indice n.147

dai campi di internamento per immigrati
in ricordo di sante notarnicola
LETTERE DAL CARCERE DI BUSTO ARSIZIO (VA)
LETTERe DAL CARCERE di TORINo
LETTERA DAL CARCERE di GENOVA
A Genova, lavoratori portuali nel mirino della procura
Sardegna: appello delle madri di 45 militanti anti-militaristi
Lecce: processo No Tap, aggiornamenti e qualche riflessione
Solidarietà al movimento No Tav dai paesi baschi
LETTERE DAL CARCERE DI REGGIO EMILIA
LETTERE DAL CARCERE DI MILANO-OPERA
NOTIZIE DALLE CARCERI
DOVE STA ANDANDO LA SCUOLA PUBBLICA?
NO AL CONTRATTO PILOTA DI JUST EAT
Per il Tribunale di Milano uccidere i lavoratori non è reato

dai campi di internamento per immigrati
Morti sospette nei Cpr. Cinque morti sospette negli ultimi due anni all’interno dei

Cpr. Condizioni materiali e sanitarie indecenti. Numerosi fatti di violenza. Le

proteste e le ribellioni degli ospiti. Il Garante dei detenuti accusa, il Viminale

rassicura. Vakhtang Enukidze, un cittadino georgiano di 38 anni è deceduto

all’ospedale di Gorizia il 18 gennaio 2020. In seguito a una rissa scoppiata

all’interno della struttura di Gradisca D’Isonzo, era stato portato prima in carcere

e, dopo un giorno e mezzo di reclusione, di nuovo all’interno del Centro per i

rimpatri. Dentro aveva ripreso a star male e, successivamente, era stato trasferito in

ospedale, dove il 18 gennaio era deceduto. Sei mesi dopo, il 14 luglio, un altro

decesso avviene all’interno di Gradisca d’Isonzo. Si tratta di un cittadino albanese

che vi era entrato soltanto sei giorni prima, viene trovato riverso in stato di

incoscienza all’interno della cella di isolamento. L’estate precedente era stata la

volta di Harry, ventenne nigeriano con disturbi psichiatrici che si era tolto la vita

impiccandosi all’interno del Cpr di Brindisi-Restinco. E ancora: un cittadino

bengalese di 32 anni fu trovato morto negli stessi giorni “per cause naturali” dopo

aver trascorso 15 giorni in isolamento nel Cpr di Corso Brunelleschi, a Torino.

Infine, Aymen, un cittadino tunisino di 32 anni anche lui morto per cause naturali,

come aveva stabilito il medico legale che lo aveva visitato dopo il decesso avvenuto

all’interno del Cpr di Caltanissetta il 12 gennaio del 2020. (Da Osservatorio

repressione)

Sciopero della fame sulla nave quarantena gnv a Lampedusa. Alcune persone recluse

sulla nave quarantena GNV a Lampedusa (che hanno anche rilasciato una testimonianza

video) il 4 aprile hanno annunciato di essere in sciopero della fame contro le

deportazioni e contro le condizioni di detenzione a cui sono costrette. A un anno

dall'istituzione di queste prigioni galleggianti, ancora centinaia di persone sono lì

recluse. In un anno sono morte tre persone, durante la detenzione a bordo della nave o

in ospedale dopo essere state ricoverate d'urgenza. Le proteste e le resistenze a

bordo delle navi sono state tante e continue, ma spesso rimaste senza voce. Di seguito

la traduzione del video: “Qui abbiamo un fratello che si chiama Abdu, lo stanno

obbligando alla nutrizione forzata mentre sta facendo lo sciopero della fame. Stiamo

facendo lo sciopero della fame qui dentro per far sentire la nostra voce, ma la nostra

voce ancora non arriva. Stanno facendo affari su di noi, commerciano gli esseri umani

e ci stanno lasciando morire uno per uno come al nostro compagno lì dentro (Abdu).

Siamo bloccati qui in mare. Ci mettono sulle barche di deportazione, ci mandano ai

nostri paesi e così finisce perché nessuno sa niente. Il consolato tunisino che sta a

Palermo fa le pratiche per rendere possibili queste deportazioni, maledetto.

Quest’affare è un commercio di esseri umani e il consolato ci guadagna soldi. Tra

Tunisia e Italia c’è un accordo di 4.000 euro per ogni persona deportata, invece di

darli per le deportazioni perché non li date a noi? Il consolato tunisino a Palermo ci

vede in mare e invece di tirarci fuori si prende questi 4.000 euro, non gli importa di

noi. [...] A chi si occupa di diritti umani, ascoltateci perché abbiamo iniziato a

fare lo sciopero della fame ma finora non abbiamo avuto nessuna risposta. Oggi (4

aprile) siamo entrati in sciopero, uno sciopero selvaggio, lo continuiamo fino a che

non ci rilasciano e se ci porta anche a lasciarci morire lo faremo insieme. Siamo 17

qui sulla GNV […] Chi comanda sulla nave viene a bussarci alla porta per deportarci,

questa è una chiamata di emergenza, una richiesta di aiuto al consolato […], ai

rappresentanti del popolo, il popolo ci deve dare una possibilità. La gente qui muore

perché la nostra voce non arriva fuori. Siamo stanchi, stanchi, ci siamo stufati, non

ne possiamo più di questo paese (Tunisia) dove poi ci vogliono riportare. [Si nominano

vari personaggi]: Parlate di noi, non siamo terroristi siamo giovani che stanno

cercando un’opportunità. Tutte le notti dormiamo con la paura che entrino a prenderci

per le deportazioni. Da dieci giorni siamo chiusi qui dentro, in mezzo al mare, non

vediamo luce né acqua, non dormiamo la notte, parliamo e piangiamo […] la prossima

volta moriamo in mare: è responsabilità vostra, del governo e del consolato. Il nostro

compagno [indicando una stanza chiusa] da tre giorni non mangia né beve nulla [si apre

una porta di una cuccetta dove ci sono tre medici in camice verde attorno a un letto

che impediscono di filmare]. Perché c’è quest’accordo solo con la Tunisia? Guardate

cosa stanno facendo. Da dieci giorni siamo in mare senza luce né aria né niente, ci

sentiamo i capelli che cadono, sentiamo la puzza dei nostri corpi, respiriamo l’uno

sull’altro, ci manca l’aria. Neanche un pezzetto di sole abbiamo visto. La Tunisia è

un paese corrotto, il presidente Kais Saied vuole fare diventare anche noi dei

corrotti. Voi politici litigate tra di voi invece di risolvere i nostri problemi. È un

paese dove non si sono i diritti, se vieni deportato può succedere che ti portino

direttamente in carcere, quando arrivi in aeroporto dopo la deportazione ti prendono a

schiaffi, questo sarebbe il benvenuto di un paese dove si può rimanere? In Italia

dicono che i giovani tunisini non vogliono lavorare, è una storia falsa, non sanno

come si vive in Tunisia, diecimila franchi non li puoi avere e non servono a niente,

con quelli non puoi neanche mangiare. Anche se lavori non è abbastanza per vivere, se

vai a rubare ti mettono in carcere, se vai a pregare anche ti mettono in carcere. In

questo paese non abbiamo capito come si fa a vivere. Tunisi ha fatto accordi con

l’Italia, perché c’è questa divisione tra qualcuno che può rimanere e non viene

deportato e a noi ci deportano? Alcuni possono entrare anche solo col passaporto, ma

per noi tunisini non conta, se anche hai il passaporto non vale. Questo sciopero lo

portiamo avanti, se porta risultati bene, se no ci buttiamo nel mare insieme. [...]

Cosa vi abbiamo fatto, perché ci dovete deportare, se vogliamo tornare indietro ci

torniamo da soli. Da dieci giorni siamo qua nel mare e non vogliono fare nient’altro

che riportarci in Tunisia. Cosa abbiamo fatto finora, non ci lasciano nemmeno arrivare

in Sicilia, non vediamo il sole e siamo chiusi dentro queste gabbie. Vogliamo che

arrivi la nostra voce, lasciateci in pace, vogliamo arrivare e ognuno prenderà la sua

strada. Tanto non ci date da mangiare, non ci date da bere, non dovete mantenerci,

lasciateci che ognuno di noi è indipendente e si può arrangiare. Tanto non chiediamo

niente, ce ne stiamo andando perché in Tunisia la situazione è difficile, lasciateci

che riusciamo a uscirne così lasciamo più spazio alla gente che rimane a vivere e

lavorare in Tunisia. Ognuno di noi [indicando i suoi compagni] può dire qualcosa, i

nostri cuori sono pieni e di notte non dormiamo. Siamo stanchi, stanchi, perché non ci

lasciate, siamo dentro un carcere, guarda la nostra condizione. dove sono i fratelli

tunisini che hanno i documenti, che possono aiutarci e che non stanno facendo nulla?

Il comandante italiano ci ha detto ‘l’Italia ha accordi con la Tunisia quindi vi

portiamo indietro’. Per ognuno che viene riportato indietro il consolato si prende i

soldi che ti danno come risarcimento normalmente per sostenerti quando ti deportano, i

soldi dovrebbero essere per chi è deportato ma il governo se li prende. Abbiamo

lavorato ma non siamo riusciti ad avere una stabilità. Non abbiamo trovato la nostra

fortuna là e proviamo a trovarla qua. Abbiamo passato il mare e non siamo morti, siamo

arrivati, siamo venuti in una barca che era a pezzi, eravamo nelle mani di dio.

Sentite il nostro peso, siamo esseri umani come voi, abbiamo cuore e fegato. Siamo

arrivati qui, fateci uscire. Kais Saied e deputati dovete cancellare gli accordi, così

non ci deportano. Uno lavora e fa tutto per arrivare, voi lo portate indietro. Io ho

lavorato sette mesi Ci hanno portato venerdì scorso in Sicilia ad Augusta, abbiamo

voluto fare uno sciopero pacifico, non abbiamo rotto niente e ci hanno portato in

mezzo al mare. La barca della GNV da Lampedusa ci ha messi in mezzo al mare tra la

Sicilia e Lampedusa La volta scorsa stavamo in mezzo al mare da due giorni, e quando

sono arrivati pensavano che fossimo morti. Siamo tunisini vogliamo vivere, vogliamo

migliorare la nostra vita, ognuno ha la sua situazione, ognuno ha la sua storia, chi

aiuta i suoi fratelli, chi aiuta la sua famiglia, chi vuole tornare e sposarsi con la

sua fidanzata, non siamo arrivati al paradiso, sappiamo qual’è la situazione che ci

aspetta […] Ci siamo stufati della situazione. Dateci una possibilità in questa vita,

siamo scappati da là e ci state ostacolando, cosa vi abbiamo fatto. Non stiamo

chiedendo niente al nostro paese se non i nostri diritti di movimento. C’è gente che

ha provato a venire tre o quattro volte, lo ributtano in Tunisia e non ha più

possibilità. (Da Comitato Lavoratori delle Campagne)

18 aprile. Contro tutti i Cpr: presidio a Gradisca. Il Cpr di Gradisca –

precedentemente noto come Cpt e Cie – ha riaperto il 17 dicembre 2019. Un mese dopo,

colpito dalle botte di otto membri delle forze dell’ordine, lì dentro è morto Vakhtang

Enukidze, che era nato in Georgia e aveva 38 anni. Tra le varie versioni di quello che

