbirri.
Pavia. Verso sera è cominciata la rivolta. Un gruppo di parenti si è riunito all’esterno per protestare contro lo stop dei colloqui, mentre da dentro i detenuti hanno cominciato a bruciare materassi e altri oggetti. In seguito sono stati presi in ostaggio due secondini a cui sono state sottratte le chiavi delle celle, con successiva apertura e liberazione di decine di detenuti. I secondini sono stati liberati nel giro di un’ora, e quando verso sera la protesta sembrava sedata (sono intervenuti rinforzi della penitenziaria da Opera e San Vittore, celere e carabinieri) i detenuti sono comunque riusciti a salire sul tetto e appiccare altri fuochi.
Bergamo. La sera, battiture in solidarietà coi detenuti in rivolta nelle altre carceri.
9 marzo, Secondigliano (NA). Un gruppo di familiari dei detenuti protesta fuori dal carcere; viene disposto, per chi usufruisce della semi-libertà, di poter rientrare al proprio domicilio invece che al carcere. Il 12 marzo, viene diffuso un comunicato.
Santa Maria Capua Vetere (CE). Una decina di detenuti del Reparto Nilo sono saliti sui tetti in segno di solidarietà con i detenuti delle altre carceri italiane, ma anche per protestare contro la decisione di sospendere i colloqui con i familiari.
Turi (BA). Proteste all’interno e all’esterno del carcere. Gruppi di familiari si sono riuniti fuori le mura, chiedendo indulto per i propri cari, dall’interno sono state portate avanti lunghe battiture. Interventi della polizia per disperdere i parenti all’esterno.
Larino (CB). I detenuti si sono rifiutati di rientrare in cella.
Rieti. Rivolta nel carcere. Dall’esterno erano ben visibili le colonne di fumo degli incendi; anche qui i detenuti sono riusciti a raggiungere il tetto. I danni alla struttura ammontano a 2 milioni di euro. Purtroppo il bilancio è drammatico: tre morti e otto feriti; un quarto detenuto morirà in ospedale l’11 marzo. Anche queste morti vengono catalogate come overdose. Al diffondersi della notizia, ripartono le proteste nella struttura. Il 14 marzo un detenuto, durante una chiamata, riesce a informare del fatto che dentro i secondini pestano indiscriminatamente, i reclusi “cercano almeno di salvarsi la testa”.
Roma. Protestano anche i detenuti di Rebibbia, incendiando materassi; la polizia irrompe nella struttura facendo uso di lacrimogeni. Un gruppo di parenti e solidali, all’esterno, ha bloccato la via Tiburtina gettando transenne o altri oggetti sull’asfalto. Il presidio è stato caricato e disperso dalla polizia. È stato poi chiamato un presidio davanti al ministero della giustizia, per le 12 del 10 marzo. Anche questo presidio è stato caricato e ci sono stati fermi e arresti per tre persone, poi rilasciate. Anche a Regina Coeli cominciano le proteste, i giornali parlano di “roghi e disordini”.
Liguria. Proteste nelle carceri di Marassi e Pontedecimo (Genova), Imperia, Sanremo con lunghe battiture. Al Villa Andreina (La Spezia), proteste dei detenuti, alcuni dei quali sono riusciti a salire su un cornicione. Intervento della celere e trattative con la direzione del carcere. A Marassi i detenuti sono anche in sei in una cella e sarebbe impossibile applicare le misure sanitarie di sicurezza, come la distanza di un metro tra le persone o il divieto di contatto fisico.
Alessandria. Protesta al carcere Don Soria, con incendio di lenzuola, sedata piuttosto velocemente dagli stessi secondini, e anche al carcere San Michele, dove sono stati appiccati incendi in due sezioni e con l’intervento di carabinieri, polizia, vigili del fuoco. Era diretto ad Alessandria il mezzo su cui viaggiava uno dei detenuti poi deceduto, proveniente da Modena.
Torino. Al carcere de Le Vallette i detenuti delle sezioni del padiglione B si sono barricati dall’interno posizionando dei letti contro gli accessi del padiglione.
Chieti. Comincia uno sciopero della fame che si protrarrà fino al 20 marzo.
10 marzo, Trieste e Udine. Nelle due carceri ci sono state delle proteste e delle battiture.
Venezia. Inizia una rivolta da parte di un gruppo di detenuti, ristretti in un padiglione all'interno del carcere di Santa Maria Maggiore, che provocano danni nella struttura. La polizia crea un cinturone all'esterno del carcere mentre dall'interno cercano di contenere la rivolta.
Siracusa. E’ durata un paio d'ore la rivolta, la notte scorsa, di circa settanta detenuti del carcere di Cavadonna. Hanno dato alle fiamme le lenzuola e hanno danneggiato versi arredi. Carabinieri, poliziotti e militari della Guardia di finanza sono arrivati all'esterno della casa. I detenuti hanno chiesto al direttore del carcere di considerare le loro richieste di colloqui con i familiari.
Melfi (PZ). Dopo circa dieci ore, si è conclusa la rivolta dei detenuti che hanno protestato contro le restrizioni decise per il coronavirus. Sono stati liberati i nove ostaggi - quattro agenti della polizia penitenziaria e cinque operatori sanitari - e i detenuti sono rientrati nelle sezioni.
13 marzo, Catania. Al carcere di piazza Lanza cominciano le proteste: urla, battiture, lenzuola bruciate, un detenuto urla dalla finestra: “Non siamo animali! Abbiamo bisogno di cure, stiamo morendo“. Nei giorni precedenti, gruppi di familiari si erano riuniti all’esterno per accertarsi delle condizioni dei detenuti, protestando contro la sospensione dei colloqui.
Lecce. Una detenuta del carcere di risulta positiva al covid-19 e trasferita in ospedale.
Milano. Domenica 8 marzo. Verso le 20 giunge la notizia tramite un gruppo Facebook di una rivolta in corso nel carcere di Opera. Si scopre presto che l’ingresso del penitenziario è stato completamente militarizzato. Un gruppo di solidali è riuscito ad avvicinarsi al perimetro per un saluto, ottenendo una risposta calorosa: alcuni reclusi hanno iniziato una battitura, mentre altri hanno cercato di dare qualche informazione rispetto alla loro condizione.
Lunedì 9 marzo. Intorno alle 9 di mattina, inizia a circolare la notizia della presenza di alcuni ragazzi sul tetto di San Vittore e di una rivolta in corso. In poco tempo sotto le mura del carcere si sono radunati solidali e familiari ed è iniziata una giornata lunga e densa di avvenimenti. Mentre del fumo nero usciva da alcune celle, il presidio si è diviso in due. Un primo gruppo si è fermato in piazzale Aquileia da cui si vedevano i ragazzi del Terzo raggio: dal tetto è stato srotolato uno striscione che recitava “Indulto”, altri fuori dalle celle hanno intonato forti cori e hanno aperto un altro striscione con scritto “Libertà”. Fuori è stato allestito un gazebo ed è stata imbastita una merenda. Tramite una cassa con microfono familiari, amici e solidali sono riusciti a comunicare con l’interno. Da dentro hanno raccontato ciò che stava succedendo, lamentando la sospensione dei colloqui ed esprimendo le loro preoccupazioni per l'“Emergenza Virus” sia per chi è dentro per chi è fuori. Il secondo gruppo si è spostato sotto il Quinto raggio dove altri sono riusciti a salire sul tetto e a comunicare con le persone all’esterno. Con l’aiuto dell’autoscala dei pompieri, a quanto dicono i giornali, un magistrato ha provato a trattare con i detenuti ma dopo qualche minuto ha desistito. Sono rimasti sul tetto continuando a comunicare con i solidali in strada.
Dopo circa due ore quando i ragazzi si trovavano ancora sul tetto, nella strada di fronte alle mura è arrivato autobus della polizia penitenziaria, probabilmente con a bordo dei rinforzi per sedare la rivolta o per possibili futuri trasferimenti dei quali è girata voce successivamente. Il mezzo è stato bloccato dai solidali che sono stati immediatamente caricati dalla Celere e quindi sono stati costretti ad abbandonare la via.
Solidali, parenti e amici si sono riuniti nel presidio di piazzale Aquileia che è durato fino alle 19 momento in cui è stato fatto un ulteriore caloroso e rumoroso saluto ai prigionieri. Durante tutto il pomeriggio non sono mancati gli aggiornamenti sulle sommosse che si stavano susseguendo nel resto delle carceri d’Italia.
Poco dopo le 19 si è venuto a sapere che anche nel carcere di Opera i reclusi erano insorti e che la reazione della polizia è stata molto violenta. Rapidamente un ampio numero di solidali ha raggiunto i familiari che si erano riuniti all’ingresso del penitenziario. La rabbia è stata tanta, si chiedevano informazioni sulla situazione dentro, lo schieramento di Polizia Penitenziaria e Carabinieri è rimasto in silenzio se non per provocare. Contemporaneamente un altro nutrito gruppo è riuscito a raggiungere il perimetro per un saluto. La risposta è stata impetuosa, sono partiti cori e battiture nonostante la repressione subita nelle ore precedenti. I detenuti hanno raccontato le conseguenze subite in seguito alla rivolta. Sono stati pestati, sono stati privati del cibo, della televisione e della luce. Dell'esterno è stato visto chiaramente un intero braccio, proprio quello da cui è iniziata la rivolta, completamente al buio.
Nei giorni successivi, fino al 17 marzo, gruppi di solidali sono tornati nei pressi del carcere di Opera dai campi antistanti raccogliendo i racconti di ciò che hanno subito successivamente alla rivolta. Non hanno ricevuto cibo, gli è stata tolta la televisione, sono stati privati delle ciabatte, gli sono state negate le telefonate. Sono stati picchiati, hanno riferito di avere le ossa rotte e di non aver ricevuto cure. I contatti con l’esterno sono stati sospesi (colloqui, pacchi, chiamate, radio, tv, posta), il vitto non passa a tutti, le persone ferite o malate non sono state portate in ospedale e ci dicono che non gli sono state neanche fornite delle mascherine di protezione. Ci comunicano anche che ci sono delle persone malate in isolamento e che oggi gli sono state notificate le denunce per le rivolte di settimana scorsa. I capi d’imputazione sono: oltraggio a pubblico ufficiale, procurato allarme, istigazione a delinquere, resistenza, danneggiamento a mezzo incendio, travisamento, lesioni personali aggravate. Ci sono stati tanti cori, battiture e fuochi d’artificio all’esterno.
Il 14 e il 17 marzo, un gruppo di solidali è arrivato in bicicletta sotto il carcere di San Vittore senza purtroppo avere nessuna risposta da dentro. Tuttavia apprendiamo dai media che un detenuto è risultato positivo al Covid-19 e dunque la calma è solo apparente, sono saltati saltati fuori i primi casi all’interno delle strutture carcerarie oltre a san Vittore il virus è entrato anche a Pavia, Voghera e Brescia.
Da San Vittore sappiamo che nel quinto raggio ci sono vari piani danneggiati. Il giorno dopo i detenuti sono rimasti chiusi e per punizione non sono stati accesi i riscaldamenti. Dal giorno dopo le celle sono state aperte solo per 4 ore. Si sono presentate difficoltà per le telefonate. Gli aggiornamenti che arrivano a mercoledì 17 riportano che in carcere è tutto bloccato, la direzione fissa gli appuntamenti via Skype con gli avvocati che poi non fanno fare e quindi gli animi si scaldano.
Nel pomeriggio del 28 marzo un gruppo di solidali, nonostante il controllo che serpeggia per le strade della città, ha raggiunto le mura del carcere di Opera riuscendo a scambiare due parole con i detenuti che riferiscono di non avere cibo, di non avere la televisione e la radio e che quindici reclusi sono infetti. Dicono inoltre che non ci sono stati trasferimenti. Dopo un ultimo saluto caloroso i solidali sono andati via, lasciandosi alle spalle alcuni secondini che inveivano sguaiatamente. (Marzo 2020, liberamente tratto dalla pagina fb TILT)
Bologna. Lunedì 9 marzo la rivolta è scoppiata anche al carcere della Dozza dove un presidio di solidali, amiche/i parenti si è spontaneamente creato davanti all'istituto penitenziario, man mano che la notizia ha cominciato a diffondersi. Ai familiari è stato impedito sin da subito da un enorme dispiegamento di carabinieri e polizia di avvicinarsi all'ingresso del carcere e di ottenere notizie. Circolava l'informazione che alcune sezioni del maschile fossero state occupate, ma si sono susseguite per diverse ore soltanto informazioni incerte. Solo in seguito si è saputo dai giornali che ad essere occupate erano state unicamente le sezioni giudiziarie.
Il silenzio assordante del circondario, così come dell'intera città era rotto soltanto dal rumore delle sirene. Il tentativo di avvicinamento del presidio alla sezione maschile, impedito dal dispiegamento di polizia, ha consentito di sentire qualche urla e battitura dall'interno. Il presidio si è poi spostato sulla strada principale creando un blocco del traffico per avvicinarsi al lato della sezione femminile; anche se sul momento  non si sono sentite risposte, in seguito è arrivata la notizia che le detenute hanno dato luogo a una protesta in forma di battitura. Nè le guardie, nè i vigili del fuoco - il cui mezzo è stato brevemente bloccato fuori dal carcere - hanno voluto dire nulla, neanche per rassicurare le madri, compagne e sorelle di chi era dentro, nemmeno dopo che due ambulanze erano corse via d'urgenza dal carcere proprio davanti agli occhi di chi era presente all'esterno.
Intorno alle 22 si è iniziata a vedere una densa nube di fumo che fuoriusciva dal blocco maschile contemporaneamente a dei movimenti sul tetto dello stesso blocco. I prigionieri che si erano barricati in sezione ed erano saliti sul tetto hanno quindi iniziato a urlare e a incendiare oggetti, gridando "Libertà!" al gruppo di solidali e parenti che hanno risposto con cori, messaggi di solidarietà e fischi. La rivolta e i fuochi nel blocco maschile sono continuati per tutta la notte, durante la quale sono andate a fuoco 4 macchine della polizia penitenziaria, ed è continuata fino all'ora di pranzo del giorno successivo.
Martedì 10 marzo, si è nuovamente formato un presidio spontaneo fuori le mura della Dozza. I prigionieri ancora sul tetto avevano appeso striscioni che rivendicavano diritti, libertà e indulto mentre l'edificio rimaneva circondato dagli sbirri. Nuovamente era impossibile ricevere informazioni certe di quanto stesse accadendo all'interno. La notizia che circolava era quella di una trattativa in corso tra i reclusi in rivolta e la direzione del carcere e il capo delle guardie, mentre un altro gruppo di reclusi avrebbe voluto avviare una trattativa unicamente con un magistrato di sorveglianza, arrivato in mattinata.
Dopo che per un paio d'ore non si vedeva più nessuno nè si ricevevano risposte, verso le 15 si sono avvistati gli sbirri in tenuta antisommossa sul tetto, brandire il manganello, nella direzione del gruppo di solidali, in segno di vittoria e al grido di "lo Stato ha vinto".
Nel frattempo circolava la notizia che la protesta era rientrata e la trattativa conclusa, ma non è ad oggi possibile conoscerne precisamente le modalità e gli esiti, al di là di quanto trapelato dai media, secondo cui i prigionieri sarebbero rientrati in sezione, con le richieste di consentire il reingresso degli educatori e misure di pena alternative alla detenzione. Sempre secondo i giornali, i detenuti feriti sarebbero 20, di cui 16 medicati sul posto. Le guardie ferite, 2.
Nella mattina di mercoledì 11, si è appresa la notizia certa di almeno un trasferimento nella prima mattinata. Per ora non è dato sapere ai familiari né agli avvocati l'identità delle persone trasferite, nè la loro destinazione. Sempre dai media è stato riportato che “nel pomeriggio di martedì 10, a poche ore dalla conclusione della rivolta della Dozza, il Provveditorato dell'amministrazione penitenziaria, in Viale Vicini è stato danneggiato da ‘vandali’ rompendo i vetri del portone d'ingresso. Gli stessi vandali hanno firmato l'azione lasciando scritte come ‘Acab’, ‘Solidarietà ai detenuti in lotta’, ‘Fuoco alle galere’ e ‘Secondini assassini’.”
Giovedì 12 marzo, nel pomeriggio è stato fatto un veloce saluto al carcere, nel tentativo di raggiungere la sezione maschile e valutando l'inopportunità/inefficacia di una chiamata pubblica vista le incognite della situazione generale attuale legata agli effetti delle ordinanze. Una ventina di persone è riuscita ad arrivare sul posto e a scambiarsi dei saluti con i detenuti, al grido reciproco di "libertà", in particolare con la sezione di As3 e con altre sezioni più lontane. Chi si trovava in As non ha cognizione di quanto sia accaduto, in quanto isolato, e tra i detenuti delle altre sezioni nessuno ha saputo riportare quale trattamento sia stato riservato ai prigionieri dopo la rivolta, nè notizie in merito alla persona morta nel carcere. Da dentro sono provenute nitidamente richieste di aiuto, nonchè la richiesta espressa che le guardie debbano mettersi le mascherine e l'affermazione condivisa che Bonafede voglia farli morire lì dentro.
Secondo recenti fonti ufficiali sembrerebbe che sia morta una persona e non due, come invece riportavano fino a stamane alcuni giornali locali, e che ci siano stati tra ieri e oggi 15 trasferimenti verso altre carceri, ma non sono note né le persone né la destinazione. Ai familiari e avvocati è ancora impedito di avere notizie dei propri cari, né tantomeno di comunicare con loro o di poter inviare pacchi all'interno. I familiari dicono, tuttavia, che li tengono nel carcere distrutto a dormire ammassati per terra, che non si sa se la mensa funziona e che siano stati tutti massacrati di botte.
Le Autorità, sin dalle prime rivolte e dalle notizie delle prime morti hanno continuato a invocare il pugno di ferro nei confronti dei prigionieri, l'isolamento completo dei medesimi, omettendo di fornire ogni notizia a familiari e avvocati su dove sono stati trasferiti e sulle loro condizioni di salute, quindi impedendo di mettersi in contatto con loro, nonché di rendere nota l'identità delle persone morte di carcere nelle mani dello Stato.
Dalla rivolta fino al 13 marzo almeno, i familiari non ancora ricevono notizie dai loro cari, la corrispondenza non entra e non esce, gli avvocati nemmeno riescono a vedere i loro assistiti. I detenuti dormono per terra, il carcere è distrutto in parte ed incendiato e li lasciano lì. Alcuni sono stati portati in isolamento, altri sono stati trasferiti, tutto questo senza che i familiari vengano informati. Si parla di pestaggi giornalieri ma non sappiamo bene di quale entità. Sono rinchiusi nelle loro celle 24 ore su 24. Inoltre non entrano pacchi, né soldi, né cambi. Molto probabilmente i detenuti portano gli stessi indumenti da giorni. Il cibo scarseggia, molto probabilmente si fanno anche il digiuno. E’ una situazione veramente insostenibile ed i familiari sono esasperati.
Modena. Dal carcere Sant’ Anna di Modena l’8 Marzo 2020 si elevavano dense colonne di fumo che non hanno tardato a essere viste da chiunque, facendo accorrere amici, cari e solidali ai reclusi, che assistevano al viavai di ogni tipo di corpo di polizia impiegato per sedare la rivolta: Polizia di Stato, Carabinieri, Polizia Penitenziaria, GOM; oltre che un elicottero a pattugliare l’ area e la Polizia Municipale che provava a mandar via le persone accorse fuori, senza riuscirci. Da fuori si sono sentiti distintamente alcuni spari. Dall’interno alcuni ragazzi urlavano: “Ci stanno massacrando”. Secondo la ricostruzione ufficiale i detenuti e le detenute avrebbero preso il controllo della struttura che avrebbero poi devastato; qualcunx ha provato ad evadere ma è statx subito ripresx.
Tra i danni spicca l’ incendio dell’ ufficio matricole contenente le copie dei documenti cartacei. Mentre x detenutx venivano scortati e picchiati con manette ai polsi sotto gli occhi di solidali e carx fuori, già qualcunx scorgeva una sacca contenente un corpo morto.
Una volta sedata la sommossa è iniziato un trasferimento di massa de* circa 500 reclus* (verso le strutture di Porto Azzurro, Cagliari, Sassari, Cuneo, Trento, Vercelli, Belluno, Perugia, Rovigo, Sanremo, Genova, Ascoli, Terni, Parma, Reggio Emilia), in quanto il carcere risulta ad ora inagibile. Poi l’agghiacciante notizia: dapprima un morto, poi due, tre, sei. E nei giorni a venire la conta è salita a nove, nove morti annunciate dai carri funebri che uscivano dal carcere. Ma ciò che può risultare ulteriormente sconcertante è la versione dei giornali, dapprima locali poi nazionali: le morti sarebbero state causate da overdose di metadone e farmaci a seguito della presa dell’infermeria da parte dei detenuti in rivolta. La stessa versione è stata divulgata con l’aumentare del tragico conteggio dei morti, quattro decessi a Rieti e altri due a Bologna.
Per ora è uscita solo la versione di chi ha tutti i motivi per oscurare e mentire, cioè il resoconto della penitenziaria: due sarebbero morti per overdose da metadone, uno per overdose da benzodiazepine. Altri quattro decessi sarebbero avvenuti in seguito ai trasferimenti nelle carceri di Parma, Alessandria, Marino del Tronto e uno durante il viaggio per il carcere di Trento, morto a Verona. Anche questi decessi addebitati al metadone, nonostante fosse stata eseguita una visita medica pre-trasferimento.
Pestaggi si sono susseguiti dal momento dell’evacuazione del carcere Sant’Anna, all’arrivo dei detenuti nelle carceri predisposte per rivoltosi, arrivano testimonianze di rappresaglie delle guardie su detenuti inermi, sbattuti poi in celle d’isolamento senza cure mediche. Altri due sarebbero stati trovati morti due giorni dopo in sezione.
Oggi, come un secolo fa esatto, nel 1920, quando l’Italia si preparava al totalitarismo, a Modena si sparava sulla folla in sciopero in Piazza Grande, uccidendo sette operai ad un comizio. Poi, nel 1950, a dimostrazione che una Liberazione non è mai avvenuta, i carabinieri uccidevano sei operai in lotta, dando luogo al massacro delle Ex Fonderie.
Oggi, mentre impazza il Virus, le forze dell’ Ordine isolano e controllano persone e territori, massacrando chi si rivolta nelle carceri perchè non pronto a perdere quel poco che gli rimane. In questo ci sono anche persone che pur di portare solidarietà, sostegno e calore fuori da quelle mura non hanno badato ad alcuna imposizione, uscendo in una città cieca e deserta. Ad oggi sembra che il carcere sia stato svuotato, perchè inagibile, o almeno in parte, per i danni causati dalla rivolta. Il carcere di Sant’Anna di Modena è stato chiuso col fuoco! (21 marzo 2020, liberamente tratto da roundrobin.info)

