indice n.145

LA PANDEMIA VISTA DAI GHETTI DELL’AGROALIMENTARE
Aggiornamenti dai campi di internamento per immigrati
Le navi-quarantena, sviluppo di un nuovo dispositivo detentivo
USA: UNO SCIOPERO ALL’INTERNO DELLE CARCERI
lettera Dal Carcere di massima sicurezza di Santiago del Cile
A NOVE MESI DALLA STRAGE DI STATO NELLE CARCERI
da una lettera dal 41bis del carcere di Tolmezzo (Ud)
Dal carcere di Spini di Gardolo (TN)
Lettera dal carcere di Milano-Opera
Milano: voci combattive dagli ospedali S. Paolo e S. Carlo
Una riflessione sui colloqui in videochiamata
da una lettera dal carcere le vallette di torino
Lettera dal carcere di Firenze-Sollicciano
Lettera dal carcere di Genova
Lettera dal carcere di Sulmona (aq)
Notizie dalle carceri
Lettera dal carcere di Siano (cZ)
Lettera dal carcere di Padova
lettera da una comunità di belluno
Lettere dal carcere di Pavia
lettera dal carcere di siracusa
lettera dal carcere di Caltagirone (ct)
Sulla mobilitazione dei rider a Milano


LA PANDEMIA VISTA DAI GHETTI DELL’AGROALIMENTARE
A Saluzzo la stagione è quasi finita, rimangono da raccogliere ancora le ultime mele invernali e i lavoratori, così come sono arrivati, se ne sono andati. Da dove fossero venuti, dove siano stati in questi mesi e dove siano andati ora rimane un mistero. Mirtilli, pesche, mele e kiwi sono arrivate dai campi agli scaffali dei supermercati senza alcuna differenza di prezzo rispetto agli anni precedenti, e questo è quanto basta sapere. Cosa è successo ai lavoratori stagionali che erano a Saluzzo durante l'estate? Come si sta evolvendo la situazione nei distretti agroindustriali del mezzogiorno? Come la crisi sanitaria sta impattando sulle condizioni di vita di chi già viveva nella segregazione?

Mentre il settore agroalimentare continua a cavalcare la crisi pandemica, come prima cavalcava la crisi finanziaria, continuando ad aumentare i suoi profitti, i lavoratori impiegati nel comparto agricolo, definiti indispensabili, sono però scomparsi dai radar mediatici.
Nei primi mesi di pandemia non si faceva che parlare di braccianti e di quanta forza lavoro fosse venuta a mancare a seguito del lockdown, e il governo metteva in piedi un processo di regolarizzazione degli stranieri privi di documenti, ma anche dei lavoratori italiani a nero, sbandierato come la risposta alla carenza di braccia (dimenticandosi delle lotte dei diretti interessati, che hanno giocato un ruolo cruciale nella decisione di procedere con una sanatoria).
Una misura rivelatasi però fallimentare e subito aspramente criticata da più parti – anche da chi è per anni rimasto sordo agli appelli alla solidarietà di lavoratori e lavoratrici in lotta per i documenti. Le associazioni di categoria, d’altra parte, hanno cercato sfacciatamente ed insistentemente di approfittare della situazione per forzare la reintroduzione di forme di ingaggio tramite voucher, ancora più precarizzanti di quanto non siano già i contratti a termine dei braccianti agricoli. Allo stesso tempo, c’era addirittura chi – eminenti opinionisti di importanti testate nazionali, ma anche medici – sosteneva, nella migliore delle tradizioni suprematiste, che ‘i neri’ erano immuni al coronavirus perché non si registrava la loro presenza tra i dati dei contagiati.
A pochi è venuto in mente che per chi vive nella quarantena dell’apartheid razziale, soprattutto nei ghetti e nei campi di lavoro che costellano i distretti agro-industriali da nord a sud, l’isolamento è una condizione permanente. Le uniche occasioni di socialità, se così si può chiamare, al di fuori delle proprie comunità sono per i braccianti immigrati legate al lavoro e poco più. E quindi, in una stagione in cui il lavoro era poco, i braccianti sono stati ‘protetti’ dal contagio.
Prevedibilmente, però, ad una fase di iper-mediatizzazione ma anche di poca esposizione al virus ne è seguita un’altra, non solo di oblio ma anche di iper-mobilità e di conseguenza di diffusione della pandemia tra i braccianti stranieri. In diversi distretti, da Saluzzo (CN) a Campobello di Mazara (TP), passando per il Tavoliere, il casertano, il potentino e il metapontino (MT), le necessità stagionali di braccia per la raccolta di frutta e ortaggi hanno richiamato migliaia di lavoratori che in questi mesi hanno più volte attraversato l’Italia per cercare lavoro (e magari sperare di regolarizzarsi). Chi ‘porta il cibo sulle nostre tavole’, come ama ricordarci la retorica umanitaria, è spesso stato costretto a dormire in abitazioni di fortuna, ammassato e in molti casi senza accesso nemmeno all’acqua potabile, quando non proprio per strada, come è accaduto e tuttora accade nella opulenta provincia di Cuneo – ‘fiore all’occhiello’ per le numerose eccellenze enogastronomiche prodotte sulla pelle di decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici trattati come carne da macello. Qui esercito e forze dell’ordine hanno sottoposto chi già viveva una condizione al limite a snervanti controlli, corredati di denunce, fogli di via e ripetuti sgomberi, che avevano evidentemente il solo scopo di intimidire. Soltanto una protesta ha permesso che qualche comune corresse ai ripari mettendo a disposizione un centinaio di posti in container e tende, dove le condizioni non sono certo ideali, e in alcuni casi posti letto in strutture di accoglienza. Nessuno, né in Piemonte né altrove, si è davvero preoccupato di tutelare la loro salute né di fornire una comunicazione adeguata rispetto alla natura della pandemia e alle misure necessarie per fronteggiarla.
E così, dopo mesi di disoccupazione forzata, attenuata dall’elemosina del governo solo per chi aveva la fortuna di avere un permesso di soggiorno e un contratto di lavoro, anche chi risultava positivo al coronavirus è stato costretto a lavorare. In alcuni casi questo è avvenuto con il placet delle autorità, che sempre nell’avanguardistico distretto della frutta del cuneese hanno tirato fuori dal cilindro una ‘quarantena fiduciaria’, permettendo, bontà loro, a chi fosse entrato in contatto con soggetti positivi di recarsi al lavoro per poi rientrare tassativamente alle loro abitazioni. In molte altre situazioni, come ad esempio nelle provincie di Foggia e di Potenza, le disposizioni sanitarie hanno fatto sì che i positivi, anche asintomatici, venissero prima ricoverati in ospedale – da cui molti fuggivano per tornare al lavoro -, e poi confinati in container, capannoni o tende allestiti appositamente per loro (come è accaduto anche nella Piana di Gioia Tauro). In alcuni territori dove erano disponibili gli alberghi COVID (il foggiano tra questi), i sindaci si sono semplicemente rifiutati di metterli a disposizione ‘degli immigrati’, senza che nessuno si indignasse. D’altronde, il posto degli africani è nelle tende. Lo sanno tutti. È normale. Intanto, si diffondeva in tutta Italia l’ennesimo spauracchio legato all’immigrato, che da immune era improvvisamente diventato un untore. Ma poi, siccome la frutta e la verdura vanno raccolte, anche dalle zone rosse presidiate dalle forze dell’ordine, in cui erano confinati insieme positivi e negativi (sempre perché immigrati), di fatto si esce per andare al lavoro, nel silenzio complice di autorità che fingono di non vedere e di non sapere. Tutto ciò nella tragedia ormai conclamata di un sistema sanitario al collasso dopo anni di privatizzazioni e clientelismo, votati al profitto di alcuni, come le vicende calabresi hanno prepotentemente messo in luce.
Così i braccianti stranieri non fanno più notizia, non devono più fare notizia: devono essere criminalizzati e isolati, ma non troppo, perché poi servono per lavorare. E infine, quando non servono più, devono scomparire. Mentre nel cuneese la stagione della raccolta della frutta volge al termine, i sindaci del comprensorio hanno avuto la faccia tosta di proporre una chiusura anticipata delle strutture di accoglienza che hanno ospitato una parte dei lavoratori. Per l’emergenza sanitaria, dicono. E anche se nel frattempo, costretti dalla denuncia pubblica persino della FLAI CGIL, hanno dovuto ritrattare, ai braccianti stranieri in tutta probabilità non sarà comunque concesso di rimanere oltre la fine di questo mese, sia come sia. Così in molti hanno già tolto il disturbo, magari senza nemmeno aspettare la paga, e sono ritornati ai ghetti e ai campi di lavoro del Mezzogiorno, dove il virus circola ma in silenzio, senza clamore e indisturbato. Insomma, i lavoratori agricoli stranieri non hanno diritto alla salute, né alla casa, per non parlare di contratti regolari o di documenti.
Ma da Saluzzo alla Piana di Gioia Tauro e alla Basilicata, la voce dei lavoratori delle campagne si è alzata più volte, a protestare per questo stato di cose. Contro la militarizzazione e la gestione carceraria delle loro esistenze, perché anche le loro vite contino.
Ribadiamo la nostra solidarietà e il nostro impegno al loro fianco, fino a che tutt* avranno casa, documenti ed un contratto regolare – perché questa è anche la nostra lotta.

18 novembre 2020, da Enough is Enough - braccianti in lotta Saluzzo
Aggiornamenti dai campi di internamento per immigrati
Milano, Cpr di via Corelli. Un'altra rivolta è scoppiata, la notte del 20 novembre. Sembra che gli sbirri lì dentro non abbiamo mai tregua, al punto che diverse sezioni sono ormai fuori uso. Che dire, i Cpr si chiudono col fuoco e i reclusi lo sanno bene. Pare che materassi siano stati ammassati e arredi danneggiati, così come porte e finestre, vetri rotti e alcune persone sul tetto. La manifestazione è durata circa un'ora e hanno partecipato una quarantina di reclusi. La struttura non è idonea, ha dichiarato il sindacato di polizia, e dire che è stata ristrutturata dal Genio militare per oltre 100mila euro.
Già il 12 ottobre, appena dopo due settimane dall’apertura del Cpr avvenuta il 28 settembre 2020, all'interno era scattata una mini rivolta da parte di alcuni dei cosiddetti ospiti. Ad accendere gli animi, secondo la questura, sarebbero stati circa trenta cittadini di origine tunisina reclusi in due diversi settori del Cpr. Nel corso dei disordini, i manifestanti hanno svuotato alcuni degli estintori presenti nell'edificio. In seguito una quarantina di reclusi sono stati deportati in Tunisia.
Il 25 ottobre si è svolto un presidio molto partecipato sotto le mura del Cpr e del Cas di Via Corelli. Non è facile entrare in contatto con i reclusi per l’asfissiante controllo delle forze dell’ordine ma la solidarietà è arrivata forte da ogni lato delle strutture. Saluti ai reclusi si ripetono con costanza anche se non si riesce a mettersi in contatto telefonico diretto a causa del divieto di tenere cellulari all’interno. (Da fb “Punto di rottura contro i Cpr”).
Quotidiani nazionali riportano la notizia di un tentativo di suicidio e di una nuova rivolta con materassi incendiati la sera del 6 dicembre. La rivolta si è estesa a tutti i settori del Cpr, con colonne di fumo che si sono alzate in tutto l’edificio. Il centro sembra ora inagibile e ci potrebbe essere la possibilità concreta di una chiusura della struttura. Appena saputa la notizia della rivolta un gruppo di solidali si è recato sotto le mura del Cpr cercando di fare arrivare un saluto da voci solidali.
Gorizia, Cpr di Gradisca d’Isonzo. Scriviamo con rabbia per diffondere la storia assurda di un ragazzo che è stato processato per “concorso morale” agli episodi avvenuti il 14 agosto nel CPR a seguito del pestaggio di alcuni altri detenuti nella zona rossa: si tratta di un incendio, come quelli che avvenivano in quel posto ogni sera. Potrebbe sembrare uno scherzo se non avesse preso 1 anno e 10 mesi di reclusione. A lui va tutta la nostra solidarietà e vicinanza, temiamo che da un momento all’altro possano prenderselo con forza e ributtarlo nel posto da dove, due anni fa, ha scelto di partire. Il 15 agosto, all’alba, viene preso e portato al carcere di Gorizia con altri due detenuti. L’8 settembre ha il riesame per le misure cautelari, ma nessuno lo porta al suo processo: dopo 23-24 giorni lo avvisano che tutte le istanze del riesame sono state rigettate e le misure cautelari in carcere vengono mantenute. L’udienza per il patteggiamento, proposto dall’avvocato, è fissata per il 26 novembre quindi viene spostato con obbligo di dimora al CPR.
Il 26 mattina è pronto, ma nessuno lo fa uscire dal CPR o lo porta al suo processo. A metà udienza riceve una chiamata dall’avvocato, che chiede di interrompere momentaneamente l’udienza in modo da chiedere al suo assistito se gli va bene un patteggiamento di 1 anno e 10 mesi (aumentato di 10 mesi rispetto all’iniziale proposta). N., da quello che capisce, deve accettare, al telefono nella sua cella del CPR senza poter presenziare al suo processo o ascoltare ciò che è stato detto. È incensurato quindi può avere la pena sospesa per la condizionale. “Qui ti danno due anni come fossero delle caramelle”, ci dice. Il 6 dicembre, alle 11.30 di mattina, con il volo di linea della TunisAir che da Milano Malpensa va a Tunisi, è stato deportato, trasportato da Gradisca in un’auto con due guardie armate appresso.
Dentro il CPR da tre mesi, tempo massimo secondo le nove disposizione, c’è Hassen. Le convalide mensili sono comminate dall’unico Giudice di Pace della provincia di Gorizia, noto per le sue sentenze quasi sempre di convalida. Hassen è scappato dalla Tunisia perché minacciato di morte, ha un’infezione tubercolare latente e un nodulo (benigno) alla tiroide, ma da quando è entrato non gli hanno fatto alcuna visita medica. A metà novembre lo hanno portato presso il consolato tunisino, ma ci racconta che l’hanno lasciato chiuso dentro al “furgone” impedendogli di parlare con il console, dopo avergli preso i documenti. Il 19 novembre gli hanno fatto un tampone, che lui ha preso come indizio della sua imminente deportazione, ha scritto una lettera di addio alla madre e ha iniziato a prepararsi per il suicidio: o morto o libero, in Tunisia a farsi ammazzare non ci vuole tornare. I compagni di cella e i contatti all’esterno hanno cercato di farlo desistere e hanno vegliato la notte per scongiurare la sua deportazione. Al momento si trova ancora nel CPR, sembra i giorni dei rimpatri ora siano diventati martedì, giovedì e venerdì.
Sul contagio dentro al Cpr per covid 19 per il momento sembra che le misure di prevenzione si siano limitate all’isolamento delle persone positive, individuando una camerata comune per tutte loro. In ogni caso, ai reclusi non viene comunicato nulla sulla presenza o meno di casi. Non viene rispettata alcuna misura sanitaria di tutela minima: da quello che ci viene raccontato, la mascherina, per esempio, viene fatta indossare ai detenuti del campo solo se e quando viene consentito loro di parlare con un legale. Le persone recluse all’interno del campo continuano nella maggior parte a vivere in stanze comuni. A differenza di quanto accadeva in passato, le comunicazioni di molti dei detenuti con l’esterno e con i propri familiari vengono impedite. Il metodo pare essere questo: quando uno entra in CPR, gli si toglie la sim dal cellulare. La garante comunale Giovanna Corbatto poco più di un mese fa si è espressa pubblicamente dicendo che le condizioni interne al CPR sono peggiori di quelle delle carceri; tuttavia, sappiamo bene che il suo ruolo è poco più di uno specchietto per allodole. Chi avrebbe il potere di fare chiudere questi lager non ha alcuna intenzione di farlo. Che muoiano di botte o di Covid là dentro evidentemente poco importa. (Tratto da “Gradisca nofrontierefvg”)
Torino, Cpr di C.so Brunelleschi. Dopo un presidio sotto il Cpr, siamo riusciti a sentire al telefono quattro ragazzi all’interno del CPR. Ci hanno raccontato che continua il divieto di poter utilizzare il proprio cellulare e l’unico modo per comunicare con l’esterno rimane quello di utilizzare le schede telefoniche che vengono acquistate a loro spese direttamente dall’ente gestore (la multinazionale francese Gepsa, specializzata nel fare profitto con i luoghi detentivi). La cabina telefonica presente in ogni aerea del centro continua a essere disattivata per le chiamate in entrata. La situazione dei pasti è sempre ignobile. Molti reclusi sono costretti a nutrirsi solo di latte in polvere annacquato e biscotti per diverse settimane in quanto il cibo fornito due volte al giorno è spesso marcio e maleodorante. Dopo mangiato molti si addormentano entrando in uno stato di catalessi dovuto ai soliti medicinali che vengono aggiunti agli alimenti.
La scorsa settimana alcuni reclusi dell’area VERDE hanno protestato durante la consegna del cibo e per tutta risposta sono stati picchiati e insultati dalle guardie. L’assistenza sanitaria all’interno del CPR continua a essere assente. Le condizioni igieniche sono pessime, le unità abitative non vengono mai pulite o disinfettate. Viene ignorata dal punto di vista medico ogni forma di disabilità, come ci ha raccontato un signore marocchino con un problema alle articolazioni inferiori che più di un mese fa è stato scaricato come un pacco all’interno dell’area ROSSA e da allora abbandonato senza una sedia a rotelle e senza una stampella. Può andare in bagno solo grazie all’aiuto de suoi compagni di stanza che gli hanno costruito un supporto di polistirolo.
Secondo una stima dei reclusi ci sarebbero più di cento persone all’interno del CPR.
Al momento su sei aree totali, due sono completamente inagibili, la BLU e la VIOLA, a causa delle rivolte. Anche nelle aree ROSSA, BIANCA e GIALLA molte unità abitative sono ancora inagibili causando un continuo e pericoloso sovraffollamento all’interno delle stanze in funzione, dove sono presenti sette letti e in media attualmente dormono tra le dieci e le quindici persone. Anche nell’area VERDE, dove tutte le unità abitative sono agibili e sovraffollate, c’è molta preoccupazione tra i reclusi per un possibile contagio. Un ragazzo marocchino ci ha raccontato che viene fornita una sola mascherina chirurgica quando entri nel centro e non viene mai più cambiata. Nei mesi di settembre e ottobre il viavai tra ingressi, uscite ed espulsioni sembra continuare a pieno ritmo.
Al fine di contenere l’emergenza sanitaria dovuta al COVID-19, il Marocco ha prorogato lo stato di emergenza sanitaria fino al 10 novembre e adottato varie misure di contenimento, tra le quali la chiusura dei confini. In questo periodo le espulsioni sono avvenute perlopiù ai danni dei tunisini. I ragazzi che abbiamo sentito in questi giorni ci hanno comunicato che ogni mercoledì e ogni domenica un gruppo di tunisini viene prelevato dalle guardie e caricato su di un pullman per essere rimpatriato. Le deportazioni avvengono durante la notte e sono spesso occasione per effettuare perquisizioni nelle stanze. (Tratto da “No CPR Torino”)