è successo nelle ore che hanno preceduto la morte di Vakhtang, noi abbiamo subito

creduto e diffuso quella dei suoi compagni di prigionia, che, in cambio della loro

testimonianza, hanno ricevuto dallo Stato italiano un decreto di espulsione e sono

stati immediatamente deportati nei Paesi di provenienza. Dopo altri due mesi, a

Gradisca e nei territori circostanti cominciava un confinamento sociale per ragioni

sociosanitarie, che – tra le altre cose – ha trasformato de facto il centro di

accoglienza (Cara) a fianco del Cpr in un altro Cpr, o campo d’internamento.
Nella primavera del 2020, il lockdown ha ridotto brutalmente la presenza solidale

sotto le mura del Cpr di Gradisca: le voci delle persone rinchiuse, che per la prima

volta avevano valicato il muro di cinta raccontando all’esterno la violenza

dell’istituzione, per mesi non hanno avuto, lì sotto, nessun orecchio che le

ascoltasse. Nel frattempo, le deportazioni si erano fermate, ma i Cpr non hanno mai

chiuso: nemmeno il rischio di un collasso sanitario e di una strage di esseri umani

intrappolati hanno potuto incrinarne l’esistenza.
Durante l’estate, il Cpr di Gradisca ha ammazzato un’altra persona. Il suo nome era

Orgest Turia ed è morto dopo un’overdose di farmaci: la verità sulla sua morte, come

su quelle di Vakhtang e dei morti delle carceri di marzo, sta subendo un processo di

insabbiamento con molti responsabili.
Come si è detto più volte in questo ultimo anno, la pandemia ha esacerbato le

differenze sociali, pur non avendo innescato il conflitto. Tra i gruppi subalterni che

hanno subito più forte la crisi sociosanitaria e la costrizione al lavoro in

condizioni più pericolose del solito, ci sono le persone senza cittadinanza italiana,

senza documenti regolari oppure appese al ricatto del rinnovo del permesso di

soggiorno.
Le migrazioni sono un fenomeno antropologico connaturato all’essere umano, ma nella

storia sono avvenute in varie forme e per varie ragioni. Il sistema globale

neoliberista prevede lo sfruttamento di molte aree della terra e di popolazioni per il

benessere di alcune specifiche aree, popolazioni e classi sociali. A causa di questo

sistema, molte persone sono costrette a spostarsi contro la loro volontà; altre sono

costrette a fuggire dalle bombe e dalla repressione; altre scelgono di muoversi per

altre ragioni. L’esistenza delle frontiere, la gestione razzista e classista dei

passaporti e dei visti e la militarizzazione dei confini europei di terra e di mare

rendono i viaggi migratori una scommessa di vita o di morte per migliaia di persone.

Per chi approda in Europa, si apre un altro viaggio tra minaccia dell’irregolarità,

lavoro nero e razzismo sistemico.
Come scrive la rete Mai più lager, che il 24 aprile si mobiliterà contro i Cpr in

varie città italiane, «I CPR, di tale percorso, sono l’epilogo, la fase terminale

espulsiva di un sistema respingente e repressivo, lì dove alla negazione del diritto e

dell’accoglienza si aggiungono la privazione della libertà e l’offesa della dignità

personale, prima della rispedizione al mittente».
Sabato 24 aprile saremo a Gradisca per ricordare a quella città che sta ospitando un

lager e per far sapere a chi è dentro che qualcuno è loro solidale e crede che quel

posto non vada reso migliore ma raso al suolo. (Da nofrontierefvg.noblogs.org)

Direzione nazionale antimafia e gestione del confine marittimo. La Direzione nazionale

antimafia, dopo aver occupato i vertici del DAP ora prende in mano anche il controllo

dell’immigrazione irregolare. Ormai guida indiscutibile della gestione del potere

esecutivo e delle politiche repressive dello Stato.
La Direzione nazionale antimafia ha assunto un ruolo di primo piano nella gestione del

confine marittimo meridionale dell’Europa, in coordinamento con Frontex, l’agenzia che

sorveglia le frontiere dell’Unione, e con le missioni militari europee al largo delle

coste libiche. Nel 2013, sotto la guida di Franco Roberti [giovane collega che

Giovanni Falcone volle vicino a sé], un procuratore con una lunga esperienza

nell’antimafia, la Dna ha sperimentato una strategia unica: da quel momento

l’immigrazione irregolare in Europa è stata affrontata con gli stessi metodi usati

contro la criminalità organizzata… L’idea era di arrestare elementi di basso livello

nell’organizzazione, gli ‘scafisti’, per ottenere informazioni sui vertici del

traffico di esseri umani anche convincendoli a collaborare con gli inquirenti come

avveniva con i collaboratori di giustizia nei processi di mafia”. Nessun processo però

è mai partito contro questi vertici, con i quali la Dna ha mantenuto rapporti e

confronti nel tempo, mentre anni di carcere sono stati comminati solo ai cosiddetti

bassi livelli, gente a cui vengono affidati timone e salvataggio delle imbarcazione

abbandonate alla deriva. (Da “Internazionale” del 30 aprile/6 maggio)

La "Milano dell'accoglienza" aumenta del 50% i posti nel Cpr con un nuovo bando
Avvicinandosi alla fine del primo anno di gestione evidentemente fallimentare del CPR

di via Corelli, "ritenuta l’opportunità di non esercitare alla scadenza del contratto

stipulato con il citato RTI (Versoprobo Scs - Luna SCS) la facoltà del rinnovo per

ulteriori 12 mesi”, è stata indetta una nuova "Gara europea a procedura aperta per

l'affidamento dei servizi per l’affidamento dei servizi di gestione e funzionamento

del centro di permanenza per il rimpatrio (CPR) presso la struttura demaniale sita in

via Corelli 28, Milano - con capienza sino a 84 posti. Periodo 7/9/2021- 6/9/2022".
Viene quindi aperto anche un terzo settore dei quattro inizialmente previsti. E ci si

limita - per ora! - a 84 posti (con l'apertura del terzo settore da 28), dai 140

inizialmente previsti, "per effetto della situazione epidemiologica in atto, delle

connesse misure di contenimento del rischio di contagio e, non ultimo, delle

sopraggiunte esigenze di rifunzionalizzazione di taluni spazi e locali della

struttura". Sarà ancora un settore maschile? Sarà il settore femminile o quello per

persone trans di cui si vociferava?
"I prezzi a base di gara sono:
- Servizio di gestione e funzionamento del CPR: € 42,67 pro capite- pro die;
- Fornitura del Kit (ad esclusione della scheda telefonica): € 150,00 per singolo kit.
I suddetti prezzi a base di gara sono al netto di iva, se dovuta. Ad entrambi i prezzi

verrà applicato il ribasso percentuale unico offerto dal concorrente.
L'importo complessivo dell'appalto è pari a € 1.423.552,20."
La durata dell'appalto è di 12 mesi rinnovabili per un periodo non superiore ad

ulteriori 12 mesi. Sono ammessi alla gara gli operatori economici con sede in altri

Stati membri dell'Unione europea (...) nonché gli operatori economici di Paesi terzi

firmatari degli accordi di cui all’ art. 49 del Codice.
La prima seduta di gara avrà luogo il giorno 27 maggio 2021 con inizio alle ore

10,00."
Ancora quindi una gara al ribasso, una gara cioè a chi riesce a tagliare meglio sui

costi dei servizi ai trattenuti. Le dotazioni di personale risultano sempre le stesse,

sempre vergognosamente insufficienti a dare un minimo di dignità al servizio. Ancora

un segnale forte, che la Prefettura e il Ministero danno alla città di Milano: serve

più spazio per deportare ancora più persone che non hanno avuto modo di conoscere i

propri diritti di avere un permesso appena sbarcati, o che lo hanno perso perdendo il

lavoro. Intanto, si avvicinano a lunghi passi le elezioni amministrative in città e si

perde ogni speranza di sentire il Sindaco Beppe Sala proferire parola sul punto: chi

tace acconsente e anzi plaude, sotto sotto. D'altronde, Milano è edificazione, Milano

è efficienza nel rimpatrio veloce ed indolore... TAAC! Questo è un pessimo segnale che

non può passare sotto silenzio. (Da Mai più lager No Cpr)
Dal 2 maggio nel Cpr di Via Corelli è in corso una protesta NO TAMPONI NO PARTI -

RIFIUTO COLLETTIVO DEI TAMPONI PER IL RIMPATRIO. Sarebbero forse fino a 40 persone,

sulla capienza massima attuale di 56 posti del CPR di via Corelli, ad opporre da

diversi giorni il rifiuto di sottoporsi al tampone Covid, che a loro è ben noto essere

il passaggio immediatamente precedente alla deportazione. In totale violazione delle

raccomandazioni del Garante Nazionale, per evitare il rischio di disordini, nella gran

parte dei CPR, compresi quello di Milano, non viene infatti dato alcun preavviso

dell'imminenza del rimpatrio. Ma quando si è convocati in infermeria per il tampone,

il segnale è chiaro.


in ricordo di sante notarnicola
Il 22 marzo ci ha lasciati Sante Notarnicola, ragazzo del Sud, lavoratore, “bandito”

(come si definì al momento dell’arresto), prigioniero rivoluzionario, poeta, compagno

per scelta di vita. Da quel combattente che era, a 83 anni e con malattie pregresse

che non gli consentivano l’assunzione di medicinali nei dosaggi necessari, aveva

superato anche il Covid “guarendo praticamente da solo”, come hanno detto i medici.

Era rientrato a casa da pochi giorni, a Bologna, la città in cui ha vissuto dopo

Torino e 21 anni passati nel “circuito dei camosci”, le carceri speciali.
Di seguito riportiamo alcuni pezzi della presentazione della ristampa del libro

“Liberare tutti i dannati della terra”, curata dal nostro collettivo, il 30 gennaio

2016 alla Panetteria Occupata di Milano. In quell’occasione c’era anche Sante.

Ha aperto così un compagno del collettivo.
“Questo è un libro che ha dietro scelte, discussioni, c'è dentro tutta un'umanità che

non può essere spiegata superficialmente. Meno male che c'è la fortuna di poter

sentire compagni come Sante che ha vissuto, costruito questo libro proprio perché era

dentro S. Vittore. Quello che si vuole capire è: come sia stato possibile costruire

quelle lotte, che oggi è importante rimettere in piedi, lotte che il libro fa parlare.

La corrispondenza che ci arriva oggi dalle carceri mostra giovani che non sanno come

battersi contro la premialità, i ricatti. Dentro non riescono ad agire, proprio come

succede in troppi luoghi di lavoro. La ribellione si esprime soprattutto sul piano

individuale, raramente nella solidarietà di tutti per tutti. Nel libro vengono

narrate lotte in cui c'è dentro la memoria, la pratica collettiva. Nelle carceri

abbiamo inviato centinaia di copie del libro, ci viene richiesto, perché è importante

far vedere che è possibile non chinarsi alle guardie, lustrargli le scarpe ecc. La

generazione di Sante ci ha insegnato a stare in galera, non solo fra carcerati, che è

già importante, ma anche contro le guardie, lo stato ecc. Non c'è di meglio che

lasciargli la parola, per raccontarci com'è nata la rivolta collettiva, come hanno

fatto a costruire quelle lotte a S. Vittore.”
E poi la parola è passata a Sante.
“I due libri più importanti che sono usciti allora dal carcere con una loro identità:

il primo in assoluto è stato scritto da Irene Invernizzi ‘Il carcere come scuola di

rivoluzione’, era composto da interviste a prigionieri che riportavano fuori quel che

accadeva dentro. E' un libro che viene prima delle lotte, che non si erano ancora

affermate, sostenute. ‘Liberare tutti i dannati della terra’, invece nasce nel pieno

della lotta.
Quando sono entrato in S.Vittore, dopo aver fatto un anno di isolamento, abbiamo

trovato una situazione che non immaginavamo. Per esempio, siamo nel 1967, non c'era il

cesso, c'era ancora il bugliolo, c'era una miseria veramente concreta, molto evidente,

gente abbandonata.
Noi che venivamo da Torino, avevamo esperienze di fabbrica e politiche in quanto

militanti del partito comunista, in particolare Piero [Cavallero, suo coimputato],

quelli della nostra banda dentro non potevamo incontrarci, per le solite seghe del

'divieto di incontro'. Però nel processo, in aula, ci siamo incontrati, confrontati.