Al 31 marzo l'ANSA diffonde il dato fornito dal DAP sul numero dei contagi all'interno degli istituti penitenziari: si parla di 116 agenti e 19 detenuti positivi al coronavirus.
Si tratta di stime altamente inferiori ai numeri reali dal momento che, come fuori, non vengono fatti i tamponi a tutti. Inoltre è ovvio l'interesse a non rendere pubblici i dati reali sulla positività all'interno delle carceri perché ciò comporterebbe il dover prendere provvedimenti immediati e di vasta portata per decongestionare gli istituti penali.

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Altre rivolte dal mondo
Le politiche dell’emergenza per contenere il corona virus hanno mostrato lo “stato dell’arte” di una serie di istituzioni fatiscenti di cui si è sempre deciso di chiudere occhi e orecchie. In tutto il mondo le carceri sono sovraffollate, con scarse condizioni igieniche e una generale struttura pericolante che alla prima emergenza diviene una polveriera. Si è anche vista la determinazione di chi anche al costo della propria vita, recluso e con poche risorse per potere resistere alla repressione delle guardie, ha ribadito che la libertà non è un frutto proibito.

14-15 marzo, Spagna. Sono iniziati degli scioperi della fame in due blocchi carcerari in Catalogna a seguito dell’accertamento di un caso positivo dentro l’istituto penitenziario. In una prigione di Alicante, invece, si è verificata una battitura delle proprie celle.
Al centro delle proteste l’assenza di informazione su quanto accade nel paese e la paura della diffusione del contagio all’interno delle prigioni
17 marzo, Francia. Rivolta nel carcere di Grasse, una sessantina di detenuti hanno forzato le proprie celle. L’accaduto segue la protesta di domenica 15 marzo della prigione di Metz, quando in un centinaio si sono rifiutati di rientrare nelle proprie stanze. Alla base della rabbia dei detenuti ci sono le forti limitazioni dei contatti con l’esterno e le condizioni di sovraffolamento.
19 marzo, Brasile. Più di 1.500 prigionieri fuggono da almeno 4 carceri brasiliane. I media brasiliani hanno recensito che i prigionieri si sono ammutinati contro le autorità per le misure prese per evitare la propagazione del Covid-19. Una parte dei rei temeva di perdere i benefici del permesso temporaneo o il diritto alle visite. Le fughe si sono registrate nelle prigioni di Mongaguá (litorale di San Paolo), e Hortolandia, Mirandópolis e Tremembé (all’interno dello stato), dopo che gli Affari Interni del Dipartimento di Giustizia aveva sospeso l’uscita temporanea dei prigionieri che compiono una pena in regime di semilibertà.
21 marzo. Appello del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana diretto alla comunità internazionale. Viene richiesto il rilascio ulteriore di altri prigionieri al fine di evitare un grave disastro umanitario: “Nel pomeriggio del 19 marzo 2020, i detenuti del carcere di Parsilon a Khorramabad (Iran occidentale), che rischiavano di essere infettati dal coronavirus, si sono ribellati, hanno disarmato le guardie e sono fuggiti. Le guardie carcerarie e le forze dell'ordine hanno aperto il fuoco su circa 250 detenuti evasi e ne hanno uccisi parecchi”. L’Iran ha una popolazione detenuta di 240.000 (aggiornato al 2018) e ha già rilasciato 85.000 detenuti. In Iran, il numero di persone prigioniere infette da coronavirus è in aumento. Nonostante l’emissione di 2 direttive da parte del capo della magistratura che hanno liberato diversi prigionieri, ai prigionieri politici queste possibilità sono negate. Secondo la magistratura, lo status giuridico di queste persone imprigionate è definito come “detenuto”, comprese le persone che sono state arrestate durante le proteste di novembre. Mentre il relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani chiede anche il rilascio di tutte le persone imprigionate, il rilascio dei prigionieri politici è bloccato dai sistemi di sicurezza e giudiziari. Domenica 15 marzo 2020, un prigioniero è stato trasferito dal reparto 14 della prigione di Urmia in un ospedale fuori dalla prigione dopo essere risultato positivo al Coronavirus.
22 marzo. Ad Arua, in Uganda, i detenuti fuggono e la polizia spara colpi. Si parla di tre o quattro detenuti uccisi.
22 marzo, Colombia. Rivolte in 13 istituti di pena: 25 morti e centinaia di feriti. Dopo neanche 24 ore dall'annuncio, da parte residente colombiano Ivan Duque, che a causa dell'epidemia di coronavirus anche il paese latinoamericano entrerà in regime di quarantena, domenica in numerose carceri sono scoppiate rivolte. La più cruenta è quella che è andata in scena nella prigione di La Modelo, vicino Bogotà (qui ci sono 5mila detenuti). 23 persone hanno perso la vita, altri 83 hanno riportato ferite di varia natura che li hanno costretti a ricorrere alle cure degli ospedali, tra questi 7 funzionari dell'Istituto Nazionale penitenziario e carcerario (Inpec). Le misure restrittive contro il contagio dovrebbero durare almeno 19 giorni. Verranno limitati gli spostamenti delle persone ad eccezione del personale medico, delle forze di sicurezza e dei lavoratori di farmacie e supermercati. Fino ad ora in Colombia si sono registrati 231 casi di contagio e la morte di 2 persone. Chi ha più di 70 anni sarà in qualche modo costretto a rimanere in casa fino alla fine di maggio. Ma la rivolta non è stata solo dalla paura del contagio, le prigioni colombiane soffrono di gravi problemi di sovraffollamento e condizioni sanitarie insalubri. I 132 penitenziari del paese hanno una capacità di 81.000 detenuti ma ospitano oltre 121.000 prigionieri, secondo i dati del ministero della Giustizia. Ma proprio la titolare di questo dicastero ha negato criticità di questo tipo. Per la ministra Margherita Cabello infatti "non esiste alcun problema sanitario che avrebbe causato questi disordini. Non vi è alcuna infezione né alcun prigioniero o personale amministrativo o amministrativo che abbia il coronavirus". Tutto quello che è successo dunque sarebbe il frutto di un piano di evasione di massa organizzato da condannati per omicidio ed altri gravi reati. Al di fuori di La Modelo si sono radunati numerosi parenti dei detenuti accorsi per avere notizie, diversi testimoni hanno riferito di aver udito numerosi colpi di arma da fuoco mentre i prigionieri bruciavano materassi ed altre suppellettili. Ora il ministero ha avviato un'indagine dalla quale sarà comunque difficile capire cosa è realmente accaduto.
Intanto però la protesta carceraria si sta allargando a macchia d'olio, sono almeno altri 13 istituti di pena nei quali sono stati segnalati disordini. In particolare la situazione appare molto tesa a La Picota a Bogotà, Pedregal a Medellin e nell'Establecimiento Penitenciario e Carcelario di Jamundì nel dipartimento della Valle del Cauca. Una crisi che ha provocato la reazione di tutti coloro che operano nell'ambito giudiziario. Sia gli avvocati difensori che i procuratori hanno infatti chiesto che venga decretato lo stato di emergenza carceraria. In realtà il presidente Duque ha già ordinato provvedimenti stringenti già dal 12 marzo sospendendo tutte le visite in carcere, le prigioni sono di fatto isolate dal resto del Paese. È stata messa in campo una ricerca dei presunti contagiati, i detenuti non possono uscire neanche per visite mediche se non in casi eccezionali e le udienze si tengono in videoconferenza. Unica deroga è quella concessa agli avvocati che potranno continuare a visitare i loro assistiti.
24 marzo. La Polonia sta valutando di dare la possibilità a un massimo di 20.000 detenuti di scontare la pena nella propria dimora, a causa dell'emergenza da coronavirus nel Paese. In totale, i detenuti nelle carceri del paese sono oltre 75.000, suddivisi in 172 carceri e centri di detenzione.
24 marzo. Albania. I condannati possono ottenere un permesso speciale di tre mesi se in questo momento soddisfano i seguenti requisiti: è stato condannato in via definitiva e gli rimangono da scontare solamente tre anni di prigione; deve scontare una condanna non superiore a 5 anni; ha un'età pari o superiore di 60 anni; soffre di una malattia cronica, certificata dalla commissione medica secondo la legislazione vigente. Il periodo in cui il condannato rimarrà in isolamento fuori dal carcere sarà calcolato come espiazione della pena. Non ne beneficiano le persone che sono state condannate per omicidio, crimini gravi, reati sessuali, rapimenti, crimini contro le autorità dello stato, e le persone che presentano alti rischi sociali o che mettono a rischio l'ordine pubblico e la sicurezza. Inoltre, anche i detenuti che non rientrano in queste categorie ma sono indagati per tali reati saranno esclusi da questi permessi. Sono esclusi anche coloro che hanno ricevuto misure disciplinari negli ultimi sei mesi. "L'isolamento temporaneo in casa" è un permesso speciale che si dà al condannato a causa dell'epidemia da Covid-19. Il condannato potrà restare temporaneamente in casa sua, in un'altra abitazione o presso altre strutture abilitate per l'accoglienza.
24 marzo. Stati Uniti. Fuori i detenuti che hanno commesso reati minori, anziani o malati. Diversi stati americani hanno deciso il rilascio anticipato di alcune categorie di detenuti per contenere la diffusione del coronavirus. Sono persone che hanno commesso reati minori, che sono anziane o già malate. Per prevenire la diffusione del virus, i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie hanno poi suggerito di isolare gli individui sintomatici. Nelle carceri, però, questo può essere davvero difficile, "praticamente impossibile", secondo Homer Venters, ex dirigente medico dei servizi sanitari correzionali di New York. A Los Angeles la popolazione carceraria è stata ridotta di oltre 800 persone (su un totale di 17.076) e gli arresti sono diminuiti da 300 al giorno a 60. Nell'Ohio, Kentucky, Texas, migliaia di detenuti anziani o in attesa di giudizio sono stati mandati ai domiciliari. In California, il carcere di Santa Rita, uno dei più grandi dello Stato americano con 2.600 detenuti, ha deciso di liberare 314 prigionieri, secondo quanto ha riportato Le Monde.
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DALLE CARCERI ATENIESI DI KORIDALLOS
856 detenuti della sezione maschile del carcere di Koridallos (Atene) hanno sottoscritto le rivendicazioni scritte ed inviate dalle detenute del reparto femminile dello stesso carcere pochi giorni prima. Le rivendicazioni riguardano le misure di prevenzione che devono essere attivate per evitare la diffusione del coronavirus. Il documento è stato inviato al Ministero competente, ai P.M., alla Magistratura di Atene e del Pireo, alla Corte Suprema, all’Ordine degli avvocati di Atene e all’Consiglio degli Ordini degli avvocati, al Presidente ed al Consiglio dell’Ordine dei Medici di Atene.