Le navi-quarantena, sviluppo di un nuovo dispositivo detentivo
Dall’aprile 2020, nei porti della Sicilia, della Puglia e della Calabria numerose navi di linea, traghetti e navi da crociera, sono rimaste ormeggiate in mare. La Rubattino della Tirennia, la Moby Zaza, la Costa Allegra di Costa Crociere, le navi GNV Azzurra, Rhapsody, Aurelia, Snav Adriatico hanno attraccato in molte località del sud. Sono le cosiddette “navi quarantena”, requisite dallo Stato italiano dietro un lauto pagamento alle compagnie marittime. Difficile al momento capire precisamente a cosa servano e in che modo vengano utilizzate: in generale al loro interno vengono rinchiuse centinaia di persone migranti per effetto della situazione emergenziale legata al Covid19.
Nel capire come si siano evolute e come si siano sviluppate delle navi-carcere sul territorio europeo e precisamente, a come si sia arrivati alla sviluppo di un dispositivo così aberrante in Europa, una modalità contenitiva che chiameremo “detenzione amministrativa off-shore”, è fondamentale operare una ricostruzione che sia relativa alla cronaca specifica da un lato, ma che riesca a comprendere l’evoluzione dell’idea stessa di “prigione galleggiante”; rintracciarne cioè le origini e la famigliarità con altri eventi, diremo banalmente scovarne una genealogia.
All’esplodere della pandemia in Italia, svariati decreti hanno iniziato a legiferare sulla vita di tutti e tutte. Tutto è iniziato con il Decreto Interministeriale n°150 del 7 aprile 2020 che ha disposto che i porti italiani non potessero essere considerati luoghi sicuri, in gergo “place of safety”, per le procedure d’arrivo dei migranti. Solo qualche giorno dopo, il 12 aprile, con il decreto n°1287/20209, il Capo della Protezione civile ha deciso sulla possibilità dell’utilizzo delle navi in funzione contenitiva. Il 19 aprile il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti ha avviato una procedura per il noleggio di unità navali per l’assistenza e la sorveglianza sanitaria. Secondo i decreti il contenimento sarebbe dovuto avvenire esclusivamente per i migranti appena sbarcati. I migranti recuperati in mare e catturati immediatamente dalle forze dell’ordine verrebbero, dunque, inviati sulle navi quarantena, sottoposti a tampone per chiarire la loro positività al virus; un contenimento quindi prettamente sanitario. Successivamente però il dispositivo ha subito un’ulteriore evoluzione. È sulle navi che, ottenuto o meno il responso dal tampone, viene avviato il procedimento d’identificazione che di norma dovrebbe avvenire nelle strutture Hotspot. Di fatto le attività di riconoscimento e l’iter relativo alle richieste d’asilo e all’espulsione, sono stati di fatto trasferiti completamente sulle navi.
Non è la prima volta che ciò accade, già nel 2009, operando un respingimento collettivo, poi giudicato illegale, le autorità italiane avevano identificato sulle navi e successivamente deportato, senza approdare in Italia, centinaia di migranti verso la Libia. Erano tempi tuttavia diversi da quelli attuali e le procedure Hotspot non esistevano ancora. Alla luce di quanto è accaduto e testimoniato dalla cronaca, è lecito dire che le navi quarantena siano di fatto diventate Hotspot galleggianti per migranti appena sbarcati. Non solo però. È accaduto poi qualcos’altro. In piena estate 2020 sono iniziati i trasferimenti di migranti dall’Hotspot di Lampedusa alle navi quarantena. Allo scopo di decongestionare il Centro detentivo dell’isola, su spinta del presidente della regione, del sindaco e della prefettura locale, centinaia di persone, positive o meno al virus, sono state trasportate su un peschereccio-ponte e rinchiuse sulle navi Adriatica e Rhapsody.
La funzione iniziale di navi quarantena viene già superata, al loro interno, benché in parti separate, vengono trasferiti, in barba ad ogni protocollo sanitario, migranti sani, sintomatici e asintomatici. Direttamente dalle “navi quarantena” partono i procedimenti d’identificazione e quindi anche le deportazioni (accade che la nave Rhapsody lascia le acque siciliane e arriva al porto di Bari e dall’aeroporto del capoluogo pugliese parte un volo charter per la Tunisia). La funzione Hotspot, anche per i migranti già presenti sul territorio italiano da tempo, viene de facto trasferita sulle navi. È nato l’Hotspot galleggiante. Le modalità con cui si viene rinchiusi su una nave quarantena, però, si evolvono ancora. Nei primi giorni di ottobre dal Cas “Ninfa Marina” di Amantea in Calabria e da alcuni Cas in provincia di Roma (emblematico il racconto di un ragazzo del Centro Porrino all’Infernetto) alcuni migranti risultati positivi al Covid sono stati deportati con i mezzi della Croce Rossa e scortati dalle forze dell’ordine verso le navi quarantena in Puglia e Sicilia. Per giorni è stato messo in atto un vero e proprio schema di deportazione sul territorio nazionale che ha previsto il contenimento sulle navi di richiedenti asilo positivi al Covid presenti nelle strutture della Seconda Accoglienza.
In netta contraddizione con qualsiasi logica sanitaria, al di là di qualsiasi legittimità giuridica, le forze dell’ordine, aiutati dalla Croce Rossa, hanno sequestrato persone migranti in giro per l’Italia e le hanno rinchiuse su delle navi. Tale procedura, forse per il momento ancora un po’ troppo anche per la democrazia italiana, si è interrotta per l’intervento indignato delle organizzazioni del di parte del mondo delle associazioni. Da nave quarantena a nave contenitiva per migranti il passo è stato breve, un Hotspot galleggiante e una struttura off-shore per il contenimento di richiedenti asilo positivi al Covid. Un’evoluzione rapidissima e agghiacciante. A cosa stiamo andando incontro?
Detenzione amministrativa off-shore. La storia del trattenimento di persone sulle navi è di lunga data. Già nel 2015, a seguito di una delle più gravi tragedie che la storia dell’emigrazione abbia affrontato, più di 800 morti nel Canale di Sicilia, alcuni leader politici iniziarono a parlare di strutture in mare, piattaforme petrolifere in disuso oppure navi che alla bisogna avrebbero avuto il ruolo di contenimento e identificazione dei migranti. Gli Hotspot galleggianti, nelle parole dei Salvini, Renzi o dell’ex ministro Alfano, benché sin dal 2010 Fincantieri avesse dei progetti pronti per la detenzione off-shore, rimasero solo parole di semplice propaganda politica. Ma avvenne però qualcosa in più negli anni successivi. Nel 2017 la propaganda contro le navi delle Ong raggiunse livelli parossistici, la teoria del pull-factor, già utilizzata per l’operazione Mare Nostrum, e le inchieste che presumevano il contatto con i trafficanti, vennero perentoriamente tirate fuori. Le prime navi, su ordine del Ministero dell’Interni, iniziarono ad essere bloccate in mare aperto, in piena contraddizione con le regole del diritto ordinario italiano e internazionale. I migranti bloccati e impediti in mare si trovavano di fatto in una condizione giuridica prima non esistente, un limbo su cui la legge italiana non aveva mai normato ( proprio per questo l’ex ministro Salvini è sotto inchiesta per sequestro di persona). È per dovere di cronaca che raccontiamo ciò e non per indignazione sull’assenza dello Stato. La Sea watch, la Gregoretti, la Diciotti e le altre navi bloccate al largo delle coste siciliane in quel momento sono diventate di fatto esempi di detenzione amministrativa off-shore, illegale certo, ma funzionale alle necessità di polizia. Cosa era accaduto? Quello stesso dispositivo apparso a Ellis Island, Messina, nel Golfo di Aden, nelle acque olandesi è riemerso al sud di Lampedusa e, assumendo una nuova forma, ha rappresentato un precedente abbastanza importante per ciò che sarebbe accaduto nell’estate 2020. Se attualmente esistono navi carcere per migranti in Italia, Grecia e Malta è perché queste modalità sono state precedentemente sperimentate nella pratica e forzando il diritto. Tra qualche anno, o forse solo qualche mese, le sperimentazioni contenitive sulle navi quarantena, alla luce di quanto detto, diventeranno legge e le galere per migranti o per detenute saranno la normalità.

novembre 2020, sintesi tratta da noblogs.org/macerie


USA: UNO SCIOPERO ALL’INTERNO DELLE CARCERI
Il Free Alabama Movement (FAM), guidato principalmente da uomini di colore incarcerati nello stato dell'Alabama, ha dichiarato un blackout economico di 30 giorni - un boicottaggio dei servizi carcerari ed uno sciopero del lavoro - per protestare contro le condizioni disumane nelle prigioni di tutta l'Alabama. Lo sciopero nelle carceri è stato indetto dall’ 1 al 31 Gennaio 2021 e si concentra sull'inazione del Dipartimento di Correzione dell'Alabama (ADOC) nell'affrontare l’emergenza COVID19 in tutto lo stato, così come i tentativi dell'ADOC di istituire videochiamate in tutte le sue prigioni per vietare così le visite di persona tra i detenuti e i loro familiari e amici.
Durante il “blackout economico carcerario” di Gennaio, il FAM chiede il boicottaggio totale delle seguenti società, sia nell’acquisto dei prodotti che lo sciopero lavorativo all’interno delle prigioni: JPay, Union Supply Company, Access Corrections, Securus Technologies e Alabama Correctional Industries. Queste cinque società sono direttamente responsabili del peggioramento delle condizioni – lavorative e fisiche – dei detenuti in Alabama. Il blackout risponde anche alla totale negligenza dell'ADOC nel gestire i casi COVID. Recentemente si è verificato un picco di casi positivi presso il penitenziario di Bibb a Brent (Ala) oltre ad effettuare nuovi test sui detenuti senza fornire loro alcuna spiegazione e con molte accuse di manomissione e distorsione dei risultati dei test.
Con poche eccezioni, le autorità dell'Alabama restano ferme nel rifiutare la scarcerazione di chiunque a causa del crescente numero di casi all'interno delle prigioni ADOC, anche se la contea di Etowah rilascerà alcuni lavoratori detenuti nelle prossime settimane.
In un comunicato stampa video del FAM del 16 novembre, il co-fondatore Kinetik Justice Amun ha spiegato il motivo del blackout.
Nel gennaio del 2014, come Free Alabama Movement, abbiamo pubblicato oltre 60 video che mostravano le orribili condizioni in cui versavano i detenuti all'interno del Dipartimento di Correzione dell'Alabama. Abbiamo rilasciato diverse interviste che raccontavano le storie dei detenuti per mostrare come la supremazia bianca influisce sul sistema penale in tutto lo Stato: la maggior parte della popolazione carceraria dello Stato è composta da giovani neri accusati secondo dubbi processi di imparzialità e condannati in modo sproporzionato rispetto al reato.
Dopo la denuncia del FAM è partita un’indagine del Dipartimento di Giustizia su tutte le prigioni maschili dell'Alabama con l’aspettativa da parte nostra di avere almeno nomi e cognomi dei responsabili di ciò che stava accadendo all’interno, che qualcuno dovesse pagare per le violazioni [dei diritti di] tutti i prigionieri dello stato dell'Alabama ed, in particolare, per le violazioni dell'Ottavo Emendamento [ad avere "nessuna punizione crudele e insolita inflitta"].
Ma non ci sono state conseguenze né responsabilità alcuna. Pertanto, noi del FAM, abbiamo deciso che non accetteremo più di essere disumanizzati e non accetteremo più di essere vittime della supremazia bianca e del suo sistema repressivo e dunque chiamiamo ad un blackout economico di 30 giorni in tutte le carceri dell'Alabama.
Chiediamo che tutti i fratelli [che] sono incarcerati nello stato dell'Alabama non vadano a lavorare dall’1 al 31 Gennaio 2021. Chiediamo a tutti i membri delle loro famiglie e ai loro cari di sostenerli nel boicottaggio di Securus (compagnia di servizi telefonici utilizzata all’interno delle carceri per la videochiamata dei colloqui) perché una volta che Securus stabilisce il loro colloquio via web, verrà sostituito in modo definitivo alle visite di persona. Chiamiamo anche al boicottaggio di tutto ciò che viene venduto ai detenuti all’interno del carcere poichè continuano a sfruttare i membri delle famiglia e i loro cari con prezzi esorbitanti delle cose che vendono ai detenuti.
Chiediamo di unirvi a noi e di sostenerci durante tutto il mese di Gennaio per il blackout economico di 30 giorni dell'intero Dipartimento di Correzione dell'Alabama.
Sostenere la resistenza nelle prigioni! Sostenere lo sciopero del lavoro all’interno del Dipartimento di Correzione dell'Alabama.
Il sistema carcerario razzista e fascista sfrutta, annienta e uccide, per questo deve essere abolito, e questi compagni dietro le mura sono in prima linea nel farlo.

dicembre 2020, da freealabamamovement.wordpress.com


lettera Dal Carcere di massima sicurezza di Santiago del Cile
L'ultimo anno di proteste in Cile ha portato a numerosi arresti e detenzioni politiche in condizioni davvero critiche e nella più totale dittatura poliziesca. In un comunicato del 18 ottobre 2020 dei prigionieri e prigioniere della guerra sociale per la distruzione della società carceraria si legge: “La rivolta cominciata il 18 ottobre 2019 è stata, tra le altre cose, la cristallizzazione delle lotte multiformi e antiautoritarie che si sono succedute in questo territorio nelle ultime decadi, in parte, una prova innegabile della continuità di un cammino antagonista e sovversivo”. Migliaia di persone il 18 ottobre 2020 sono scese in strada, dopo un anno di paralisi delle misure sanitarie imposte dal governo di Piñera, per “commemorare” il primo anniversario delle proteste popolari che hanno scosso la regione cilena nell’ottobre scorso. Di seguito pubblichiamo un comunicato di inizio di uno sciopero della fame dei detenuti del carcere di Santiago arrivato via email al collettivo “Punto di Rottura” di Milano.

Dalla prigione di alta sicurezza di Santiago del Cile comunichiamo l'inizio di uno sciopero della fame liquido e indefinito per la restituzione delle visite in un irrinunciabile contesto di dignità. Stiamo arrivando per i 9 mesi senza poter vedere né abbracciare i nostri affetti e amori, risultato delle restrizioni imposte dall'autorità sotto l'eufemismo di essere ′′popolazione a rischio′′ nel contesto della pandemia, eppure durante tutto questo tempo abbiamo visto andare e venire da gendarmi verso le loro case mantenendo ininterrottamente un trattamento diretto con noi senza alcuna misura di protezione reale tranne le maschere. Arrivando al punto in cui nel periodo maggio-giugno tutta la popolazione penale del cas è stata contagiata da covid dai gendarmi che hanno mantenuto assolutamente silenzio questa situazione.
Il sistema sanitario di questo luogo rimane altamente deficitario. Nessun controllo reale o speciale ci è stato consegnato durante tutto questo periodo di pandemia. Durante tutto questo tempo siamo stati destinatari delle politiche di punizione e isolamento da parte dello Stato e delle sue leggi silenziose sul controllo sociale. Non dimentichiamo la modifica del decreto legge 321 sulle libertà condizionali applicata in violazione del diritto penale internazionale lasciando molte persone prede con la complicità del parlamento cileno marcio. Sappiamo che in tutte le prigioni del paese ci sono stati massicci riflettori di covid e sono state più le morti per combattimenti, risultato dello stress carcerario che per la pandemia con la quale dobbiamo imparare a convivere perché è arrivato per rimanere. Nulla giustifica il prolungamento dell'isolamento tranne la decisione politica di un governo inetto e repressivo che sottopone le persone più umili ad un sistema di oppressione e miseria. Ci stanchiamo di vedere come la marcia classe politica dimentica le persone prede e le loro famiglie. Non possiamo continuare ad aspettare le vostre proposte disumane di visite mentre le spiagge, i luoghi di divertimento, le città funzionano tutte in questa nuova normalità. Ecco perché assumiamo questa mobilitazione di sciopero della fame liquida e indefinita e con questo facciamo un appello a tutte le organizzazioni e alle persone che solidale con i quali viviamo anni della nostra vita dietro le sbarre ad accompagnarci in questa giusta lotta per tornare ad abbracciarci degnamente con le nostre famiglie, amori e affetti. Per visite degne!! L'isolamento è tortura!!

Prigionieri in sciopero della fame
Prigione ad alta sicurezza, Santiago Cile, Lunedì 30 novembre 2020


A NOVE MESI DALLA STRAGE DI STATO NELLE CARCERI
Ci troviamo ora nel pieno della cosiddetta seconda ondata della pandemia. Mentre il governo si destreggia in decreti “salva Natale” i contagiati e le morti continuano ad aumentare e, così come per la sanità e la scuola, anche per le prigioni non viene messo nulla in campo che possa evitare il dilagare del virus. I numeri che circolano, infatti, sono catastrofici: si parla di più di 2.000 contagiati all’interno dei penitenziari e, in un quadro più generale, il dato preoccupante è che se la percentuale degli infetti sul territorio italiano si aggira intorno all’1,27 % dentro le strutture è del 2,27%.
È evidente come le carceri continuino a essere dei veri serbatoi di morte. Inoltre, oggi come la primavera scorsa, non vengono neanche presi provvedimenti sanitari adeguati all'interno delle mura: mancano le mascherine e gli altri dispositivi di protezione individuale, i tamponi vengono fatti a fatica, le cure mediche a cui si accede già solitamente con difficoltà, vengono messe ora ancor più in discussione.
Di queste mancanze oltre che le varie amministrazioni carcerarie sono responsabili anche le Asl competenti per la sfera sanitaria in prigione.
Nella sola Lombardia all’inizio di Novembre si contavano 156 prigionieri positivi mentre per certo sono centinaia i detenuti in attesa di tampone. A fronte di questa situazione, una fumosa soluzione è stata, presso il carcere di Bollate, la conversione di una parte della struttura in reparto Covid denominato “hubcovid”: spazio dove ospitare tutti i reclusi positivi delle carceri lombarde, strutturato su tre piani detentivi con 198 posti letto, un solo medico e tre infermieri. Insomma, un luogo promiscuo ricavato dal settimo settore della casa circondariale, in quanto unico ad avere una porta con apertura elettromagnetica all’ingresso e differenziandosi dagli altri reparti dalla presenza di un paio di locali in più adibiti a infermeria da rendere “autonoma” nella dispensazione delle terapie.
Nel carcere di Busto Arsizio sono sei su sette le sezioni nelle quali si contano i detenuti contagiati, molti dei quali sono anziani e con patologie pregresse. Nell’ultima settimana sono morti tre reclusi, uno dei quali era risultato positivo al Covid mentre l’altro, a detta dei giornali, pare si sia suicidato.
Testimonianze arrivano da diverse carceri. A san Vittore, la situazione continua a essere ingestibile, il 21 novembre l’ennesimo detenuto muore a causa Covid: “qui siamo in una situazione invivibile, siamo come in una discarica, dove vengono portati tutti gli infetti, siamo in otto dentro una cella da tre, la gente muore, la gente ha paura, non abbiamo colloqui e riusciamo a vedere i nostri cari 10 minuti tramite skype”. Un’altra testimonianza arriva dal carcere di Opera su come diventi, giorno dopo giorno, un focolaio: parla di 36 contagiati solamente nelle sezioni As, 31 in As3, 5 in As1 e 6 nel regime di 41 bis e che racconta di un ulteriore peggioramento della gestione sanitaria interna alla struttura e della sospensione delle chiamate skype per i detenuti in stato di quarantena.
Nel carcere di Vigevano la situazione Covid è piuttosto grave nella sezione femminile. Il 4 dicembre una detenuta pare abbia incendiato il materasso per protesta e i giornali dicono che ha aggredito ben sette guardie. Ora stanno tutte a regime chiuso, ogni attività è stata sospesa.
Queste sono solamente alcune delle carceri in cui la voce dei detenuti si è fatta sentire. I detenuti, stremati dalla repressione visibile già da questa primavera, non rinunciano comunque a mettere in campo azioni di protesta: battiture, rifiuto di rientrare dai passeggi, rifiuto del carrello, scioperi della fame sono gli strumenti con cui cercano di farsi sentire perché sanno che per lo Stato e le amministrazioni carcerarie sono carne da macello. Nelle ultime settimane sono ripartite proteste dai toni più o meno accesi in molti penitenziari del paese: a Roma, Salerno, Poggio Reale, Secondigliano, Ariano Irpino, Torino, Trento e Novara forte è stato l’eco delle battiture. A Santa Maria Capua Vetere venerdì 13 novembre tre prigionieri sono saliti sul tetto del carcere e a Larino, Viterbo, Busto Arsizio, San Vittore sono partiti scioperi della fame.
Le disposizioni prese dal Dap e dal ministro della Giustizia sono la fotocopia di quelle di marzo: blocco dei colloqui per chi è detenuto nelle zone rosse e ridicole aperture per diminuire il sovraffollamento. Mentre le guardie, principali veicoli del contagio, entrano ed escono dai penitenziari e i magistrati di sorveglianza continuano a negare la libertà ai molti che fanno richiesta dimostrando come non voglia essere superato il problema della sicurezza nonostante il rischio di stragi nelle prigioni.
Al di fuori di quelle infami mura non sono mancate le voci dei familiari e solidali che vista la chiusura dei colloqui hanno iniziato a portare la loro costante presenza e le loro richieste di avere notizie dei propri cari; in diverse occasioni le proteste sono poi sfociate in presidi con una numerosa partecipazione.