Noi, parlo per me, mi dicevo, se la cosa è così io mi impicco lucidamente perché non

accetto questa situazione. All'epoca l'ergastolo era ergastolo, morivi dentro, per cui

non avevi nessun, neanche uno, barlume di speranza per poter dire 'poi cambia' ecc.
Questa era la realtà di quel carcere. Realtà che: se tu avevi un pezzo di matita lunga

così (2 cm) nelle perquisizioni andavi a finire nelle celle di punizione per 15-20

giorni – la matita era proibita. Potevi scriverti solo con la tua famiglia, la guardia

passava ti consegnava penna e foglio per scrivere, dopo 2 ore ripassava per prendere

la lettera scritta e la penna. Questi erano i livelli.
A S.Vittore in quel momento c'era il disagio, ma c'era anche un certo fermento. Nella

nostra banda decidemmo di fare un'inchiesta sul carcere, chi c'era, che pensava... io,

per esempio, ero al 3° braccio dove finivano i giovani provenienti dal Beccaria

[carcere minorile di Milano], erano scatenati, regolarmente considerati pecore nere

della famiglia, di fronte alla loro esperienza stava quella di padri, parenti che

lavoravano all'Innocenti, all'Alfa Romeo… quei giovani erano i ribelli del ceppo

famigliare. A loro spiegavamo di muoverci come facevano in fabbrica i loro padri, zii.

Spiegavamo: come loro fanno gli scioperi noi dobbiamo fare la stessa cosa. Non c'è un

altro modello.
Questo è stato il primo passo. Soprattutto c'era da battere l'autolesionismo; c'erano

forme di lotta ma erano tutte individuali, perdenti. Così, ripetevamo, 'non combiniamo

niente, non scuotiamo nessuno'.
Con la prima rivolta invece riuscimmo a far venire nel carcere il sindaco di Milano,

Aniasi, un socialista. C'eravamo fermati all'aria e le guardie ci intimorivano con:

‘lo sapete cosa state facendo? …questo è sabotaggio’. La nostra risposta era ‘comunque

noi non rientriamo’. Così dopo tre ore arriva davanti ai passeggi il sindaco, a lui

spighiamo le nostre ragioni.
La cosa importante di questo inizio furono le nostre richieste, per esempio, sul fare

togliere il bugliolo. Dopo la terza fermata all'aria ci furono botte della madonna,

che però non spaventavano più i detenuti, anzi li caricavano. Il ragionamento era: se

le guardie fanno così vuol dire che siamo vicini, che comunichiamo fra noi e con

l'esterno. Avevamo intuito l'importanza della comunicazione. Dalle carceri usciva il

pensiero: 'se c'è una lotta che non comunica con l'esterno, se l'indomani i giornali

ti ignorano, quella è una lotta preparata male. Ci dicevamo: non bisogna più farla'.
Ci trovavamo di fronte a persone che avevano strumenti poveri. Bisognava cominciare a

fare il volantino, a nascondere le comunicazioni e a mandarle fuori. E' chiaro che il

momento fortunato era il fatto che fuori c'era il '68 e il '69. Per noi carcerati

questo significava che tutti i sabati i ragazzi scendevano in piazza, passavano sotto

S. Vittore. Sparo delle cifre, sembrerà esagerato, ma sotto il carcere passavano 40-

50mila persone, noi le abbiamo viste, si fermavano ecc. Molto spesso fra chi

manifestava fuori c'era qualche compagno che era stato dentro o che ora era in galera

perché il sabato precedente era fra chi manifestava fuori. La risposta che veniva dal

carcere divenne possente al punto che anche i compagni che erano dentro cominciavano a

guardarsi intorno. Si dicevano: qui c'è un lavoro da fare. Abbiamo avuto anche la

fortuna che sono entrati anche dirigenti di Lotta Continua, é così che il giornale,

compreso il movimento che lo esprimeva, diventarono il punto di riferimento di tutto.
Se vi capita di incontrare qualcuno che in quel momento storico era in carcere a S.

Vittore, se gli chiedete: fammi vedere il braccio, troverete molto spesso tatuato LC.

Poi cambiò la fase e furono i NAP [Nuclei Armati Proletari] a essere tatuati sulle

braccia. Con le BR [Brigate Rosse] è cambiato, perché c'era divisione dalla massa, è

un'altra storia.
Le lotte si sono moltiplicate: quel che accadeva nelle carceri di Torino, Firenze,

Roma, Genova, non era da meno… al Sud è arrivato tutto molto tardi.
Gli strumenti che lo stato aveva per arginare, attutire le cose erano che: ti venivano

a prendere alla mattina, ti davano un fracco di botte e via, in mutande o anche senza

mutande e andavi a Siracusa. Lì ti accoglievano come compagno… questo è stato

l'aspetto importante: l'arma del trasferimento si rivelò per loro un disastro. Le

carceri ormai erano ingovernabili. Questa la storia fino al '74.
Una parte di detenuti entra nelle fila di LC. C'eravamo fermati all'aria, il giornale

era molto attento sulle nostre lotte, eravamo spesso in prima pagina. I prigionieri si

sentivano tutelati, diventavano compagni. É anche il momento della nascita di Soccorso

Rosso.
In quell'anno [9 maggio 1974] dal carcere di Alessandria tre denuti tentano la fuga.

Sono armati. La fuga fallisce, loro rientrano sequestrando infermieri, dottori,

insegnanti, guardie. Della Venaria, procuratore generale del Piemonte, insieme a Dalla

Chiesa, allora a capo dei carabinieri a Torino, invece di trattare la resa, o, non so,

prendendo i compagni per fame o simili, scelsero il massacro.
Le parole d'ordine di LC, quali “Prendiamoci la città”, oppure “Il carcere non si

riforma ma si distrugge” poggiavano su una maturità politica che non riusciva a

gestirle. Solo in alcune città, a Torino per esempio, le carceri vennero

effettivamente distrutte, ma nelle città non venne 'preso' nulla.
A S. Vittore andavamo in delegazione dal direttore, ponevamo ad esempio dieci punti.

Cosa ci date? Il direttore ci rispondeva: ‘Niente, devo telefonare prima al

ministero’. Ribattevamo: ‘Noi, mentre voi telefonate, siamo all'aria e lì restiamo’.

Non ci era stato dato ancora il fornelletto come prevedeva il regolamento. Fra noi

decidemmo di portare avanti lotte per le più diverse richieste, nessuno doveva

criticarle.
Successe che una notte in quel periodo, tre ragazzi di 20 anni accesero un giornale,

tenendolo fuori dallo spioncino, dentro il corridoio in cui stavano le guardie. Nel

dar fuoco ai giornali probabilmente un foglio sfuggì dalle loro mani e finì con

l'incendiare i materassi. I tre ragazzi morirono bruciati vivi.
Ci fu un silenzio di quelli che sanno, minaccioso, terribile, lo senti, senti che da

qualche parte sta succedendo qualcosa. Solitamente, come quella notte, a S. Vittore

c'era una sola guardia nei tre piani di ogni braccio. Al mattino la direzione chiamò

quattro prigionieri, fra i quali anche me. Avevano tirato fuori i cadaveri, fra i

quali quelli di un austriaco che conoscevo, un gigante, ridotto dal fuoco a tozzo di

tronco d'albero bruciato. Nella notte non ci fu scambio di parole fra noi. Dominava un

silenzio duro.
Nessuno aveva deciso niente, nessuno aveva detto niente, ma nel momento in cui al

mattino hanno aperto le porte delle celle, le guardie hanno capito immediatamente:

sono scappate via senza che noi ci muovessimo… hanno mollato le chiavi. Loro sono

scappate via tutte, noi abbiamo distrutto tutto. Cioé, c'è stato un momento di

liberazione, un momento in cui in qualche modo dovevi muoverti. Fra noi e le guardie,

e i carabinieri fu un macello. Due o tre giorni dopo ci chiamarono, ci comunicarono:

‘avete avuto dal ministero il tagliaunghie e il fornelletto’.
C’era il rapporto con LC, ormai cominciava a esserci il Soccorso Rosso, cominciavano a

esserci altri gruppi perché le lotte fuori cominciavano ad essere molto intense, tutti

i collettivi avevano loro prigionieri. Noi chiedevamo libri, giornali, riviste. Questo

lo avevamo ottenuto, era essenziale. C'era la lotta, i detenuti erano curiosi, c'era

chi si occupava del ‘movimento operaio’, insomma c'era chi studiava per mettersi alla

pari con chi finiva in carcere: giovani compagni studenti e operai – che fuori

lottavano.
Il carcere in quei pochi anni ha prodotto, libri, riviste, poesie… ha prodotto anche

alcune persone che non solo sono diventate dei rivoluzionari ma anche dei dirigenti. A

chi entrava in carcere per pochi mesi fecero seguito quelli che non uscivano più, i

brigatisti. Noi eravamo molto fieri, perchè i prigionieri si ponevano molti problemi.

Erano diventati compagni a tutti gli effetti.
Milano, maggio 2021


LETTERE DAL CARCERE DI BUSTO ARSIZIO (VA)
Ciao a tutti!!! Come prima cosa vorremo ringraziarvi per tutto quello che avete fatto

per noi, sappiamo anche da altre persone che ci scrivono che la nostra lettera sta

circolando sui social e che ha avuto un certo seguito. Sappiamo inoltre che i

giornali, il sindaco ed infine lo stesso Salvini hanno rilasciato interviste dove

affermano che è stata tutta una cosa programmata, cercando di togliere dai guai le

guardie e buttando merda addosso a noi. Sappiamo inoltre che hanno affermato che tutto

è successo perchè siamo persone frustrate, che non sapendo dove scaricare la

frustrazione hanno fatto una rivolta per dare sfogo a tutto ciò. A noi sembra una cosa

inconcepibile e vergognosa perchè si tratta di carcere, di anni di vita buttati e

sinceramente non credo che siamo così stupidi perchè tutto ciò ricade anche sulle

nostre famiglie, ma perchè siamo obbligati non vedendo altra strada per essere

ascoltati.
Fino a questo momento ci sono 31 indagati con gli stessi capi d'imputazione