– Svuotamento immediato delle carceri. Richiesta di scarcerare tutti/e quelli/e che hanno fine pena entro l’anno 2020.
– Scarcerazione immediata per quelle categorie di detenuti che sono a rischio per motivi di salute. (articoli 110A e 105 del C.P.)
– Riorganizzazione degli spazi di reclusione, da parte di medici e specialisti, per quei detenuti che hanno contratto il coronavirus.
– Cassa integrazione per i dipendenti che lavorano nelle carceri in presenza di sintomi (anche leggeri) della malattia, come previsto per tutto il resto della popolazione.
– Sanificazione di tutto il carcere e richiesta di dotazione di mascherine ed antisettici per tutti i detenuti. Istallazione di lavanderie in tutti i reparti ad uso dei detenuti/e.
– Richiesta di redazione, da parte di medici specialisti, di materiale informativo e di analisi riguardante le misure che dovranno essere adottate. L’essere detenuti/e non significa non avere diritto all’informazione per ciò che concerne il nostro trattamento.
– Test diagnostici immediati sia per i detenuti/e che per i dipendenti del carcere.
– Riduzione del numero del personale durante i turni giornalieri, sia per secondini che per gli operatori.
Dobbiamo sottolineare che i trasferimenti da un carcere all’altro continuano ad essere effettuati con i detenuti rinchiusi in autobus ovviamente non disinfettati, dimostrando che lo svuotamento selettivo della popolazione rinchiusa nel carcere di Koridallos sostanzialmente costituisce il trasferimento del problema in altre carceri, mentre i detenuti e le detenute continuano ad essere a rischio. Le misure che chiediamo sono preventive ed hanno come scopo quello di diminuire il pericolo dell’espansione del coronavirus dentro le carceri. Sarà troppo tardi quando le carceri di Koridallos saranno messe in quarantena totale, quando nessuno/a potrà né entrare né uscire dopo la diffusione del virus all’interno. La prevenzione è il modo migliore per diminuire il pericolo del coronavirus.
– Chiediamo che un responsabile del mistero della Protezione Civile venga alle carceri di Koridallos per incontrare i detenuti/e e prendere posizione rispetto alle questioni che noi poniamo. Il ministero della Protezione Civile [ndt ovvero dell’Ordine Pubblico] dal momento in cui ha preso il controllo delle carceri del paese è responsabile per le misure adottate contro la pandemia e per l’eventuale costo che perdite di vite umane dei detenuti/e significherebbe, con la diffusione del virus, che verosimilmente si diffonderà nelle carceri.
Prima che sia troppo tardi, prima dalla morte di qualche detenuto/a, chiediamo assistenza e l’attivazione delle misure di cui facciamo richiesta nel nostro testo rivendicativo.
Una nota felice in questo clima cupo: un detenuto del carcere di Domokos che era fuori con un permesso di uscita di pochi giorni, prima dello scoppio dell’epidemia e delle misure restrittive, non ha fatto ritorno alla data prevista, chiamando la direzione del carcere e dichiarando: “Sono stato infettato da Coronavirus. Mi trovo in quarantena per 14 giorni, quindi non posso tornare”. (22 marzo 2020, da inventati.org/rete_evasioni)
rassegna di alcune testimonianze dalle carceri
Segue una breve rassegna di lettere, comunicati, appelli apparsi in rete all’indomani delle rivolte. Nella prima qui pubblicata, la rete emergenza carcere composta dalle associazioni Yairaiha Onlus, Bianca Guidetti Serra, Legal Team, Osservatorio Repressione e LasciateCIEntrare, ha raccolto diverse testimonianze dei familiari di alcuni detenuti nel carcere di Foggia, prima dei trasferimenti, e ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica. (Da ildubbio.news, 28 marzo 2020)

“In data 8/03/2020 mio figlio, detenuto fino al 12/03 presso la Casa circondariale di Foggia durante la chiamata, mi ha riferito quanto segue: a seguito delle manifestazioni di protesta messe in atto da parte di numerosi detenuti impauriti a causa dell’allarme Coronavirus, il giorno della rivolta sono entrati in 5 o 6, incappucciati e con manganelli. I detenuti sono stati massacrati di botte, trasferiti solo con ciabatte e pigiama e tenuti in isolamento per i successivi 6/7 giorni. Solo dopo una settimana i detenuti hanno ricevuto i loro oggetti personali”, riferisce la madre del detenuto, trasferito al carcere di Viterbo.
Poi c’è la moglie di un altro recluso. Una testimonianza che combacia con quella precedente, ma con l’aggiunta che la presunta azione violenta sarebbe addirittura continuata nel carcere viterbese: “Il giorno del trasferimento, il 12/03/2020, durante la notte, mentre si trovava presso la Casa circondariale di Foggia, le guardie esterne sono entrate in cella e hanno pestato i detenuti. Successivamente al trasferimento non ho più ricevuto notizie. Dopo dieci giorni, durante una chiamata, mio marito mi ha riferito che ci sono state altre violenze all’interno del carcere di Viterbo”.
Nell’esposto viene riportata la testimonianza della sorella di un altro detenuto, trasferito in seguito alla rivolta al carcere di Vibo Valentia. “In data 9 marzo mio fratello, durante la telefonata, mi ha riferito quanto segue: in piena notte è stato picchiato a manganellate e portato via in pigiama e ciabatte per essere trasferito in un’altra struttura, dopo la rivolta fatta alcuni giorni prima”. Sempre la sorella del detenuto ha proseguito con una riflessione accorata: “Premetto che i detenuti sono esseri umani e non meritano trattamenti disumani, come quelli subiti. Se hanno sbagliato è per un motivo valido. La paura per il Corona virus e la sospensione dei colloqui con i parenti hanno generato il panico. Hanno percepito il pericolo mortale del virus e non potendo avere più notizie si sono allarmati ed è subentrato il caos”.
Nell’esposto in Procura si aggiunge anche la testimonianza di un’altra madre di un detenuto, ora recluso nel carcere di Catanzaro: “In data 9 marzo mio figlio, durante la telefonata, mi ha riferito quanto segue: di essere stato picchiato a manganellate su tutto il corpo, specialmente sulle gambe e portato al carcere di Catanzaro senza avere la possibilità di prendere il vestiario o il minimo indispensabile”. C’è poi un’altra testimonianza, questa volta della moglie di un detenuto che addirittura sarebbe un invalido. “ll 20/03/2020 durante la telefonata con mio marito – testimonia la donna – ho avvertito la sua sofferenza, accusava dolori alle costole e mi ha riferito di aver sbattuto da qualche parte. Lui è invalido al 100% e non potrebbe mai muoversi con violenza dal momento che è in carrozzina. Sono certa che lui non può parlare liberamente. Infatti, successivamente mi ha riferito che la prima lettera che avrebbe voluto inviarmi dopo il massacro successo a Foggia gli è stata strappata. Gli ho detto di farsi portare al pronto soccorso ma non lo fanno perché altrimenti andrebbe in quarantena. Io voglio vederci chiaro!”. Il padre di un detenuto ha riferito ancora che il figlio gli avrebbe detto di essere stato trasferito, in piena notte, senza alcun vestito, aggiungendo che sarebbe stato picchiato.
L’ultima testimonianza è davvero emblematica. In questo caso, il detenuto, vittima di un presunto pestaggio, non avrebbe nemmeno partecipato alla rivolta del carcere di Foggia. Infatti non è tra coloro che ha subito un trasferimento. Alla sorella avrebbe raccontato, con una telefonata e una lettera, l’accaduto: “Oltre allo spavento anche le mazzate mi sono preso dalla polizia, in questi giorni ho avuto un attacco di ansia, la notte non dormo più, ho tanta paura, io che non ho fatto niente le ho prese. Ci hanno sequestrato tutti i viveri, siamo stati giorni senza caffè, sigarette, detersivi, cibo. Ci hanno levato tutto!”.

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Comunicato dei prigionieri del carcere di Secondigliano (12 marzo)
I detenuti del reparto Adriatico F1 le parti S1, S2, S3, S4 e S5 da giovedì 12 per tre volte al giorno, alle 12, 16 e 18 inizieranno una pacifica protesta con battiture, rifiuteranno il vitto dell’amministrazione e dalla settimana prossima i detenuti rifiuteranno anche il sopravvitto, non comprando più generi alimentari extra. Noi tutti eseguiremo lo sciopero nel massimo rispetto dell’amministrazione del carcere di Secondigliano fin quando non riceveremo risposte concrete dallo Stato e non dall’amministrazione penitenziaria in merito alla nostra condizione.
1. Lo stato non è presente per noi detenuti e continua a respingere i nostri diritti;
2. Molti detenuti aspettano la libertà in attesa di avere confermati i provvedimenti per buona condotta perché i Tribunali di Sorveglianza sono bloccati.
3. Sono stati bloccati i colloqui allontanandoci maggiormente dalle nostre famiglie in questo grande momento di difficoltà che riguarda il nostro stato di affettività. Alfonso Bonafede non può decidere sull’affettività dei nostri familiari vietando gli incontri.
4. Siamo solidali con i nostri compagni detenuti che sono morti e con tutta la penitenziaria che è stata ferita. Ringraziamo l’amministrazione del carcere di Secondigliano che accoglie le nostre richieste per far uscire fuori la nostra voce. In attesa di risposta i detenuti, per le condizioni disumane delle carceri italiane, sperano in un provvedimento da parte del governo di clemenza, di amnistia e indulto, nel più breve tempo possibile. Tutti i detenuti del carcere di Secondigliano.

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Due metri di distanza e in carcere otto in una stanza
Segue una lettera aperta dei parenti di detenuti di alcune carceri italiane, pubblicato su infoaut.org il 25 marzo.