***
Durante le rivolte di marzo nelle carceri, lo Stato italiano ha compiuto una strage: 14 detenuti vengono ritrovati morti nelle patrie galere. Tredici di loro dentro i corridoi dei penitenziari di Modena, Alessandria, Verona, Ascoli, Parma, Bologna, Rieti; uno di loro morirà successivamente dopo il ricovero nell’ospedale di Rieti. Non una parola pronunciata dallo Stato su queste morti nel corso dei mesi, nemmeno alle famiglie, avvisate – e forse ad oggi nemmeno tutte – a distanza di tempo dagli avvocati che seguivano le vicende legali dei propri cari detenuti. Se questi morti ad oggi hanno un nome è per opera di chi individualmente si è attivato per ricercarli e renderli noti.
Quello che si è visto fino a qui non è che un copione degno delle peggiori dittature: insabbiare l’accaduto, costruire una verità ufficiale rimescolando qualche carta, trovare qualcuno da incolpare (i morti stessi, detenuti e tossici, oppure la regia esterna dei mafiosi, o degli anarchici), far sparire i testimoni o terrorizzarli a morte. Un copione che si è già spesso ripetuto nella storia della democratica Italia: dalle stragi di Stato note, seppur mai ufficialmente riconosciute come tali, alle morti in carcere o nei CPR, da quella di Cucchi sino a quella di Vakhtang Enukidze ucciso dalla Polizia a gennaio di quest’anno nel CPR di Gradisca d’Isonzo.
Sappiamo bene che le inchieste ufficiali condotte dalle Procure di Stato non diranno MAI la verità su queste morti, già in parte liquidate infatti con ipotesi di suicidio imputato, per tutti e 13, a un’overdose di farmaci. Ne siamo convinte, non solo perché non abbiamo fiducia nello Stato e perché ci è nemica la sua concezione di giustizia. Ma perché di fronte a quanto accaduto sarebbe troppo ingenuo, addirittura contraddittorio, pensare possibile che uno Stato possa arrivare a condannare se stesso con l’accusa di strage nei confronti dei detenuti, la più grande dal dopoguerra.
Le torture a suon di pestaggi e umiliazioni e le minacce inferte nei confronti di chi ha assistito a quel massacro e ne è sopravvissuto sono un monito chiaro, soprattutto nei confronti di chi è ancora detenuto e si trova quindi tra le mani dei suoi aguzzini. Le inchieste delle procure e i provvedimenti disciplinari volti a punire i rivoltosi di tutte le carceri per quelle giornate, di quelle torture, non fanno che riprodurne la violenza, contribuendo perfino a legittimarle. Per ora le inchieste note sono quelle di Bologna, Modena, Milano Opera, Milano San Vittore e Roma Rebibbia, con accuse a vario titolo di devastazione e saccheggio, sequestro, incendio, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale. A queste ritorsioni punitive si aggiunge poi l’espressa esclusione dai benefici delle pene alternative legate all’emergenza Covid in modo specifico per coloro, tra gli altri, che hanno preso parte alle rivolte di marzo. Il messaggio è chiaro: per Bonafede e i suoi alleati, chi non tiene la testa bassa in galera ci può morire.
Non esprimere aperta solidarietà verso chi si è rivoltato e verso chi continua a farlo, significherebbe legittimare il massacro avvenuto durante e dopo le rivolte di marzo e riconoscere allo Stato la licenza di uccidere o lasciar morire chi si trova carcerato, quando ciò gli serve a difendere le proprie prigioni.
A nove mesi da quel 7 marzo, le carceri continuano a rimanere sovraffollate e nella metà degli istituti italiani si registrano veri e propri focolai del virus, la situazione sanitaria continua a essere drammatica e nel “decreto Ristori” di ottobre Bonafede replica le stesse misure farsa del “Cura Italia” di marzo: di nuovo, se già il numero delle persone detenute che potrebbero beneficiare di pene alternative è ristretto, nei fatti sono ancor di meno quelle che escono. Riprendono le proteste in diverse carceri, in particolare nelle forme delle battiture e dello sciopero della fame.
Abbiamo sempre sostenuto convintamente che se anche 14 persone fossero morte per overdose, la responsabilità sarebbe comunque stata chiara: quella di uno Stato che ti abitua, in carcere, all’assunzione di una pillola quotidiana, che ti infligge quotidianamente la sua dose di disagio psichico e sofferenza e che ti rende, là dentro, tossicodipendente. Proprio come accadeva nel carcere di Modena dove peraltro, proprio nei giorni prima della rivolta e in coincidenza con il DPCM che disponeva la chiusura a doppia mandata delle carceri e dei colloqui con i familiari, era circolata la notizia dei primi detenuti positivi dentro al carcere, uno dei più sovraffollati d’Italia.
Nonostante il terrore inferto dallo Stato per mettere tutti a tacere, alcuni prigionieri, con un atto estremo di coraggio, hanno deciso di rompere il muro di silenzio fatto calare su queste morti. Alle loro voci, che raccontano la verità su quanto accaduto l’8 marzo 2020 al Sant’ Anna, è stato dato pubblicamente spazio in piazza a Modena per la prima volta il 3 ottobre e poi il 7 novembre.
“Quando è arrivato il corona c’era un uomo malato e non volevano farlo uscire e hanno vietato di farci vedere i famigliari. Dopo ciò è successa una rivoluzione e hanno bruciato il carcere e sono entrate le forze speciali e hanno iniziato a sparare. Sono morte 12 persone di cui 2 miei amici, sono morti davanti ai miei occhi. Sono ancora sotto shock. Io ero scappato fino al tetto del carcere così che non mi sparassero. Dopo ci hanno presi tutti e ci hanno messo in una camera e ci hanno tolto tutti i vestiti e hanno iniziato a picchiarci dandoci schiaffi e calci. Dopo ci hanno ridato i vestiti e ci hanno messo in fila e ci hanno picchiato ancora con il manganello. In quel momento ho capito che ci stavano per portare in un altro carcere. Da quante botte abbiamo preso che mi hanno mandato in un altro carcere senza scarpe. Poi quando siamo arrivati al carcere ci hanno picchiati ancora. Alla fine ho finito di scontare la mia pena. Io sono molto scioccato per i miei amici. Non sono riuscito a fare denuncia contro i carabinieri perché loro sono troppo forti.” [La lettera da cui sono tratte queste parole è stata pubblicata anche sul precedente numero dell'opuscolo di Olga].
Altri occhi, altre voci hanno meglio precisato di chi fossero le braccia che hanno puntato le armi contro i detenuti, sparando e uccidendoli: della polizia penitenziaria e delle centinaia di carabinieri in antisommossa, accorsi al Sant’Anna per sedare la rivolta.
I media ufficiali, complici del silenzio venutosi a creare intorno a questa vicenda e della creazione di una verità costruita ad hoc per non far trapelare i fatti, mai hanno fatto menzione di questi non trascurabili dettagli nei giorni successivi alle rivolte. Eppure gli spari, anche dai video circolati, si sono sentiti in modo chiaro e distinto [ModenaToday “I primi momenti della rivolta nel carcere di Sant'Anna”, 8 marzo 2020].
Solo dopo diversi mesi, due giornaliste hanno pubblicato testimonianze anonime giunte da prigionieri testimoni del massacro modenese che parlavano di detenuti uccisi e non morti di overdose. La Procura ha aperto un fascicolo per “omicidio colposo”, chiamando le due giornaliste a testimoniare. È enorme la responsabilità che i media hanno avuto nella distorsione della verità di quanto accaduto in quei giorni. Quella che da tv e giornali è stata raccontata come una follia barbara scatenatasi nel penitenziario di Modena (e anche nelle altre carceri d’Italia dove ci sono state proteste e rivolte), ha in realtà origini ben precise. Chi era in quelle celle prima e durante la rivolta lo sa bene. I primi casi di detenuti positivi dentro al Sant’Anna, infatti, non sono stati nient’altro che la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Probabilmente, senza questo barbaro regolamento di conti messo in atto da polizia penitenziaria e carabinieri in antisommossa, queste persone non sarebbero morte. Arrivato il momento della “resa”, decine di detenuti sono stati ammassati tra le due porte carraie del carcere, sono stati picchiati a sangue, lasciati in maglietta e senza scarpe. In queste condizioni sono stati caricati sui furgoni e trasferiti a decine verso altre carceri. Al loro arrivo nelle nuove destinazioni l’accoglienza è stata la medesima: squadre di penitenziaria con casco, scudo e manganello. In alcune “nuove destinazioni” questo trattamento brutale e vendicativo è proseguito per giorni dopo l’arrivo. In particolare c’è chi racconta di un carcere dove i nuovi giunti da Modena hanno preso botte e sono stati lasciati senza scarpe per oltre 10 giorni, denunciando poi il tutto a un ben istituzionalizzato garante dei diritti dei detenuti. Costui, pur avendo visto con i suoi occhi le condizioni dei detenuti trasferiti, non ha detto nulla. Evidentemente questo è il suo ruolo.
Salvatore Piscitelli è forse il nome che più è stato menzionato dai giornali negli scorsi mesi tra quelli dei detenuti uccisi durante e in seguito alla rivolta di Modena. Il suo corpo è stato cremato e le fonti ufficiali, poi riprese anche dal garante stesso, parlano di decesso avvenuto prima del suo ingresso nel carcere di Ascoli; altre sostengono che la morte sia avvenuta in ospedale, al cui ingresso Salvatore non avrebbe presentato lesioni compatibili con violenze o segni di intossicazioni. Ma chi era con lui racconta che, all’arrivo ad Ascoli, Salvatore stava talmente male che gli altri detenuti hanno dovuto fargli il letto mentre era accasciato a terra. La mattina dopo, i detenuti hanno sollecitato le guardie dalle 8.30 alle 10 per fare arrivare il medico che non è mai arrivato. Alle 10.30 i detenuti che erano con Salvatore hanno chiamato nuovamente le guardie, dicendo che era morto. Constatata la morte, gli agenti hanno spostato il suo compagno in un’altra cella, hanno messo il corpo di Salvatore in un lenzuolo e lo hanno portato via.
Come si può credere che questi dettagli siano frutto di fantasia? Come si può non attribuire una responsabilità alle botte volutamente assestate dalle guardie su corpi inermi o alla voluta noncuranza nell’assistenza di coloro che mostravano già enorme sofferenza data dai pestaggi e dalle sostanze ingerite? Come si può liquidare tutto con “morti per overdose” anche laddove le autopsie hanno confermato questa versione?
Per le inchieste delle Procure non hanno valore le testimonianze che raccontano verità in netto contrasto con quelle ufficiali, proprio in quanto anonime e forse anche proprio perché smentiscono del tutto le versioni emerse finora; ma per tutte/i noi ce l’hanno eccome. Comprendiamo bene le ragioni tutelanti di quegli anonimati e sappiamo a chi credere, sappiamo da quale parte stare. Spetta a noi dare eco a queste voci e supportare in ogni modo chiunque troverà il coraggio di farlo, pur nella consapevolezza che ciò che è a repentaglio è la sua propria vita.
Nonostante sia stato il luogo di un massacro, una parte del carcere di Modena è ancora aperta e al suo interno sono ad oggi rinchiuse in regime a celle chiuse circa 200 persone nella sezione maschile, alcune delle quali da marzo stesso. Si hanno notizie di nuovi contagi al suo interno, ma ciononostante le risorse investite dal DAP sono state destinate alla ristrutturazione delle sezioni rese inagibili dalle rivolte, ai sistemi di videosorveglianza e alle nuove ingenti dotazioni di manganelli, scudi, caschi, giubbotti antiproiettile. Negli ultimi mesi, decine di solidali sono tornate in diverse occasioni sotto quelle mura, per portare ai detenuti solidarietà, vicinanza e condividere con loro quanto avvenuto nei giorni di marzo all’interno del penitenziario di Modena e di altre città.

***
Antimafia, DAP e Governo: una sola cosa
A inizio maggio 2020, il ministro della giustizia Bonafede sceglie come nuovo capo del DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), Dino Petralia affiancato nel ruolo di vice-capo dall'ex Pm Roberto Tartaglia. È la prima volta nella storia del DAP che la scelta di un vertice cade su due figure già in stretto rapporto tra loro nell'ambito dell'Antimafia. Il pretesto è una circolare dell'ex capo del DAP, il dimissionario Basentini, che prevedeva che i magistrati di sorveglianza potessero ordinare i domiciliari in luogo del carcere per detenuti gravemente malati e praticamente a fine pena; questo in piena emergenza corona-virus che si andava diffondendo nelle carceri.
La coincidenza di Antimafia e DAP ha l'effetto d'insabbiare e gettare fumo negli occhi (si parlerà di regia dei clan...) sulle responsabilità dello Stato nella repressione delle rivolte di marzo (13 detenuti morti); di inaugurare una fase all'insegna del "pugno di ferro" e del "buttar via la chiave", di cui si fa interprete il governo con un decreto in particolare che, a fine aprile, di fatto annulla e rende estremamente difficili le misure alternative al carcere (condizionate dal parere obbligatorio e in tempi stretti dell'Antimafia); infine produce l'effetto di dare ancora più potere alla polizia penitenziaria con nuove assunzioni, dando a quest'ultima la possibilità di accedere alla carica di dirigente penitenziario, attribuendo pieni poteri e totale autonomia ai GOM nella gestione del 41 bis. Antimafia, DAP e Governo vanno dunque a braccetto, minimizzando i rischi di contagio nelle carceri nonostante il sovraffollamento, con un primo risultato sotto i nostri occhi: il virus dilaga nelle carceri italiane, anche nelle "sicurissime" sezioni del 41 bis (a Tolmezzo la totalità dei detenuti risulta positiva...)

novembre 2020, da materiali prodotti in vista dei presidi del 12 dicembre

***
12 dicembre: in piazza per dire da che parte stiamo. STRAGISTA LO STATO!
Strage di piazza Fontana, a Milano, 17 morti, 88 feriti. Voluta dallo Stato ed eseguita dai fascisti. 12 dicembre 1969. Strage alla stazione di Bologna, 85 morti, 200 feriti. Eseguita dai fascisti con la compiacenza dello Stato. 2 agosto 1980. 669 morti nel Mediterraneo accertati per superare le frontiere blindate e arrivare in Italia nel 2019. 950 morti “ufficiali” sul lavoro nel 2019. Repressione della rivolta al carcere di Modena, 13 morti. Nonostante il tentativo di insabbiamento, emerge la responsabilità diretta di penitenziaria e carabinieri negli omicidi dei prigionieri. Marzo 2020. Oltre 50.000 morti in Italia per Covid-19. Novembre 2020. Strage è la deliberata attuazione di una violenza indiscriminata verso la collettività. LO STATO COMPIE E LEGITTIMA STRAGI OGNI GIORNO
La sua violenza colpisce nel mucchio per produrre paura diffusa nella popolazione.
La violenza rivoluzionaria invece non è mai indiscriminata, essa ha obiettivi chiari e responsabili ben precisi a cui chiedere conto.
Il 24 novembre 2020 Anna e Alfredo, compagni anarchici, sono condannati rispettivamente e 16 anni e 6 mesi e 20 anni anche con l’accusa di strage per un ordigno alla caserma allievi di polizia di Fossano. Il 28 novembre 2020 comincia il processo per Juan, compagno anarchico, accusato di strage per un ordigno alla sede della Lega di Treviso. Le stragi appartengono al potere, non ad anarchici/che, ripudiamo con forza quest’accusa!
Su questi contenuti sono stati organizzati presidi davanti alcune carceri.

***
Negli ultimi mesi sono continuate a ritmo incessante le udienze dei processi che vedono coinvolti molti compagni e molte compagne.

Operazione Panico. Le udienze del processo dell’operazione panico stanno proseguendo dopo che il procuratore generale ha chiesto la conferma della sentenza di primo grado, nelle prossime udienze dopo l’arringa degli avvocati la corte d’appello si ritirerà per decidere in merito al dibattimento, se riaprirlo del tutto o parzialmente o se rinviare direttamente alla sentenza che dovrebbe essere fissata per il 28 Gennaio.
Operazione Ritrovo. Il 3 novembre c’è stata l’udienza di cassazione richiesta dal pubblico ministero Dambruoso contro la scarcerazione delle compagne e dei compagni implicati nell’inchiesta. La cassazione ha dato picche al pm e le compagne e i compagni hanno continuato a essere sottoposti alle misure cautelari non detentive di cui in questi giorni sono finalmente scaduti i termini.
Operazione Bialystock. Sempre il 3 novembre c’è stata l’udienza di cassazione relativa alle misure detentive a cui sono sottoposti i compagni e le compagne coinvolti nell’operazione Bialystok, è stata annullata l’ordinanza emessa dal gip e ora si è in attesa del riesame che avrà l’ultima parola in merito alla questione. Per i compagni e le compagne sottoposti a misure detentive è stato fissata la prima udienza il 14 Dicembre, sono stati rinviati a giudizio immediato.
Nata in solidarietà con questa ennesima operazione repressiva, da Roma in giù, una carovana di compagne e compagni solidali attraversa parte della penisola sostando sotto le carceri di Terni, Roma, Latina, Napoli, Pozzuoli, Secondigliano, inciampando in controlli serrati dei loschi digos che si danno il cambio sulle strade, senza sosta e con caparbia gioia, camper furgoni e bici proseguono imperterriti in picchiata fino alla Sicilia.
Processo del Brennero. Il 16 novembre presso il Tribunale di Bolzano sono state pronunciate le condanne contro 61 compagni e compagne imputati per aver partecipato alla manifestazione contro la costruzione del muro antimigranti al Brennero il 7 maggio 2016. Si tratta del primo troncone del processo, il secondo vedrà la sentenza a Gennaio.
Operazione Prometeo. L’11 e il 18 novembre si sono tenute le due udienze facenti parti della più generica udienza preliminare per l’operazione Prometeo. Nonostante le perizie presentate dalla difesa che constatavano la non micidialità delle buste, durante l’udienza del 18 Novembre Robert, Natascia e Beppe sono stati rinviati a giudizio con tutti i capi d’imputazione originari.
Cogliamo l’occasione di segnalare un errore nella lettera di Natascia dal carcere di Piacenza pubblicata nell’opuscolo del mese scorso: la nota di conclusione in cui si parla dell’estradizione dalla Francia non è ovviamente sua ma di Roberto dal carcere di Rebibbia. Ce ne scusiamo con entrambi e con tutti i lettori.
Operazione Scripta Manent. Il 24 novembre 2020 presso l’aula bunker del carcere Le Vallette di Torino è stata emessa la sentenza d’appello contro 23 anarchici imputati nel processo «Scripta Manent». In attesa di poter pubblicare maggiori informazioni e riflessioni, informiamo che per quanto riguarda la compagna e i compagni condannati anche in primo grado la sentenza è stata la seguente. Anna: 16 anni e 6 mesi (in primo grado: 17 anni); Alfredo : 20 anni (come in primo grado), in continuazione con la sentenza di cassazione a 9 anni, 5 mesi e 10 giorni del processo per l’azione contro Adinolfi; Nicola: 1 anno e 1 mese (in primo grado: 9 anni), in continuazione con la sentenza di cassazione a 8 anni, 8 mesi e 20 giorni del processo per l’azione contro Adinolfi; Alessandro: assolto da ogni accusa (in primo grado: 5 anni); Marco: assolto dall’accusa di «associazione sovversiva con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico» (in primo grado: 5 anni), ma condannato a 1 anno e 9 mesi per «istigazione a delinquere» in relazione a “Croce Nera Anarchica”. La condanna per «associazione sovversiva con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico» è stata confermata per Anna, Alfredo e Nicola. I compagni Nicola , Alessandro e Marco sono stati scarcerati.
A differenza del processo in primo grado, sono state emesse anche altre nove condanne ad altrettanti compagni per «istigazione a delinquere». Condanne inerenti, a vario titolo, la pubblicazione di “Croce Nera Anarchica”, rivista aperiodica e sito internet, e la gestione di alcuni siti internet che erano stati posti sotto accusa nel processo. Queste condanne variano tra i 2 anni e 6 mesi e 1 anno e 6 mesi. Come detto, anche Marco è stato condannato per «istigazione». Oltre ad Alessandro sono stati assolti da ogni imputazione altri nove compagni anarchici, tra cui un compagno in carcere dal 6 settembre 2016 e scarcerato con l’assoluzione in primo grado il 24 aprile 2019, e una compagna in carcere e successivamente agli arresti domiciliari nello stesso periodo, anch’essa scarcerata con l’assoluzione in primo grado. Gli altri compagni erano imputati a piede libero.
Il 28 Novembre è iniziato il processo con rito ordinario contro Juan a Treviso, in videoconferenza e a porte chiuse. Le prossime udienze saranno il 19/12 e il 23/01 (con motivazione di non sovraffollare il tribunale si terranno tutte di sabato mattina) e toccherà all’accusa. L’intento del PM è quello di far passare il reato di strage, facendo leva sul fatto che l’ordigno potesse colpire indiscriminatamente i passanti era stato segnalato con un cartello e del nastro bianco e rosso a delimitarlo, ma qualcuno l’aveva rimosso immaginando uno scherzo e quindi l’accusa non ne tiene conto e chi frequentava la sede che in quel periodo era chiusa; l’unica ad entrarci era una donna che faceva le pulizie e verrà sentita come teste. Su consiglio degli avvocati, Juan rilascerà la sua dichiarazione in fase processuale più avanzata.
Milano, novembre 2020


da una lettera dal 41bis del carcere di Tolmezzo (Ud)
[...] Oggi ho telefonato all’avvocata e dunque già sai che sono positivo al covid19, siamo tutti positivi. È stata la cronaca di un contagio annunciato, avendo io segnalato e denunciato parecchie volte la volontà di diffondere il virus, e così è stato.
Il primo che ha avuto i sintomi li ha riferiti al medico il 7 novembre, ma la risposta è stata che no, non era covid. Ed invece lo era (ma intanto per una settimana hanno permesso che si diffondesse, essendo stato fatto il primo tampone solo il 13 novembre, e dopo insistenze). Ci siamo così contagiati tutti. Io ho avuto forti mal di testa, sbalzi di temperatura, astenia, inappetenza (ora andati) e assoluta mancanza di gusto e olfatto (a tuttora). Siamo stati isolati, non ci danno nessun farmaco e i primi giorni non è passato nemmeno il medico a chiedere come stavamo. Molti hanno ad oggi i sintomi, tosse, dolori muscolari, stanchezza.
Devo trovare alcune delle istanze con cui lamentavo la strafottenza, la mancanza delle mascherine, o il fatto che le portavano (chi la portava) ostentatamente sotto il naso. Hanno anche rigettato il reclamo e abbiamo fatto ricorso per Cassazione. Solo ora che siamo tutti contagiati stanno facendo come chiedevo io, ossia evitare la “battitura” delle inferriate quando siamo in camera, ed evitare le continue-inutili-stupide perquisizioni.
Prima dice che lo facevano in sicurezza, sono stato una Cassandra inascoltata. Comunque sto bene.
Oggi non mi han fatto lo stupido Consiglio di disciplina che mi facevano tutte le settimane (perché uso salutare gli altri detenuti, in cinque in uno spazio di quattro metri quadri). Addirittura i primi mesi il Consiglio lo facevano senza nemmeno le mascherine, degli idioti. Dicevano che ero io esagerato.
Si tratta di pericolosi negazionisti e terrapiattisti: ottusi totalmente, e questi sono i risultati. Ho chiesto di fare la seconda telefonata a causa del covid, ma a questi non interessa nulla, anzi sono dispiaciuti che non siamo in gravi condizioni. Ci hanno dato la terapia: antibiotico, antivirali ed eparina. Saluta tutti, Alessio.