(danneggiamento, resistenza a pubblico ufficiale e devastazione) e infine noi 6 che

siamo a Busto essendo stati arrestati in flagranza di reato, probabilmente pagheremo

qualcosina in più come capi promotori (dicono loro). Ci sono le guardie che si sono

fatte refertare per escoriazioni e sintomi derivanti dal contatto con la corrente

elettrica. Per quanto riguarda la nostra carcerazione abbiamo fatto 21 giorni in

sezione covid (in cui la norma sono 14 giorni).
Dopo ciò ci hanno portato in infermeria a scontare i 10 giorni di isolamento finiti i

quali ci tengono ancora qui in osservazione come ex art 32, cioè persone pericolose, e

ancora ad oggi non sappiamo quando ci porteranno in sezione normale insieme agli altri

detenuti. La verità è che non vogliono che abbiamo contatti con altri detenuti perchè

potremmo istigarli a fare la stessa cosa. A molti di noi la sera che ci hanno

trasferiti ci è stato detto di preparare una sola borsa con lo stretto necessario e

che il resto ce lo avrebbero portato in seguito. E' passato 1 mese e mezzo e ancora

non sono arrivati i vestiti e diversi effetti personali, ne tantomeno ci rispondono ne

ci danno spiegazioni su dove sono finiti.
Come ci avete scritto vi chiediamo gentilmente se possibile di mandarci ciò che avete

pubblicato. Infine vi dobbiamo un grande GRAZIE per ciò che fate, per la vostra

vicinanza e la vostra solidarietà. Speriamo di risentirvi presto perchè le vostre

lettere e la vostra vicinanza ci rallegrano le giornate. Ringraziamo inoltre i ragazzi

che ci hanno scritto (dicendo che sono vostri amici) non potendo ringraziarli di

persona perchè la lettera era senza mittente. Ci auguriamo di risentirvi presto. Un

grande abbraccio. (marzo 2021)

***
Ciao a tutti/ tutte voi, comincio con il ringraziarvi di cuore delle vostre lettere e

della vostra vicinanza, ci fa molto piacere sapere che esistono ancora persone come

voi, che lottano per noi e con noi contro questo regime perchè stato non si può

chiamare. Ringraziamo veramente di cuore tutti voi e le numerose persone che ci hanno

scritto. Cosa possiamo dirvi se non grazie di esistere.
Ci dispiace molto che non abbiamo potuto sentirvi il giorno che siete venuti qui

fuori, perchè dal parcheggio esterno c'è distanza con le sezioni, e sappiamo anche che

avete avuto problemi con la polizia con multe e denunce, ci dispiace per questo.

Abbiamo letto attentamente anche l'opuscolo che riporta le notizie e le lettere dalle

altre carceri che ci avete mandato, bhe che dire? Dire che ti sale una rabbia furiosa?

E' poco. Dire che ti sale l'angoscia? E' poco. Dire che ti viene la pelle d'oca? E'

poco.
Questo è diventato purtroppo il DAP e il ministero di grazia e giustizia, una loggia

massonica in cui niente si sa e niente si dice e tutto si insabbia facendo passare

direttori e polizia penitenziaria come eroi. Ci sono leggi incomprensibili come quella

che ci riguarda chiamata ex art 32 che consente nel far fare a tutti i detenuti

problematici o provenienti da rivolte un minimo di 6 mesi in sezioni speciali dopo i

quali si valuta se prolungare. Questa sezione speciale comprende 7 celle, una singola

per l'isolamento a cella liscia, 4 celle da 3/4 persone e 2 celle doppie.
Premetto che ognuno è libero di fare la carcerazione come meglio crede, ma siamo in

mezzo a gente che si riempie di metadone, gocce e cose strane dalla mattina alla sera

e sembrano veramente zombie. C'è gente che sotto terapia ha cercato di impiccarsi

attaccandosi alla finestra, che si mangia il materasso di spugna, che si taglia e che

si fa di gas delle bombole dei fornelli. Poi nascono i litigi e problemi quotidiani,

in sezione normale non ci mandano perchè come capi promotori possiamo organizzare

qualcosa anche qua, quindi ci hanno messo in questo manicomio, dove è inutile dire che

è una routine con gente che grida e chiama a tutte le ore, giorno e notte, e proprio

oggi ci hanno detto che dobbiamo fare almeno altri 4 mesi poi si valuterà. Questo è il

regime carcerario a Busto Arsizio, questa è la pena per chi si ribella alle

ingiustizie senza poi contare la pena che ci daranno.
Per quanto riguarda il processo ci vorrà molto tempo perchè siamo 35 indagati , ci

sarà sicuramente chi cercherà di discolparsi scaricando le colpe agli altri, chi dirà

che era obbligato, e prima che tutto sarà chiaro ci vorrà tempo, ma vi terremo

informati.
Ancora un grazie di cuore.
I ragazzi di Varese.

Busto Arsizio, aprile 2021
Lenkstakas Enrik, Younas Waqar, Vyzas Rudin, Tutino Stefano, Abubakar Mustapha, Konrad

Lofti, via per Cassano Magnago, 102 – 21052 Busto Arsizio (VA)

***

Il terrorismo dello Stato in città come in carcere
Solidarietà con i rivoltosi di San Vittore a processo
Il 10 maggio inizierà al tribunale di Milano il processo per “devastazione”,

“sequestro di persona”, “lesioni personali” e “rapina” nei confronti di 9 prigionieri

accusati a vario titolo delle rivolte nel carcere di San Vittore del marzo dell’anno

scorso. Processi che coinvolgono anche le carceri di Pavia e Varese, limitandoci alla

Lombardia e per quel che sappiamo.
In quei giorni di marzo i detenuti insorsero in una trentina di carceri, da nord a sud

Italia, a seguito dell’interruzione dei colloqui, dei contatti con l’esterno con

sospensione di tutte le attività. Restavano solo loro e le guardie. Tanti ulteriori

problemi che si aggiungevano a condizioni già prima invivibili.
Misure che prima della gestione della pandemia erano emergenziali o in via di

sperimentazione ora caratterizzano la quotidianità: la videoconferenza sostituisce la

presenza in tribunale, impedendo le possibilità di difesa, ostacolando la

partecipazione attiva alle fasi del processo, la sua dimensione pubblica e l’incontro

degli imputati in aula, per arrivare senza intralci all’esecutività della condanna; le

videochiamate sostituiscono i colloqui. Facile capire a quanti aspetti della relazione

si debba rinunciare non potendosi incontrare fisicamente. Anche quando riaprono, i

colloqui sono resi difficili a causa delle regole di prenotazione e del distanziamento

imposto con barriere di plexiglass e mascherine.
Affidarsi alla tecnologia per videoconferenze e videochiamate comporta problemi

tecnici di funzionamento con collegamenti che frequentemente si interrompono lasciando

il prigioniero davanti a uno schermo nero. Tutte queste ristrutturazioni rendono i

prigionieri sempre più isolati.
Si tratta indubbiamente di un obiettivo voluto quando si vedono gli esperti della

repressione impiegati per amministrare anche la gestione della pandemia.
Antonio Rinaudo ex P.M. torinese, già noto nei processi contro i No Tav, viene

nominato commissario straordinario per l’emergenza COVID-19 della regione Piemonte.
Alberto Nobili P.M., coordinatore del pool antiterrorismo della procura di Milano, che

interviene al minimo segnale dell’emergere di un conflitto. 300 ragazzi si incontrano

a piazzale Selinunte per girare il video di un rapper, reagiscono agli attacchi della

polizia e i provvedimenti che vengono emessi nei loro confronti sono firmati da

Nobili. Si trattava di terrorismo?
Lo stesso Nobili che intervenne come mediatore per fare scendere dai tetti i rivoltosi

di San Vittore, per poi richiederne il rinvio a giudizio. Si trattava di terrorismo?
Queste due figure le conosciamo anche da inchieste contro compagni anarchici accusati

di terrorismo. Nobili era a capo del pool di magistrati nell’operazione Prometeo (il

processo inizierà proprio il 10 maggio) in cui le parti offese risultano essere

Rinaudo e il DAP.
Quel DAP che dopo le rivolte di marzo ha visto un repentino cambio della guardia ai

suoi vertici, per la prima volta nelle mani dell’antimafia nelle figure dei nuovi

dirigenti Petralia e il suo vice Tartaglia.
La gestione della pandemia e quella della repressione si incontrano, sono nelle mani

di chi ha rappresentato l’antimafia e l’antiterrorismo fino a oggi.
Se da un lato lo Stato tenta di archiviare le stragi, come quelle avvenute nel carcere

di Modena, dall’altro con estrema velocità manda in tribunale chi si mette di

traverso. Come i 120 lavoratori di Italpizza che, sempre nella stessa città, si

trovano sotto processo, in aula bunker per altro.
10 MAGGIO DALLE 11 ALLE 13, PRESIDIO AL CARCERE DI SAN VITTORE

Milano, maggio 2021, Collettivo OLGa

***
ALTRI PROCESSI PER LE RIVOLTE DI MARZO 2020
A Foggia, il 27 giugno 2020, sono state eseguite ordinanze di custodia cautelare in

carcere da carabinieri e polizia, nell’ambito dell’operazione chiamata “Squadra

Stato”, coordinata dalla Procura di Foggia, in seguito all’evasione dal carcere del

capoluogo avvenuta il 9 marzo. Per 15 detenuti l’accusa è anche di rapina, sarebbe

avvenuta in alcune officine nelle vicinanze del carcere dopo l’evasione.
A Frosinone il 31 ottobre 2020 la procura ha chiesto il rinvio a giudizio di 21

detenuti. Questi ultimi ora sono stati trasferiti in altri penitenziari, del Lazio,

della Campania e dell'Abruzzo. Ai ventuno, per i quali il 9 aprile c’è stata l'udienza

preliminare, è contestata la devastazione.
Il 27 febbraio 2021 sono arrivate le condanne per la rivolta di marzo 2020 nel carcere

di Opera a Milano. 12 condanne con rito abbreviato e 5 patteggiamenti. Le pene sono

comprese fra 4 mesi e 2 anni e 6 mesi di reclusione per i 17 imputati accusati a vario

titolo di resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento e incendio. Lo ha deciso il

gup di Milano Daniela Cardamone, a seguito dell’inchiesta coordinata dal capo del pool

antiterrorismo milanese Alberto Nobili e dal pm Enrico Pavone. Il giudice ha anche

mandato a processo altri quattro detenuti con prima udienza fissata per l’11 maggio.

Le indagini, condotte dalla polizia penitenziaria, avevano portato inizialmente a 92

denunce e, dopo la chiusura delle indagini a luglio scorso, era arrivata la richiesta

di processo per 22 (una posizione è stata poi stralciata).
Su richiesta del sostituto procuratore, Elena Caruso, 49 detenuti del carcere della

Dozza di Bologna, coinvolti nella rivolta del marzo del 2020, sono accusati, a vario

titolo, di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, danneggiamento aggravato e

tentata evasione e sono stati rinviati a giudizio. Otto sono ritenuti responsabili di

essere stati gli istigatori dei disordini perché "Incitavano i detenuti, non

identificati, che hanno distrutto le plafoniere dei neon nel corridoio della sezione

3D" - scrive la Procura - "urlando frasi come 'Libertà, ora distruggiamo tutto, siete

tutti pezzi di m...'”. Un 29enne perse la vita.
Sono stati rinviati a giudizio 46 detenuti del carcere romano di Rebibbia indagati per

la rivolta avvenuta il 9 marzo 2020. La prima udienza è fissata per il 30 giugno

mentre in 4 hanno scelto il rito abbreviato. I reati contestati dai pm Francesco

Cascini e Eugenio Albamonte, coordinati dal Procuratore capo di Roma Michele

Prestipino, vanno a vario titolo dal danneggiamento al sequestro di persona, rapina e

devastazione. Nell'ambito delle indagini, lo scorso novembre, sono state eseguite nove

misure cautelari in carcere nei confronti di altrettanti detenuti. Altre 20 detenute

sono sotto indagine per una protesta avvenuta in contemporanea nella sezione

femminile.
Sono 99 i detenuti indagati per la rivolta scoppiata la sera dell'8 marzo 2020 nel

carcere di Torre del Gallo a Pavia. Chiara Giuiusa, sostituto procuratore del

capoluogo, ha chiuso le indagini notificando gli avvisi di garanzia con le accuse di

devastazione e saccheggio e (solo per alcuni reclusi) resistenza a pubblico ufficiale.
La procura di Prato il 25 marzo ha inviato gli avvisi di conclusione indagine per 42

indagati. L'accusa per tutti è resistenza aggravata. I 42 detenuti - italiani,

marocchini, albanesi e nigeriani - sono accusati di resistenza aggravata. L'inchiesta

fu aperta poche ore dopo i fatti, con l’ausilio delle dichiarazioni dei testimoni.
Varese, indagati 35 detenuti a cui contestano anche devastazione, 5 sono i prigionieri

trasferiti al carcere di Busto Arsizio, ancora in isolamento, dai quali riceviamo

lettere qui pubblicate.
3 marzo. A quasi un anno dalle rivolte carcerarie di marzo 2020, e dalla fine tragica

di tredici detenuti, la procura di Modena chiede l'archiviazione delle indagini sul

decesso di otto dei reclusi che ci hanno rimesso la vita, i cinque spirati nel carcere

della cittadina emiliana e tre dei quattro morti durante o dopo il trasferimento negli

istituti di altre località. L'inchiesta modenese era stata avviata con le ipotesi di

reato di omicidio colposo plurimo e morte come conseguenza di altro reato, lo spaccio.