Nei giorni scorsi, com'era prevedibile, tantissime carceri (27 in tutta Italia) sono esplose di rabbia per le misure adottate dal governo, che non tenevano conto delle condizioni di detenuti e detenute. Una rabbia che viene da lontano, per le condizioni di vita che i/le detenuti/e sono costretti a vivere da molto tempo, con sovraffollamento sempre in crescita e condizioni igieniche e sanitarie molto precarie. In questo contesto già impossibile, mentre il governo stabiliva che per far fronte all'emergenza sanitaria del nuovo coronavirus fossero vietati gli assembramenti, chiuse le scuole e imposta una distanza di almeno un metro tra le persone, non si teneva conto del fatto che detenuti e detenute sono costretti a stare in celle sovraffollate, ammassati uno sull'altro, e costantemente esposti al rischio di contagio per la presenza del personale che entra ed esce dalle prigioni. Le notizie di alcuni contagi in carcere già esistono e non si può più aspettare per prendere provvedimenti.
A fronte di condizioni che rendevano - e rendono ancora - palese l'impossibilità di far fronte all'ingresso e alla diffusione del virus nelle carceri, è urgente e necessario sfollare gli istituti di pena adottando provvedimenti di decongestionamento immediato. Il governo tuttavia pare si sia limitato a confermare il limite già esistente di pena residua di 18 mesi per accedere alla detenzione domiciliare in base alla legge "svuotacarceri", stabilendo però che non possono più accedervi i detenuti con rapporti disciplinari presi nell'ultimo anno, e quelli che avrebbero partecipato alle rivolte –secondo i rapporti disciplinari della polizia. Inoltre, si prevede che si ricorra al braccialetto elettronico, cosa che renderà ancora più difficoltoso l'accesso al "beneficio", per carenza delle apparecchiature necessarie.
Con la misura adottata, si prevede che usciranno di prigione, forse, circa 3.000 persone in tutta Italia, a fronte di un sovraffollamento che gira attorno ai 15.000 detenuti/e. Cifra ridicola, se pensiamo agli/alle 85.000 detenuti/e liberati/e dall'Iran a causa dell'emergenza sanitaria. Governo e parlamento non hanno ascoltato le legittime rivendicazioni delle detenute e dei detenuti; la magistratura, pur facendo qualche concessione, potrebbe fare molto di più anche sulla base di quanto già la legge prevede.
Innanzitutto nei confronti di Triunali di Sorveglianza, Tribunali e uffici GIP, Procure, sulla base delle leggi già vigenti:
- pretendiamo che il ricorso alla custodia cautelare in carcere avvenga solo nei casi di assoluta necessità e solo qualora non siano sufficienti altre misure, come è già previsto dalla legge, spesso violata;
- pretendiamo che vengano immediatamente sospesi, per almeno 6 mesi, gli ordini di esecuzione delle pene in carcere, in modo da bloccare i nuovi ingressi;
- pretendiamo che le persone anziane e con patologie siano immediatamente mandate d'ufficio agli arresti domiciliari e in detenzione domiciliare, come già previsto dalla legge.
Nei confronti del Governo pretendiamo che, per le ragioni di necessità e urgenza imposte dalla pandemia, venga previsto con decreto legge che:
- vengano immediatamente bloccati i trasferimenti dei presunti partecipanti alle proteste;
- venga sospesa l'esecuzione della pena in carcere, per 6 mesi, con sostituzione della stessa ed esecuzione in detenzione domiciliare, per pene residue inferiori a 5 anni;
- venga aumentato il residuo di pena, in base al quale disporre che l'esecuzione avvenga in detenzione domiciliare (legge 199 "svuotacarceri"), dagli attuali 18 mesi a 3 anni;
- vengano riconosciuti, per i disagi e la sospensione del trattamento derivante dall'emergenza sanitaria in aggiunta ai 45 giorni a semestre di liberazione anticipata, altri 15 giorni di liberazione anticipata ogni 15 giorni di permanenza dello stato di emergenza, a prescindere dagli ordinari requisiti di buona condotta;
- venga definitivamente modificato l'ordinamento penitenziario in tema di contatti con i familiari (rimasto fermo al 1975), prevedendo che si possa disporre di telefoni o comunque prevedendo un numero di telefonate ai familiari almeno pari ad una ogni due giorni;
- venga implementato il sistema delle videochiamate skype, in modo stabile e non in sostituzione dei colloqui visivi;
- vengano adottate misure di sostegno al reddito delle persone detenute, le cui famiglie si trovano attualmente in forte difficoltà economica a causa dell'emergenza e nonostante questo, sono costrette a sostenere ingenti spese per il sostentamento di detenuti e detenute.
Per tutte e tutti i detenuti che resteranno in custodia:
- fornitura immediata e straordinaria di mascherine e gel igienizzante, specialmente per i/le detenute trasferite e per chi ha mostrato sintomatologie preoccupanti;
- immediata sanificazione di tutti gli ambienti carcerari, a cominciare dagli spazi comuni di socialità;
- fornitura gratuita di beni di prima necessità e per l'igiene personale e la pulizia delle celle;
Allo stesso tempo, in considerazione della condizione pietosa delle carceri, che versano in una situazione di costante illegalità ignorata dalle istituzioni, più volte segnalata anche dall'Unione Europea, e che ha giustificato le rivolte avvenute nelle carceri di tutto il Paese, riteniamo sia assolutamente necessario riportare all'ordine del giorno della politica italiana un ragionamento serio sull'amnistia per tutti i detenuti e tutte le detenute.

Parenti di alcuni detenuti dei padiglioni Livorno, Firenze, Roma, Salerno, Milano del carcere di Poggioreale; del padiglione Mediterraneo e delle sezioni S2 e S3 del carcere di Secondigliano; dei padiglioni Ocra, Rosa, Celeste, della sezione E e del reparto F del carcere di Carinola; dei padiglioni Tevere, Nilo e Tamigi del carcere di Santa Maria Capua Vetere; del carcere di Palmi e del carcere di Opera.

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Comunicato dal carcere di Madonna del Freddo di Chieti
Dal 9 marzo inizia uno sciopero della fame.
Tutti i lavoratori detenuti non andranno più a lavoro, tutti i detenuti non faranno la spesa di ogni genere, tutte le spese saranno distrutte, tutte le sere dalle 20.00 alle 21.00 si farà la battitura fino a quando non saranno soddisfatte le nostre richieste:
- tutti i detenuti sotto i termini devono essere mandati immediatamente nelle misure alternative che spettano per legge;
- immediata chiusura sintesi comportamentale;
- fornitura di mezzi adeguati per sopperire alla sospensione dei colloqui con i famigliari (skype, telefonate giornaliere 7 a settimana);
- fornitura di prodotti igienici disinfettanti per cose e persone;
- fornitura di acqua potabile;
- chiusura di tutti gli agenti e lavoratori interni al penitenziario per tutta la durata della chiusura dei colloqui, in subordine, accesso dei famigliari alle stesse condizioni degli agenti penitenziari (con mascherine e controlli medici);
- per i detenuti senza contratto, fare una autocertificazione per le chiamate;
- non ritorsioni per i lavoranti che partecipano allo sciopero e protestanti leader.

marzo 2020, da autistici.org/mezzoradaria

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Da una lettera di un detenuto della Dozza del 10 marzo
I detenuti sono stati padroni della Dozza per 29 ore, dalle 13:30 del 9 marzo fino alle 18:30 del 10 marzo. Il primo giorno delle rivolte, le 200 guardie con caschi, scudi e manganelli non sono riuscite ad entrare perché era stata bloccata l’entrata con i frigoriferi e i tavoli delle celle. Sarebbero riuscite ad entrare solo dal tetto. C’era chi era pronto alla guerra con le gambe dei tavoli in mano e calzini impregnati d’olio pronti ad essere infuocati. Da fuori si è poi sentito urlare “ritirata!” da parte delle guardie. Era un vero campo di battaglia. Quando sono stati sentiti i familiari e le persone solidali fuori vicino alla fermata dell’autobus di fronte al carcere, c’è chi è salito sul tetto e ha acceso una torcia per lanciare un saluto.
Alle 18:30 del giorno dopo la rivolta è finita. La rivolta si è conclusa, per volontà dei detenuti, per poter tutelare la salute dei detenuti più anziani e più vulnerabili.
I detenuti della sezione giudiziaria sono poi stati rinchiusi nelle proprie celle, senza luce, senza tv, con l’acqua alta 5 cm. Tutte le celle e tutta la sezione sono rimaste al buio.
Il 1° e il 2° piano sono stati devastati. Era stato distrutto tutto, porte, cancelli, tavoli, armadi. Erano state bloccate le scale. Erano stati bruciati gli uffici degli ispettori, le infermerie, la sala del dentista, tutto.


da una lettera dal carcere di milano-opera
[...] non mi resta che confermare che le cose qui dentro hanno lo stesso rimo, che stanno allevando zombi. Siamo si a Milano, capitale d'Europa, ma in realtà qui dentro è come vivere nell'ultimo villaggio del Ruanda. Tecnologia non esiste e l'unica cosa elettrica che possiedi in camera è la Tv ma per vederla non solo la devi comprare ma come in quell'accampamento di profughi ti devi armare di un filo abusivo e portarlo alla finestra per le onde dei canali e a quel punto decide la sorte quali canali prendere.
Ecco questo è Opera, non è di certo quella che i dirigenti di questo istituto portano fuori alla società. Se c'é un qualcosa di positivo è solo un fatto a sé! Dal regime che mi ritrovo si esce raramente in libertà, e certamente quando arriva il turno di qualcuno, lì fuori troverà una caterva di disagi, si sentirà escluso da subito dalla società perché non saprà usare nemmeno il telefonino, figurati il resto che è molto computerizzato.
In questi giorni poi la situazione è molto critica, colpa del virus e delle decisioni prese dal governo, con molte restrizioni per noi. Siamo stati esclusi da tutto e tutti, in perenne quarantena. Nel regime che mi ritrovo queste restrizioni si sono fatte sentire di meno, perché a parte qualche volontario e i colloqui con i familiari non è che c'era altro. Mentre i piani della Media Sicurezza che sono un migliaio nei confronti di una cinquantina di noi. Hanno subito molto queste restrizioni. Certo che si sono ribellati, e credo che li fuori l'eco è arrivato di questa ribellione, come del resto molti istituti sono in rivolta, però la società libera non sa come queste canaglie dell'ingiustizia reprimono queste ribellioni. Ieri hanno qui massacrato di botte a centinaia di detenuti. Li hanno caricati con idranti e manganelli, è stato davvero uno strazio, l'impotenza ti ammazza l'anima.
Ieri sera più d'invitarli a smettere e a minacciarli noi dell'AS1 non potevamo fare altro, relegati qui sotto la sezione distaccati da tutti gli altri.
Qui poi, non è che si può organizzare chi sa che, siamo pochi, sulla quarantina, per il resto sono quasi tutti detenuti anziani con stampelle, quindi, ammesso che ti imbarchi, lo fai per andare dove?
Fatto sta é da ieri sera che mi sento il morale a pezzi per ciò che è successo, solo perché abbiamo dei governanti inqualificabili, indegni, senza spina dorsale e attaccati a debolezze umane. L'Iran ha dato uno schiaffo morale al mondo. Ha rilasciato 70 mila detenuti, tutta la popolazione carceraria. Uno stato dittatoriale. Qui siamo in Italia, la culla della democrazia, sarebbe a dire meglio la culla della tortura.
In attesa dell'opuscolo saluto tutti i compagni/e calorosamente e ringrazio sempre per tutto quello che fate per noi carcerati.

Opera, 11 marzo 2020
via Camporgango, 40 – 20090 Milano


I colloqui al tempo del coronavirus
All’inizio il colloquio ha tenuto duro. Certo, con delle limitazioni, ma in un momento emergenziale del tutto accettabili e giustificabili. Colloqui vietati ai bambini sotto i 12 anni, un solo familiare ammesso ogni persona detenuta, obbligo dell’utilizzo della mascherina da parte del familiare, controllo della temperatura all’ingresso.
Il primo colloquio in tempo di coronavirus ha avuto una partenza a singhiozzo, prima confermato, pareva, in un secondo tempo, essere stato annullato.
Ma la speranza è sempre l’ultima a morire, così la mattina prevista mi reco lo stesso a colloquio. L’accesso agli uffici è sbarrato da un paravento e da una porta a vetro con un foro all’altezza della fronte. L’accesso si sarebbe effettuato previa compilazione di un’autodichiarazione in merito alla non residenza nella zona rossa e al controllo della temperatura. Fortunatamente il nuovo confine ha lasciato il libero accesso ai bagni (senza sapone!) e alle macchinette distributrici di viveri e bevande. La giornata è calda e soleggiata, così che si sta volentieri fuori, al sole. Siamo solo in 5.
La mascherina è il vero lasciapassare, l’uomo che non ce l’ha si dispera; arriva da lontano, è sveglio dalle 3 di mattina, non può rinunciare al colloquio per via della mascherina. Le guardie non ne hanno: “sapevate che il colloquio si poteva fare solo con mascherina”. Quel “sapevate” è tutto da capire, visto che le notizie ciascuno se le è reperite da solo sui vari social o con il passaparola. Fortunatamente una signora estrae dalla borsa le introvabili mascherine e gliene offre una, in questi casi la solidarietà è forte.
Nell’attesa un po’ si legge, un po’ si fuma, un po’ si chiacchiera. Un ragazzo chiede come mai non ha visto posti di blocco lungo le strade: pensava di trovarsi nella zona rossa! In questo scenario, già in parte surreale, iniziano le operazioni di controllo.
Al di là del vetro ci sono un’agente donna e una persona con il camice verde che brandisce lo strumento della selezione: un termometro ad infrarossi.
Il primo ad appoggiare la fronte supera la prova. Al secondo, invece, l’accesso viene negato: temperatura 37°. Anche alla seconda possibilità concessa dal potere il verdetto è negativo. L’incontro con il suo caro è rimandato. Da oggi le relazioni affettive in carcere hanno un nemico in più, la temperatura oltre i 37°. Anche per una seconda persona il termometro dice 37,4 e un altro familiare viene mandato via, la sola concessione è di far entrare il pacco. Io, al secondo diniego, mi spavento, sono rimasta un’ora al sole come una lucertola, prendo tempo e vado in bagno, polsi e fronte sotto l’acqua gelata. Obiettivo raggiunto. Entro e, per oggi, la mia relazione affettiva è blindata, da lì non si torna più indietro. Consegnati i pacchi e depositati gli effetti personali negli armadietti i controlli oggi sono quasi informali. L’agente donna ci chiama: “donnine venite qui che vi controllo”. Eccezionalmente viene concesso di portare all’interno la regina Amuchina.
La distanza di sicurezza (droplet per i precisi) per noi parenti è facile da rispettare, siamo rimasti solo in tre. Fino a qui tutti indossiamo la mascherina, parenti e agenti. Nell’area colloqui, invece, le guardie non portano la mascherina.
Visto che siamo in pochi ognuno è destinato ad una sala diversa, dunque, pericolo contagio per assembramento uguale a zero. Pochi attimi e arriva il mio compagno, spalle curve, volto provato, sguardo preoccupato, ed è senza mascherina. Baci e abbracci; tempo 15 secondi irrompono nella stanza due guardie minacciose: “signora, se non rimette la mascherina sospendiamo il colloquio”.
Mi dicono che il pericolo “viene da fuori” (appunto, anche loro, come me, vengono da fuori, ma in questo luogo, dove sembra di starci solo per gentile concessione e non per diritto, meglio evitare polemiche).
Fare il colloquio da soli nella stanza è molto bello. Non è necessario parlare a bassa voce per non aumentare il frastuono, ma anche per non far sentire agli altri i propri discorsi. La preoccupazione sono i tempi, il mio compagno, veterano del carcere, sa che ritornare alla normalità dentro richiede sempre molto più tempo, rispetto a fuori. Ci salutiamo con la promessa di rivederci la settimana prossima.
La lontananza pesa molto e la voglia di rivederlo il prima possibile mi fa anticipare il secondo colloquio. Per non rischiare la bocciatura, mezz’ora prima del fatidico controllo temperatura prendo una tachipirina, male non fa.
Questa volta siamo in sei, tutte donne, tutte munite di mascherina e tutte in salute. A provare la temperatura non c’è più il “camice verde”, ma solo un’agente in divisa blu. Anche questa volta la perquisizione avviene “di gruppo”, tanto siamo tutte donne.
Nella sala d’attesa sono comparse due nuove disposizioni. È fatto divieto per le persone detenute portare bevande e generi alimentari nella sala colloqui.
Si deve sapere che, subito dopo i saluti, la prima cosa che tutti fanno è apparecchiare il tavolo, vale a dire mettere una tovaglia e poi riempirla con bibite, patatine, merendine…da consumare insieme. Una scarna riproduzione di un ambiente familiare, ma che in qualche modo rende felici e appaga il bisogno di intimità. Da oggi la tavola imbandita è fuori legge. L’altra disposizione riguarda i colloqui non consumati; per ogni colloquio annullato vi è la possibilità di sostituirlo con una telefonata da 10 minuti.
La situazione appare sempre più grave e allarmante. Tuttavia, si va incontro al proprio caro con il sorriso, si cerca di pensare al futuro. Questa volta tanti abbracci ma niente baci, anche se la stanza è ancora una volta tutta per noi. Parlare con la mascherina modifica un po’ la voce e per chi non è abituato dopo un po’ diventa una tortura, eppure si fa finta di niente, l’importante è mantenere in vita la relazione, anche in regime di coronavirus.
Io vorrei tornare un’altra volta a colloquio, nella stessa settimana, ma il rischio è di rimanere 15 giorni senza vedersi e dentro è tutto ancora più complicato. Le giornate trascorrono lente, senza fare niente, senza vedere nessuno, senza sapere.
All’uscita dalla sala colloqui la guardia ci dice: “toglietevi pure un po’ la mascherina”. Distribuzione di umanità gratuita o tanto le mascherine non servono a nulla?
Quando esci pensi al tuo compagno che ritorna nella stanza, sdraiato sulla branda ad aspettare che il tempo passi. L’unica immagine che ti consola è il pacco che a breve gli verrà consegnato con le cose cucinate, l’odore di casa che riempie la cella.
Io devo decidere se anticipare il prossimo colloquio, che nel dubbio ho già prenotato, ma il decreto 2 marzo 2020 n.9 decide per me. […] a decorrere dal giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto sino alla data del 31 marzo 2020 i colloqui sono svolti a distanza […].
Chiamato l’ufficio colloqui mi conferma quanto sopra, ma vista la prenotazione già effettuata posso consegnare il “pacco”. Magra consolazione, ma per non soccombere ci si appella a qualsiasi brandello di normalità. Così, come ogni settimana, ho portato il pacco in carcere, solo che questa volta il pacco arriverà prima di me, anzi io non arriverò proprio. Tutto è rinviato al 31 marzo.
Nonostante le misure di precauzione adottate anche i colloqui sono stati spenti. Tra tutte le restrizioni di questi giorni questa è l'unica ad avere già una data così lontana. È già stabilito che per un mese non si faranno colloqui, comunque vadano le cose. Come a dire: "una volta deciso non ci si pensa più".
Questo decreto ha reciso l'ultimo contatto vivo con l'esterno visto che tutto il resto era già stato soppresso nei giorni scorsi. I nostri cari sono soli, isolati. Si sta infliggendo a tutti, persone detenute e loro familiari, un regime di carcere duro, senza colpe.
Ora, io che non ho il numero fisso autorizzato a ricevere le chiamate, posso solo aspettare che mi venga recapitata una lettera, forse tra una o due settimane.