16 novembre 2020
Alessio Attanasio, via Paluzza, 77 - 33028 Tolmezzo (Udine)
Dal carcere di Spini di Gardolo (TN)
I detenuti del carcere di Spini di Gardolo vogliono far sapere all’esterno queste notizie.
Venerdì 13 novembre un detenuto ha dato fuoco alla propria cella e si è dato fuoco. E' stato portato via in ambulanza. Il gesto è motivato dal rifiuto, da parte delle guardie, di dargli gli effetti personali portati dalla moglie.
La posta è bloccata in entrata e in uscita. I pacchi non entrano.
La direzione non da informazioni sui contagi (i detenuti parlavano di 6 o 7 positivi, alcuni parenti invece di oltre una sessantina). I positivi vengono sbattuti nelle celle di isolamento punitivo o trasferiti in altre carceri.
Da settimane i colloqui con i famigliari sono completamente sospesi.
Solo dopo due settimane da quando si è saputo dei primi contagi sono stati fatti i tamponi ai lavoranti, che nel frattempo hanno dovuto continuare a girare per tutte le sezioni.
Per due settimane i medici non si sono visti e solo dopo una settimana di battiture si è ripresentato il personale sanitario.
I detenuti con patologie che necessiterebbero di trattamenti specifici non vengono seguiti in alcun modo, mentre vengono abbondantemente distribuiti psicofarmaci per mantenere deboli e sedati i detenuti.
I magistrati di sorveglianza (responsabili, con i loro rifiuti, di tre suicidi negli anni passati) continuano a non concedere misure alternative a chi ha i requisiti per accedervi.
Giudici e magistrati trattano i detenuti con intrinseco razzismo: a parità di situazione, se sei bianco e hai un cognome italiano hai più probabilità di uscire o accedere a misure alternative.
Venerdì 20 novembre alle 17 in P.za D'Arogno (Trento)
PORTIAMO IN STRADA LA VOCE DEI DETENUTI
Per rompere l'isolamento, voci e immagini dal carcere di Spini di Gardolo.
9 - 24 novembre mobilitazione contro il carcere, per la libertà di tutti i prigionieri, in solidarietà con chi lotta dentro e fuori le galere


Lettera dal carcere di Milano-Opera
Carissimi/e compagni/e, ho letto del convegno posticipato al prossimo 7 e 8 novembre, un mio contributo per i quesiti richiesti, l'ho dato in questi mesi con varie mie testimonianze, che non posso fare altro per confermarlo, confermare che si è governati da uno stato debole con i forti e forte con i deboli. Noi prigionieri siamo l'ultima fascia della società quindi la più debole e in questi mesi oltre a subire restrizioni assurde da parte del DAP, come di solito accade qui in Italia, con una classe politica emotivamente non matura, nei mesi di questa emergenza Covid noi prigionieri come di solito siamo stati testimoni di un cambio di direzione del DAP su allarmismi da parte di qualche gallinaccio mediatico sui provvedimenti iniziali da parte del governo, che avevano un senso sui principi della Costituzione da loro sempre acclamata dove, si davano riconoscimenti a quei pochi diritti che noi prigionieri riusciamo ancora a intravvedere. Poi?
Poi accade che l'imbecille di turno appare in tv e sbraita sugli allarmismi assurdi che uno stato debole si piega puntualmente, rifacendo dei provvedimenti assurdi carichi di odio, di giustizialismo cancellando del tutto ogni nostro diritto più elementare, facendosi forza di quello che hanno ignobilmente scritto su carta. Una teoria fantasiosa che non si rispecchia mai nella pratica; per esempio: in questi luoghi la sanità non esiste; certo c'è un medico di presidio qui a Opera e le infermiere che dividono terapie, tutto qui! L'unico mezzo per la prevenzione è la mascherina, non c'è altro.
Il centro clinico è una struttura in uso per la quarantena, al massimo per accompagnare i più gravi a una morte assistita, evitando di farli morire da soli in una stanza in sezione e mostrarli così al mattino quando fanno la conta senza vita. Qui ad Opera c'è il centro clinico, non tutti gli istituti ce l'hanno, quindi si può immaginare cosa accade negli altri istituti. Qui in Italia oramai non ci si indegna più; se il presidente della Repubblica è la figura che trasmette ambiguità, cosa ci si può aspettare dai politici? Il presidente Mattarella inizialmente firma un decreto del governo che riconosce i nostri diritti costituzionali, dopo, i soliti allarmismi il governo gli fa firmare un secondo decreto che dice tutto l'opposto del primo e lui lo firma. È possibile che lui, che è il garante della Costituzione avvalli con la sua firma due decreti opposti tra loro e che entrambi rispecchiano la Costituzione di cui lui è garante?
Ecco se questo è il presidente che si ritrova l’Italia ci si può facilmente immaginare l’arbitrio delle decisioni scellerate da parte degli amministratori degli enti di questo stato. Se Basentini fino al 1° maggio ha fatto male, per quello che erano le aspettative per certi media giustizialisti e certi governanti tipo Renzi che in senato si vanta che sotto la sua presidenza ha fatto morire persone nelle galere, Petralia e Tartaglia cosa possono decidere diversamente da Basentini? È scontata la risposta, restrizioni è l’unico diritto per chi è prigioniero, ed è quello che ha più salute ne uscirà alla fine della epidemia chi non ce la fa ci lascia le penne qui dentro. Del resto la metà di quei prigionieri che inizialmente erano ritornati a casa con il primo provvedimento, con il secondo sono ritornati qui dentro per morire e sono morti.
Ci sono state proteste inizialmente nei regimi comuni, proteste represse con forza. Con l’aiuto dei media che allarmavano la società indottrinandoli che dietro quelle proteste c’eravamo noi della criminalità organizzata. Molti feriti alla fine detenuti “cornuti e mazziati”! Bonafede è il primo indegno che ha permesso tutto questo per i politici è facile coprire tutte le loro nefandezze. Oramai con un popolo emotivamente acerbo basta che usano i loro media che raccontano la loro favola sulla criminalità organizzata. E tutto ritorna alla normalità. Poco importa se a S. Maria Capua Vetere hanno rotto le ossa a tanti prigionieri, così a S. Vittore, a Opera, a Bologna e le minacce a Voghera e tante altre carceri, sono perché noi prigionieri chiedevamo spiegazioni sulle decisioni assurde che quotidianamente il DAP prendeva.
Le proteste sono finite semplicemente perché non c’è ragione che vince contro la forza. Le direzioni degli istituti sono succubi alle decisioni del DAP e anche se sono assurde le condividono perché alla fine sono sempre una sola cosa, chi di questi tempi si schiera dalla parte dei carcerati? Tra l’altro anche noi qui dentro siamo condizionati di fare una lotta organizzata perché siamo subito strumentalizzati. “Le mafie organizzate si ribellano allo stato!”. No questo è uno stato di merda e noi non siamo più i cuscinetti di una volta. Questo non vuole dire che si rinuncia alla lotta. Mai!
Lo si fa in modo che non si è strumentalizzati e spesso non basta, vedi la rivolta di Foggia e quella di S. Maria. Tutti prigionieri dell’estero, pochissimi italiani. I media non hanno fatto altro che bombardare il popolo che dietro a quelle proteste c’erano le mafie organizzate. Hanno un milione di volte più potere delle nostre voci dei nostri diritti.
Ad oggi viviamo i nostri familiari sempre con videochiamate Skype e telefonate in più chi necessita di fare colloqui è concesso un’ora per due volte al mese. Guanti e mascherina separati dal plexiglass e non puoi portare una bottiglia di acqua all’unico familiare maggiorenne che è permesso salutare.
Se si esce dall’istituto per un permesso di necessità, un accertamento ospedaliero si è costretti alla quarantena prima di ritornare in sezione. Chi è permessante o semilibero sono costretti a rimanere costantemente in quarantena.
Le proteste? Sono terminare per sfinimento da questo stato.
Noi as1 siamo isolati da tutti, i poliziotti fanno il loro lavoro di aprire e chiudere le carceri e questo è il loro, invece GOM o non GOM, la direzione se ne lava le mani. Decide il DAP. Tutto con educazione rispetto ma la sostanza non cambia è la stessa dei comuni, as3 e 41 bis, spero cari compagne/i che con questa mia testimonianza abbia portato un contributo al vostro convegno. Vi abbraccio tutte/i.

***
Carissimi, di questi periodi purtroppo non mancano le brutte notizie; dopo averci isolati per 9 mesi alla fine, hanno fatto entrare il virus anche qui dentro, e stiamo davvero messi male. Sono sul primo piano dove mi trovo io. Un reparto a T con due sezioni AS1 e una AS3 in funzione infermeria, su una capienza in totale di 90 persone 25, 25 e 40 hanno riscontrato 36 contagiati: 31 all’as3, 2 as1 e 3 sulla sezione dove mi trovo io.
Noi as1 già eravamo isolati fra gli isolati, ora ci hanno messo anche tutti in quarantena; come da logica ci hanno tolto le Skype in quanto si effettuano ai colloqui e noi dalla sezione non ci fanno uscire se non per andare al passeggio ma continuiamo a fare le videochiamate e le telefonate.
Tutti i contagiati sono stati trasferiti a S. Vittore in quanto è li che hanno aperto un reparto covid. La cosa che stona moltissimo è che hanno fatto contagiare anche quelli del 41 bis, pazzesco! E ne sono contagiati 6. Ma come cavolo hanno fatto? Questi sono degli incoscienti, degli incapaci; te lo scrissi una volta, che questi non sanno realmente come comportarsi, il DAP continua a inviare circolari pazzoidi e questi vanno in confusione, non riescono a darci una spiegazione, sono come dei “pesci pescati con la botta”. In un certo modo ti fanno anche pena. L’istinto è di spaccargli le corna ma poi li vedi così spaesati che ti limiti a mandarli a quel paese; sono un paio di sere che sento sbattere a quelli della media sicurezza ma non ho capito anche se è per protestare contri gli ultimi provvedimenti o perché ci sono cose sul piano che non vanno. È difficile da qui capirli subito perché li c’è un casino di persone, una vera torre di babele e spesso battono solo perché hanno in antipatia qualche secondino. In ogni caso non c’è una ribellione seria.
Intanto qui si cerca di sopravvivere evitando questi virus. I pensieri sono molti con cui confrontarsi e tra l’altro a livello sanitario qui non è cambiato nulla. Anzi in un certo modo è peggiorato. Ora riesci a vedere l’infermiere sul piano solo perché ha dovuto dare la terapia a chi necessita, se non c’era questo impegno nemmeno l’infermeria ci sarebbe stata sul piano. Tutti quelli che sono stati negativi al primo tampone, come me, dobbiamo rifarlo tra domani e dopodomani sperando che tra quelli rimasti non uscirà un altro positivo. Così termineremo questa quarantena in modo di potere effettuare le skype, ritirare i pacchi postali e uscire di sezione.

***
Presidio e saluti sotto il carcere di San Vittore
Sabato mattina, 21 novembre, una cinquantina di solidali si sono ritrovati sotto le mura di San Vittore per salutare e portare solidarietà ai reclusi. Da dentro hanno subito risposto con grida e battiture delle sbarre. Quelli con cui siamo riusciti a parlare ci hanno raccontato cose da togliere il fiato.
Il numero dei contagi dentro cresce, così come il numero dei morti. Sappiamo che l'aumento degli infetti nelle carceri genera un'allerta rivolte, quindi immaginiamo ci sia interesse a manipolare alcuni dati per non far dilagare la paura e scatenare la rabbia dei detenuti come a marzo. Da conoscenze dirette sappiamo, ad esempio, che queste informazioni dentro hanno il divieto di circolare o che i tamponi sono difficili da ottenere.
Da fuori leggiamo che tra secondini e detenuti sono più di 1.800 i positivi al Covid, chissà quanti saranno i numeri reali. A San Vittore inoltre è stata aperta una sezione apposita per rinchiudere i positivi provenienti da altri penitenziari. La sola idea dovrebbe far spavento se si tenesse a mente l'effetto che questa strategia ha causato nelle RSA durante la prima ondata di contagi.
Le carceri sono attrezzate per l'isolamento, ma per un isolamento di tipo punitivo, quello che dunque possiamo immaginare è che vengano sfruttate le strutture già esistenti e che invece che liberare le persone verranno ammassate in luoghi angusti e dimenticate al freddo (in alcuni casi i riscaldamenti sono stati accesi solo adesso). Non sono, questi, luoghi pensati per il benessere né per la cura. Se anche gli ospedali hanno difficoltà a non far circolare il Covid negli altri reparti a causa del via vai di medici e della carenza di dispositivi di protezione, non immaginiamo come verrà contenuto il contagio con l'andirivieni di guardie addestrate a punire e non a curare. Evidentemente non sono bastati i morti durante le rivolte di marzo. Lo stato continua con la sua rappresaglia e lascia che sia il virus a fare il lavoro sporco... così da evitarsi anche il cruccio di finire sui giornali, come quegli agenti penitenziari che proprio qualche giorno fa sono finiti agli onori delle cronache per aver pestato e trascinato a mo' di preda un recluso del carcere milanese.
Forse pecchiamo di ingenuità, ma la scientifica volontà dello stato di annientare i reclusi, il sistematico disprezzo per le loro vite e per quelle dei loro parenti, ci stupisce sempre e ci fa venire il sangue agli occhi. Prima o poi arriverà la resa dei conti.
Nei giorni seguenti sono arrivate mail da due detenuti in cui ci dicono che la situazione dentro è molto critica, che i casi di contagio sono molti. Li tengono “cristallizzati” 22 ore al giorno in cella per prevenzione senza poter ricevere visite nemmeno dagli avvocati. Ai politici, scrivono, non interessa nulla di loro. Hanno bisogno che qualcuno dica cosa succede dentro perché le dichiarazioni che vengono fatte parlano di una situazione non grave mentre invece è invivibile “siamo come una discarica dove vengono portati tutti gli infetti, siamo in otto dentro una cella da tre, la gente muore, la gente ha paura, non abbiamo colloqui e riusciamo a vedere i nostri cari 10 minuti via skype (quando funziona). Il 21 novembre è deceduto un altro detenuto causa covid”.
La sera del 26 novembre siamo tornati ancora una volta sotto mura del carcere di San Vittore. Da dentro la risposta è stata molto calorosa: grida e battiture testimoniano che la rabbia, nonostante le gravose denunce e i pestaggi seguiti alla rivolta di marzo, è tutt'altro che sopita. Concluso il saluto, a pochi isolati dal penitenziario, un gruppo di compagni viene fermato da diverse volanti alle quali si aggiunge la Digos.
Dopo circa due ore di fermo ci comunicano che 4 compagni devono essere portati in questura per la notifica del foglio di via da Milano. Trattenuti altre ore nei locali di Fatebenefratelli i compagni vengono privati dei lacci delle scarpe e degli effetti personali e costretti ad una perquisizione integrale.

Novembre 2020, dall’assemblea “Galipettes”, Milano


Milano: voci combattive dagli ospedali S. Paolo e S. Carlo
Segue la trascrittura di parti della trasmissione “Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi. Sulla situazione negli ospedali S. Paolo e S. Carlo di Milano” pubblicata il 13 novembre sul blog Radio Cane.
“Come professionisti impegnati nella gestione dell’emergenza covid, ci vediamo costretti a operare scelte relative alla possibilità di accesso alle cure, che non sono né clinicamente né eticamente tollerabili. Contro la nostra volontà e soprattutto contro la nostra coscienza umana e professionale ci vediamo forzati a dilazionare l’accesso a terapie e a tecniche potenzialmente curative, intubazione orotracheale e ventilazione non invasiva, e a non poter trattare tempestivamente tutti i pazienti che ne potrebbero beneficiare.
[...] Di queste ‘scelte’, anche se dettate da decisioni politiche apicali miopi, noi avvertiamo il peso; di queste responsabilità morali, di nuovo, noi avvertiamo il peso. Scelte di chi avrebbe potuto decidere, e non ha deciso per tempo, anzi, con dovuto anticipo, di riorganizzare, di richiamare più personale formato, di aprire più posti letto monitorati per pazienti affetti da covid”.
Queste le parole di 50 medici dei pronto soccorsi degli Ospedali San Carlo e San Paolo di Milano, che hanno deciso di protocollarle in una lettera rivolta alla direzione dei due presidi che è in circolata in seguito sui media nazionali.
Parole di un certo peso, che riflettono da chi se la vive quotidianamente la situazione drammatica che vige all’interno degli ospedali pubblici, in questo caso della Lombardia. Una situazione che ha trovato in passato riscontri da testimonianze esterne o riprese fugaci ma che di rado si è palesata finora con una presa di posizione così netta da parte dei lavoratori di questo settore.
Può essere utile inquadrare questa testimonianza nel più ampio terreno su cui si erge la sanità pubblica lombarda e non, fatto di privatizzazioni, speculazione, sfruttamento e repressione del dissenso.
Alcuni sanitari dei due ospedali milanesi San Paolo e San Carlo hanno testimoniato nelle scorse settimane numerosi aspetti che meriterebbero di essere messi in luce e diffusi.
Innanzitutto, se ricordate, quando sul personale sanitario non veniva eseguito il tampone, la spiegazione era che se fossero risultati positivi dei dipendenti questi sarebbero stati messi in quarantena gravando ulteriormente su una situazione già carente e problematica. Si tratta dunque di un atto premeditato di mandare allo sbaraglio una categoria di lavoratori. Questa dinamica si sta verificando tutt’ora, in quanto è uscita una circolare dalla regione per i dipendenti sanitari e del sistema scolastico che afferma che chi viene a contatto fuori dall’attività extra lavorativa con un positivo può continuare a lavorare anche in assenza di sintomi, facendo una sorta di quarantena “part time” una volta uscito dal lavoro. Tutto ciò in un’ottica di risparmio del personale senza assumerne di nuovo, ma si tratta di una manovra che è estremamente rischiosa per la diffusione del contagio sia fra i lavoratori sia verso i pazienti che possono già risultare immunocompromessi o debilitati da altre patologie.
Per quanto riguarda la suddivisione degli spazi all’interno degli ospedali i percorsi “sporco/pulito” non sono affatto assicurati, ovvero all’interno di uno stesso corridoio vi è una striscia verde sul pavimento che indica lo spazio pulito e una rossa lo sporco ma fra le due c’è uno spazio di un metro e mezzo, come se il virus circolasse solo su una striscia.
Nella gestione del personale la direzione dirotta i lavoratori da un reparto all’altro dell’ospedale, e queste decisioni derivano dalle mancate assunzioni di personale infermieristico/medico/ausiliario, tanto che sta ricorrendo a cooperative esterne o agenzie interinali per supplire questa carenza. Interi reparti vanno in gestione a personale precario non assunto, senza diritti e con paghe minori. Nella sanità carceria questa pratica è già in vigore da anni.
C’è un risparmio sul personale perché viene pagato dalla cooperativa e il prezzo orario è inferiore a quello dei dipendenti. Il personale fornito dalle cooperative genera contrattazioni e tangenti nella gestione dei fondi destinati a questi enti, ad esempio fornendo 150 mila euro per gestire un reparto di questi solo una minima parte finisce ai lavoratori e il resto va ad ingrassare le tasche della cooperativa.
Durante l’epidemia di marzo avevano promesso a livello nazionale l’assunzione di circa 65 mila lavoratori che già mancavano prima dell’emergenza in quanto il blocco delle assunzioni è in vigore dal 2009. Fino ad oggi hanno assunto solo dopo che il personale andava in pensione, e non in un rapporto di 1 a 1 ma per ogni 3 in pensione ne assumevano 2. Secondo i dati delle associazioni infermieristiche a livello regionale, il dato ammonta a 10 mila operatori mancanti. Avevano promesso di assumerne ma l’assessore Gallera ha dichiarato che ne sono stati assunti solo 1.700, tuttavia 1.500 sono andati in pensione e le assunzioni si sono ridotte a qualche centinaio. Da qui il ricorso alle cooperative con la motivazione che non si trova il personale, cosa non vera perché di infermieri non occupati ce ne sarebbero attorno ai 25 mila in Italia.
Il problema è dunque la carenza di personale, visto anche l’aumento del carico di lavoro. In questi giorni sono aumentati i punti prelievi per i tamponi gestiti dall’esercito col personale dell’ospedale San Paolo. A un organico già carente di personale vengono sottratte delle unità, considerando anche quelle destinate all’ospedale della Fiera aperto a maggio. Anche per la Fiera non c’è personale, e una circolare ha imposto alle aziende di fornire personale da destinargli, spacciandolo come un “atto volontario”.
La mobilità è selvaggia, e i turni sono massacranti arrivando fino a 12 ore.
Si è deciso di arrivare a uno stato di agitazione e si è in attesa di aprire un confronto con Prefettura, Regione e direzione. Il silenzio e il terrore nell’esprimere qualcosa fa si che non si faccia nulla all’interno. Il contratto integrativo, che include tutti questi aspetti (e che è peggiorativo di quello nazionale), è stato sottoscritto solo da alcune sigle sindacali ma non dalla RSU (Rappresentanza Sindacale Unitaria) che è l’organo che rappresenta la totalità dei lavoratori.
Il nuovo direttore degli ospedale San Carlo e San Paolo da quando è arrivato ha avuto questo tipo di comportamento imponendo una mobilità selvaggia e facendo in modo che il lavoratore non contasse niente. Non è stato possibile fare assemblee per il lockdown, dunque sono venute meno le libertà sindacali. Le direzioni sanitarie hanno poi applicato le direttive in modo unilaterale e i lavoratori non hanno avuto possibilità di replica.
In alcuni reparti del San Paolo e del San Carlo dal primo ottobre è partita la turnazione di 12 ore continue, senza pause, che può determinare errori verso l’utente o verso lo stesso operatore.
Per quanto riguarda le strutture private il 50% della copertura per pagare il contratto integrativo dei lavoratori della sanità privata lo dà il pubblico.
Tutte queste norme messe in piedi dalla regione stanno determinando un nuovo mondo della sanità, in quanto il pericolo è che vada man mano ulteriormente privatizzandosi [in Lombardia già il 60% della sanità è privato, ndr].
Durante questo periodo di covid in cui le persone non possono protestare, la Regione e le direzioni sanitarie vanno avanti più di prima. Il fatto di non aver ristrutturato i due ospedali e di non aver usato i 90 milioni stanziati ha avuto pesanti ripercussioni sulle strutture, come l’assenza di impianti adeguati per l’ossigeno e spazi troppo piccoli che non garantiscono un distanziamento adeguato.
Le liste di attesa sono infinite, se uno vuole prenotare una visita non può in quanto sono tutte bloccate costringendo l’utenza a rivolgersi al privato. Tuttavia le liste per legge non possono essere bloccate e devono per forza dare e garantire l’accesso alle cure anche se dopo svariati mesi.
La gente non sa più dove farsi curare, si sta assistendo a casi di mortalità non dovute al covid ma al peggioramento di altre patologie non trattate (patologie oncologiche, infarti, diabete, ipertensione). Questa situazione locale riflette una condizione precaria a livello nazionale degli ospedali pubblici, in favore dell’arricchimento dei privati, di cooperative e di agenzie. Perciò vi è in corso uno stato di agitazione negli ospedali San Paolo e San Carlo che andrà a culminare con lo sciopero del 14 dicembre.