L'overdose è la causa di morte ipotizzata, perlomeno dai consulenti della procura. "I

filoni sui decessi di otto persone sono stati riuniti. Sono rimasti fuori gli

approfondimenti sulla morte di Salvatore "Sasà" Piscitelli, di competenza di un'altra

procura. Le indagini - ricorda sempre il procuratore Di Giorgio - erano partite contro

ignoti e contro ignoti si sono concluse. Non sono emerse responsabilità di singoli,

non rispetto alle morti”.
Il fascicolo sul decesso di Piscitelli è rimbalzato da Ascoli a Modena, con un doppio

giro di rimpalli, ed è tornato delle Marche dopo l'esposto e l'audizione di cinque

compagni di viaggio e di cella. I detenuti testimoni hanno denunciato botte e

manganellate, abusi e un colpevole ritardo nei soccorsi, così come altri avevano fatto

prima di loro.
Luca Sebastiani, avvocato della famiglia di Hafedh Chouchane, uno dei detenuti morti

dopo la rivolta al Sant'Anna di Modena, ha presentato opposizione alla richiesta di

archiviazione della Procura di Modena per reato commesso da persone ignote (omicidio

colposo e morte come conseguenza di altro delitto).
Il 10 maggio, tramite lettera, veniamo a sapere che Belmonte Cavazza, uno dei 5

detenuti conosciuti per aver scritto l'esposto dal carcere di Ascoli Piceno sulla

mattanza avvenuta a Modena nel marzo 2020, è stato trasferito presso la casa lavoro di

Castelfranco Emilia (Mo). Il 19/04 ha finito di scontare la sua pena in carcere.

Pensando che sarebbe tornato in libertà, dopo ben 19 anni di galera, il 23/04 è stato

invece trasferito nella casa lavoro, per una misura di sicurezza – dice – che lo

perseguita dal 2003. Il 27 aprile ha “intrapreso uno sciopero della fame perchè da

diversi anni mi tengono sequestrato dallo Stato italiano e quindi non ho altre vie per

protestare contro questo abuso di potere che ha il nostro ordinamento penitenziario in

Italia, mi trattengono con delle normative di Benito Mussolini del 33 e poi

festeggiano la liberazione dal fascismo...”.
Il 1° aprile è cominciato a Treviso il processo relativo alla rivolta all’ex caserma

Serena (centro di accoglienza straordinaria) scoppiata a giugno 2020 a causa delle

misure covid imposte ai richiedenti asilo che lì vivevano, misure volte a sequestrarli

dentro, costringendoli a perdere il lavoro senza neanche una reale tutela della loro

salute. Contro Amadou, Mohammed e Abdourahmane l’accusa è di devastazione e saccheggio

e sequestro di persona. Fin dall’inizio di questa vicenda, l’accanimento contro chi ha

partecipato alla rivolta è stato continuo, a più livelli, dai giornalisti e le

istituzioni locali fino al Ministero dell’Interno, che a ottobre ha ordinato di

trasferirli tutti in sorveglianza particolare in tre carceri diverse. Accanimento,

repressione e violenza che in tutti i loro passaggi e le loro forme, dalle condizioni

di accoglienza alla detenzione, hanno ucciso Chaka il 7 novembre scorso nel carcere di

Verona. L’invito è a sostenere gli arrestati, a far loro sentire la nostra vicinanza

anche nelle prossime fasi del processo. Abdourahmane è agli arresti domiciliari,

Amadou e Mohammed sono ancora in carcere.


LETTERe DAL CARCERE di TORINo
Alla Cortese attenzione di Ministro alla Giustizia M. Cartabia, Dipartimento

dell’Amministrazione Penitenziaria, Garante dei Detenuti M. Palma e E. Rossi, Ass.

Yairaiha Onlus, Ass. Antigone, Garante Comunale M.C. Gallo.
Siamo le detenute e i detenuti del carcere di Torino, con un altro messaggio proviamo

ad arrivare lì fuori per rompere il muro di silenzio che si sta alzando intorno a

tutte le prigioni d’Italia.
Dopo le rivolte, le proteste pacifiche, gli appelli passati in sordina, scritti sia da

noi reclusi che da fuori: noi non ci rassegniamo a questo limbo. Non vince l’impotenza

che dilaga tra queste mura. Non accettiamo di rimanere in silenzio di fronte a questa

doppia pena a cui tutti noi siamo stati condannati nel corso dei diversi lockdown.
Queste parole sono rivolte a coloro che sostengono da più di un anno le nostre

proposte riguardo alla necessità dell’applicazione di misure deflattive: in primis

l’ampliamento della liberazione anticipata a 75 giorni estesa a tutta la popolazione

detenuta. Necessaria per fronteggiare sia l’emergenza covid, sia lo stato di

sovraffollamento che da troppo non permette a noi reclusi di vivere e superare

degnamente il tempo della carcerazione. Siamo sicuri di trovare il vostro sostegno.
Ma questa volta ci rivolgiamo anche a coloro che del “buttiamo via la chiave” hanno

fatto una ragione di vita ed anche a coloro che credono che le carceri siano un hotel.
Ci rivolgiamo a voi perché vi rendiate conto che il carcere così come è “strutturato”

non è proficuo né per i rei né per le vittime. La vendetta pubblica che è il risultato

di questo sistema penitenziario ha un effetto boomerang, gli effetti desocializzanti

hanno la meglio su quelli rieducativi. Rieducazione e reinserimento annoverati dalla

Costituzione non sono la realtà.
C’è un semplice calcolo: 6 (ore) X 12 (mesi) = 72 ore totali, che rappresenta quanto

sia alienante la carcerazione. 72 ore, pari a 3 giorni in un anno, è il tempo che

viene autorizzato e concesso per i colloqui visivi, (per i detenuti al 4bis o al 41bis

è ancora meno) tempo per coltivare affetti…
45 giorni all’anno (suddivisi in 12 mesi) di permesso premio, beneficio raggiunto

magari dopo anni, grazie alla buona condotta, per tornare ad approcciarsi con la

realtà esterna e con gli affetti. Bene, questo tempo a noi concesso, da più di un anno

è ridotto se non bloccato, con un aggravio sia sulla pena che sulla sfera psico-

emotiva. L’accesso a pene alternative è ancora più complesso.
L’Italia è stata condannata dalla Corte Europea per i Diritti a causa del trattamento

inumano e degradante nelle carceri.
Ora, noi che stiamo pagando per aver infranto le leggi scontando una pena in questi

luoghi e con questo sistema a sua volta condannato perché disattende principi

fondamentali, ci troviamo in una “bolla” intrisa di contraddizioni oltre che di

ingiustizie accentuate ancor più dalla pandemia.
Il nostro appello richiama non clemenza gratuita bensì il rispetto di articoli della

Costituzione: 27 comma 3, Art. 3 e do articoli del cod. penale (146 e 147) i quali

sanciscono l’uguaglianza di diritti e la preminenza del diritto alla salute sulla

potestà punitiva dello Stato, a prescindere dal reato.
Per questo chiediamo che si applichi l’ampliamento della liberazione anticipata estesa

a tutta la popolazione detenuta, che tale provvedimento abbia “effetto retroattivo” al

2015 (anno in cui venne sospesa) in modo da avere un risultato concreto sul numero di

ristretti. Sarebbe logico che fosse approvata questa legge rimanendo in vigore anche

in futuro perché senza una riforma dell’ord. penitenziario e la ristrutturazione di

queste carceri fatiscenti ci ritroviamo in una zona rossa costante a prescindere dal

Covid. Grazie per l’attenzione.

Torino 28 aprile 2021
Le detenute della 3a sezione femminile
I detenuti del blocco A, blocco B 1a sezione, blocco c 2a, 3a, 9a, 10a e 12a sezione
[Seguono più di duecento firme, da notav.info]

***
Ciao, ho ricevuto la vostra lettera ma dei sette fogli me ne hanno dato solo 1, il

primo, il resto è al casellario. La motivazione è stata che “non si può fare attività

politica in carcere” e dunque all’ufficio comando mi hanno solo fatto dare uno sguardo

alle foto. Credo sia parte del “monitoraggio del nucleo investigativo centrale” a cui

sono sottoposta, del resto la direttrice aveva anche chiesto la censura ma il

magistrato di sorveglianza l’ha rigettata.
Il 7/3 abbiamo fatto, nella sez. III, un minuto di silenzio anticipato da questo

testo: “l’anno scorso, con l’inizio del lockdown, le condizioni carcerarie

peggiorarono ulteriormente. I colloqui furono interrotti, anche con l’avvocato e tutte

le attività sospese. I detenuti di Milano Opera, Milano S. Vittore, Pavia, Modena,

Bologna, Roma Rebibbia e Foggia si rivoltarono e grazie a loro chi sta fuori si rese

conto di quanto potesse essere difficile il quotidiano in carcere. Oggi facciamo un

minuto di silenzio per ricordare 14 di loro che in quelle rivolte sono morti, dopo

essere stati oltraggiati e picchiati. Ringraziamo anche chi ha avuto il coraggio di

dar voce a chi purtroppo non ne ha più, facendo emergere cosa in quei giorni sia

realmente accaduto e che le amministrazioni carcerarie e i media hanno cercato di

occultare”. All’incirca dieci giorni fa abbiamo scritto una lettera alla direttrice

raccogliendo le firme anche della II sez chiedendo una chiamata in più alla settimana,

visto che siamo nuovamente in lockdown e non facciamo colloqui, oggi ci ha risposto

dandoci 2 chiamate in più al mese, anche videochiamate che durano un’ora.
Vi saluto esprimendo tutta la mia solidarietà per le donne e le/i compagne/i

rinchiuse/i nelle galere di stato, per le compagne/i arrestate/i durante la

manifestazione a Barcellona negli scontri contro la sbirraglia, per l’arresto del

rapper Pablo Hazel. La mia solidarietà va anche i ragazzi/e della periferia di Torino

che sono stati/e arrestati/e per la manifestazione che si tenne per l’appunto a Torino

contro la chiusura data dal lockdown, in cui furono rotte le vetrine e derubato il

contenuto di alcuni negozi di lusso.
Libertà per tutti e tutte. Fabiola.