Milano, 4 Marzo 2020
Lettera dal carcere di Uta (CG)
Salude Kunpanjas/us. Non so da quando mi mandate la rivista OLGA, perchè fino ad ora ne ho avute solo due, l'ultima è il numero 140.
Vi scrivo dal carcere di Uta e qui si è in piena emergenza per il Coronavirus, da pochi giorni sono cambiate le modalità per fare i colloqui con i nostri cari, prima entravano più persone per volta, poi hanno deciso che sarebbero entrate non più di due persone a colloquio per prigioniero, infine da pochi giorni c'è stata un'ulteriore rerstrizione con l'ingresso autorizzato a una sola persona per prigioniero con mascherina. Anche con le due persone entrambe potevano entrare soltanto con la mascherina indossata, nel mentre secondini, prete, educatori, medici, infermieri e direttore entrano senza.
Già da una settimana sono saltate le lezioni scolastiche, e viene impedito l'ingresso a tutti i volontari… , comunque la mia impressione è che queste situazioni eccezionali, poi entreranno nella norma, perchè tanto il ricatto che lo Stato Italiano fa ai prigionieri è immenso. Comunque mentre stavo iniziando a scrivere questa lettera, è iniziata una battitura generale in tutto il carcere, penso/spero che sia un inizio non soltanto un urlo di disperazione. La battitura è iniziata alle 18 e 30 ed è finita intorno alle 21,00 con imbrattamento della sezione.
Per ora non ho altro da dire, mandatemi sempre OLGa, anche se poi non sempre me lo daranno. Sempri Ainnantis.

Sardinna no est Italia, 8 marzo 2020
Zona Industriale Macchiareddu, 2da Strada Ovest - 09010 Uta (Cagliari).


Liberarsi dal virus del carcere
Visto il rapido evolversi della situazione legata alla diffusione del nuovo corona virus, divenuta emergenziale, desidero comunicare il mio punto di vista nella condizione particolare di detenuto semilibero presso il carcere di Torino.
L’ambiente carcerario risulta essere, a maggior ragione in casi come questi, un luogo delicato, sensibile ma piuttosto ignorato dall’opinione pubblica e dalla classe politica; oppure considerato inopinatamente una sorta di discarica per ciò che si ritiene “la feccia” della società.
In questi giorni di grande flusso mediatico e misure di controllo imponenti, l’ansia e l’angoscia per il dilagare dell’infezione stanno crescendo anche tra le mura del carcere, tra i detenuti e il personale ivi impiegato. Scenari di blocco dei colloqui con i familiari, sospensione di permessi e uscite per i semiliberi sono già divenuti realtà in alcuni penitenziari del territorio nazionale e stanno divenendo probabili per gli altri visto il precipitare degli eventi giorno dopo giorno.
Appare chiaro che allo stato attuale, con una popolazione carceraria abbondantemente superiore alla capienza prevista (siamo più di 60.000 in carcere in circa 50mila posti disponibili), non ci sarebbe la possibilità di affrontare con misure di sicurezza adeguate l’eventualità non remota di un contagio tra i detenuti. Non oso pensare con quali conseguenze si ripercuoterebbe su individui già deboli e fragili, nonché ristretti, la diffusione di questa nuova infezione.
Di fronte alla impreparazione e approssimazione delle autorità statali nell’affrontare questa cosiddetta emergenza sanitaria, non pare sensato concentrare ulteriormente i carcerati bloccando anche le uscite di chi gode di benefici o di regimi di custodia attenuata. Inoltre, così facendo si infierisce ulteriormente su persone e sulle loro famiglie che già vivono da anni una condizione di privazione, sacrificio e umiliazione.
I semiliberi, che non potendo più uscire per settimane o mesi, perderebbero sicuramente il lavoro, con tutta la difficoltà di poterlo poi ritrovare di questi tempi una volta passata la psicosi. Aggiungiamo pure i problemi di chi, come me, ha una famiglia con figli che (non) vanno a scuola. Partendo da questa premessa mi ritrovo ad argomentare una proposta che, per assurdo, gioverebbe per primo a chi i carceri li gestisce, li controlla e ne detiene la responsabilità.
Un provvedimento urgente, e di assoluto buon senso, sarebbe quello di liberare chi già gode di benefici, chi è sopra una soglia di età definita “a rischio”, chi ha un residuo di pena sotto i due anni. Non sta a me proporre quali misure alternative si potrebbero applicare (tipo obblighi di firma, rientri domiciliari ecc…) e nemmeno la forma legislativa adeguata (amnistia, indulto, decreto legge).
Ai detenuti esclusi da tale provvedimento si potrebbero applicare più facilmente misure di prevenzione e sicurezza adeguate per poter garantire i colloqui con i propri cari e condizioni di detenzione meno disagiate di quelle odierne a causa del sovraffollamento cronico degli ultimi anni.
Credo che nel marasma mediatico di questi giorni debba farsi strada una simile opzione. Io per primo mi impegnerò da subito ad alimentare l’urgenza di un dibattito che, oltre a riguardare una categoria umana di oppressi e indifesi, rientra nell’etica della solidarietà e “del benessere di comunità”, concetti molto sbandierati in questi giorni.
Non sarebbe un provvedimento di clemenza, semplicemente di umanità e buon senso e non dovrebbe precludere né limitare un dibattito necessario sul senso del carcere nella società di oggi, sulle condizioni detentive, sulla repressione del fenomeno migratorio e delle lotte sociali.
Perfino in un paese come l’Iran, che non si può certo dire sia gestito da un regime democratico, si è appreso da alcune fonti di stampa che sono stati scarcerati e messi ai domiciliari più di 50 mila detenuti con pene inferiori ai 5 anni.
In generale, stante la situazione in cui un'epidemia rischia di provocare il collasso dell'insieme del sistema sanitario pubblico è quanto mai opportuno che al più presto vengano riconsiderati gli investimenti pubblici in spese militari e grandi opere inutili e costose (come il TAV) per liberare risorse da impiegare nella salute pubblica, sia preventiva, che curativa. Che il sistema sanitario diventi un bene comune ed esca dalla logica di tipo aziendale nella quale è stato inserito! Che la voglia di libertà diventi il virus più contagioso per l’umanità.

domenica 8 marzo 2020
Luca Abbà, Semilibero NO TAV


Breve rassegna delle ultime leggi
Premesso che tutta la normativa emergenziale di queste ultime settimane e successive andrà a tracciare profondamente le future prassi ordinarie, ad esempio in tema di “colloqui a distanza”, di seguito facciamo una rapida sintesi dei dispositivi emergenziali, sul tema giustizia-carceri, messi in campo dal governo e attuate dal DAP attraverso “note” e “circolari”.

In base alla cornice normativa di riferimento fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sono state fatte diverse leggi nazionali e altrettante ordinanze a carattere regionale e comunale di intesa col Ministero della Salute, in particolare con la normativa contenuta nell’ordinanza n.1, del 23/2.
Enumeriamo brevemente le prime, soffermandoci sugli aspetti qui trattati: Decreto Legge (DL) 23 febbraio 2020, n.6 che contiene le norme di attuazione del decreto del presidente del consiglio (DPCM) del 23/2/20; DL del 2/3, che sospende i colloqui visivi fra detenuti e familiari, n.9, DPCM 8/3,.
Circolare DAP del 22/2. Esenta gli operatori penitenziari residenti nella prima zona rossa (Codogno, Casalpusterlengo, ecc) dal prestare servizio e sospende, fino a nuova disposizione, le traduzioni dei detenuti verso e da gli istituti penitenziari rientranti nella competenza dei Provveditorati di Torino, Milano, Padova, Bologna e Firenze.
Circolare del 25/2. Individuare in ogni istituto delle aree ove consentire l'isolamento sanitario in caso di contagio. Contiene inoltre le disposizioni per il trattamento sanitario di detenuti nei casi di sospetto contagio. Eventuale utilizzo della video-conferenza per le traduzioni per motivi di giustizia su Torino, Milano, Padova, Bologna e Firenze. Pre-triage per i nuovi giunti.
Nota DAP del 26/2. Indicazioni specifiche per la prevenzione del contagio da corona virus -regioni Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Emilia Romagna, Marche, Toscana e Sicilia. In particolare, “può risultare funzionale ed idoneo assumere provvedimenti che tendano a: sospendere le attività trattamentali, per le quali sia previsto o necessario l'accesso della comunità esterna; contenere le attività lavorative esterne e quelle interne per le quali sia prevista la presenza di persone provenienti dall'esterno; sostituire i colloqui con familiari o terze persone, diverse dai difensori, con i colloqui a distanza mediante le apparecchiature in dotazione agli istituti penitenziari (Skype) e con la corrispondenza telefonica, che potrà essere autorizzata oltre i limiti. […] In riferimento ai permessi ed ai provvedimenti concessori del regime di semilibertà, è necessario che ogni direzione avvii le necessarie interlocuzioni con gli organi giudiziari perché questi ultimi valutino la possibilità, caso per caso, di sospendere temporaneamente l'efficacia dei provvedimenti adottati”.
DPCM del 4/3. Art 1 comma p): SSN territoriale deve assicurare presidi sanitari per i nuovi ingressi penitenziari con particolare riguardo a chi proviene dai luoghi indicati nel DPCM 1 marzo fino alla fine dell’emergenza.
DL del 8/3, n.11. Quest’ultimo decreto blocca le udienze fino al 22/03. Dal 23/03 al 31/04 udienze a porte chiuse e solo quelle ritenute inderogabili fra le quali convalide di arresti, espulsioni e applicazione misure preventive ove non è possibile la videoconferenza (la sospensione delle udienze non incide sui tempi di prescrizione). Negli istituti penitenziari, penali e per minorenni sono consentiti solo colloqui a distanza, ove possibile. La Magistratura di Sorveglianza può disporre fino al 31/04 la sospensione dei permessi premio e del regime di semilibertà.
DPCM 9/3. Sospende le manifestazioni sportive di ogni ordine e grado.
Circolare del 11/3. In merito alle rivolte accadute: “diviene assolutamente necessario sia prevenire che impedire ogni ulteriore comportamento volto ad incitare a nuove sollevazioni […] ciò anche a primaria tutela dei tanti ristretti rimasti estranei a quanto finora accaduto”.
Circolare del 12/3. Consente il ricorso alla posta elettronica per la corrispondenza ai detenuti in MS e AS3 oltre che per ragioni di studio.
Circolare DAP sull’AS. Esecuzione dei colloqui telefonici anche attraverso l'uso dei cellulari se le utenze mobili sono intestate a soggetti già autorizzati altrimenti si avvierà la “procedura ordinaria” per la loro autorizzazione. L'utilizzo della piattaforma “Skype for business” per le videochiamate con i propri familiari aventi diritto. Per i colloqui al 41 bis dove vige il vetro divisorio non vi sono cambiamenti fatta eccezione per le norme di sanificazione degli ambienti.
Circolare del 13/3. Triage al momento dell'ingresso dei nuovi giunti dalla libertà o da altri istituti presso tensostrutture (ove presenti), nel caso verrà disposto l'isolamento sanitario in celle singole con uso esclusivo del bagno. In caso di sintomi il detenuto verrà visitato in cella e non in infermeria. In caso di positività al tampone deciderà il personale sanitario l'eventuale ricovero in strutture sanitarie esterne. Indipendentemente dall'esito del tampone sono vietati i contatti diretti con detenuti in isolamento sanitario, questi sono possibili solo se separati da vetrate e ingressi separati. Si cita che la Protezione Civile abbia espresso “parere favorevole” all'effettuazione di tamponi prima di ogni spostamento. Trasferimenti bloccati su tutto il territorio nazionale con eccezione delle traduzioni/trasferimenti per motivi di necessità, tra questi ultimi quelle per ragioni di sicurezza, “in conseguenza delle rivolte verificatesi negli istituti penitenziari”.
Si cancella la “quarantena con sorveglianza attiva” per quegli agenti che sono provenienti da aree dove risultava positiva almeno una persona poiché disposizioni governative successive escludono da tale prassi gli operatori sanitari e quelli dei servizi pubblici essenziali.
In base a una nota DAP del 5 marzo, direttori e comandanti devono assicurare il puntuale e tempestivo inserimento nell'applicativo “eventi critici” le situazioni di positività del personale e dei detenuti. Tali dati verranno immediatamente trasmessi e raccolti dall’unità di crisi presso il Dipartimento – Direzione Generale Detenuti e Trattamento (coordinata dalla dr.ssa Paola Montesanti, “per assicurare il costante monitoraggio dell’andamento del fenomeno e delle informazioni relative ai casi sospetti o conclamati, nonché per l’adozione tempestiva delle conseguenti iniziative”.)
Provvedimento 17 marzo, n.18. Concorso straordinario per titoli a 2.851 posti (2.679 uomini, 172 donne), per la qualifica di sovrintendenti del Corpo di polizia penitenziaria.
DL 17/3, n.18 (127 articoli, il cosiddetto “Cura Italia”). Spesa pagamento straordinari agenti penitenziari, spese disinfezione istituti (art. 74 comma 6). Spese ristrutturazione carceri distrutte (art. 86). Agli art.123 e 124, come misura deflattiva delle carceri, viene semplicemente sollecitata l’applicazione, con alcune deroghe e semplificazioni di procedura, della cosiddetta legge “svuotacarceri” del 2010 (legge 26/11/10, n. 199). In pratica fino al 30 giugno 2020 il magistrato di sorveglianza può concedere gli arresti domiciliari a chi ha un residuo pena non superiore ai 18 mesi, ad eccezione di detenuti: condannati per reati indicati nell'art. 4 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, “delinquenti abituali, professionali o per tendenza”, in regime di sorveglianza particolare (14 bis), che abbiano avuto sanzioni disciplinari nell'ultimo anno o coinvolti nelle rivolte a far data dal 7 marzo, oppure se privi di un domicilio idoneo. Se la pena, anche residua, supera i sei mesi, occorre applicare e un dispositivo di controllo (apparecchiature al momento insufficienti) ad eccezione dei detenuti minorenni. Le licenze concesse al condannato ammesso al regime di semilibertà possono avere durata sino al 30 giugno 2020.
Le stime governative riguardi ai detenuti che potrebbero uscire è di 3 mila su un totale di 61 mila ma nella realtà sono molti di meno (a febbraio 2020, grazie alla legge 199, sono uscite 152 persone).
Circolare del 20/3. I detenuti con sintomi andranno visitati dal medico (se) già posti negli “spazi di isolamento” e non nelle rispettive celle, come era stato prima deciso. Si specifica che in caso di traduzioni decide il medico se fare o non fare il tampone, “ciò comporta che, in caso di tampone da parte sanitario, la traduzione non potrà avere luogo, se non dopo avere acquisito l’esito negativo dell’accertamento”. Sottolinea che, in adempimento al DL del 17 marzo, in caso di esposizione al rischio di contagio gli agenti possono essere “dispensati temporaneamente della presenza in servizio” e che tale periodo di assenza “è equiparato agli effetti economici e previdenziali del servizio prestato”.
“Agevolare al massimo la produzione delle mascherine negli istituti penitenziari, utilizzando il lavoro dei detenuti”.
Si cita un accordo con TIM per la fornitura di 1.600 “apparati mobili” per le telefonate e video-chiamate e che é temporaneamente concesso ai detenuti in Alta Sicurezza di poter fare i colloqui telefonici anche su dispositivi mobili di utenze comunque già autorizzate. Si parla infatti della “donazione” di tali dispositivi da parte di TIM e altrettante SIM. “La collaborazione con il Ministero di Grazia e Giustizia annunciata oggi rientra nel più ampio progetto di TIM, ‘Operazione Risorgimento Digitale’” (La Stampa, 22 marzo)
Ad oggi però i braccialetti risultano insufficienti. Lo spiega la stessa relazione tecnica che parla, al momento, di circa 2.600 braccialetti disponibili. Il contratto con Fastweb (la compagnia che ha vinto in tandem con l'azienda Vitrociset il bando di gara nell'agosto del 2017) prevede la fornitura e la gestione di circa 1.000 braccialetti ogni mese per tre anni, fino alla fine del 2021, per un importo annuo di circa 7,7 milioni di euro ed un onere complessivo di circa 23 milioni di euro. Il servizio sarebbe dovuto partire già da ottobre del 2018 e aver portato a disporre ad oggi di circa 15 mila braccialetti. La compagnia riferisce che si occupa solo della fornitura e di aver ricevuto l'ordine dal ministero dell'Interno di non dare ulteriori notizie sullo sviluppo, perché questo compito spetta al Viminale. (da Il Dubbio, 19 marzo 2020)
Circolare 21/3. Si ribadisce l’impossibilità di svolgere colloqui visivi fra familiari e detenuti e si raccomanda, questa volta, di spiegarne ai detenuti le ragioni. Si ricorda l’acquisizione dei 1.600 dispositivi da TIM ai quali andranno sommati altri 1.600 che andranno acquistati. Possibilità, anche per i detenuti in AS, di effettuare video-colloqui senza spesa da parte dei detenuti. L’aumento della corrispondenza telefonica che sarà gratuita per tutti i detenuti. La corrispondenza telefonica anche verso dispositivi mobili. L’utilizzo senza costi del servizio di lavanderia. Possibilità di ricevere bonifici on line. Aumento dei limiti di spesa per ogni detenuto.