***
Appello: Il diritto alla salute è di tutti, nessuno escluso
Fin dall’inizio della pandemia avevamo già rivolto alle SS. VV. un appello affinché venissero adottati provvedimenti straordinari per la popolazione detenuta che la mettesse al riparo dal rischio contagio e diffusione del virus, consapevoli sia dei limiti della sanità penitenziaria – già in condizioni di normalità –, sia del sovraffollamento cronico che impedisce, di fatto, il distanziamento sociale che la trasmissibilità del Covid 19 impone quale misura primaria di prevenzione.
Nell’appello facevamo riferimento soprattutto a quella parte di popolazione detenuta maggiormente vulnerabile se esposta a contatti con soggetti contagiati: anziani e ammalati; d’altra parte, le linee guida elaborate dall’OMS e dal Centro di prevenzione e controllo delle malattie europeo, e le raccomandazioni del CPT sulla gestione dell’emergenza Covid per le persone detenute e internate, sono chiarissime e sottolineano la preminenza del diritto alla salute di ognuno senza distinzioni di sorta.
Preminenza sancita dalla nostra Costituzione all’art. 32 che, ricordiamo, è l’unico diritto qualificato quale fondamentale, e finanche dal Codice Penale del 1930 agli articoli 146 e 147 che determinano la recessione della potestà punitiva dello Stato a fronte del diritto alla salute, ed è azione obbligatoria nei casi individuati ai sensi dell’art. 146.
Sottolineiamo che lo Stato italiano è obbligato ad attenersi alle raccomandazioni elaborate dagli organismi internazionali ai sensi dell’art. 117 della Costituzione.
Alle indicazioni fornite dagli esperti della realtà penitenziaria sin dalla fine di febbraio (sindacati di polizia penitenziaria, garanti, operatori del diritto e della giustizia, associazioni), ovvero ridurre sensibilmente il sovraffollamento e sostituire la misura detentiva con la detenzione domiciliare o ospedaliera per tutti i soggetti portatori di determinate patologie – sì da poter gestire l’eventuale, e purtroppo verificatasi, emergenza –, questo governo, e questo parlamento, hanno preferito seguire le sirene del populismo penale agitato da alcuni media a scapito dello Stato di diritto e della salute della comunità penitenziaria che oggi, purtroppo, conta oltre 1300 persone contagiate tra detenuti e operatori, con un trend in crescita costante che sta colpendo indistintamente la popolazione detenuta finanche nelle sezioni di 41bis che qualcuno, pretestuosamente, aveva dichiarato immuni da possibili contagi.
I numeri e la velocità con cui si sta diffondendo il virus nelle carceri non possono essere né sottovalutati né subordinati al titolo del reato, trattandosi del diritto alla salute che la nostra Costituzione e le leggi primarie tutelano sopra ogni altro diritto indistintamente per ciascun cittadino; diversamente si andrebbe a configurare la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cosa per la quale più volte l’Italia è già stata condannata.
Gli istituti di legge per evitare che la situazione degeneri ulteriormente sono già in essere, basta applicarli (senza temere di dover rispondere alle pretestuose campagne portate avanti dai media) rispondendo all’emergenza sanitaria con gli strumenti necessari.
Vista la drammatica emergenza sanitaria che sta colpendo la popolazione tutta riteniamo che le misure di prevenzione adottate rispetto alla popolazione detenuta siano assolutamente inadeguate a fronteggiare una situazione che sta mettendo a rischio l’intera comunità penitenziaria. Va tenuto conto che il 50% circa della popolazione detenuta ha una età compresa tra i 40 e gli 80 anni, oltre il 70% presenta almeno una malattia cronica e il sistema immunitario compromesso. È del tutto evidente che la diffusione del virus all’interno delle carceri rischia di assumere dimensioni catastrofiche. Abbiamo visto che limitare o proibire i colloqui familiari, l’accesso dei volontari e i permessi di uscita non ha messo al riparo dalla diffusione dei contagi. Quello che si è creato, e che va crescendo di ora in ora, è un clima di paura e insicurezza nella popolazione detenuta, fra i familiari e il personale penitenziario che comunque è obbligato a garantire il servizio.
Gli istituti penitenziari sono a tutti gli effetti luoghi pubblici, sovraffollati e promiscui, con un via vai continuo di personale e fornitori che sta scatenando una vera epidemia. Pertanto non bisogna dimenticare che la popolazione detenuta, al pari del resto della popolazione, è tutelata dalla Costituzione e dalle carte internazionali dei diritti umani.
Chiediamo che si intervenga con un provvedimento immediato di sospensione della pena per tutte le persone detenute ammalate ed anziane ai sensi degli articoli di legge; chiediamo che il Parlamento vari urgentemente un’amnistia per la rimanente popolazione detenuta, per poi iniziare a pensare un sistema di pene che non calpesti la dignità umana ma dia senso e sostanza a quell’art. 27 della Costituzione troppo spesso dimenticato e calpestato.
Seguono centinaia di firme di associazioni e firmatari singoli.
16 novembre 2020, da osservatoriorepressione.info


Schermo su schermo
Una riflessione sui colloqui in videochiamata
Raccogliamo qui alcuni nostri spunti di riflessione sull'imposizione dei colloqui in video­chiamata che si è generalizzata negli ultimi mesi, a conseguenza dell'epidemia di Covid19, all'interno dei circuiti penitenziari di vari Paesi europei. Spunti di riflessione che, condivisi con chi leggerà questo nostro testo fuori o dentro le mura di un carcere, speriamo possano allargare le considerazioni rispetto alla portata di insieme che le nuove tecnologie hanno nella gestione dell'esistente e quindi anche nei suoi aspetti di controllo e repressione. Sia chiaro, tanto per cominciare, che su quest'argomento non abbiamo alcuna pretesa di sta­bilire comportamenti e scelte a cui attenersi in maniera assoluta: come scrive un nostro compagno dalla reclusione, "non si può giudicare da fuori, non è proprio possibile, e la nostra aspirazione ad un mondo senza galere deve tener conto di come si vive dentro", ma al tempo stesso ci pare utile ed opportuno provare ad interpretare anche questo specifico passaggio tecnologico secondo una più ampia, e magari meno immediata, prospettiva.
Nel corso della cosiddetta "prima emergenza Covid", abbiamo assistito nella società in ge­nerale all'applicazione di una serie di dispositivi le cui finalità sanitarie sono apparse deci­samente secondarie (per usare un eufemismo) rispetto alla loro portata in termini di speri­mentazione su vastissima scala di strategie di contenimento e segregazione della popola­zione. Sperimentazione che, come dice la parola stessa e come sempre si verifica nei fatti, serve appunto perché, passata la fase emergenziale, elementi e condizioni di cui si sono appurati i vantaggi permangano in tutto o in parte come "normalità" da mantenere o come "possibilità" da riproporre, visto che già ci si è abituati all'idea, in caso di nuove emergenze, reali o vendute come tali.
Per non dilungarci troppo, lasceremo da parte le caratteristiche che questa sperimentazio­ne ha assunto nel regime di detenzione domiciliare di massa imposto qua fuori, non senza però almeno menzionare - perché pertinente all'argomento di queste nostre riflessioni - la potente stampella che la tecnologia digitale ha offerto alle autorità (con non trascurabili profitti economici) per tenere la gente chiusa in casa: nelle strade militari, forze dell'ordine, multe, code e controlli; in casa l'anestetizzante surrogato on line, telefonico o televisivo di una vita reale temporaneamente vietata.
Come detto, in questo testo, ci siamo concentrati sul contesto carcerario, a volte specchio - negli estremi della reclusione - di quanto avviene fuori, a volte avamposto dove testare quanto poi si sviluppa sul sociale in ambito di controllo e repressione.
Mentre le guardie continuavano ad entrare ed uscire esponendo al contagio chi rimaneva, e le notizie su quanto accadeva fuori venivano veicolate dalla televisione attraverso un lin­guaggio di guerra, l'accesso al personale esterno non di custodia, ai volontari e agli auto­rizzati ai colloqui veniva prima limitato secondo le norme del distanziamento sociale (ple­xiglas, mascherine, ecc.) e rapidamente sospeso del tutto. In risposta, a inizio marzo, in molte carceri dello Stato italiano sono scoppiate proteste, rivolte e evasioni riuscite o ten­tate, con il prezzo altissimo di morti, pestaggi di massa, trasferimenti e intimidazioni su cui rapidamente è stato fatto scendere il silenzio ma di cui sarà bene non dimenticarsi mai nelle lotte che verranno.
Della concessione di telefonate e videochiamate "extra" per sostituire straordinariamente i colloqui di persona e, non dimentichiamocelo, per arginare le sacrosante proteste e rivolte di tanti reclusi/e si è scritto e detto abbondantemente (non parliamo poi delle cosiddette "scarcerazioni facili" su cui si è scatenata la canea politico-mediatica sulla pelle di donne e uomini lasciati ad ammalarsi nel patologico sovraffollamento degli istituti penitenziari). E possiamo riscontrare anche dalle corrispondenze che intratteniamo con persone recluse in varie prigioni non solo dello Stato italiano che generalmente, non senza eccezioni, la pos­sibilità di comunicare "in remoto" è stata accolta piuttosto favorevolmente anche, ma non solo, come "male minore" rispetto al non comunicare affatto. Ancora dal nostro compa re­cluso: "chi ha i familiari lontano è contento che vi siano le videochiamate, anche se tutti abbiamo fatto la domanda di avvicinamento per colloqui... la videochiamata è un modo per vedere e per farti vedere dai familiari, ma sono certo che la stragrande maggioranza dei detenuti presserà per i colloqui 'normali'...".
È innegabile che nell'immediato, in una situazione critica, il surrogato tecnologico di un colloquio guardandosi negli occhi, di un abbraccio può alleviare la sofferenza del distacco e della mancanza. Ma sappiamo anche quanto studio e impegno il sistema carcerario dedi­chi a spersonalizzare il recluso/a, a rendere difficili se non impossibili i suoi legami con l'e­sterno, ad avversare espressioni e momenti di umanità che riescono, a fatica e anche con sofferenza, a sopravvivere all'istituzione totale.
Esattamente come fuori agisce il sistema autoritario, di cui il carcere è la più concreta espressione: distanzia le persone fisicamente, non permettere che si confrontino e intera­giscano nella realtà, spezza i legami comunitari e potrà controllare gli individui, ed even­tualmente reprimerli, senza una risposta collettiva.
In questo campo, le tecnologie di comunicazione digitale, dentro e fuori le galere, permettono al Potere un "salto epocale" verso un'esistenza sempre meno reale e sempre più di­pendente da strumenti che solo una struttura politica ed economica che fagocita risorse ed energie, sfruttando popolazioni e territori può fornire. Perché, andando al sodo, proprio questa è la leva ingannevole su cui questo mondo tecno-consumista si fa forza: ti da qualcosa che magari nell'immediato ti può servire, far piacere o dare una certa comodità, ma se tu dovessi mettere sul piatto questi vantaggi con la nocività che comporta la sua produzione e con le conseguenze che causa il suo utilizzo, allora ti renderesti conto che il conto non torna. Fino a prendere coscienza che quella tecnologia che sui binari degli interessi del Potere ti offre ciò che prima era impensabile, di fatto riduce le capacità reali, umane di vivere e resistere. E ti viene poi difficile, passo dopo passo, riuscire a farne a meno o a sottrarsi dalla sua imposizione.
Tornando nello specifico all'ambito carcerario, non è certo degli ultimi tempi l'introduzione della comunicazione "in remoto": i collegamenti per processi all'estero sono previsti per normativa da decenni, i colloqui via skype per reclusi in altro Paese rispetto allo Stato di provenienza dovrebbero essere accessibili come prassi consolidata, senza parlare dei pro­cessi in videoconferenza che, con una brusca accelerazione negli anni più recenti, hanno sdoganato definitivamente quella che era la consuetudine per i reclusi in regime di 41bis verso la sua applicazione in processi di varia natura e con imputati in differenti regimi di detenzione (addirittura è stato proposto per imputati colpiti dal solo "divieto di dimora" dalla città sede del processo).
Quello che per loro funziona diventa norma le cui ricadute si generalizzano: capita che il nuovo possa essere inizialmente presentato come opzione da scegliere o a seconda di casi specifici (processi per determinati reati, per la videoconferenza, o difficoltà e impossibilità di raggiungere il carcere dove è reclusa la persona cara, per i colloqui "in remoto"), ma si sa benissimo quanto breve sia, tanto fuori quanto in galera, il passo dall'opzione all'impo­sizione senza alternativa.
In questo caso ne è prova il fatto che, dalla riapertura dei colloqui "di persona" - ricordia­molo, sempre con norme di distanziamento che qua fuori negli scorsi mesi sono state accantonate - non mancano le pressioni perché le videochiamate rimangano la modalità prioritaria per la comunicazione tra reclusi/e e famigliari o aventi autorizzazione per il colloquio. Pressioni sostenute non solo da parte dell'amministrazione penitenziaria, ma anche da parte di reclusi/e o persone e organismi sensibili alle condizioni di prigionia, che perdono di vista a nostro avviso le conseguenze che la normalizzazione di tale procedura comporterà.
Insomma tra processi in videoconferenza e videochiamate, potrebbe non essere lontana la disgrazia per cui se si finisce in carcere non si potrà più vedere di persona, dal primo all'ul­timo giorno della propria reclusione, una persona cara da fuori o facce amiche durante un'udienza in tribunale. E se è innegabile che i trasferimenti in occasione dei processi co­stano fatica, e soprattutto gli spostamenti dei famigliari per visitare un recluso magari in un carcere lontanissimo dalle loro case non sono certo - anche economicamente - passeg­giate, proviamo a pensare cosa significherebbe dovervi a lungo rinunciare in cam­bio di un'immagine che scorre sullo schermo di un telefono.
Forse, nel tentativo di dare una risposta parziale, realisticamente percorribile, alla questio­ne "videochiamata o colloquio in presenza", potremmo fermarci sulla garanzia che ciascun recluso/a possa scegliere liberamente quale modalità adottare, ma ciò chiaramente non ri­solverebbe le criticità di fondo che fino ad ora abbiamo provato ad evidenziare rispetto al sistema tecnologico necessario allo straripante potere della comunicazione digitale. E del resto sarebbe assurdo pretendere che la sola popolazione reclusa sia chiamata a rinunce e prese di posizione che qua fuori, in una società ampiamente conquistata da queste nuove tecnologie, stentano a diffondersi ed esprimersi in comportamenti personali e collettivi conseguenti. Per cominciare, tanto dentro quanto fuori dalle galere, è da coltivare una luci­dità critica rispetto alla natura e all'utilizzo della comunicazione digitale, alle nocività am­bientali e sociali che questa comporta, agli obiettivi a corto e a lungo periodo che facilita ai poteri politici ed economici che la amministrano e nei fatti la impongono: solo a partire da una simile predisposizione potremo pensare forse di trovare modi e comportamenti per impedire che le nostre vite rimangano per sempre imbrigliate nelle reti di un assolutismo tecnologico senza via di scampo.
Mille modi un solo orizzonte: libertà!

Novembre 2020, Cassa AntiRepressione delle Alpi occidentali


da una lettera dal carcere le vallette di torino
[...] La chiusura dei colloqui con i propri cari e la parallela riduzione delle attività dentro ha quindi inevitabilmente provocato insofferenza e veicolato, nei più, sentimenti di rivalsa. Non è un caso quindi che da lunedì stesso alcuni padiglioni del maschile siano in protesta, con le loro battiture ad orari fissi, più volte al giorno, che scandiscono il tempo di vita del carcere. Non manca il sostegno da fuori, dai parenti che nei primi giorni della settimana si sono fatti sentire trovando i cancelli chiusi, ai presidi organizzati che, improvvisamente, diventano udibili dalle sezioni, infondendo forza e speranza. Ovviamente, almeno per ora, nessun miglioramento significativo per la popolazione detenuta è stato proposto dai governanti e diverse richieste di uscita sotto i 18 mesi residui causa covid, non sono state ammesse. Sarebbe interessante conoscere i dati nazionali, ma sono sicura che il sovrappopolamento, prima causa di pericolo per noi detenuti, sia la realtà non solo qui, ma in tutte le carceri del Paese. Un provvedimento che ha il sapore di beffa, ancora più amara se si considera che di covid si muore ormai anche in carcere e le cronache lo confermano.
Di me posso dirvi che ho raggiunto i due mesi di detenzione, tempo che sulla carta appare “residuale”, ma che per me è significativo nella misura in cui si concretizza nel tempo rubato alla mia vita, ai miei affetti ed ovviamente alla lotta collettiva. Sono tranquilla poiché ho strutturato ormai delle abitudini ed ovviamente una complicità, del tutto femminile ed affettiva, con le mie compagne di detenzione. Segno con attenzione tutto quello che accade fuori da qui e per questo voglio stringermi a tutti coloro che a causa del covid stanno soffrendo la malattia e la paura.
In tempi come questi le disuguaglianze sociali emergono in tutta la loro spietatezza, una società come questa non può che riservare a chi già in tempi normali faticava, isolamento e difficoltà di accesso a servizi e beni primari. Il peso dell’emergenza, come durante la prima ondata, è perlopiù scaricato sulle famiglie, in particolar modo sulle donne; tutto ciò dimostra ancora una volta, come se ce ne fosse bisogno, che certi meccanismi di sfruttamento siano cristallizzati in questo sistema. Abbiamo molto lavoro da fare per ribaltare questa realtà e spero che la pandemia le sue drammatiche conseguenze faranno aprire gli occhi a molti.
Il presunto “patto sociale”, su cui il capitalismo ha costruito la sua fortuna, da tempo ha abdicato alle sue promesse di benessere collettivo. Guerre, crisi ecologica, malattie, povertà assoluta sono le cifre del suo fallimento. Non è un caso che i governanti siano più preoccupati di eventuali “rivolte sociali” piuttosto che mettersi serenamente in discussione cedere il passo. È tempo che sorga una nuova coscienza collettiva, in grado di disegnare un futuro giusto per i nostri figli e per il pianeta che viviamo. [...]
Siate saldi, Avanti No Tav!
Ps.: Qui di seguito copio un messaggio scritto da alcune mie compagne di detenzione: Per quanto riguarda Padalino [il PM con l'elemetto in guerra contro i No Tav, ndr] e gli altri detrattori che “perdono la faccia”, anche noi detenute comuni teniamo a dire la nostra: il giustizialismo e il rigorismo si applicano solo verso i “poveri cristi”. Essere in galera e leggere di scandali riguardanti chi ha perseguito, fa solo montare di più la rabbia e l’insofferenza.

Dana si trova nel carcere torinese di Le Vallette dallo scorso 17 settembre, dopo essere stata condannata a due anni di reclusione per la manifestazione del 3 marzo 2012. In quella occasione, i manifestanti avevano bloccato il casello dell’autostrada per Bardonecchia, permettendo agli automobilisti di passare senza pagare il pedaggio. Nonostante i servizi sociali ne raccomandassero l’affidamento in prova, il giudice cautelare ha rifiutato tutte le misure di custodia alternative, motivando la decisione con il “mancato pentimento” dell’attivista. Giudizio confermato dal Tribunale di sorveglianza di Torino che, il 28 ottobre, ha respinto la richiesta di sospensiva della misura cautelare sottolineando “l’urgenza di un trattamento rieducativo”. La lettera pubblicata è di novembre ed è stata presa dal blog notav.info.
Il 17 Dicembre finirà il “Processone” per i fatti del 27 giugno e 3 luglio 2011. Gli avvocati non si aspettano grandi modifiche alle pene comminate al precedente appello. Dopo la sentenza si capirà se ricorrere nuovamente in Cassazione oppure no, e in tal caso le condanne saranno definitive. La maggior parte degli imputati e delle imputate ha, ad oggi, pene comprese fra i 2 e i 3 anni. Condanne più alte erano per Juan (3 anni e 6 mesi già definitivi) e Mau.


Lettera dal carcere di Firenze-Sollicciano
Ciao carissimi operatori di “AMPI ORIZZONTI”. So della situazione del COVID lì a Milano tramite la TV. E mi dispiace moltissimo anche perchè ho vissuto per qualche anno a Bonola e ho scontato nel 2004 due mesi e venti giorni a “SAN VITTORE” idem nel 2005 quattro mesi, dopo di chè niente solo denunce a piede libero - art. 707 arnesi da scasso. Nel 2016 un cumulo di due anni e sette mesi. Data di arresto 31-12-2017 ore venti circa. Che bel ultimo dell'Anno “éhhhhh”.
Carceri Lucca, San Gimignano e poi stò posto di ... che si chiama Mario Gozzini. Mercoledì 28 Ottobre sono due anni che sto qua, perché nel frattempo sono arrivati altri definitivi. Un anno e dieci mesi, quattro mesi, due mesi, e sei mesi sono riuscito a ottenere tramite un incidente di esecuzione un rinvio a giudizio. Il tutto fatto dall'Avvocato che ho a gratuito patrocinio.
Ho sempre ottenuto i giorni, sono tranquillo, e forse a Gennaio del prossimo anno vado vicino ai diciotto mesi per la “199”. Non ho nessuno che mi dà una mano per un domicilio e un lavoro, l'unica opportunità è qualche centro di accoglienza per detenuti. Ps: non ho mai avuto benefici, questo sarebbe il primo che chiedo. A oggi sono in attesa di permesso premio che sto aspettando da due mesi. Si perchè quello che vi scrissi e poi andato bene: sei ore con un volontario. Questo sarebbe il terzo, ho chiesto tre giorni da passare presso un centro che si chiama “Centro Accoglienza Samaritano” (via Baracca 150/e - Firenze).
Il tredici agosto sono uscito e il diciasette ho imbucato questo nuovo. E ieri venerdì ventitrè ci viene a trovare il nuovo magistrato di sorveglianza. Ma poi mi viene da ridere, hanno chiuso una sezione per lavori, ci hanno ammassati perchè se capita qualcosa a livello Covid siamo nella cacca, e i muratori non ci sono, la sezione è chiusa.
Ora siamo in totale circa sessanta in quattro sezioni. Spero che il continuato vada bene e venga tolto qualcosa, mi accontento vada bene tutto anche due o tre mesi. Con la fortuna che ho IO? Grazie di esserci. Credetemi, qua c'è da andare fuori di melone, rimpiango Lucca e San Gimignano. CIAO!!!