Torino, 22 marzo 2021
Fabiola De Costanzo, via Maria Adelaide Aglietta, 35 – 10151 Torino


LETTERA DAL CARCERE di GENOVA
Carissimi amici di Ampi Orizzonti, oggi ho ricevuto la vostra posta con l'opuscolo di

Olga dove c'è anche la mia lettera. Purtroppo è vero, i carceri stanno collassando.

Tutto stà bloccato: i colloqui interni con gli organi, sono bloccati anche i

trasferimenti, per cui almeno fino a giugno dovrò restare bloccato qui; inoltre

ricevere vaglia postali fanno storie perchè a inviarlo deve essere un congiunto sennò

lo rimandano indietro.
Qui il sabato alcuni compagni vengono a fare delle manifestazioni fuori dal carcere e

devo dire che questo, almeno a me mi fa sentire meno solo, ma come sapete la mia

situazione è molto complessa perchè non posso ritornare giù verso la Campania e qui me

la stò vedendo brutta in ogni senso. [...]
Qui ci sono novità, è stata sollevata dall'incarico la vecchia direttrice, incarico

passato alla direttrice del carcere di Pontedecimo, che ci sta restringendo sempre di

più. Vediamo, alla prossima: un caro saluto con il pugno alzato a tutti voi, ciao

Rosario.

Genova, 15 marzo 2021
Rosario Mazzone, Piazzale Marassi, 2 - 16139 Genova


A Genova, lavoratori portuali nel mirino della procura
La Digos ha perquisito le case di alcuni compagni del Collettivo Autonomo Lavoratori

Portuali di Genova (CALP) su ordine della Procura. I reati contestati riguardano la

attività sindacale e antimilitarista in porto, con preciso riferimento alle lotte nei

confronti delle navi saudite Bahri con i suoi carichi di armi pesanti e esplosivi

destinati alla guerra in Yemen e in Siria.
Dallo sciopero indetto due anni fa per bloccare un carico destinato alla guerra in

Yemen su una Bahri, a oggi, passando per la manifestazione di un anno fa contro il

transito di esplosivi a bordo di un’altra Bahri dagli USA diretto alla guerra siriana,

gli armatori sauditi attraverso l’agenzia genovese Delta e il Terminal GMT avevano

chiesto a più riprese alla Procura la testa dei portuali del CALP. Per quale colpa? La

colpa di avere messo in pratica in questi due anni, con le associazioni e i movimenti

contro la guerra e per i diritti civili ciò che il Parlamento ha approvato poco dopo

lo sciopero nel porto di Genova del 2019 e confermato alla fine del 2020: lo stop alla

vendita di bombe e missili ad Arabia e Emirati, utilizzati per colpire la popolazione

civile in Yemen.
Nel frattempo, la Procura di Roma, pochi giorni ha aperto un’indagine contro i

responsabili della RWM Italia produttrice degli ordigni e dell’UAMA, l’agenzia del

Ministero degli Esteri che autorizza l’esportazione di armamenti, a seguito delle

morti civili procurate in Yemen e documentate da Amnesty International. È di questi

giorni la notizia che il Presidente USA Biden ha rivelato che è stato Bin Salman,

Principe della Corona dell’Arabia Saudita, a fare scannare il giornalista dissidente

Kashoggi nel consolato saudita a Istanbul.
La Procura di Genova sostiene che il CALP si è reso colpevole di avere

strumentalizzato la protesta con “dispositivi modificati in modo da renderli

micidiali”. I bengala e i fumogeni utilizzati dai portuali per attirare l’attenzione

sulle navi dalle stive e i ponti piene di armi e esplosivi diretti a fare stragi

sarebbero “micidiali”, non le armi e gli esplosivi caricati sulle navi. In realtà il

CALP ha usato un’arma “micidiale”, ossia lo sciopero. Questo ha fatto tremare gli

armatori e i terminalisti: non i razzi luminosi e i fumi colorati, ma che il traffico

criminale di armi non sia solo criticato idealmente ma sia bloccato materialmente dai

lavoratori.
Rivolgiamo un invito alla Digos e alla Procura. Ad acquisire dall’Agenzia Delta e dal

Terminal GMT i documenti di carico e di destinazione delle merci trasportate dalle

navi Bahri verso gli Stati del Medio Oriente, compresa la Turchia che, denunciata

dalla stessa procura per la nave Bana in relazione all’embargo libico, impiega in

Siria contro i civili le armi sbarcate dalle Bahri a Iskenderun. Che in particolare a

segnalino alla Procura di Roma l’Agenzia Delta quale rappresentante delle navi Bahri

che hanno trasportato dall’Italia le bombe della RWM incriminate per la strage civile

procurata in Yemen.
Li invitiamo infine a non essere sottomessi alle denunce di chi con ipocrisia e

arroganza parla di pace ma vive del commercio delle armi, come ci ha ricordato Papa

Francesco: «I lavoratori del porto hanno detto no. Sono stati bravi! E la nave è

tornata a casa sua. Un caso, ma ci insegna come si deve andare avanti».

24 marzo 2021, Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di Genova


Sardegna: appello delle madri di 45 militanti anti-militaristi
Il 15 aprile si terrà a Cagliari l’udienza preliminare in cui il tribunale di Cagliari

dovrà decidere se rinviare a giudizio o no 45 militanti antimilitaristi attivi nella

lotta contro le basi NATO di cui è disseminata la Sardegna. Qui una lettera di un

gruppo di loro madri.

Siamo un gruppo di Madri dei 45 giovani sotto processo per l’operazione Lince.
Dall’inizio del processo contro i nostri figli e altri attivisti dei movimenti contro

le basi militari, ci ritroviamo davanti al tribunale di Cagliari ogni volta che le

nostre forze e i nostri impegni di lavoro e di cura delle nostre famiglie ce lo

consentono.
Ci ritroviamo davanti al tribunale di Cagliari per chiedere, attraverso la nostra

presenza, che sia posta fine a questa volontà repressiva mirata ad annichilire gli

ideali, i sogni e i progetti, non solo dei nostri figli, ma di un’intera generazione,

attraverso operazioni poliziesche e giudiziarie persecutorie che hanno prodotto accuse

gravissime ed esorbitanti rispetto alla realtà dei fatti cui si riferiscono.
L’Operazione Lince è un’inchiesta della procura di Cagliari sviluppatasi, a partire

dal 2014, nei confronti di movimenti e associazioni impegnati nelle lotte e nelle

manifestazioni contro l’occupazione militare della Sardegna, contro le basi Nato e

contro le devastanti esercitazioni militari che vi si svolgono.
La chiusura delle indagini ha portato ad una quantità di accuse che vanno, in un

crescendo spropositato, da reati connessi alle manifestazioni di piazza, fino

all’accusa gravissima di Associazione con finalità di terrorismo.
Definire terroristiche le manifestazioni del legittimo dissenso nei confronti

dell’occupazione militare – che ha tra i suoi effetti il fatto che nei diversi

poligoni in Sardegna si fanno esplodere l’80% di tutte le bombe esplose nel territorio

nazionale è quanto meno sconcertante e paradossale se per terrorismo si intende “l’uso

di violenza illegittima, finalizzata ad incutere terrore nei membri di una

collettività organizzata e a destabilizzarne o restaurarne l’ordine, mediante azioni

quali attentati, rapimenti, dirottamenti aerei e simili”(www.treccani.it).
Davanti a tale distorsione della realtà, che sembra finalizzata a stritolare tanti

giovani e la loro coscienza antimilitarista, noi Madri siamo qui a testimoniare la

nostra condivisione dei motivi delle proteste dei nostri figli e delle migliaia di

cittadini sardi che nei decenni hanno manifestato contro l’occupazione militare;

esprimiamo con forza il nostro diritto a opporci a quello che appare come un teorema

accusatorio basato su postulati ideologici. Uno Stato di diritto dovrebbe riconoscere

la libertà di manifestare il proprio pensiero.
Chiediamo perché lo Stato italiano, attraverso la Presidenza del Consiglio e il

Ministero degli Interni, si sia costituito parte civile, mentre non ha ritenuto di

costituirsi parte civile in altri processi quali quelli per la strage di Viareggio i

morti di Teulada e di Quirra.
Quali sono i motivi veri dell’operazione Lince e delle gravissime accuse con le quali

si vogliono stritolare i nostri figli e si vuole imbavagliare la loro legittima

protesta?
L’interesse dello Stato italiano che incassa 50mila euro l’ora (*Atto di Sindacato

Ispettivo n° 4-07735 del 2017*) per l’affitto agli eserciti di tutto il mondo e a

società private dei poligoni e delle basi, potrebbe essere uno dei motivi che hanno

portato all’operazione Lince.
La lotta contro l’occupazione militare è parte della storia della Sardegna dove è

allocato il 65% del totale del demanio militare italiano.
Ciò ha portato migliaia di persone alle manifestazioni di Capo Frasca, Teulada,

Quirra, persone di estrazione sociale, di cultura e formazione politica e umana quanto

mai diversificate che, però, hanno condiviso gli appelli alla mobilitazione.

L’esistenza di questa consapevolezza è un altro dei motivi che muovono l’operazione

Lince.
Le accuse che sono mosse ai nostri figli comportano delle ripercussioni pesantissime

sul piano personale, familiare e sociale, sul lavoro, sullo studio e sulle prospettive

di vita.
Noi non lo permettiamo e verremo qui, davanti al Tribunale di Cagliari, davanti al

Palazzo di Giustizia, come presidio di solidarietà a cui vi invitiamo ad aderire.
Ci rivolgiamo alle persone, ai lavorator* della formazione, accademic*, della cultura

dello spettacolo dell’arte, dell’informazione, avvocat* e magistrat* perché si apra

una riflessione e un dibattito che non rimanga confinato nelle aule del tribunale e

nel privato degli accusati ma che tocchi la sensibilità dei singoli e renda la giusta

dimensione ideale perché nessuno può ritenersi tranquillo e immune dal pericolo della

repressione di pensiero e libertà sancite dalla Costituzione italiana.
Vi chiediamo pertanto: l’adesione “pubblica” a questo appello per email o per contatto

telefonico personale e l’attivazione di iniziative personali o collettive di

informazione e discussione a sostegno dell’iniziativa.