***
Il 15 marzo in un testo indirizzato al governo, i Tribunali di Sorveglianza di Milano e Brescia sostengono, in merito alle decisioni da prendere, che “il rispetto di una normativa prevista per i tempi ordinari richiede una tempistica non adeguata alla situazione di assoluta emergenza che la Lombardia sta vivendo”. Dicono inoltre che: “Gli UEPE sono in parte chiusi e ridotti all’osso; le aree trattamentali in alcune zone sono decimate. I nostri Uffici giudiziari […] sono collassati nello sforzo di provvedere alla gestione delle udienze con i detenuti ed è prevedibile/verosimile attendersi che neppure i soli presidi d’urgenza potranno sopravvivere nel breve termine”.
Dice che in Lombardia “ la rivolta ha riguardato 1.270 detenuti su un totale di 8.500 detenuti circa” e che, a San Vittore, “ha riguardato i soggetti appartenenti al III Reparto, al II-III-IV Piano, ove si trovano soggetti arrestati e comunque persone in attesa di primo giudizio”, per trarre la conclusione che “i reparti ove il trattamento è in corso, non hanno registrato episodi di violenza ed anzi, è stata manifestata dissociazione e dissuasione verso i rivoltosi”.
“Nel caso di Opera, per esempio, su 1.400 detenuti hanno preso parte alla rivolta meno di 250 detenuti; i restanti 1.150, facenti parte di Sezioni di Alta Sicurezza e di Reparti con detenuti ordinari a trattamento avanzato e in regime aperto, non hanno avuto neanche bisogno di messa in sicurezza in quanto hanno manifestato un comportamento responsabile di espressa non adesione alla rivolta”.
Di qui la” necessità di deflazionare i reparti con forti interventi normativi e di immediata applicabilità”, anche considerando che” gli istituti penitenziari non potranno permettersi i piantonamenti in ospedale dei detenuti che a causa della diffusione del virus dovessero essere intubati o comunque sottoposti a cure non praticabili all’interno del carcere” consiglia “provvedimenti normativi di immediata applicazione e che non richiedano il vaglio della Magistratura di Sorveglianza che già ora, per le condizioni dei propri uffici, non sarebbe in grado di potervi provvedere”. In pratica: “detenzione domiciliare speciale per coloro che hanno pena anche residua inferiore ai 4 anni e con accompagnamento della Polizia Penitenziaria al domicilio per la contestuale verifica dell’idoneità del domicilio stesso”; “sconto di pena di 75 giorni in assenza di rilievi disciplinari, sempre di immediata applicazione”; esclusione di coloro che “hanno partecipato alle note rivolte e che hanno tenuto nel corso della detenzione regolare condotta”. Come altri sono “consapevoli di lavorare in uno stato di ‘guerra’ nel quale non è possibile ragionare per categorie ordinarie”.
Milano, marzo 2020

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Stato d’emergenza o stato di eccezione?
[...] gli organi dello Stato devono rispettare la legge quando esercitano il loro potere. Significa che un Presidente del Consiglio o un Ministro possono emettere determinati provvedimenti ma non altri, significa che alcune competenze sono del Parlamento e altre della Presidenza del Consiglio, significa che nessuno può fare come gli pare [...].
Con il primo provvedimento del 31 gennaio 2020 il Consiglio dei Ministri ha dichiarato lo stato di emergenza in relazione all’epidemia e con quel decreto iniziale ha autorizzato via via tutti i provvedimenti successivi.
Con una serie di ordinanze sono state prese decisioni limitative delle libertà individuali che, a tutto voler concedere, avrebbero potuto essere assunte con decreti legge, sottoposti dunque ad un controllo di legittimità degli altri organi costituzionali, a partire dalla Corte Costituzionale. Invece si continua allegramente ad emettere ordinanze facendo riferimento all’originario decreto del 31 gennaio sicché tutte le decisioni prese hanno assunto lo stato d’eccezione come premessa “normale”.
Con un nuovo decreto, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha detto quali attività, a decorrere dal giorno 25 marzo, potranno continuare. Dal 23 al 25 marzo il Governo ha deliberatamente statuito che, per alcuni lavoratori, il contagio poteva continuare, e ancora una volta non si è trattato di decisioni politiche autonomamente assunte, ma di decisioni dettate da Confindustria. [...] Nel decreto si legge che è consentita l’estrazione del carbone e del petrolio, e non è dato comprendere perché non sia stata sospesa, come pure non sono sospese le attività di produzione di armi.
Lo stato di emergenza, nel nostro ordinamento, si differenza dallo stato d’eccezione. Nello stato di emergenza hanno rilievo eventi eccezionali intesi come calamità, a seguito dei quali si possono adottare misure volte a risolvere il pericolo. Nello stato d’eccezione invece si interrompono le regole, viene meno lo stato di diritto, si limitano le libertà individuali che la nostra Costituzione prevede solo in caso di guerra. [...] Se il covid-19 ci ha fatto accettare lo stato d’emergenza, non accetteremo di certo lo stato di eccezione, a cui si può rispondere solo con il diritto alla resistenza.

24 marzo 2020, da contropiano.org


lettera-Reclamo dal carcere di reggio-emilia
Dopo l'interessamento della stampa locale sono arrivati i NAS a controllare la cucina. Due ministri, l'ASL locale, un dirigente della regione e la magistrata di sorveglianza Cristina Ferrari. Cosa è cambiato? Nulla. L'istituto è sovraffollato e i continui eventi critici quali: incendi nelle celle, baruffe con le guardie e i giorni di liberazione anticipata che non arrivano insieme al COVID 19, come ciliegine sulla torta rendono il luogo ormai immonezzabile. Ormai qui si è arrivati allo stremo delle forze ed ogni giorno si potrebbero verificare eventi che non migliorerebbero certo la condizione inframuraria. La tortura democratica e le condizioni descritte sono le cause per non scontare una condanna, come si auspicherebbe fare in un qualsiasi penitenziario, ma per subire vessazioni aiutate anche dalla deresponsabilizzazione e dall'ostracismo messo in piedi dai capi della cricca. (Da una lettera del 23 febbraio).

Alla direzione della Casa di Reclusione di Reggio Emilia, e per conoscenza al Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia, al Tribunale Amministrativo Regionale di Reggio Emilia, al Sindaco della stessa cità Dottor Luca Vecchi, nonché a Sua Ecc.za Massimo Camisasca, al P.R.A.P regionale del'Emilia Romagna, al'ASL di Reggio Emilia, e altresì al Garante Nazionale dei diritti dei detenuti, Dottor Mauro Palma sede centrale Roma.
Oggetto: reclamo volto ai sensi dell'articolo 30 (ordine diritto al reclamo) – legge penitenziaria – 26 luglio 1975, n° 354 (1), nonché in base agli articoli 6 e 7, comma 1 e comma 2, capo II (condizioni igieniche e illuminazione dei locali), D.P.R. 30 giugno 2000, n°230 (2) e successive modifiche.
I sottoscritti cittadini italiani e stranieri detenuti presso la Casa di reclusione di Reggio Emilia, col presente reclamo si rivolgono stante alle norme citate in oggetto, alle L.L.S.S. Affinché Sappiano, e chi di dovere intervenga, che nel carcere di Reggio Emilia perdurano delle carenze croniche da anni, che vanno denunciate nella forma e nella sostanza per come si manifestano.
Vi elenchiamo, pertanto, le più vistose contro le quali vi chiediamo di prendere urgenti provvedimenti:
1. All'interno del locale cucina, luogo questo dove si prepara il cibo per tutti i reclusi regnano sovrani dei giganti topi che scorazzano indisturbati tra pentolame, scaffali e cibo.
2. Nelle sezioni, dove vivono gli stessi detenuti, l'igiene e le condizioni basilari del pulito che dovrebbero garantire il rispetto della norma a favore della salute, sono palesemente violati: sporcizia come sputi, fiotti di sangue secco sui muri, escrementi di piccioni e di topi la fanno da padrone.
3. I carrelli portavitto non garantiscono le più elementari norme d'igiene, ai detenuti addetti a tale mansione non vengono forniti camice, guanti e mascherina; il pane viene appoggiato per terra – se pur nelle ceste – così come pure la frutta; nel periodo estivo gigantesche mosche che stazionano su carcasse di topi morti possono aleggiare a ridosso del cibo che viene razionato ai malcapitati detenuti.
4. Le cosiddette sale colloqui sono prive di riscaldamento: non sono installati i termosifoni, quindi persone anziane e banbini, che sono cittadini liberi e che non hanno commesso nessun tipo di reato, debbono ogni volta soffrire il freddo per tutta la durata del loro colloquio. Per i soggetti che provengono da fuori Regione questa condizione dura ore e ore.
5. Vi sono nella lista spesa prodotti alimentari – è il caso dei gamberetti surgelati, una confezione da 200 grammi costa 5.20 di euro, mentre sul mercato esistono confezioni da 500 grammi a 8.00 euro – che hanno un costo molto elevato: ad avviso degli stessi detenuti, non viene garantita la pluralità di scelta che offre l'offerta del mercato. Altresì dicasi la stessa cosa per i capperi, tanto per fare un altro esempio, 15 capperi costano oltre 1.20 euro: nella confezione che contiene tale prodotto il sale grosso predomina sullo stesso. Analogo discorso si può fare sui funghi surgelati: vi sono solo confezioni da 500 grammi, mentre sarebbe opportuno che nella lista ci fossero le confezioni da 100 grammi, quelli secchi che costano meno.
6. Le mansioni lavorative all'interno della sezione, quelle svolte ad esempio dal portavitto, non garantiscono una regolare funzione del lavoro, perchè lo stesso lavorante svolge due mansioni nello stesso momento, quindi capita spesso che il cibo, che andrebbe servito all'istante, staziona a lungo nel cosiddetto 'piano zero' – un atrio antecedente alla quinta e sesta sezione della C/R.
7. Un ulteriore limite viene avvertito nella ricezione pacchi contenente generi alimentari, che i famigliari dei detenuti spediscono o consegnano agli stessi: nello specifico ai ristretti non viene data la possibilità di ricevere insaccati, pasta cruda sigillata o cibi simili, “generi alimentari di consumo comune che non richiedono manomissioni in sede di controllo”.
8. I locali docce non sono a norma di igiene: il rischio di contrarre malattie epidermiche, come i cosiddeti funghi, sono fondati: è già accaduto; muri e piastrelle che formano i detti locali, in origine erano bianchi mentre ora sono gialli, ammuffiti, incrostati: lo stesso lipposo sovrasta sul naturale colore.
9. L'area trattamentale claudica: vige da molto tempo una carenza del personale pedagogico: un solo educatore pare debba far fronte alla gestione delle diverse problematiche che di volta in volta gli presenta l'utenza stretta: un solo educatore sembra “segua” circa 100 detenuti.
10. Nell'istituto in questione la Figura del Magistrato di sorveglianza è latente: i detenuti ivi ristretti reclamano i mancati colloqui con la stessa Figura istituzionale per i più svariati motivi: uno su tutti quello della stessa “funzione di vigilanza” per le condizioni esistenziali dei detenuti.
11. Infine va segnalato l'annoso nodo della mancata erogazione dell'acqua calda nelle camere di pernottamento, sul punto l'articolo 7 c.2 del D.P.R. N° 230 del 30 giugno 2000, parla chiaro: “i vani in cui sono collocati i servizi igienici forniti di acqua corrente calda e fredda sono dotati di lavabo, di doccia [...]” (5). Qui pare esistano solo i vani. A proposito di acqua, in questo Istituto, vi è uno spreco impressionante: nel cortile che funge dell'“ora d'aria” vi sono latrine a continuo getto: nessuno usa tali vani.
Per questi e per tanti altri motivi, qui non elencati, Vi chiediamo di intervenire urgentemente nel ruolo della Vostra Rappresentanza e della Vostra Funzione, affinché si debellino le carenze sovraesposte, rendendo così giustizia umana per la dignità delle persone che sono private della libertà fisica e non certo dei diritti che sono rivendicati dalle norme vigenti. Seguono i doverosi saluti nonché le firme delle persone sottoposte alla momentanea reclusione.