Lettera dal carcere di Genova
Ciao, sono Rosario, scrivo dal carcere di Marassi-Genova. Sono di origini campane ma è circa un anno e mezzo che ho girato circa sei istituti. Qui sono giunto proprio quando è scoppiata la pandemia del covid 19 e da allora non riesco a ritornare verso il sud.
Mi trovo in un istituto che non solo per colpa della pandemia non funziona niente di niente, ma ha già i suoi precedenti. Da qualche mese hanno aperto i colloqui, uno al mese, con il plexigas, le chiamate Whats-App funzionano a singhiozzo. Anche se non faccio colloqui visivi so che per i colloqui è un disastro. Spesso ho saltato la videochiamata con mia figlia minore per esuberanza di richieste, ma è stata solo una scusa perchè c'era tutto il tempo materiale, ma oltre a questo è proprio una mala organizzazione del personale addetto ai colloqui, come è male organizzato tutto l'istituto di Marassi.
Non riesco a fare colloqui interni con i vari rami, A.S.L., educatori, volontariato, psicologi, psichiatri e via via fino ad arrivare al direttore, al comamdante, per esigenze appunto come la mia che, se non viene presa in considerazione, uscirò nel 2027 a fine pena da qui. Dico questo perchè da come si stanno mettendo le cose con questa pandemia si rischia che verrà bloccato tutto come è successo a febbraio.
Ho girato vari istituti, ma trovandomi qui a Marassi è come se fossi tornato indietro di circa vent'anni. Pensate che anche se per me è una cosa che è di poca rilevanza, abbia ancora la T.V. di venti anni fa e con sette, otto canali, per cui non possiamo seguire lo sport. Le celle sono anguste, mal situate, non ci sono comodini ma ancora dei cassoni di ferro. Ma non è questo che è il male minore, la cosa peggiore è che qui sei parcheggiato e non sei seguito da nessuno. Non vedo un assistente Sociale dell'U.E.P.E. nonostante ne abbia fatto rischiesta più di una volta, ma la cosa più peggiore è che ognuno tace, nessuno prende carta e penna e scrive o a un garante o ad associazioni, ed onestamente mi sento solo.
Da parte mia ho sfruttato questo tempo per scrivere al garante Nazionale dei detenuti, al garante Mario Palma, al garante della regione Liguria al garante della regione Campania, ma c'è stata una sorta di mutismo assoluto. In poche parole si parla di tutto, ricovero, riavviamento delle industrie, delle scuole, di infrastrutture e di tanto altro, ma dei problemi del carcere è un po' tutto bloccato da per tutto, non se ne parla, anzi si tiene tutto a tacere. I miei diritti vengono violati e calpestati perchè chiedo un riavvicinamento, ma ognuno se ne frega. Si pensa solo ad inasprire, alla repressione, alle forme rigide che sono torture Psicologiche se non anche fisiche per come sono costretto a vivere come un timer perchè anche l'acqua calda ci viene erogata frazionata, due ore la mattina, due al pomeriggio e due alla sera. In questo periodo che il tempo è cambiato bruscamente le celle sono fredde e tocca starsene a letto. Poi ci sarebbe ancora tanto da dire. Esempio: i materassi sono di dieci, quindici anni fa e portano malattie. Mi farò sentire per il resto, un abbraccio a tutti, Rosario.

5 ottobre 2020
Rosario Mazzone, P.le Marassi, 2 - 16139 Genova


Lettera dal carcere di Sulmona (aq)
Carissimi compagni, ho ricevuto il vostro documento di raccolta di informazioni relative alla situazione che vivono oggi i carcerati con questa pandemia del corona virus che colpisce la gente fuori e i detenuti nelle carceri, con ogni interruzione di attività esterne – e soprattutto i colloqui con i propri famigliari; poi l'emergenza sanitaria a seguito del covid 19 – ha comportato molti problemi di sopravvivenza, di rapporti e contatti affettivi con le persone care, madre, moglie, figli, senza poter avere quel conforto reciproco; possiamo sentire i famigliari per telefono o tramite video 1 volta la settimana per 30 minuti, le telefonate al cellulare non si possono fare, perchè, dicono, che le persone si possono spostare e andare dove i famigliari hanno il telefono fisso. Qui a Sulmona c'è stata qualche piccola lotta per avere più vivibilità e più contatti con i propri famigliari.
Dall'inizio del corona-virus, dalla libertà non può entrare nulla come: cibo, biancheria ecc., solo tramite pacchi postali si può ricevere viveri - controllabile e commestibile sottovuoto.
Abbiamo chiesto con istanza di poter avere una maggior elasticità per agevolare i rapporti tra i detenuti e le famiglie, come avere più ore per la videochiamata – altra cosa: da quando è iniziata l'epidemia del covid-19 c'è stata mancanza di visite mediche in ospedale, perchè molte persone hanno diverse patologie ed hanno poca assistenza anche con malattie gravi che non devono stare in carcere, anche la poca igiene può essere veicolo di infezione. E nelle carceri l'assistenza è quella che è, non voglio dire che sia colpa di chi o di cosa, non hanno possibilità di portare a termine la loro missione e tutto ciò a scapito dei detenuti che, va tenuto conto, sono pur sempre delle persone malate, e tutte hanno il diritto di essere curate, questo dentro le carceri, come la gente fuori.
Tutti devono farsi una domanda – e cercare di dare una risposta, chi ci riesce, ma tutti i soldi che il ministero di giustizia invia per le cure ecc. per i carcerati, in quali tasche vanno a finire?
Altra cosa importante è il discorso del sovraffollamento – un tema molto delicato, trattato dai politici e da molti quotidiani – ma poi alle conclusioni non interessa a nessuno- perchè non mettono fuori tutte quelle persone che hanno poca pena da scontare, i malati gravi che sono tanti, e non dimenticare le persone che hanno scontato più di 20 anni e 30 anni di carcere, perchè non danno loro la possibilità di vivere la vita e godersi la famiglia.
Ritornando al problema che stanno per affrontare tutti i detenuti e la gente fuori per colpa del covid-19, posso dire che per tanti carcerati, le preoccupazioni sono i propri famigliari, anche perchè non possono essere vicini ai propri cari in questo momento triste e di sofferenza, per tanta gente e ancora di più per i detenuti. Purtroppo un piccolo virus, prodotto dall'arroganza della scienza e della medicina delle multinazionali farmaceutiche, degli esperimenti di laboratorio fatti sulla pelle delle persone. Tutto questo ci dice che i poveri sono sempre più poveri, che gli sfruttati sono sempre più sfruttati e che la ricchezza resta nelle mani dei soliti noti, che la salute e la casa saranno il privilegio di chi se lo può permettere.
Sentiamo ogni giorno radio e tv che dicono va tutto bene. Che significa che dovremo abituarci alla militarizzazione delle strade, della normalità nelle carceri – e la gente sarà obbligata a dire cosa fa, e come vive – quindi dov'è la libertà?
Come sentiamo, per colpa del corona-virus: i decessi ancora oggi avvengono con drammatica assiduità tanto che si corre il rischio che la gente ci fa l'abitudine, la crisi del covid 19 non è finita. La vera sciagura è che si muore nella più desolante solitudine di una squallida cella dentro un lugubre carcere nella più profonda indifferenza della maggior parte della gente. E questo accade anche alla gente fuori. Si può morire giovani disperati, anziani e da soli senza l'affetto di una persona cara. Crepare in carcere è l'apice dell'infamia.
Gli uomini sono nati liberi e ci è vietato morire liberi, così come ci è vietato semplicemente di vivere la vita che ogni persona merita. Ma questo non importa a nessuno. L'importante è che la “società civile” sia al sicuro e che dentro le gabbie ci sia chi turba l'ordine di questa società. Se poi uno muore… pazienza uno di meno!
In realtà, per come funziona questa società, possiamo solo decidere come comportarci di fronte a leggi che altri hanno stabilito per noi e che un governo le ha imposte all'immensa maggioranza delle donne e degli uomini. Ancora prima di chiedersi, allora, se è giusto o meno punire con il carcere chi trasgredisce le regole, bisogna chiedersi: chi decide e come le regole di questa società? Vari pensatori dicono che il carcere protegge la gente dalla violenza, ma è veramente così?
Come mai gli stati che portano le guerre e la fame alla popolazione nel mondo, bombardano milioni di persone e sono perfettamente legali? Addirittura passano per “eroi”.
Il carcere punisce solo la violenza che dà fastidio allo stato e ai ricchi, oppure quella che fa comodo presentare come abominevole (ad esempio gli stupri o certi delitti particolarmente efferrati). Ma la violenza strutturale della società è quotidianamente protetta dal carcere. Quante sono le imprese che violano quotidianamente le leggi? Quanti sono i padroni che pagano veramente?
Purtroppo la vera libertà non è cosa di questo mondo. Io mi sento libero solo quando lotto contro chi ci vuole schiavi. Quindi vivere è combattere contro tutte le ingiustizie alla conquista delle libertà. Questo vale più di qualsiasi altra cosa. Gli uomini liberi che hanno amore e coraggio, intelligenza e alti principi morali gioiscono per la libertà.
Saluti cari a tutti con affetto.

3 ottobre 2020
Antonino Faro, P. le Vittime del dovere - 67039 Sulmona (L'Aquila)


Notizie dalle carceri
Segue una rassegna di notizie e informazioni sulle carceri riportate da diversi giornali nazionali e locali. Chiediamo a tutti i prigionieri di portare contributi diretti sui fatti riportati, in modo tale da liberarci dalla stampa dei sindacati di polizia penitenziaria e dei governi di turno.

1 ottobre, Santa Maria Capua Vetere. Umiliate, picchiate, torturate, decine di persone ristrette si sono rivolte agli avvocati. Antigone ha messo insieme le denince dei familiari e un video e ha fatto una denuncia in Procura, come riferisce l'avvocato Simona Filippi. Un detenuto trasferito dopo il pestaggio a Poggioreale dice vedendo il video "Sono quello in ginocchio vicino al muro, lì è quando mi colpiscono con il manganello. Mi hanno spaccato i denti" […] "Si sono mossi i gruppi speciali, i Gom". "È un carcere dove convivono denuncianti e denunziati. Che facciamo? A me lo dicono i detenuti: continuiamo a vedere i nostri aguzzini tutti i giorni. Abbiamo parlato con la Procura, ma tutti i giorni viviamo a contatto con le persone di cui abbiamo fatto i nomi".
L'avvocato Filippi, di Antigone aggiunge, "c'è un problema legato ai medici carcerari: ci sembra sempre che i riscontri si facciano con il contagocce e controvoglia. Non sono rari i casi in cui il medico si rifiuta di refertare le lesioni derivanti dalle violenze dietro le sbarre. Perché fanno parte di una catena di complicità".
Il caso sollevato attraverso la rivelazione dell'esistenza di video che documentano le violenze, è arrivato anche in parlamento. Un'interrogazione è stata presentata anche dal deputato di +Europa-radicale Riccardo Magi, che insiste su un punto chiave dell'intera vicenda: "Se il Dap abbia avviato, per quanto di competenza, delle indagini interne sui pestaggi illustrati in premessa, su quali aveva ricevuto una nota dall'associazione Antigone, prima che fossero avviate le indagini della magistratura, o se lo abbia fatto successivamente, e con quali esiti, anche in termini di accertamento delle responsabilità della catena di comando".
1 ottobre. Durante il suo intervento il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha parlato anche dell'edilizia carceraria. Ha detto che nel corso del 2020 sono stati ultimati ed attivati 3 nuovi padiglioni detentivi da 200 posti ciascuno presso gli istituti di Parma, Trani e Lecce, mentre è imminente l'attivazione di un ulteriore nuovo padiglione di pari capienza presso l'istituto di Taranto. Che entro l'anno sarà ultimato anche un ulteriore padiglione da 200 posti nella Casa di Reclusione di Sulmona. Che è stato varato un piano finanziario per la progettazione e la realizzazione di 25 nuovi padiglioni modulari media sicurezza, da 120 posti cadauno, per complessivi 3.000 nuovi posti detentivi. E che risultano attualmente già avviati i procedimenti per 12 moduli diffusi capillarmente sul territorio. Sono ripresi i lavori di completamento del reparto 41 bis di Cagliari Uta (92 posti) che dovrebbe essere ultimato entro il corrente anno e che sono stati consegnati i lavori per il nuovo padiglione detentivo da 200 posti presso la Casa Circondariale di Bologna, il quale dovrebbe essere ultimato entro il 2021. Infine che per la manutenzione ordinaria e straordinaria nonché per il potenziamento del patrimonio immobiliare demaniale in uso governativo penitenziario, è stato ottenuto un rilevante incremento di risorse finanziarie assegnate al Dap negli anni 2019 e 2020 rispetto agli anni precedenti.
7 ottobre, Roma. DL sicurezza. il Consiglio dei ministri su proposta del ministro Bonafede ha introdotto un reato per punire chi introduce un cellulare in carcere e anche per chi lo possiede. Da 1 a 4 anni la pena. Reato che è accompagnato da un'altra misura molto dura per chi sta al 41bis: chi agevola quel detenuto nelle comunicazioni con l'esterno, quindi non solo tramite i cellulari, vedrà la sua pena fissata da 2 a 6 anni, mentre oggi era da 1 a 4 anni. Se, poi, il reato è commesso da un pubblico ufficiale, o da un incaricato di pubblico servizio o da chi fa l'avvocato, la pena sarà da 3 a 7 anni, rispetto ai 2-5 anni di oggi.
Un altro reato è il "Daspo anti-risse": più poteri al questore per "vietare l'accesso ad un elenco di locali, da 6 mesi a 2 anni. In caso di violazione del Daspo, cioè per il solo fatto di violare il divieto di recarsi in uno dei locali indicati dal questore, si configura un reato con pena fino a 2 anni di reclusione e una multa da 8.000 a 20 mila euro.
15 ottobre, Roma. Arriva in Parlamento la vicenda rivelata da Il Dubbio sulla circolare sul 41 bis riguardante le sentenze della Corte costituzionale e della Cassazione da applicare in ambito penitenziario ai detenuti sottoposti a quel regime speciale che una circolare, a firma del direttore generale Turrini Vita, clamorosamente revocata, dopo appena due giorni, dal capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap) Bernardo Petralia e dal vice-capo Roberto Tartaglia. Nel dettaglio, la circolare chiedeva ai direttori degli istituti di Sassari, Cuneo, L'Aquila, Novara, Parma, Spoleto, Terni, Tolmezzo, Viterbo, Milano Opera, Roma Rebibbia e ai provveditori relativi di conformare l'azione amministrativa ai princìpi e alle ordinanze di accoglimento dei reclami dei detenuti da parte della magistratura di sorveglianza in materia di cottura dei cibi (sentenza Corte costituzionale del 26 settembre 2018 n. 186), di eliminazione del divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità (sentenza Corte costituzionale del 5 maggio 2020 n. 97), di eliminazione delle limitazioni alla permanenza all'aria aperta ad una sola ora e di annullamento di sanzioni disciplinari inflitte per condotte consistenti in meri scambi di saluto tra detenuti come motivato da diverse sentenze della Cassazione.
16 ottobre, Modena. Rivolta e morti in carcere: procedono le indagini dei pm Francesca Graziano e Lucia De Santis sui filoni di reati commessi durante l'insurrezione a Sant'Anna dell'8 marzo e per i decessi di nove carcerati. Proprio a proposito di uno di questi decessi, quello di Sasà Piscitelli (morto il 10 marzo ad Ascoli dopo il trasferimento), la Procura ha dato mandato di ascoltare due giornaliste, Manuela D'Alessandro dell'agenzia stampa Agi e Lorenza Plauteri del blog giustiziami.it, che hanno ricevuto le lettere di due detenuti che sostengono di avere notizie di prima mano sulla sua morte. Secondo i racconti dei due detenuti Piscitelli è stato portato fuori dal carcere di Modena senza la visita medica obbligatoria (un aspetto controverso che riguarderebbe anche numerosi altri detenuti). Durante il trasferimento è stato picchiato. All'arrivo al carcere di Ascoli, è stato gettato in cella "come un sacco di patate", scrive un detenuto. Le sue condizioni erano critiche. Ed è morto poco dopo in ospedale. Scrive uno dei due detenuti alla giornalista: "Allora per la storia di Salvatore, lui era con me. Nel carcere di Modena abbiamo fatto il viaggio sullo stesso autobus. Lui stava malissimo, lo hanno anche picchiato sull'autobus. Quando siamo arrivati qua lui non riusciva a camminare, pero lui non è morto durante il trasporto".
29 ottobre. Nel decreto Ristori sono contenute anche le misure per le prigioni. Le annuncia con un post su Fb il ministro Bonafede che però subito precisa: "È escluso chi è stato condannato per mafia, terrorismo, corruzione, voto di scambio politico-mafioso, violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia e stalking, nonché chi ha subito una sanzione disciplinare, o ha un procedimento disciplinare pendente, per la partecipazione a tumulti o sommosse nelle carceri". Punito chi viola i permessi. Punite anche, con misure specifiche, le eventuali violazioni delle agevolazioni ottenute. A chi si allontana dal domicilio concordato verrà contestato il reato di evasione, punito con pene più elevate rispetto a quella da scontare, nella misura di un anno nel minimo e tre anni nel massimo, a cui si aggiungono anche i casi di evasione aggravata.
6 novembre. L'ufficio stampa della Corte costituzionale ha fatto sapere che il decreto antiscarcerazioni non è in contrasto con il diritto di difesa del condannato né con l'esigenza di tutela della sua salute né, infine, con il principio di separazione tra potere giudiziario e potere legislativo.
11 novembre. Nelle zone rosse gli spostamenti per fare visita alle persone detenute in carcere sono sempre vietati, non essendo giustificati da ragioni di necessità o da motivi di salute. In tali casi i colloqui possono perciò svolgersi esclusivamente in modalità a distanza mediante apparecchiature e collegamenti di cui dispone l'amministrazione penitenziaria e minorile o tramite telefono, anche oltre i limiti stabiliti dalle norme dell'ordinamento penitenziario.
20 novembre. No agli educatori in divisa! Apprendiamo dalla discussione, in sede redigente, presso la Commissione Giustizia del Senato del disegno di legge n. 1754 a firma dei Senatori D'Angelo, Riccardi, Romano, Angrisani, Donno e Leone, che prevede l'accorpamento dei funzionari giuridico-pedagogici del Dap del Ministero della Giustizia ai ruoli tecnici del Corpo di Polizia Penitenziaria.
21 novembre. Per il Dap sono 24 i detenuti con sintomi e 22 gli ospedalizzati, gli altri 781 sono asintomatici e a loro si aggiungono i 1.019 agenti. Per il governo non c'è nessuna emergenza Covid in carcere, perché secondo l'ultimo report aggiornato del Dap risultano solo 24 detenuti con sintomi all'interno dei penitenziari e 22 ospedalizzati. Il resto dei detenuti positivi al Covid, ben 781, sarebbero tutti asintomatici.
27 novembre, San Gimignano. Agenti penitenziari rinviati a giudizio per tortura. Medico condannato per rifiuto di atti d'ufficio. Si è conclusa il 27 ottobre, presso il Tribunale di Siena, l'udienza preliminare per le violenze verso un detenuto che sarebbero avvenute nel carcere di San Gimignano nell'ottobre 2018. 5 agenti penitenziari sono stati rinviati a giudizio. Tra le accuse di cui dovranno rispondere c'è anche quella di tortura. Durante la stessa udienza un medico del carcere, che aveva scelto il rito abbreviato, è stato condannato a 4 mesi di reclusione per rifiuto di atti d'ufficio, per non aver visitato e refertato la vittima. "E' la prima volta - sottolinea ancora l'avvocato Filippi - che un medico viene condannato per essersi rifiutato di refertare un detenuto che denunciava di aver subito violenze”.
Milano, novembre 2020