22 marzo 2021, da pagina fb Madri Contro la repressione Contro Lince


Lecce: processo No Tap, aggiornamenti e qualche riflessione
Il Trans Adriatic Pipeline (TAP) è il tratto di un gasdotto che, insieme al turco

TANAP compone il corridoio meridionale del gas. Questa conduttura dovrebbe fornire il

combustibile fossile all’Austria attingendo alle riserve del mar Caspio (Azerbaijan) e

transitando per l’Italia dove arriva attraverso un tunnel sottomarino con approdo

nella marina di San Foca, in provincia di Lecce.
Qui, un tunnel sotterraneo percorre ancora pochi chilometri per riaffiorare in una

stazione di spinta e poi in un terminale di ricezione che si estende per 12 ettari

situati a poca distanza da quattro centri abitati. Contro la costruzione di questi

impianti si sono mossi gli abitanti della zona, inizialmente attraverso diverse azioni

legali intentate da un comitato cittadino, poi attraverso l’interposizione fisica

contro i mezzi e i cantieri. Proprio di fronte al primo cantiere, nel 2017 è sorto un

presidio di resistenza ed è cominciata un’intensa attività di contrasto durata circa

due anni.
È a questa stagione di lotta che fanno riferimento i capi di imputazione che oggi

vedono al banco degli imputati una novantina di oppositori accusati di vari

danneggiamenti, resistenze, violazioni di divieti, oltraggi e manifestazioni non

preavvisate. Il processo di primo grado arriverà a sentenza fra pochi giorni e

presenta delle caratteristiche che, se ad un primo sguardo paiono singolari, ad

un’osservazione più attenta rivelano continuità e coerenza con una ben rodata prassi

giudiziaria e repressiva.
Un passo indietro. Dallo scorso settembre, nell’aula bunker del carcere di Lecce si

stanno celebrando tre procedimenti formalmente distinti: uno tratta diversi episodi

riconducibili a manifestazioni pubbliche o blocchi dei mezzi accaduti fra il 2017 e il

2018 ed è a carico di 46 persone; un altro imputa a 56 persone la violazione

dell’ordinanza prefettizia che delimitava una “zona rossa” attorno al cantiere; il

terzo riguarda una manifestazione nei pressi di un altro cantiere, per cui 25 persone

sono accusate di aver danneggiato le recinzioni e di aver oltraggiato le forze

dell’ordine addirittura esibendo il dito medio in direzione di un elicottero in volo.

Le udienze dei tre processi si celebrano quasi contemporaneamente con una

calendarizzazione molto fitta e sono assegnati al medesimo giudice. Cardine delle tesi

accusatorie sono le testimonianze rese dagli agenti della digos, valutati con

esplicita dichiarazione del giudice “elementi probanti principali”. Tali testimonianze

fanno riferimento sempre ad episodi pubblici e sono documentati da
fotogrammi che la Digos ha estrapolato dai filmati della polizia scientifica. Come

dire, poesia tratta da prosa…
Una figura che merita attenzione è quella del Pubblico Ministero. Questo magistrato –

procuratore antimafia- è anche assegnatario di un fascicolo scaturito dalla denuncia

di 30 attivisti per i medesimi fatti riguardanti la “zona rossa” e rimasto- neanche a

dirlo- lettera morta, nonostante sia fin troppo chiaro chi fossero quel giorno i

responsabili dell’ordine pubblico e chi avesse potuto dare l’ordine di ammanettare i

manifestanti in piena campagna per tradurli in caserma e in questura sui mezzi di

ordinanza. Se questo elemento illumina sulla scelta di priorità operata dalla procura

leccese nella gestione dell’attività giudiziaria, la nomina di un magistrato antimafia

si inserisce in un solco già tracciato a livello nazionale, per cui si adottano le

prerogative dell’antimafia nei reati di ordine pubblico. Da anni questa tendenza

sempre più generalizzata associa i reati tipicamente ascrivibili all’area del dissenso

e della conflittualità politica a quelli della criminalità organizzata, e lo fa

attraverso l’accostamento dell’antimafia all’antiterrorismo, termine che nel 2015 si

aggiungeva formalmente alla denominazione della divisione della magistratura

antimafia. In questo modo nella prassi giudiziaria e nella strutturazione e

interpretazione delle norme si è assottigliata, fino quasi a scomparire, la

distinzione tra l’ambito del conflitto sociale e quello dell’eversione. Crediamo che

il caso leccese che porta un magistrato antimafia alla pubblica accusa per un reato

contravvenzionale (come è quello per la violazione dell’ordinanza prefettizia) sia

certamente un paradosso ma non un’originale stravaganza. Va da sé come ciò si traduca

in una maggiore efficacia repressiva del dissenso espresso pubblicamente da gruppi più

o meno numerosi e più o meno strutturati politicamente. Questo particolare dispositivo

di contiguità si rafforza anche grazie alla sempre maggiore vicinanza tra l’operato

delle questure e quello delle procure. Una collaborazioneche si avvale di vari

strumenti e prerogative nelle mani della polizia giudiziaria, non ultima

l’applicazione della misura di sorveglianza speciale. Anche su questo aspetto i

processi in corso sono esemplificativi. Senza entrare nel merito di inverificabili

quanto verosimili scambi di poteri, ci preme mettere in luce la particolare

aggressività repressiva di alcune misure che sono state utilizzate “a pioggia” nel

corso della lotta al gasdotto: le sanzioni amministrative per blocco stradale e i

fogli di via. Nel primo caso sono state notificate multe fino a 4mila euro a chiunque

abbia partecipato ai blocchi dei mezzi in arrivo al cantiere, spesso membri dello

stesso nucleo familiare, con ciò provocando grave danno economico amplificato

ulteriormente dai respingimenti in appello delle opposizioni.
Generoso anche l’uso del foglio di via, una misura di prevenzione personale

disciplinata dal codice antimafia ed erogata dal questore. Nello specifico caso

leccese la questura si è limitata ad elencare una serie di manifestazioni alle quali

il destinatario ha partecipato, in cui sono stati rilevati dei reati non commessi

necessariamente da quel soggetto, comminandogli la restrizione massima: tre anni di

allontanamento dai comuni di Melendugno e le sue (molte) marine e da Lecce. Ciò,

naturalmente ha creato non poco intralcio a coloro che in quei luoghi ci lavoravano,

spesso con contratti stagionali e discontinui. chi, invece ha deciso di ignorare il

foglio di via, non accettando, naturalmente, di abbandonare la lotta al gasdotto, ha

ricevuto un vero e proprio diluvio di denunce, alcune formalizzate in decreti penali

di condanna, attualmente in fase di opposizione, altre convogliate nei processi in

svolgimento. Tale violazione, sebbene motivata da ragioni ben diverse dal trarre

profitto personale, rappresenta un reato formale, per cui il giudice non è tenuto a

valutare la pertinenza del divieto emesso dal questore, limitandosi all’accertamento

della presenza dell’imputato in quei luoghi. Del resto, le motivazioni che hanno mosso

gli imputati a fare (o non fare) ciò di cui sono accusati sembra abbiano davvero poco

interesse per il giudice che procede rapido, formale, burocratico, verso la sentenza.
Al di là del pronunciamento di primo grado, già molti aspetti di questa vicenda sono

chiari sebbene pubblicamente poco dibattuti: oltre alla consuetudine dell’uso delle

prerogative antimafia è istruttivo l’uso dei provvedimenti di interdizione di porzioni

di territorio. “Zona rossa” è ormai un termine familiare a cui si rischia

pericolosamente di abituarsi. Con questo dispositivo l’autorità prefettizia può

chiudere piazze, strade, quartieri o, come è accaduto qua, vaste estensioni

extraurbane. Retrodatando alla zona rossa genovese durante il g8 del 2001, passando

per i cantieri dell’alta velocità in Valle di Susa, fino a quelli del gasdotto

salentino, per giungere all’attualità della cosiddetta emergenza sanitaria, la

chiusura militarizzata di porzioni di territorio rappresenta una delle peculiarità

geopolitiche dei tempi in cui viviamo. E, se ciò non fosse sufficientemente chiaro, il

caso Tap dimostra come l’interesse privato di una grande multinazionale travalica,

anzi seppellisce quello pubblico. Di chi è, per davvero, la casa in cui abitiamo?
La vicenda dell’opposizione a Tap, sebbene da sempre connotata da una terribile

sproporzione di forze, ha coagulato una certa consapevolezza rispetto a questa domanda

la cui risposta non è affatto scontata.

12 marzo 2021, da comunellafastidiosa.noblogs.org

Il 19 marzo è stata pronunciata la sentenza di primo grado di tre processi. Oltre

cento persone sono state giudicate per vari reati, in 70 sono stati condannati con

pene che vanno dai tre mesi ai quattro anni e oltre 30 persone hanno subito condanne

superiori a un anno. Infine, il giudice ha ammesso le richieste delle parti civili:

qualche migliaio di euro, definiti “simbolici” per TAP e 25 mila euro (meno simbolici)

per un’offesa verbale subita da un dirigente di polizia da parte di un manifestante.
Le condanne sono state più che raddoppiate rispetto alle richieste del PM, un dato che

rende evidente l’orientamento del giudice Pietro Baffa, titolare di tutti e tre i

procedimenti, portati a sentenza in tempo di record per la giustizia italiana: solo

sei mesi.
Ci sembra inoltre significativo che tre distinti procedimenti si siano conclusi nel

corso di un'unica udienza, così assumendo un carattere di esemplarità punitiva nei

confronti di chi ha osato alzare la testa contro il progetto di questa multinazionale.



Solidarietà al movimento No Tav dai paesi baschi
Segue un comunicato dell’organizzazione internazionalista e indipendentista Askapena

che solidarizza con il movimento No Tav e l’opposizione all’autoporto, perché la lotta

ecologista e quella anticapitalista sono inseparabili. Il testo, pubblicato a fine

aprile su radionotav.info, accenna brevemente anche alle recenti giornate di lotta a

San Didero.

Il movimento NO TAV contro il macro-progetto dell’Alta Velocità che punta a collegare

Lione e Torino nasce negli anni ’90 nella Val di Susa, nelle Alpi, nel nordest

dell’Italia. Da allora è stato un movimento di resistenza molto diversificato e la sua

principale forma di lotta è stata quella di occupare e difendere aree strategiche per

i cantieri TAV creando aree note come “presidi”.
Dopo un periodo di pacificazione negli ultimi anni, è ora in fase di rilancio il

progetto “autoporto”, che si vuole realizzare nel comune di San Didero,

un’infrastruttura strettamente legata al TAV, che si trova a pochi chilometri di

distanza. Il cosiddetto “Autoporto” sarebbe un enorme poligono per il carico delle

merci dai camion ai treni e viceversa, uno dei tanti nodi o punti di connessione

indispensabili per le reti logistiche che supportano l’attuale economia globalizzata.

Da dicembre 2020 esponenti del movimento NO TAV hanno organizzato una zona di

resistenza contro l’autoporto di San Didero attraverso l’occupazione del terreno dove

verranno eseguiti i lavori, e nelle ultime settimane due attivisti si sono incatenati

a bidoni di cemento, tecnica che hanno appreso nei Paesi Baschi.
Lo sgombero del presidio è iniziato il 12 aprile e più di 3.500 agenti di polizia

hanno partecipato all’operazione. Sono stati stanziati 5 milioni di euro per la

sicurezza dell’opera, oltre il 10% del progetto totale. Attualmente la polizia

militarizza l’intera area, abbattendo alberi e recintando il nuovo cantiere. Oltre

alla resistenza nelle terre occupate, grandi mobilitazioni si sono svolte in tutta la

valle di Susa, compreso un campeggio di centinaia di persone.
Sabato scorso è stata organizzata una manifestazione nazionale, che ha riunito persone

da tutta Italia. Dopo la manifestazione ci sono stati dei disordini, e una donna che

solidarizzava con i manifestanti, è stata colpita alla testa con una cartuccia di gas

lacrimogeni CS. È in gravi condizioni in ospedale e rischia di perdere un occhio. Va

chiarito che i proiettili al CS emettono fumi tossici che la Convenzione di Ginevra

proibisce come armi chimiche; sono noti per essere stati utilizzati dagli Stati Uniti

durante l’invasione del Vietnam. Tuttavia, tutta questa violenza usata dallo Stato non

ha sorpreso nessuno. Il capitale ha bisogno della movimentazione geografica costante

delle merci, ed è consapevole dei danni che possono causare i blocchi stradali,

ferroviari, marittimi e aerei, come dimostrano le conseguenze e il clamore provocato

da una singola nave nel Canale di Suez. Compagni e compagne della Valsusa hanno preso

coscienza dell’importanza strategica di queste reti logistiche e stanno dimostrando

che le lotte ecologiche e anticapitaliste sono inseparabili. Da Euskadi [terre basche]

esprimiamo il nostro pieno sostegno e solidarietà ai compagni dei movimenti NO TAV e

Presidio Ex-Autoporto San Didero che resistono giorno e notte. No ai treni ad alta

velocità! Né qui né altrove!