Reggio Emilia, 18 gennaio 2020
Seguono Nome, cognome e firma dei reclamanti delle 24 celle della 6a sezione
da una lettera dal carcere di tolmezzo (ud)
Pubblichiamo una lettera giunta alla Cassa AntiRep delle Alpi occidentali. Alessio Attanasio, dal 41-bis, ci informa sugli sviluppi della sua continua battaglia contro circolari e provvedimenti del DAP. La lettera ha il visto della censura (5 Marzo).

[...] Vi faccio sapere che attendo l'esito dell'udienza del TdS di Perugia del 27.2.2020 (n. SIUS 2019/2369), sulla ricezione di libri per corrispondenza, dopo che la Cassazione ha disposto «l'annullamento dell'ordinanza stessa e il rinvio al giudice che l'ha adottata per nuovo esame, nel corso del quale sarà valutata [...] la pretesa del detenuto alla disapplicazione incidentale, sul punto, della circolare ministeriale regolante la materia» (Cass. Sez. I, 17/09/2019 n.48482, Attanasio).
Forse riesco a far finalmente disapplicare la circolare DAP nonostante sulla stessa si sia pronunciata favorevolmente la Corte Costituzionale con sent. n.122/2017, e questo perché sono riuscito a dimostrare che non viene rispettata la condicio sine qua non per ritenerla legittima (ossia il fatto che i libri devono essere acquistati in istituto in tempi ragionevoli: io non sono riuscito in due anni nemmeno ad acquistare il mio).
[...] Vi faccio poi sapere che entro l'estate si pronuncerà la Corte Costituzionale sulla questione della mancata esecuzione delle ordinanze passate in giudicato: infatti il Tribunale di Sorveglianza di Perugia ha sollevato, con ordinanza del 6.8.2019 n.SIUS 2019/1329, conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato a seguito del rifiuto del DAP di consegnarmi una nota segreta su G.C. [un suo corrispondente, ndr] nonostante l'ordine di consegna del presidente del TdS [...].

Alessio Attanasio, via Paluzza, 77 - 33028 Tolmezzo (Udine)


Ennesima morte nel carcere di Udine
Attraverso l’assemblea permanente contro il carcere e la repressione di Udine-Trieste abbiamo saputo che è morto un ragazzo di 22 anni. Della notizia non c'è traccia nei mass media, né è emerso nulla dagli organi istituzionali. La notizia di questa morte è giunta invece da una lettera inviata da via Spalato il 15 marzo che aggiunge ulteriori particolari a questa ennesima morte di carcere, di seguito uno stralcio.

[...] quel ragazzo aveva 22 anni ed è morto, era da tempo che stava male, che non veniva preso in considerazione. Si era ripetutamente lesionato, tagliato con lamette. In questi ultimi giorni lamentava febbre e che stava male, ma l'unica cosa che hanno fatto è stato di aumentargli la terapia di metadone a dosi spropositate, subutex a quantità spropositate e psicofarmaci. Infatti il tutto ha causato la morte, per lo più. Il defibrillatore era già rotto da mesi e mesi. La cella l'hanno aperta dopo 20 minuti quindi alle 7.20 della mattina e l'unico soccorso che ha avuto è stato solo un assistente che ha provato a rianimarlo ma con le mani perché l'apparecchio è rotto.
Poi hanno aspettato ore prima che arrivasse un dottore e il magistrato con tutta calma. Il corpo è restato ad aspettare qua dentro fino poco più tardi delle 13.00. Vergognoso poi che il ragazzo avesse problemi di tossicodipendenza e lo tenessero al terzo piano, e neanche lo ascoltavano e controllavano.
Voglio che queste cose siano riferite così da mettere tutti a conoscenza delle cose vergognose e orribili che succedono nel carcere di Udine. Lo hanno ammazzato. La responsabile dell'area sanitaria non c'era, manca da 15 giorni. È tutto vero.
Lettera dal carcere di Agrigento
Cari compagni, la mia situazione non è che sia tanto messa bene perchè il mio trasferimento qui al carcere di Agrigento, da quanto posso avere intuito, è legato al fatto del mio monitoraggio dove sono monitorato dalla direzione generale dei detenuti e del trattamento Ufficio V° “Settore Massima Sicurezza”, su richiesta della procura della repubblica, sostitutoprocuratore Elena Leone, 'per terrorismo interno', e dal procuratore della repubblica di Lucca Pietro Suchan: 'in quanto soggetto vicino ad ambienti eversivi di sinistra e a movimenti anarchici.'
Pochi giorni fa ci fu la perquisizione nella cella, mi accorsi che venivano a mancare i due articoli di giornale dove riportavano la sentenza di condanna a 12 anni; chiesi spiegazioni e mi fu detto che non li posso tenere per motivi di sicurezza – non ho capito se un articolo di giornale può mettere in pericolo la sicurezza dell'istituto, oppure motivi di sicurezza è legato per il fatto che portava l'immagine del dirigente della digos Leonardo Leone e il suo compare – chiederò che mi venga fatto il verbale del sequestro – tengo a precisare che io non ho la censura, almeno lo spero. A questo punto mi sorge un forte dubbio se le lettere che ho inviato, una all'avvocato e tre ai compagni le hanno ricevute. Da quanto mi è stato detto, qualora avessi dei processi verranno fatti su video-conferenza.
Dal 13 febbraio sto portando avanti lo sciopero della fame perchè non è tollerabile che io non debba avere i colloqui con il mio legale solo per il fatto che sono lontano più di mille chilometri e sono spese del suo viaggio che purtroppo non mi è possibile sostenere in quanto ho la sua assistenza difensiva con rito patrociniale.
Questa al momento è la mia attuale situazione. Quindi mi rivolgo a tutti voi di volermi dare un vostro sostenimento non economico ma bensì la vostra solidarietà facendo girare la mia lettera sui siti.
Per quanto vi sembrerà assurdo, per quanto vi vengo a dire, è una realtà anche se non accettabile. Ho dovuto rifiutare di rientrare nella cella per il fatto che mi sia comportato coerentemente nell'avvertire il mio concellino, il mio problema di salute che mi sono sentito dire è un problema – così per non creare problemi di convivenza la mattina mi rifiutai di rientrare in cella anche perchè ormai la cosa si era difusa in tutta la sezione. Non c'è stato nessuno che si è fatto avanti nel dire vieni in cella con me.
A questo punto ho dovuto farmi portare in isolamento che da quanto mi è stato detto, in isolamento a volte hanno portato anche pedofili e collaboratori di giustizia. Io sono stato assegnato nella cella da solo – non vado al passeggio perchè sono piccoli tre metri per quattro metri e tutti a solo. Non ho problemi con altri detenuti. L'unico problema è legato alla mia patologia. Ormai che sono qui in isolamento spero di ottenere un trasferimento in un altro istituto dove l'ambiente è più caldo, perchè qui i termosifoni non funzionano e quindi vi lascio pensare il freddo che c'è nelle celle in generale. Che per il mio problema che ho non posso mettermi a prende l'influenza ne il freddo.
Faccio molta ginnastica per sentire un po' di caloria. Un abbraccio con affetto a tutti-e.

13 febbraio 2020
Rossetti Busa Mauro, Piazza Di Lorenzo, 1 - 92100 Contrada Petrusa (Agrigento)


da Lettera dal carcere di San Michele (Al)
Voglio parlare di scelte prese da me e nel modo in cui un individuo può e vuole esprimersi. Infatti il 20/01 quella “gioia” della p.m. Pedrotta mi aveva fatto notificare il foglio di fissazione dell'interrogatorio che si terrà dentro il c.c. d'Alessandria il 7/02, insieme al mio avvocato avevamo scelto di non presenziare e di avvalersi della facoltà di non rispondere, facendogli arrivare la comunicazione sia dall'esterno che da me dal carcere. Ma sta gran “gioia” della p.m. ha rifiutato la nostra richiesta e caso mai non mi fossi presentato mi sarebbero venuti a prendere coattamente in cella, per trasportarmi sempre dentro la struttura d'Alessandria nella camera magistrati.
Indignato da tutto ciò mi esce un solo suono dalla bocca che: l'unica bocca infame è lei p. m. Pedrotta!!! e la risposta da parte mia a un interrogatorio forzato non si è fatta attendere, gli preparo tutta l'accoglienza degna per la ricorrenza e per l'arrivo della p.m. già dal 6/02, creando un giorno di disturbo dentro la struttura, cercando di causare più danni materiali possibile. Far lavorare gli zelanti secondini di turno e riuscire a fargli avere una bella relazione sul tavolo a quella stronza, diciamo chiaro che voglio una giornata di gioia nel ribellarmi, amore nel distruggere e frantumare e rabbia verso l'imposizione che dovevo subire.
Partendo già dal mattino del 6/02, aspettando l'apertura alle 9:00, mi rifiuto di andare al campo e rimango da solo in sezione per non causare problemi ad altri compagni, alle 9:10 entro in saletta e mando in frantumi le gelosine, pochi minuti dopo passo a quelle del corridoio e avermi liberato una volta per tutte da quella tortura opacizzata che non vedi il cielo neanche a quadretti dietro a quelle fottutissime sbarre, vengo tradotto in cella dove continuo la mia sbattitura e innalzo slogan contro carceri e C.P.R.. Alle 10:00 vengo chiamato dall'ispettore accerchiato da 4 secondini che mi chiede gentilmente il perché della mia protesta: diciamo che se quella stronza voleva farmi partecipare il 7 obbligatoriamente anche con l'uso della forza, la risposta da parte mia sarà chiara e diretta. Convinti che era finito tutto rientro in sezione e mi fiondo sulle telecamere del corridoio tappandole con colla e adesivi e provo a staccare i fili, ma si staccano solo dal muro. Vengo tradotto in cella e continuo rumorosamente fino alle 11:00. All'arrivo degli altri stacco la protesta, si pranza alle 12:00.
Mi preparo un caffè e da solo scendo al passeggio alle 13:00, portando la caffettiera con me scortato da 3 guardie, mi chiudo al passeggio e poco dopo estraggo la caffettiera dai pantaloni e incomincio a infierire sulle vetrate del passeggio e sulle finestre che costeggiano il muro e tra urla di slogan e rumore di vetri blindati entrano le 3 guardie e sequestrano la caffettiera. Un altro po' di urla e alle 15:00 risalgo su, e da quel momento non ho più avuto la possibilità di continuare durante l'ora di socialità, perché ero guardato a vista, ma già ingenti danni erano stati creati, riuscendo a non arrivare allo scontro con le guardie. L'indomani, il 7/02 scendo al passeggio con gli altri e alle 10:00 vengo chiamato per presenziare.
Provo a rifiutarmi verbalmente, ma è inutile, l'ordine è farmi scendere, vedendo prima l'avvocato, e alle 11:00 ci chiama la p.m. E davanti all'avvocato ribadisco alle guardie che non volevo presenziare, ma niente, ci scortano davanti alla p.m. E ribadiamo per l'ennesima volta la formula “mi rifiuto di presenziare e mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. Ma la p.m. insiste davanti all'avvocato di rimanere presente e con 6 porci giunti dall'esterno e i secondini nell'altra stanza incomincia la sua teatrale parlata, toccando punti diversi, e ad ogni argomento si rimane in silenzio, ribadendo io, ogni volta, “ho finito posso risalire in cella”.
Una volta finita la pagliacciata, faccio uscire l'avvocato nel corridoio e mi soffermo nella stanza dell'ufficio, per rompere quel silenzio che c'era stato, intonando i soliti slogan e lanciando qualche documento in aria e creare un po' di frastuono. Meno di un minuto e vengo tradotto di nuovo di corsa in sezione.
PER L'AZIONE DIRETTA – PER LA LIBERTA' – ESPANDIAMO L'ANARCHIA
Un forte abbraccio a tuti e un saluto a pugno stretto !!!

8 febbraio 2020
Giuseppe Sciacca, Strada Statale 31, 50/A - Loc. San Michele - 15121 Alessandria