Lettera dal carcere di Siano (cZ)
Carte della consapevolezza parte 2
Manipolazione della mente umana, giungendo al punto di vivere quotidianamente nel limbo della sindrome di Stoccolma (innamorarsi dei propri carnefici).
Come promesso nel nostro precedente scritto veniamo oggi a parlarvi di manipolazione della mente. Qualcuno di voi sicuramente dirà (ma a me cosa me ne frega della manipolazione della mente). Ed invece frega anche a te amico e amica mia.
La manipolazione della mente è un fenomeno globale e abbraccia tutti quei ceti della società che non fanno parte delle élite o delle caste, ma ben sì, di coloro che le leggi non le promulgano, ma le subiscono, ed eventualmente ti ribelli a tali leggi, allora devi essere sottoposto a trattamento di resettamento, però poi accade che i tuoi resettatori ci prendano gusto e diventi la cavia su cui fare esperimenti.
Amici e amiche carissimi. Io e il mio compagno di questo viaggio lungo e tortuoso, abbiamo letto un libro che tratta proprio della manipolazione mentale e la sottomissione dei popoli facendogli credere che esiste la democrazia.
Facendogli credere che gli articoli 1, 2, 3, 9, 13, 15, 16, 17, 18, 21, 24, 25, 27, 28, 32, 36, 48, 49, 54, della nostra carta costituzionale siano inviolabili, noi invitiamo tutti coloro che ci onoreranno di leggere questo scritto a documentarsi anche sugli articoli da noi citati e poi decidere da soli se vi rispecchiate in coloro a cui quegli articoli sono applicati oppure negati. I politici di tutto il mondo, le grandi aziende le corporazioni bancarie e tutti coloro che hanno necessità di vendere o pubblicizzare un loro prodotto, si servono di società ad hoc e giornalisti compiacenti, i quali si adoperano affinché tale prodotto, la loro verità, e le loro regole che ti vogliono somministrare siano meno dolorose possibile, ma allo stesso tempo letali e tossiche come loro desiderano.
Chi si schiera contro costoro diviene il mostro di turno, colui che va ghettizzato, sbugiardato, messo alla gogna ed in ultimo, punito perché non ha accettato le loro regole.
Una volta il nemico veniva eliminato fisicamente, regimi totalitari non esitavano ad uccidere materialmente colui o coloro che di opponevano alla volontà del dittatore.
Oggi non è più così se non in rare occasioni, il potere è diventato più subdolo, si è affinato, si è evoluto, ha trovato nuove forme per distruggere ed annientare il nemico di turno. Il libro che abbiamo citato prima, si chiama (governo globale) è la storia segreta del nuovo ordine mondiale, abbiamo estrapolato alcune frasi citate nel libro sperando di poterle condividere con voi.
La prima è: divide e impera: cioè dividi e governa.
Sono citazioni che ci pervengono dall’Impero Romano, ora ancora una volta qualcuno ci dirà: ma che mi frega a me dell’impero romano: non dimenticate che la politica di questo paese deriva dalla politica dell’impero romano.
Analizziamo per un istante la frase dividi: cioè dividere qualcosa o qualcuno, un avversario oppure degli avversari coesi sono un problema, ma se li dividi con lusinghe, con la forza, con false promesse, diviene molto più facile attaccarli e distruggerli.
Secondo atto governa: ora è il momento di governarli, una volta divisi, le persone hanno bisogno del loro pastore, un gregge senza pastore andrebbe allo sbando, ma chi sono i pastori o il pastore?
Gli stessi che ti hanno avvelenato la mente con false promesse. Piccoli gruppi cercano di opporsi al tiranno di turno, ma i mezzi della propaganda li hanno i tiranni, possono giustiziare ogni malfatto, ogni azione subdola, in nome di un bene superiore, tutto è concesso, tutto è permesso, non importa se ci sono persone che ne pagano le conseguenze perché porsi il problema di pochi se hai il consenso di tanti?
Questo è ciò che hanno fatto e faranno a noi, con tanta pazienza ci hanno divisi ed ora possono governarci a piacimento, una volta istituzionalizzata la mente, il corpo la segue in modo meccanico quasi per automatismo. Oggi molto è cambiato e quasi non ce ne rendiamo conto, gli equilibri geopolitici, sociali culturali antropologici.
La tematica del nichilismo umano è penetrata sempre più ne nostro quotidiano, globalizzando di fatto le nostre coscienze e il nostro modo di pensare, fino a spingerci a credere che siamo noi il problema di tutti i mali.
Eppure non è così, le persone dopo tante sofferenze cambiano, chi non cambia sono coloro che sulla nostra pelle e sul nostro status quo ci vivono e ingrassano, un pugno di persone che decidono non solo per chi non vuole decidere, ma anche per coloro che non sono della loro stessa risma, eppure sono costretti ad adattarsi alla loro mentalità, altrimenti vengono tacciati di collusionismo.
Nel libro che abbiamo letto c’è uno studioso di sociologia che si chiama Joseph P. Overton, ha creato un modello di rappresentazione che viene definito: finestra di Overton. Che cosa è questa finestra di Overton. Ogni idea, anche se ripugnante, ha una possibilità di applicazione basta solo creare dei passaggi intermedi ed il gioco è fatto.
Come si sviluppa tale idea. Si inizia von un evento tragico, oppure un personaggio famoso promuove l’idea, l’opinione pubblica contraria la respinge, l’intento però non è tanto quello di dargliela già servita, serve solo ad aprire un dibattito, però l’amo è lanciato e il dado è tratto. A questo punto, se quella idea è ben sponsorizzata dai mass media, cioè da chi detiene il potere di informare le masse, la marcia di quell’idea sarà inarrestabile e teorizzata fino alla sua applicazione.
Altro tema che ci riguarda da vicino: la creazione del nemico. Quando la politica non è in grado di dare risposte ai popoli, l’unica alternativa, è dargli un nemico di cui aver paura non importa se quel nemico è reale oppure fasullo, l’importante è avere qualcuno da additare come il male, in tal modo si distoglie l’attenzione dai problemi reali e si concede alla massa la razione di oppio di cui ha bisogno al fine di renderla unita sotto il giogo del potere.
Si badi bene amici e amiche care, non c’è bisogno che un nemico esista per davvero, basta la percezione del pericolo per crearlo, il gioco sta proprio in questo la mente umana assimila il concetto del pericolo non lo vede, non lo tocca, perché quel pericolo in effetti non c’è ma mentalmente tu hai paura.
Una volta fattoti assimilare la percezione del pericolo sarai disposto a barattare i tuoi diritti e le tue libertà fondamentali con applicazioni di leggi che solo il tempo ti farà comprendere quando ti sia costato affidarti a costoro.
Osservando un po’ le tecniche per creare il nemico pubblico numero uno di turno ci accorgiamo che sono sempre le stesse: campagne stampa compiacenti, talk show, dibattiti televisivi, manifestazioni di piazza, ecc.…ecc….
Ovviamente il nemico di turno si macchierà di tutti i crimini e delitti del codice penale, di quello civile, di quello deontologico e di quello morale.
C’è una bellissima frase di George Orwell che cade a pennello su ciò di cui stiamo parlando: la consapevolezza di essere in guerra e quindi in pericolo, fa sì che la concentrazione del potere finisca nelle mani di una piccola casta, la quale farà sembrare l’unica e inevitabile condizione l’affidarsi a loro per sopravvivere.
Negli anni scorsi, il nemico lo si individuava nella razza, nel colore della pelle, nella religione, ecc.…ecc… concetti che si sono sminuiti nel tempo, ma che comunque reggono ancora per alcuni dementi.
Si badi bene però, questi sono nemici esterni, servono solo al momento di rendere unito un popolo sotto una sola bandiera o un simbolo. Il nemico interno è altro, è colui che rovina l’economia, è colui che sa fare solo del male, è colui che crea ogni sorta di problema e chi meglio della criminalità può assumere questo ruolo?
L’Italia l’hanno fatta diventare la culla della mafia, della camorra, della ndrangheta e di ogni sorta di criminalità esistente su questo pianeta.
Abbiamo deciso di darvi qualche numero statistico inerente ai problemi della criminalità a libello globale: su 197 nazioni di questo pianeta, noi siamo per problematiche criminali a 187 posto in classifica, solo 17 paesi fanno meglio di noi. Si badi bene però, in quei 17 paesi, il tasso di disoccupazione è ai minimi e quando si affronta la problematica carceraria e il reinserimento del reo, il tasso di recidiva è al 20%.
In questo paese il reinserimento è una favola per bambini, ed è per questo motivo che il tasso di recidiva è al 73%, solo in alcuni istituti di questa penisola si applica e si crede nel reinserimento penitenziario, e i risultati si sono palesati così lampanti che solo uno stupido oppure solo persone in mala fede non riescono a vederli, io opto per la seconda possibilità. Allora chiediamoci perché dobbiamo essere il nemico di turno, il parafulmine di ogni problema, il male di ogni cosa. Il discorso è semplice, noi siamo la pezza d’appoggio ai fallimenti degli altri noi siamo la fortuna per alcuni, (di questo però parleremo nel prossimo capitolo) noi siamo lo sfogo per la rabbia dei frustrati, noi siamo la palestra dove si allenano i falliti, noi siamo le promozioni, l’arricchimento, il posto sicuro, le medagliette sul petto, gli sceneggiati, i film, i libri, le scorte per comodità ecc.. ecc.…
Noi siamo tutto ciò amici e amiche care, ma sia chiaro, io non provo nessuna rabbia per questo, ciò che mi fa rabbia davvero è la mancanza di consapevolezza e l’indifferenza di tanti che sono capaci solo di lamentarsi, il carcere li ha resi talmente apatici che non riescono più il lottare per i propri diritti, parliamo di lotta democratica e civile, non mi interessa altro. Lottare per i propri diritti, significa in primis credere in sé stessi e poi negli altri che combattono al tuo fianco.
Una comunità se è fatta oggetto di attacchi ingiusti, attacchi mediatici preconfezionati e ad arte, quella stessa comunità si difende, si ribella e reagisce. Noi siamo gli unici che ci prendiamo le bastonate tra i denti tutte le volte che a qualcuno gli gira male e non diciamo una parola, forse siamo diventati masochisti senza rendercene conto, oppure ci hanno istituzionalizzato talmente il cervello che ormai il danno è irreversibile.
Eppure, amici cari, io credo che in noi ci sia ancore Quella forza di poter costruire qualcosa di nuovo, di essere migliori di ciò che ci vogliono far apparire, c’è solo bisogno di crederci di risvegliare in noi quel sentimento di comunità e compattezza che ci ha sempre distinti dalle pecore. Amici e amiche care al momento ci fermiamo con lo scritto, ma non con lo spirito di insistere per costruir qualcosa insieme.
Serve solo unità e consapevolezza di un’esistenza migliore. Un abbraccio a tutti e vi raccomandiamo di fare girare in ogni istituto della penisola questo scritto.

Catanzaro, 15 ottobre 2020
Vostri amici detenuti


Lettera dal carcere di Padova
Carissimi compagn* sono Eddi Karim. Proprio siamo in quarantena dal covid 19. Coronavirus che qua al carcere penale di Padova ce ne sono tanti positivi, solo al reparto in infermeria ce ne sono 25 e altri sono isolati nelle sezioni. Anch’io sono chiuso in quarantena in attesa dell’esito del tampone, e non sono solo io ma tutta la sezione che conta più di 40 persone, speriamo bene, ed ho sentito e ho letto nel giornale locale che ce ne sono anche tante guardie positive ed altri operatori.
E’ tutto partito dall’Altra Città quella e anche tutti quelli delle pasticcerie sono tutti positivi. Speriamo che finisca bene. Credetemi io personalmente ho paura visto che soffro di asma e diabete cronici, qua mi sento inutile visto che nessuno ha voglia di ribellarsi. [...] per il resto qua come vi ho raccontato è un carcere di merda. […] Ora siamo tutti in ansia in attesa di questo maledetto esito del tampone. Concludo con il saluto a tutti voi ai compagni di Verona e tutt* quanti con un ringraziamento speciale per quello che stanno facendo per sostenerci e a Davide Delogu e tutti i compagni in lotta.

11 novembre 2020
Eddi Karim, Via Due Palazzi, 35 - 35136 Padova


lettera da una comunità di belluno
Cari compagni di Olga, vi scrivo dal nordest dove sto scontando una pena prima in carcere e adesso reinserito nella società attraverso una "comunità" che di comunità ha a che poco che fare. Qui si fanno corsi finanziati dall'europa che quando sei arrivato alla percentuale giustificata per essere retribuito il denaro che all'inizio ti facevano immaginare il tutto finisce. Il corso viene cancellato ed i soldi? Chi se li è intascati? La comunità? domande che mi faccio ogni giorno. comunità che appena ti risvegli dallo stato zombii che ti vorrebbero mantenere a vita ti scassano fuori, ti dicono meglio che ti cerchi un'altro posto un'altra comunità. Forse ho capito troppo. adesso sono personaggio scomodo.
E per non parlare del lavoro nei meleti da dove arrivano le bellissime mele che stanno sulle tavole dei padroni, qui la manodopera è di 10 euro al giorno, 0 euro per quelli come me che facevano tirocinio. E lavoro duro senza sosta schiavizzati sfruttati fino in fondo e se ti fermi se lavori piano ti sgridano fino anche prendere una sberla dal capo come il sottoscritto. Poi se ti innamori di una utente e la metti incinta ti separano a forza e cercano di non farti vedere piu se non su whatzapp e anche lì senza intimità perchè c'è l'operatore psicologo che ti ascolta e che ti interrompe se parli di cose che a lui non vanno. Ma la democrazia dove sta? L'amore è un crimine?
e poi sono 3 anni che mi prendono in giro con la scusa che ho la pericolosità sociale non posso uscire se non accompagnato dall'operatore o da persona di fiducia. Appena ti trovi l'avvocato con i controcoglioni che naturalmente non va bene a loro non ti permettono di andare da lui nonostante la nomina. Ma il mio avvocato per fortuna è uno per bene un'AVVOCATO presidente dell'Anpi ed europarlamentare di Rifondazione Comunista e lui mi dice non preoccuparti che se maometto non va alla montagna la montagna andrà da Maometto. E si stavolta la pagheraranno tutta la loro sfacciataggine le loro bugie il loro sfruttamento, codardi che si aprofittano dei più deboli ma il debole a volte diventa forte e questo è il mio caso per fortuna.
Poi vi parlerò della "Caritas" che di caritas ha ben poco a che vedere. Anche li a spostare sacchi pesanti kili e kili da camion a tir che vanno a Napoli e a Caserta. Il tutto per 10 euro al giorno. Manodopera a gratis praticamente e la chiamano caritas. e poi dove vanno quei tir. Che fine fa quella roba da vestire che tanto ci tengono i direttori che hanno messo perfino telecamere per evitare che ti porti via qualcosa. Io la risposta dentro c'è l'ho ma la lascio immaginare a voi perchè non vorrei essere querelato per quello che scrivo. Ma comunque tutto tiene a venire a galla come la merda. Ecco due informazioni del nordest dove pure qui c'e la pandemia ma per il lavoro ci si suda uno sull'altro e i tamponi te li fanno si una volta all'anno ma continui a lavorare e se uno era positivo nel mentre non poteva infettare gli altri? Il lavoro nonostante la pandemia non si ferma il capitalismo continua ma come tutti gli imperi è destinato a crollare e forse noi lo vedremo crollo. Sarà uno spettacolo stupendo....
Da un compagno anarchico del nordest contro il potere. Saluti libertari.

novembre 2020


Lettere dal carcere di Pavia
Buona sera, mi chiamo Papandrea Nicolas e sono un ragazzo omosessuale detenuto presso la casa circondariale di Pavia.
Sono risalito alla vostra associazione grazie a Beppe l'anarchico. Beppe (anche lui prigioniero in codesto istituto) dopo aver appreso dal sottoscritto lo svolgimento della mia prigionia caratterizzata da abusi e sopprusi, mi ha parlato di voi esortandomi a raccontare anche a voi le cose che ho subito e le cose che ancora subisco in questa prigionia perchè sono omosessuale. Voglio precisare che codesti abusi e sopprusi li ho subiti dai carcerati e dagli agenti e ad oggi non è cambiato proprio nulla, e come me, vi sono altri prigionieri omosessuali che subiscono in silenzio queste angherie.
Vi spiego in breve cosa mi è successo e succede ancora qui nella prigione di Pavia a me e ad altri ragazzi omosessuali.
Nel 2013 sono stato portarto nella prigione di Pavia e da quel momento è incominciato l'incubo. Sono stato collocato nella sezione Protetta del padiglione vecchio, ho capito subito che non sarebbe stato facile per me, ma non immaginavo nemmeno cosa mi sarebbe sucesso. Ho cambiato in 30 giorni 13 celle perchè nessuno, né stranieri, né italiani mi volevano in cella con loro solo perchè sono omosessuale.
Tra un cambio di cella e l'altro passava un giorno o due e in questi giorni venivo trattato come un lebbroso. Mi facevano mangiare in bagno, mi orinavano nel letto, mi obbligavano a lavargli i vestiti, mi minacciavano con un coltellino artigianale per assicurarsi che non dicevo nulla agli agenti, se no mi avrebbero accoltellato. Tutto ciò per i primi 30 giorni. Poi un giorno sono andato in doccia e appena si creò un po' di vapore sono entrati altri quattro prigionieri e l'agente chiuse la porta a chiave ed era strano, esco subito dalla doccia per scappare, quando mi afferrano e mi buttano per terra riempiendomi di botte, per poi orinarmi addosso e stuprandomi a rotazione tra schiaffi e insulti.
Dopo un bel po' arriva l'agente, vede il tutto dicendo, ora basta lasciatelo e mi soccorse, ma appena dico che volevo denunciare l'accaduto mi aggrediscono pure gli agenti creandomi un taglio in testa, mi portano dal dottore e gli espongo l'accaduto, ma il dottore mi disse: sei bugiardo, sei caduto e gli agenti ridevano, poi raccontai lo stupro ma mi dissero: ma quale stupro, sei tu che lo volevi, li hai provocati, poi sei omosessuale ti piace caxxo, non è vero frocetto?
Queste situazioni andarono avanti per un anno e poi fortunatamente mi trasferirono. Oggi mi hanno riportato qui, ora hanno aperto il padiglione nuovo, ora le sezioni sono quattro, le celle sono composte da tre, quattro prigionieri e le docce sono nelle celle. Ma non per questo la vita di un omosessuale è migliore. Oggi gli omosessuali che vivono sui tre piani con le celle aperte vengono picchiati dentro celle dove non ci sono le telecamere. Sempre nelle celle si viene violentati, obbligati a prostituirsi. Tutto ciò accade nelle celle dove non vi è alcun controllo. Ma dovete sapere che gli agenti sono a conoscenza di queste cose, ma non fanno nulla anzi ne sono divertiti e spesso incitano a fare queste cose ad un omosessuale.
Anche a livello lavorativo l'omosessuale è discriminato. Dovete sapere che un omosessuale non può lavorare in cucina o come portavitto, perchè i prigionieri mussulmani non prenderebbero più il mangiare che dà la prigione perchè toccato da un omosessuale, quindi niente. Per gli stessi motivi non puoi fare il lavorante di sezione perchè i musulmani non accettano la modulistica o che porti la loro borsa in frigo un omosessuale. Quindi quando un omosessuale viene messo a lavorare, può fare solo lavori di pulizia delle aree esterne la sezione, come lavaggio scale, infermeria, aule di scuola ecc.
Spero di aver spiegato al meglio quello che accadeva e accade tutt'oggi in questa prigione a un omosessuale. Ora vi saluto speranzioso in una vostra lettera di riscontro, nel mentre vi porgo distinti saluti. Un abbraccio a pugno chiuso anche da me!! Beppe (A cerchiata). Ciao.

3 novembre 2020
Nicolas Papandrea, via Vigentino, 85 - 27100 Pavia

***
Annuncio che da oggi 1 dicembre 2020 inizio uno sciopero dell’aria e saletta. Nonostante le varie segnalazioni al c.c. di Pavia, garante nazionale e garante locale dei detenuti a oggi non sono mai sotto posto a visite mediche e tanto meno in trattamento sanitario! Con questo sciopero chiedo che mi si tolga dall’isolamento a oltranza in cella (in caso di malessere non può essere testimoniato come già avvenuto il 4/7/20 e segnalato in cartella sanitaria) e chiedo trasferimento a Ferrara, Alessandria o Terni.
Saluti a pugno chiuso. Beppe.

dicembre 2020
Giuseppe Bruna, via Vigentino, 85 - 27100 Pavia


lettera dal carcere di siracusa
Ciao! Oggi mi è stato sbloccato il foglio di resoconto dell'assemblea a Bologna e aggiornamenti che era stato censurato il 6 ottobre.
Innanzitutto grazie di cuore per la vicinanza, la solidarietà, il pensiero costante, per provare a farmi arrivare sempre notizie e aggiornamenti... tentativi purtroppo quasi vani, perchè fin ora mi hanno sbloccato solo appunto il suddetto foglio e la rassegna della seconda metà di agosto. Oltre alla censura ho seri problemi con la posta, e mi basta fare un recap dei mittenti censurati per capire che sono arrivate al carcere solo le rassegne spedite da Bologna, delle altre nessuna notizia. SI sono "perse" anche decine di lettere... mi pare di capire che quello che viene spedito con posta regolare, al 70% non arriva. Per intenderci, nemmeno le lettere di mia mamma da Messina, mentre la posta1 funziona e pare anche le cartoline. Credo di non essere il solo ad avere di questi problemi. Ovviamente ho anche sempre il dubbio di cosa arriva e cosa no fra le cose che spedisco io. Spero comunque che si continui a tentare con le rassegne, perchè mi fa molto (o più che altro mi farebbe) molto piacere leggere "notizie altre", comunicati, aggiornamenti, sapere che sono letture condivise con le/gli altrx prgionierx, nella speranza che la censura si ammorbidisca un po', visto che finora hanno bloccato tutto quello che riguarda "il mondo anarchico", anche semplici aggiornamenti. Non ho ricevuto nemmeno libri (tranne miracolosamente un paio), nè opuscoli che so mi sono stati spediti... questo spero sia merito di qualche postino che si sta facendo una "cultura alternativa"!! Daje postino!!
Mi è stato chiesto un "contributo scritto al dibattito", ma io sinceramente, a parte aggiornare sulle mie condizioni, non saprei proprio cosa dire al momento, magari in futuro... adesso non ho sunti di riflessione da lanciare (anche se ho gradito quelli ricevuti da quel poco che ho potuto leggere) e nono ho voglia di lanciarmi in analisi politiche o tecniche che credo risulterebbero ridondanti... non me ne si voglia!
Posso dire di "stare bene" nonostante l'isolamento che preferisco imputare a motivi logistici legati al covid piuttosto che sospettare fantasiosamente una qualche strategia psicologica atta a mettermi in difficoltà, come qualcuno mi ha suggerito.
HO trovato, mio malgrado vista la situazione il tempo per stare con m stesso e riflettere su tante cose, perlopiù personali (ma non esclusivamente). Faccio colloqui con la mia famiglia. Insomma, per adesso non mi lamento. Non so come si metteranno le cose nel prossimo futuro e provo a non preoccuparmene troppo, que serà serà.
Leggo tanto, ascolto musica, scrivo, ho il cuore ispirato... mi sento lucido e forte. chiaro che non mancano momenti di sconforto e giornate no che non è facile affrontare da solo, come anche pesa la mancanza di confronti... e rosico per la posta. Ma che dire, mi sento fortunato ad essere riuscito finora a non vivermela troppo male, perchè è una merda e nessunx dovrebbe stare in queste condizioni.
Sono tante le persone con le quali vorrei parlare di un'infinità di cose, occhi negli occhi, speriamo presto...
Daje fortissimo! Con tanta forza e il cuore vicino a tuttx le/i detenutx

Carcere di Siracusa - Florida (la periferia della periferia...), 31 ottobre 2020
Claudio (Op. Bialystok)


lettera dal carcere di Caltagirone (ct)
Continuo la conflittualità, sciopero dell'aria e sciopero del vitto. Il 22 Ottobre, per la prima volta, sono stato autorizzato dal DAP, su ennesime richieste della mia famiglia che sempre fa, a svolgere una videochiamata solo con i miei genitori e basta, altrimenti avrebbero bloccato la video, a stile 41bis. Non voglio azzardare troppo ma penso che la pressione avuta da questa determinazione con la campagna di scioperi solidali qualche effetto, per tale concessione, l'abbia avuta, come pure dopo una settimana la sbarrocrazia mi ha spostato in un'altra sezione di isolamento quasi vuota (i due presenti dormono 18 ore al giorno...ci voleva un pò di silenzio tombale..). Mi danno la cella migliore con le pianelle a terra e pure nei muri del bagnetto, un lusso, dove finalmente non ci sono perdite di acqua, e per ora tirando le somme, abbiamo ottenuto una piccola miglioria, ossia una migliore vivibilità in cella e di iniziare qualche videochiamata. Seguiranno poi aggiornamenti e unisco un mio testo sul carcere che avevo scritto tre anni fa, mai pubblicato come contributo per la solidarietà dato che non riesco a scriverne uno come si deve riguardo a questa campagna solidale. Viva chi lotta.

3 novembre 2020
Davide Delogu, Contrada Noce S. Nicola Agrò - 95041 Caltagirone (Catania)

***
CONTRO LA GALERA DAL CARCERE DI AUGUSTA (SR)
Nonostante la mia situazione di detenuto in G.S. (Grande Sorveglianza) ho degli aggiornamenti su alcune vicende carcerarie; inoltre vorrei esporre alcuni punti che si rifanno al modo in cui si può comportare un anarchico, o meglio su come io (in quanto anarchico, non sottomesso, per esperienza diretta) affronto certe determinate situazioni del vissuto carcerario, dato che ogni anarchic* prigionier* si comporta e risponde come meglio crede (non sarò certo io quello che vuole dare “lezioni” di chi è più ribelle. L'anarcometro lo lasciamo agli pseudo intellettuali/rivoluzionari e agli arrivisti).
Aggiornamenti: 10 giorni fa, nel carcere di Augusta, vi è stato un pestaggio nei confronti di un detenuto marocchino. Alì, questo il suo nome, era già in isolamento perché si son presi a lamettate a vicenda con altri due arabi. Dopo qualche giorno venne a trovarlo la famiglia e la madre ricordò alla guardia che avevano due ore di colloquio prenotato, ma il secondino insisteva di averne solo una. La madre iniziò a lamentarsi per questo motivo e per risposta fu spinta dal secondino con molta forza, tanto da farla cadere seduta sopra la sedia, proprio di fronte al figlio arrivato in quel momento, che non ci ha pensato due volte a sferrargli un cazzotto in faccia. Nell'immediato lo presero una decina di guardie per il pestaggio. Alì è stato poi denunciato per aggressione verso l'aguzzino (come al solito) ma a processo sputtanerà quello che realmente è accaduto...dove non dovrebbe essere lasciato solo. Sappiamo bene che le guardie approfittano della loro forza e impunità, contro i più deboli, i più isolati, soprattutto stranieri. L'altro aggiornamento riguarda una ribellione collettiva di qualche giorno fa, nel carcere di Salerno. Il motivo è stato perché un loro compagno di 22 anni, dal carcere minorile è stato trasferito ai maggiorenni lì a Salerno per motivi di “ordine e sicurezza”, annullando il fatto che si può stare fino a 25 anni. Però non è stato messo insieme ai loro compagni in sezione, ma in transito dai “protetti” come aggressione alla propria dignità. Allora una sezione compatta ha cacciato via le guardie, scendendo in altre due sezioni, anche lì cacciando a calci in culo le guardie. Si sono dunque impossessati di tre sezioni, minacciando che fino a quando non avrebbero fatto salire, per stare assieme, il loro compagno. Le sezioni sono state prese in mano dal pomeriggio alla mattina successiva, fino a quando è stato deciso di far salire il loro compagno. Un “dialogo” che comunque è servito, nonostante nei giorni successivi siano stati trasferiti tutti, sparsi nelle regioni dello stato, tra cui uno nella sezione in cui mi trovo.
Invece, una notizia inedita sul “caso Cucchi” riguarda il momento in cui stava in sezione, dove richiedeva continuamente degli antidolorifici, dato che i carabinieri lo avevano macellato. Il capoposto di servizio che già era infastidito dall'orario da servo in cui era montato, aprì la cella di Stefano, ormai ridotto in fin di vita, entrando e dandogli il “colpo di grazia”, massacrandolo di colpi e in pratica uccidendolo definitivamente. Subito sono stati trasferiti tutti i detenuti presenti in quella sezione, per evitare testimonianze, ma uno di loro, un sudamericano, raccontò ai detenuti del carcere in cui arrivò (Alghero) questa storia. Sembrava molto strano che gli aguzzini carcerieri siano diventato all'improvviso degli “angioletti”...
Riguardo ai successivi punti che sto per scrivere, anche se viene impostato a volte in terza persona esprimo me stesso e come mi comporto nelle varie situazioni da anarchico non sottomesso; non intendo scrivere un “manuale” di come un* anarchic* si dovrebbe comportare, come scritto in precedenza, non sono un “duro e puro”, ma un prigioniero che attraversando l'inferno della repressione carceraria ha risposto furioso in base alla propria esperienza. Poi se per alcun* ne traggono spunti interessanti da portare a compimento in modo proprio, ben venga.
Nei consigli di disciplina (o tribunale di esecuzione) se si è intenti ad andarci, sono obbligati a leggere per intero le accuse mosse contro di noi, in modo tale che si scoprirà se la guardia che ha redatto il rapporto ha “gonfiato” scrivendoci il falso; se così fosse, quando ritornerà in sezione, come ho sempre fatto, lo faccio scappare dalla sezione riempiendolo di insulti e spaccando tutto. Per tale risposta, anche se si verrà messi in isolamento, in totale sei secondini, avendo la colpa di aver rapportato il falso, per paura si sono messi loro il “divieto d'incontro” con me! E mi dicono che è la prima volta che succede questo, dovuto certamente ai detenuti pecoroni che hanno lasciato farsi
fare gli abusi da queste merde, dandogli il potere di farlo!
Gli spioncini del bagno tanto cari ai depravati in divisa devono rimanere sempre tappati perché siamo noi che decidiamo il nostro spazio alla privacy. Loro ti proporranno la “concessione” di tapparlo mentre si usa il bagno e di liberarlo quando non lo usi. Non è assolutamente accettabile! E' una violenza psicologica, perché se si va in bagno 10 volte al giorno bisogna tappare e liberare ogni volta lo spioncino...che si fottano le guardie depravate e, se ci tengono tanto, che vengano loro durante una perquisa o altro a togliere il tappo allo spioncino, tanto verrà subito rimesso!
Lo stesso se ci si trova in bagno proprio mentre vengono per la perquisa o battitura alle sbarre, non devono azzardarsi ad aprire la porta del bagno (che è sempre meglio farci un gancio per bloccarla), pena lancio di oggetti e liquidi contro i pervertiti.
– Guai se si dovesse venire svegliati durante il controllo notturno tramite l'accensione della forte luce artificiale, perché non usano le torce nonostante sia assente la luce “soffusa” notturna. Gli imprechi contro la guardia saranno così forti e rabbiosi da svegliare tutto il carcere. Dopo che è accaduto 4 volte (con conseguenti isolamenti) temendo la mia giusta reazione, non lo hanno più fatto. Dipende dai gusti, ma se una guardia monta in sezione allegro e sorridente, mi attivo subito a cambiargli l'umore insieme alla sua faccia di merda!
– Nelle perquisizioni corporali, le mutande non si abbassano mai!!Loro vogliono umiliarti nella tua integrità, convinti della loro superiorità e comandare il tuo corpo fin nell'intimità, grazie a tutti gli altri detenuti che lo permettono, quando invece una persona ha la facoltà di decidere se mantenere la propria dignità intatta. Io, in quasi 10 anni di galera, mi sono sempre rifiutato di abbassarmi le mutande. Vi sono state poche volte in cui rimanevano mezz'ora, cercando di convincermi con argomentazioni viscide e ignoranti, e quando questa eccessiva presenza mi dava il voltastomaco, per finirla gli allargavo leggermente l'elastico delle mutande (non troppo per non far vedere le parti intime) così si assicuravano (volenti o nolenti) che non nascondevo niente, o altrimenti li costringevo a passarmi il metal-detector. Senza contare il fatto che lo dicono le loro merdose leggi che è vietato denudare durante le perquisizioni, ma sono talmente miseri in tutti i sensi che non interessa questo aspetto legale, e men che meno a me!
– Sono l'unico in tutto il carcere che si rifiuta di farsi odorare dai cani anti-droga che portano ogni tanto. Mi devono dire il motivo, il nome e cognome del presunto accusatore che dice che io ne possiedo, non avendo mai avuto nessun reato per droga. Sentendomi offeso, ho creato talmente di quello scompiglio, casino e perdita di tempo, che quando l'unità cinofila mi vede, mi evita direttamente.
– Quando vi è la battitura alle sbarre non deve accadere quando si sta mangiando (lo stesso vale per le perquisizioni) quantomeno aprirgli le finestre. Non siamo i loro burattini consenzienti!
– I secondini non possono e non devono dare ordini ai detenuti che non sono i loro sottoposti, non si è in un carcere militare e non si indossa una merdosa divisa! Figurarsi se fanno gli autoritari con gli anti-autoritari, con gli anarchic* che hanno il giusto modo di ribellarsi agli “ordini”. Siamo sempre noi che decidiamo cosa fare anche se a suon d'isolamento e, per quanto mi riguarda, ora gli ho fatto cagare il loro modo di rivolgersi a me. I carcerieri devono rivolgersi al detenuto facendo richieste con la dovuta gentilezza. Poi se lo fanno tremanti di paura per il solo fatto di rivolgersi ad un* anarchic*, va ancora meglio. Per non annoaire mi fermo, nell'aver considerato il proprio atteggiamento refrattario in questi pochi punti. Tuttavia ve ne sono tanti altri...


Sulla mobilitazione dei rider a Milano
Come Rider in lotta Milano abbiamo partecipato alle recenti mobilitazioni dei lavoratori del food-delivery. Scriviamo qui alcune considerazioni sui fatti, i motivi, la composizione sociale e le pratiche di questi giorni di proteste.

Il motivo scatenante: il nuovo contratto. Il nuovo contratto nazionale siglato a settembre da Anar/Ugl e Assodelivery è entrato in vigore il 3 novembre, come "adeguamento" alla legge n°128 del 2 novembre 2019, che prevede la sottoscrizione di un contratto nazionale per il settore del food-delivery. L'accordo, che mantiene il lavoro autonomo e la paga a cottimo, è scritto su misura per le aziende e contro i lavoratori. Per citare solo alcuni punti, esso non riconosce la domenica come giorno festivo e fa scattare l'indennità notturna da mezzanotte, quando in quasi tutte le aree di consegna il servizio è sospeso. Soprattutto, il nuovo contratto non prevede alcun compenso minimo orario, nemmeno in caso di assenza di ordini. Inoltre, dal 3 novembre sono state abbassate anche le tariffe per le singole consegne da parte di Just Eat, Glovo e Uber, raggiungendo nell'ultimo caso anche cifre attorno ai 70 centesimi (lordi). Deliveroo ha invece approfittato di un contratto senza alcun tipo di vincolo per cancellare l'incentivo minimo orario di 6 euro lordi da molte aree di consegna e per introdurre il free-login in circa 80 zone, che ha comportato una drastica riduzione del numero di ordini per ogni rider. Tutto ciò ha determinato una violenta rabbia da parte dei lavoratori, fin dal primo giorno di applicazione delle nuove condizioni contrattuali.
I fatti. Il pomeriggio del 3 novembre un numeroso corteo spontaneo è partito da piazza 24 maggio causando forti rallentamenti al traffico in città. La mattina del giorno seguente diversi rider si sono ritrovati nella stessa piazza. Alcuni si sono rifiutati di consegnare gli ordini, preferendo mangiarseli. Poco dopo sono ancora partiti in corteo andando a toccare i punti dove sono soliti radunarsi i rider e facendo informazione tra i lavoratori. Il pomeriggio si è tenuto un presidio chiamato dalla Uil e dal sindacato Deliverance Milano in piazza Duca d'Aosta, di fronte alla stazione Centrale. Da qui, contro il volere degli organizzatori, che dal megafono ammonivano i lavoratori a non muoversi in corteo dicendo che avrebbero preso multe e denunce, è partita una nuova biciclettata spontanea di 150-200 persone. Questo è stato il punto di svolta della mobilitazione: i rider hanno scelto con determinazione di non rimanere dentro gli steccati imposti dalle burocrazie sindacali e di non avere paura della repressione. Ne è nata una mobilitazione spontanea e genuina, che ha dimostrato quanto i lavoratori possano essere forti quando si organizzano in maniera autonoma. I rider hanno prima raggiunto piazzale Loreto, per poi proseguire lungo corso Buenos Aires, corso Venezia, piazza San Babila, per terminare in piazza Duomo, dove è stato dato appuntamento per il giorno successivo alle ore 12 in piazza 24 Maggio.
Giovedì 5, attorno alle 12.30, una nuova biciclettata: nel giro di qualche decina di minuti, da una cinquantina di rider, il corteo si è ampliato fino a raggiungere 300-350 persone. La mobilitazione è finita solamente dopo le 22, per un totale di 10 ore di corteo, che ha girato più volte la città. Anche il giorno seguente, venerdì 6, ci sono state due biciclettate auto-organizzate, meno numerose del giorno precedente ma ugualmente determinate, una partita all'ora di pranzo e l'altra a cena, che hanno toccato diversi punti di Milano.
Le caratteristiche della mobilitazione: la composizione sociale e le pratiche. Le proteste contro il nuovo contratto nazionale, che hanno visto cortei da martedì 3 a venerdì 6 novembre, hanno rappresentato la più grande lotta del settore del food-delivery a Milano, superiore anche alle manifestazioni a favore delle bici sui treni della scorsa primavera. Infatti, mentre allora tale rivendicazione toccava materialmente soltanto la vita quotidiana dei lavoratori-pendolari, stavolta il nuovo contratto ha peggiorato indiscriminatamente le condizioni di tutti i rider. All'interno dei vari cortei, marcata è stata la componente immigrata, in gran parte giovanile e composta in prevalenza da lavoratori provenienti dall'Africa sub-sahariana, ma anche dal Nord-Africa, dal Pakistan e dall'India. Molti di loro sono rider pendolari, che ogni giorno prendono il treno per raggiungere Milano da altre località lombarde, rincasando a tarda notte.
Le biciclettate fatte dai lavoratori non avevano il solo scopo di sfilare di fronte alla cittadinanza e di rallentare il traffico della città. C'era l'istintiva consapevolezza che per scioperare per davvero, e dunque per ottenere qualche miglioramento, si dovessero danneggiare i profitti delle ditte di delivery. Per questo motivo venivano bloccati i colleghi che stavano lavorando, facendogli cancellare l'ordine dall'applicazione e requisendolo. Questa pratica è stata utilizzata in tutte le giornate di mobilitazione ed ha creato un certo consenso tra i lavoratori, aldilà di quello che dicono i giornalisti e i crumiri di Anar/Ugl: la prova è che tutte le biciclettate sono partite con qualche decina di rider e si sono notevolmente ingrossate stradafacendo, soprattutto dopo essere transitati nei principali punti di stazionamento dei rider. Altro pratica utilizzata per danneggiare nel concreto le piattaforme del delivery è stata il blocco dell'attività dei ristoranti, concentrandosi su quelli con più ordinazioni. I primi obiettivi sono stati dunque i fast-food e in particolare i Mc Donald.
Chiunque faccia il rider sa quanto siano odiosi i Mc Donald: accettano più ordini di quanti ne possano preparare in tempi adeguati per massimizzare i profitti, scaricando in tal modo tutto il "rischio d'impresa" sulle spalle dei rider, costretti spesso a lunghe attese non pagate. In queste situazioni, più volte abbiamo potuto constatare l'arroganza dei manager di Mc Donald di fronte alle lamentele dei lavoratori, che si sono spesso visti piovere addosso molteplici minacce. A riprova di ciò, durante i giorni della protesta milanese, a Cinisello Balsamo, un vigilante di Mc Donald ha aggredito un rider che chiedeva informazioni sui tempi di attesa dell'ordine.
Soprattutto nella giornata di giovedì 5 è stata bloccata l'attività di molti Mc Donald: i primi sono stati fermati direttamente dai lavoratori, mentre nel prosieguo della giornata i fast-food abbassavano le serrande quando i titolari vedevano arrivare i rider in sciopero.
Queste due pratiche hanno caratterizzato le giornate di mercoledì, giovedì e venerdì. Esse sono certamente migliorabili, ma nondimeno rappresentano un valido spunto su come poter scioperare con efficacia contro le piattaforme del delivery, le quali grazie al pagamento a cottimo, al free-login e alla finta autonomia possono disporre di un numero di lavoratori da poter rendere disponibili in ogni momento di necessità, che sia una protesta o una condizione meteorologica avversa. Inoltre, le biciclettate sono stati momenti in cui i lavoratori si sono conosciuti tra di loro e riconosciuti come forza collettiva: ciò ha contribuito a spezzare la solitudine e l'alienazione della vita da rider. Nell'ultima giornata di lotta, venerdì 6, la consapevolezza tra chi protestava era cresciuta, nonostante il numero calante di scioperanti: i lavoratori in piazza hanno deciso di recarsi sotto la sede di Ubereats, per gridare tutta la loro rabbia contro il colosso del food-delivery, e di redistribuire ai senzatetto della città molti tra gli ordini recuperati dai colleghi in consegna, che nei giorni precedenti erano stati gettati a terra.
Solidarietà e moltiplicazione. Durante i vari momenti della protesta c'è stata una grande solidarietà tra i passanti. In molti applaudivano dai marciapiedi o dai balconi delle case. Alcuni tassisti hanno platealmente incitato gli scioperanti. Gruppi di ragazzini hanno seguito per più giorni i cortei in bici a bordo di monopattini elettrici, scandendo i cori dei rider. Alcuni solidali si sono uniti alla protesta. La mobilitazione ha avuto un effetto moltiplicatore spontaneo: slegati dalle manifestazioni principali sono stati bloccati da gruppi di rider in due giornate differenti un Mc Donald e una Poke House. I rider di Treviglio (Bergamo) hanno esposto uno striscione di solidarietà ai colleghi milanesi. Infine, nel corso della stessa settimana, i rider di Torino, Sesto San Giovanni, Genova, Roma, Napoli e Bologna hanno scioperato.
Gli effetti della protesta. Già all'inizio del terzo giorno di proteste un membro dell'ufficio di Glovo si è recato di corsa in piazza Duomo per calmare gli animi dei rider, scusandosi "per un errore nel calcolo delle tariffe" e promettendo cambiamenti e bonus a destra e a manca. Non ha ottenuto molto successo, visto che la mobilitazione è proseguita per altri due giorni. Ancora durante le proteste Uber e Glovo hanno rivisto in positivo alcuni parametri delle tariffe di consegna. La sera di sabato 7, Glovo, per evitare ulteriori astensioni in massa dal lavoro, ha pagato il 91% in più ogni consegna effettuata. Subito dopo il termine della mobilitazione, Just Eat ha in un primo tempo dichiarato di voler assumere i propri fattorini con le tutele dei contratti subordinati e poi è ufficialmente uscita da Assodelivery, dividendo in tal modo il "fronte unico" delle grandi piattaforme del food-delivery.
Pensiamo che questi siano solo dei piccoli risultati parziali, per di più senza nessuna garanzia di attuazione duratura e concreta. Ad ogni modo va evidenziato come essi siano il frutto immediato delle proteste. Ora si aprirà una fase di nuove trattative tra Stato, sindacati e rappresentanti delle piattaforme. I tavoli ministeriali, convocati da oltre un anno, hanno già dimostrato tutta la loro inconcludenza, permettendo nei fatti l'applicazione del contratto nazionale firmato da Anar/Ugl. Dopo queste giornate di mobilitazione, i rider sono più consapevoli della loro forza collettiva, principale strumento per ottenere miglioramenti concreti. Se le nostre condizioni non dovessero cambiare siamo pronti di nuovo a lottare!
Rider in lotta Milano
13 novembre 2020, da chicago86.org