Sulle mobilitazioni operaie in corso
La settimana dal 9 al 15 marzo ha segnato un passaggio importante che non si vedeva da tempo. Un po' ovunque operai e lavoratrici hanno preso in mano la situazione e con malattie in massa, scioperi, blocchi, rallentamenti della produzione hanno costretto, da un lato, Confindustria e i suoi soci a fare sanificazioni delle aziende, far saltar fuori DPI (Dispositivi di Protezione Individuale), chiudere e mettere in parte o tutti in cassa integrazione; dall'altro lato hanno costretto i sindacati confederali ad indire scioperi e coprire gli stessi sino al 25 marzo. Questo risultato è il prodotto di una situazione che all'interno di molte aziende covava da qualche settimana.
Quando lo "stato d'emergenza" è entrato nelle fabbriche, non ha modificato i ritmi o la produzione, ma ha imposto il divieto di assemblee, di sciopero, ha inasprito la regolamentazione delle pause, che sono state diminuite, e ha portato al divieto di formare capannelli alle macchinette.
Il Covid 19 colpiva la socialità e l'agibilità degli operai, ma non colpiva la produzione. Colpiva tutta la società ma non la fabbrica. Fuori dovevi abituarti al "distanziamento sociale", dentro solo quando non riguardava il lavoro vivo, infatti, sulle linee continuavi a lavorare ammassato come sempre. Tutti gli operai hanno seguito le dirette notturne di Conte come fossero le finali dei mondiali e tutti si aspettavano ad ogni decreto ministeriale la chiusura delle fabbriche. Ogni volta il cerchio si stringeva: prima la sospensione delle lezioni, poi le zone rosse con le 14 province, poi tutta l'Italia zona rossa, poi tutto (o quasi) chiuso tranne alimentari, farmacie, edicole, tabacchini e determinati negozi come i rivenditori di elettrodomestici. Ad ogni uscita disattesa di Conte nelle chat di Whatsapp e il giorno dopo in fabbrica si discuteva di quanto fosse allucinante questa situazione, di quanto l'azienda se ne sbattesse e di quanto gli operai, per l'ennesima volta, dovessero fare la parte delle bestie da macello.
Come se non bastasse Confindustria dice chiaramente: "le aziende non devono chiudere!". Con queste parole Boccia apre una sfida che non può non essere raccolta. Da un lato noi, che vorremmo le aziende chiuse, a sudare sulle macchine e sulle linee, mentre il resto d'Italia è chiusa per pandemia, e dall'altra lor signori, che dai loro uffici dorati ci dicono che dobbiamo lavorare.
Nella notte di mercoledì 11 marzo Conte ratifica nero su bianco le direttive dei confindustriali. Già da martedì gli operai di Pomigliano avevano battuto un colpo con uno sciopero selvaggio e i lavoratori dei magazzini della logistica stavano dando un esempio formidabile come sempre. Giovedì tra i lavoratori l'amaro in bocca si trasforma in rabbia e in rifiuto di mediazioni. Prima si prova con le buone, si va dai vari RSU e RLS a cercare di capire cosa vogliono fare, ma le direttive dei loro funzionari sono ambigue, bisogna aspettare che forse il governo chiuderà le aziende e forse metterà sul piatto soldi per la cassa integrazione. Ma di aspettare non se ne può più. Nelle aziende con delegati pronti e svegli si chiama immediatamente lo sciopero e il blocco, nelle altre invece si assiste a episodi di varia entità: colleghi che prendono e vanno a casa senza dir nulla, si organizzano malattie di massa, si rallenta la produzione, si formano capannelli nei quali si discute per capire come muoversi con o senza il sindacato, poco importa, bisogna chiudere la fabbrica punto. La situazione sfugge così tanto di mano che i sindacati confederali danno il via libera all'agitazione e alla mobilitazione.
Su Facebook e nei gruppi Whatsapp è un continuo postare o condividere notizie di fabbriche in sciopero, articoli di aziende che si fermano e di blocchi. Questo provoca un effetto a valanga che coinvolge anche le realtà di medie e piccole dimensioni. Il venerdì per Confindustria è un'ecatombe, la sua parola d'ordine "tutto aperto" si è scontrata con quella operaia "tutto chiuso" e ad averla spuntata, almeno parzialmente, siamo noi. Nel weekend la Fiom fa la parte del sindacato di lotta pubblicando liste di fabbriche chiuse. Poco importa se fino a pochi giorni prima dava direttive opposte.
Il governo, misurati i rapporti di forza messi in campo dalle proteste, coinvolge i confederali nella legittimazione del diktat di Confindustria: approva un decreto di 13 punti tra governo e parti sociali nel quale, da un lato, si certifica il continuo della produzione e, dall'altro lato, inserisce una serie di misure da adottare per garantire la salute. Troppo poco rispetto a quello per il quale stiamo lottando. Anzi, il decreto approvato, con l'obiettivo di buttare acqua sul fuoco delle mobilitazioni, introduce nuove libertà per il padronato, come l'utilizzo unilaterale del telelavoro o l'accesso sempre unilaterale alla cassa integrazione, derogando quindi al confronto con la Rsu. Il protocollo firmato è da rispedire al mittente.
In questi giorni sono in corso sanificazioni e richieste continue di cassa integrazione di tutti i lavoratori o in alcuni casi di solo una parte. Le produzioni sono al minimo. Tante aziende di fronte al protocollo appena approvato, che comunque mette dei paletti ad una presunta "autoregolamentazione" sbandierata da Boccia, preferiscono chiudere piuttosto che avventurarsi nell'impresa di rispettarlo. Troppe aziende sono ancora aperte e governo e padroni devono garantire che non si perda un euro di salario e un posto di lavoro a causa dell'emergenza.
Dal punto di vista dei rapporti di forza generali la classe operaia ha battuto un colpo forte che ha costretto i padroni a una vistosa marcia indietro e i suoi lacchè confederali a rincorrerli per non perdere legittimità e autorevolezza. Nel breve termine l'obiettivo di massima è chiudere tutto, rispedendo al mittente il protocollo firmato dov'è possibile, proseguendo lo stato di agitazione. Bisogna sottolineare che quanto firmato dai confederali punta a legare le mani a Rsu e Rls obbligandoli di fatto a prender parte a dei comitati, con Rspp e capetti vari, finalizzati a concordare le condizioni per la ripresa della produzione. La partita si gioca quindi sui rapporti di forza concreti fabbrica per fabbrica.
Ad oggi il ricorso alla malattia, organizzata collettivamente, risulta essere lo strumento più in uso per boicottare la produzione, dobbiamo puntare a rilanciare lo sciopero nelle sue varie forme e costruire momenti di confronto per rafforzare la coesione e il dibattito interno. Non si deve perdere un euro e un posto di lavoro a causa dell'emergenza. Non dobbiamo pagare noi la crisi con le nostre ferie, dobbiamo pretendere che i padroni mettano di tasca propria quello che lo stato non paga, come la parte mancante di salario nel caso della cassa integrazione. Prima o poi lo "stato d'emergenza" finirà, soprattutto fuori dai cancelli, riapriranno le scuole, i bar, i negozi, ecc. Ma dentro i cancelli e non solo, chi pagherà e come la cassa integrazione? Quali saranno le politiche di lacrime e sangue che cercheranno di farci ingoiare per il salato conto di deficit che stanno facendo? Riusciranno a convincerci che bisogna fare i sacrifici per responsabilità verso l'Italia? Chi pagherà la crisi?
19 marzo 2020, liberamente tratto da tazebao.org

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INTERVISTA AD UN OPERAIO DELL’AVIO AERO DI POMIGLIANO D’ARCO (NA).
In Avio abbiamo già avuto due casi di corona virus. Da quel momento le preoccupazioni sono diventate paura, per noi e per i nostri familiari. Le lavorazioni che facciamo non ci costringono tutti a lavorare vicinissimi, però ogni mattina entriamo nello spazio ristretto della fabbrica almeno in 1.300. Spogliatoi, mensa, bagni. Sono luoghi che frequentano tutti. Il contatto con gli altri è obbligato, non lo puoi evitare.
Dopo i decreti governativi a maglie larghe varati dal governo, l’azienda ci ha detto che le misure di sicurezza sono assicurate. Un po’ di disinfettante, un paio di guanti e qualche mascherina per chi lavora a meno di un metro? Cosa rappresentano rispetto all’epidemia di questa portata? Niente. Ma in realtà neanche questo ci viene assicurato. Pochi giorni fa il disinfettante per pulire la postazione ci è arrivato a turno di lavoro già abbondantemente iniziato. Le mascherine non ci toccano anche se tutti le utilizziamo, ma le nostre, perché quasi nessuno lavora a meno di un metro di distanza. Sui guanti è una barzelletta. Ultimamente ce ne hanno dato uno ciascuno, non un paio, ma letteralmente uno, o per la mano sinistra, o per la destra, con la scusa che la fornitura ancora non era arrivata.
In questa situazione noi vogliamo stare a casa, come fanno tutti gli altri. Ma l’azienda se ne frega, tanto chi comanda sta a casa, in qualche rifugio di lusso come Berlusconi. La legge dà ragione all’azienda. I decreti di Conte sono un cappio alla gola per noi operai. L’azienda ha le spalle coperte. L’unica difesa è lo sciopero.
Da martedì 10 marzo nello stabilimento è sciopero, l’abbiamo richiesto noi operai e la FIOM e la FAILMS ci hanno dato la copertura. Siamo in sciopero per quattro giorni. UILM FISMIC e UGL non partecipano. Per loro dentro lo stabilimento è tutto a posto. Lunedì hanno partecipato a un sopralluogo dei reparti con qualche dirigente e ci hanno fatto sapere che non ci sono problemi. La sicurezza è assicurata.
In questi giorni di sciopero la fabbrica non è vuota, su 1.300, entrano intorno ai 250, tenendo presente che 130/140 di loro sono interinali, più schiavi degli schiavi. Tramite i sindacalisti che apertamente la sostengono, l’azienda ci ha fatto sapere che i passaggi di livello, i premi, gli aumenti salariali saranno assicurati, perché la dirigenza aziendale non dimentica chi “a spregio del pericolo” è venuto a lavorare anche con l’epidemia che ci aggredisce. Non sai se ridere o piangere.
L’azienda ci ha fatto sapere anche che la nostra produzione non è inutile, ma anzi, è importantissima per questa fase perché produciamo pezzi per la costruzione di aerei da trasporto merci, i cargo, che appunto servono per trasportare roba utile in un periodo come questo. In realtà qualche compagno più informato ci dice che stiamo producendo pezzi per il Boeing che serve al trasporto passeggeri. Perché produrre roba inutile, che ora sicuramente non serve e non si vende? Per questi vale sempre la stessa regola: produzione mancata è produzione persa. La mettono a terra, poi sempre si venderà. Siamo in un vicolo cieco. Quanto dureremo con lo sciopero? Quanto dureremo con ferie, un po’ di malattia e qualche altro modo per rimanere a casa?
Senza una sollevazione generale contro i decreti del governo che coprono le spalle alle aziende, non molto, e poi torneremo a sudare freddo in fabbrica.

19 marzo 2020, da operaicontro.it



La vita fuori adesso funziona così
Brani tratti da “Non siamo tutti sulla stessa barca”, manifestino uscito a Genova, e da “Tilt”, foglio murale uscito a Milano.

Il sistema sanitario non tiene, i reparti di terapia intensiva non hanno più posti e si comincia a dire che si potrebbe dover scegliere tra chi salvare e chi no. La penuria di mascherine coinvolge anche gli ospedali. Le zone più colpite dal contagio (Lombardia, Veneto, Emilia) sono quelle col servizio sanitario migliore d'Italia (ed è tutto dire), ma anche quelle dove si concentrano fabbriche e magazzini. Non sarà forse che il contagio continua perché si costringono milioni di operai a lavorare e non perché qualche migliaio di persone su tutto il territorio nazionale escono a fare due passi? Non sarà che stanno colpevolizzando i nostri comportamenti per non farci pensare che la Sanità è al collasso? E chi l'ha sfasciata, a colpi di riforme, tagli, privatizzazioni, la sanità italiana? Quegli stessi politici che ora ci dicono che il contagio continua perché non rispettiamo le regole (eppure le strade sono deserte) e che però ci fanno andare a lavorare per mantenere i profitti dei padroni, che ancora al 23 marzo si oppongono alla chiusura delle attività produttive non essenziali! Non siamo sulla stessa barca, perché paghiamo in modi ben differenti anche la vita in quarantena, così come pagheremo in modo diverso le conseguenze e i costi sociali di questa crisi nel lungo periodo se non iniziamo fin da ora a ragionare su come organizzarci per sottrarci a questa banda di assassini. Seguiamo l'esempio di quei lavoratori che un po' ovunque stanno pretendendo condizioni di sicurezza o la chiusura di fabbriche e magazzini, con lo sciopero, l'astensione dal lavoro, l'assenteismo.

Dallo stato di emergenza non si torna indietro
Lo stato di emergenza implica l’introduzione di nuove forme di controllo dalle quali l’esperienza ci dice che è molto difficile tornare indietro, come già accaduto dal 2001 in avanti e in Francia dopo l’attentato a “Charlie Hebdo” del 2015, quando non si è più usciti dallo stato di eccezione instaurato a livello globale. Vediamo come ci si è abituati a vedere i soldati nelle strade, che ora hanno anche l’autorità per controllare i nostri movimenti. La gestione di questa emergenza sta avvenendo a colpi di decreti legge e di DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), due forme eccezionali. Trattandosi di un’emergenza sanitaria la gestione attuale conduce automaticamente al passaggio dal governo della politica al governo della scienza, con la conseguenza che chiunque non abbia competenze tecniche non può più avanzare alcuna critica. Premettendo che non possiamo mettere in discussione la necessità di limitare la propagazione del virus e di adottare dei comportamenti per tutelare se stessi e gli altri da eventuali contagi, il discorso sull’emergenza però costituisce ognuno di noi come nemico per l’altro. Il controllo sociale è sempre più volto a monitorare e limitare gli spostamenti e a reprimere la solidarietà spontanea che dovrebbe manifestarsi in momenti come questo. È difficile non restare passivi di fronte a un’emergenza sanitaria che implica il continuo e unico riferimento alla scienza e alla tecnologia come se fossero indiscutibili nonché le uniche possibili soluzioni. Tuttavia sanità e salute non coincidono, e per prendersi cura di noi stessi e degli altri è importante continuare a esercitare il nostro spirito critico, a essere in grado di scegliere e di non appiattirci passivamente su ordinanze e retoriche securitarie.

Della servitù volontaria
La retorica dominante si concentra solamente su una responsabilità individuale, immedesima il nemico in ognuno di noi. Per capire il paradosso, basti pensare che le persone vengono mortificate per una corsetta, quando ogni anno solo 14mila persone si fanno male correndo mentre gli infortuni sul lavoro sono 640mila e gli incidenti domestici sono quasi 800mila (a proposito del restare a casa!).
Ci raccontano che siamo tutti sulla stessa barca, tutti ugualmente italiani con l’inno nazionale da far risuonare ogni pomeriggio dai balconi (con ben scarsi risultati, bisogna rilevare), per sviare l’attenzione dal fatto che c’è chi questa situazione la subisce soltanto, e chi invece ne è colpevole, come Confindustria che si è opposta strenuamente alla chiusura delle fabbriche.

Andrà tutto bene non significa tornare alla normalità
Le moderne epidemie globali portano un segno di classe tanto nella loro genesi quanto nelle loro vittime predilette. La mondializzazione dei rapporti sociali capitalistici, delle guerre del capitale, della distruzione della bio-diversità, del cambiamento sempre più rapido delle temperature dell'aria, dei suoli, delle piogge associati alla catastrofe ambientale in corso, ne sono l’habitat. Il virus ultimo si diffonde in un mondo che si muove estremamente velocemente, nel capitalismo più sfrenato, nel consumo, nella produzione che non può mai fermarsi, in una sintesi sociale molto complessa, caratterizzata dalla perdita del “mondo selvatico” (e dove la normalità sono invece gli allevamenti intesivi, la deforestazione, la velocità degli scambi), un mondo che non permette forme di sussistenza altre. È oggi molto diffusa una sensazione di attesa, ma il rischio più grande è vivere questo momento con passività, accettare di veder azzerato ogni spazio di lotta, di opposizione allo sfruttamento e a tutto quello contro cui ci siamo battuti e ci battiamo.

Forse non tutti sanno che...
In Corea del Sud vengono tracciate le vite delle persone utilizzando dati Gps, riprese delle telecamere di sorveglianza e transazioni con carta di credito. I dati forniti da questi controlli vengono poi utilizzati per creare “mappe del contagio” consultabili online, con apposita app. Questo scenario è realtà anche nostrana: in Italia vengono controllate le celle telefoniche per monitorare gli spostamenti delle persone, i pochi parchi aperti vengono sorvegliati da droni, le strade dall’esercito. In aiuto a questi mezzi, viene incentivata la delazione dando a tutti la possibilità di diventare poliziotti dai propri balconi di casa, diventati luoghi simbolo di questa reclusione di massa. A Molfetta è stato addirittura istituito un numero di telefono per informare in tempo reale la polizia di eventuali assembramenti.
Attenzione! Il nuovo DPCM del 24.3.20 prevede, in caso le forze dell’ordine ritengano che tu non abbia un motivo valido per uscire di casa, una multa da 400 a 3.000 euro. La sanzione sarà aumentata fino a 1/3 se si è a bordo di un veicolo, ma non ci sarà il fermo amministrativo di quest’ultimo.