Askapena
Valsusa San Didero, 25 aprile 2021


LETTERE DAL CARCERE DI REGGIO EMILIA
Compagne e compagni dell’opuscolo Olga, è veramente uno schifo. Gli sbirri che hanno

preso parte, anzi fronteggiato le rivolte, e nello specifico quelle di Modena, tutti

assolti. 3 procure hanno dichiarato l’estraneità dei fatti degli agenti inquisiti che

voce angelica fa sapere che sono stati sottratti 100 litri di metadone. Neanche se

l’avessero assunto tutte le guardie dei 27 penitenziari che si sono rivoltati ve ne

sarebbe voluto tanto. E i risultati delle autopsie? Dove sono le fatture di chi ha

consegnato il metadone? O magari il metadone non è tracciabile? No, è come i vecchi

tempi, quando ci mette le mani lo stato ne ammazza dai 14 in su se no il lavoro non è

stato di qualità. Ma la domanda è: come mai non è stato somministrato il NARCAN. Dove

ci sono prigionieri si trova anche la panacea da sovradosaggio, chi sa da quanti anni

si parla di giustizia riparativa. E come lo ripari uno se è morto? In verità la

risposta c’è, bisognava chiedere a Gesù Cristo, ma al momento era impegnato altrove.

Le galere di Stato oltre a non servire più a nulla, se mai fossero servite, sono

dimenticate, pure pericolose, anzi, mortali.
È difficile dire quello che ha suscitato nei reclusi, quelli interessati ovviamente,

personalmente era una cosa che ci si poteva aspettare. Ho 59 anni e so bene come

funziona la storia. Dalla Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana (MI)

passando per il treno (Italicus), Piazza della Loggia, la strage di Bologna e tanti

altri episodi meno eclatanti. Aperte le indagini che portavano sempre a qualche entità

sovversiva, invece erano loro, sempre e solo loro. Lo Stato, è così che conserva i

metodi stragisti e fascisti. Però il 9/03/2020, io ricoprivo la mansione di scrivano e

li ho visti con i miei occhi quelli che portavano da Modena qui a Reggio Emilia.

Scalzi, in pigiama, senza niente, prelevati e deportati. Ma quello che ricordo di più

erano le ecchimosi e i volti tumefatti dalle botte ricevute. Una cosa che una società

civile non dovrebbe accettare, nella quale tali orrori non ci dovrebbero essere. Ma

non si fa nulla, e sapete perché? Perché l’importante non è il covid nelle galere, il

sovraffollamento, le guardie che menano, questo passa tutto in secondo piano, quando

il robot atterra su Marte, questo è l’importante. Roba da non credere. (8 marzo 2021)

***
[…] l'inferno si è abbattuto sulla Pulce. L'impianto è imploso con l'infezione da

covid19. La casa circondariale blindata e noi della penale, esclusa la 5A sezione, in

circa 10 reclusi, deportati alla sezione A che era predisposta per l'isolamento e

l'osservazione di 25 celle per due bracci, ora diventata sezione quarantena covid.

Tranne un paio di noi, siamo, per ora, asintomatici. Il giorno 17/03 mi è stato

concesso un permesso di 4 ore accompagnato dal prete. Al rientro mi hanno effettuato

il tampone molecolare che è risultato positivo. Mano a mano sono arrivati gli altri.

Il problema è che le celle sono distrutte, fredde e l'amministrazione non ci fornisce

né disinfettanti né niente per pulirle. Le cure mediche sono miopi se non per il fatto

che l'infermiere di turno ci misuri la temperatura e la saturazione, il resto ci

dicono che bisogna aspettare che passi.
Di sicuro sappiamo che il tampone ci verrà effettuato il 31/03. Intanto abbiamo saputo

che hanno sanificato le celle. La situazione è peggiorata per il fatto che non ci

fanno arrivare coperte personali e abiti appropriati per difenderci dal freddo.
[…] Praticamente viviamo al gelo in una sezione che dovrebbe essere stata trasformata

in qualcosa di ospedaliero. Siamo chiusi 24 ore su 24 e non ci fanno neanche accedere

ai passeggi. Il nervosismo sale di minuto in minuto. Resistiamo ma è veramente dura.

[…] Dagli studi legali sono partite e-mail alla direzione e alla magistratura di

sorveglianza autoctona ma, in 7 giorni, nulla è cambiato. La pressione psicologica è

forte e, oggi più che mai, la tortura democratica, comincia a sortire i primi segni di

persecuzione che invece dovrebbe essere incolumità medica e una maggiore attenzione da

parte degli organi di vigilanza, ma soprattutto dalla direzione. (24 marzo 2021)

***
[...] La pandemia è esplosa nel giorno 17 di marzo. Le celle sono chiuse in tutte le

sezioni e le attività bloccate. Le profilassi per il controllo della positività, il

famigerato tampone, hanno trovato su una somma di 450, più di tre quarti positivi. Le

cure si basano sul controllo della temperatura e saturazione. Non sono stati forniti

neanche l'ombra di antibiotici – 6 detenuti sono già intubati c/o l'ospedale di R.E.

In pratica la situazione ha assunto un panorama ingestibile sotto il profilo sanitario

ed anche le guardie sono state colpite duramente. Si è passati da 0 a 100 in un

battito di ciglia. La sezione Antares, due bracci da una quindicina di celle l'uno, è

stracolma e da qualche tempo quelli tornati positivi vengono lasciati nelle proprie

celle con il blindo chiuso. Oltre quindi al contagio, l'applicazione di una punizione

aggiuntiva frutto della ormai conosciuta tortura democratica.
A Parma stessa storia, tutto blindato. Si avverte la stanchezza dei reclusi persino di

effettuare una benchè minima resistenza. Colpiti dalla chiusura dei colloqui e dalla

privazione ulteriore di aver bloccato le video-chiamate cercando di aiutarci come

possiamo. Le risorse, sia quelle psicologiche che quelle oggettive ormai sono ridotte

ai minimi termini. Solo la rabbia ci tiene vivi. L'immobilità del ministero della

giustizia nell'effettuare passi nei 192 penitenziari al più presto e il totale

asservimento della RAI 3 dell'Emilia Romagna, che divulga notizie false con

statistiche non veritiere, stanno rendendo il clima bollente. La richiesta è che

quanto prima si possano sapere le condizioni degli altri istituti e il conteggio delle

unità attualmente ostaggi dello Stato. I burattinai dicono 54.500 reclusi, ma a noi

non portano i conti. Spero vogliate aiutarci a divulgare tali notizie. Sono stati

informati: Sicilia Libertaria, Cassa AntiRep di Cuneo e la redazione del giornale

anarchico internazionalista. Lotteremo fino all'estinzione dello Stato Borghese. A

pugno chiuso.
P.S. La Pulce (Istituti penali Reggio Emilia) ha aperto i battenti il 13/11/1991, sino

ad oggi si sono verificati più o meno 230 decessi. Forse c'è qualcosa che non va!?!

(1 aprile 2021)

Marco Ricci, via Settembrini, 8 - 42123 Reggio Emilia


LETTERE DAL CARCERE DI MILANO-OPERA
[…] Non vedo nulla a questo cambio dei vertici dei poteri dello stato. Vedi che al

ministero della giustizia possono mettere anche Sant’Ambrogio, ma una volta che entra

in quelle stanze di potere esercita solo la dottrina che ci trova, non la santità

della sua indole. La storia del nuovo ministro può confondere e portarti a pensare

positivamente. La sua anima democratica a mio parere è rimasta fuori dai palazzi dei

poteri e il tempo che avrà a sua disposizione per occupare quella poltrona non le

basterà per rimanere nel tempo il suo passaggio se non come un nome qualunque che ha

occupato quella poltrona.
I potenti a parole sono vicini al popolo. A parole soffrono le sofferenze, i patemi,

gli stenti del popolo che in questo periodo di covid, sono davvero tanti. Ma nei fatti

sono lontani dalle esigenze del popolo, e la società intera lo vive sulla propria

pelle, ed anche il nuovo ministro della giustizia entrando in quelle stanze di potere

lasciando fuori la sua anima garantista e democratica non farà nulla per cambiare le

sorti della magistratura e tanto meno quello delle carceri. L’Italia la comandano i

magistrati e dovunque ci sono poltrone occupate da loro, non c’è altro stato se non

quello che vogliono loro. Il DAP è amministrato da magistrati con lunghi percorsi

nell’antimafia; il DAP amministra miliardi di euro; come questi magistrati permettono

di farsi sindacalizzare da un ministro di turno? Anche se si chiama Cartabia?
Ci troviamo qui in Italia, in un sistema più che criminoso; e ti sto parlando solo per

ciò che mi riguarda; magistratura e carceri! In questo ambiente i controllori sono gli

stessi controllati, quindi come si fa a sconquassare un sistema con questo principio?

Non credo che bastino battaglie, proteste, denunce per scardinare questo sistema

perverso. Sono del parere che terminerà quando esploderà dentro sé stesso. E ti faccio

l’esempio di Palamara. Il primo pentito della magistratura. Altri 3 o 4 come questi e

allora si che l’Italia riuscirà a cambiare.
Tanto per dirtene un’altra; quell’unica voce che è rimasta lì fuori che grida a favore

di chi è imprigionato dallo stato sono l’associazione che tu rappresenti e qualche

altra. Poche gocce nell’oceano, e cosa hanno fatto i politici? Consigliati da questi

poteri forti della magistratura si sono fatti mettere nero su bianco con una circolare

che gli dà la copertura penale di usare idranti e manganelli se venite a protestare

fuori al carcere, è normale? No che non è normale se ci trovassimo in uno stato

libero, ma l’Italia non lo è. E ti voglio raccontare un altro episodio che mi è

capitato meno di un mese fa. Quattro anni fa i miei avvocati hanno presentato un

ricorso alla corte di Strasburgo per revoca di ergastolo, causa: diritti non

riconosciutomi da questo stato! Alla prima lettura del mio ricorso, i giudici, l’hanno

fatto ammissibile; un mese fa si fa l’udienza deliberatoria, e guarda caso, se

realmente un caso, chi presiede il collegio. Un giudice italiano con un bosniaco e uno

sloveno. L’italiano di origine di Castellamare di Napoli, e sempre il caso ha voluto

che il fatto omicidiario in discussione è avvenuto a Castellamare negli anni ‘80 e

questo giudice cosa delibera? Il ricorso, smentendo i giudici di prima lettura, è

inammissibile! Ecco! È questo il nostro stato, giustizialista, vendicativo e ti

perseguita per la sua vendetta dovunque può arricchire il suo potere. Beh! Credo di

aver fatto una bella chiacchierata. E poi come vedi non cambia molto di ciò che penso

del sistema, e con gli anni è sempre peggio, sia ciò che penso e sia ciò che vedo e

vivo. Ringrazio io te e tutti i compagni/e per quello che fate per noi. Un abbraccio a

tutti. (10 marzo 2021)

***
[...] Ho seguito dei disagi che ci sono stati con i vaccini qui in Lombardia; la

gestione, con tutti i cambiamenti che ci sono stati nella regione si è rivelata lo

stesso incompetente. Ora stanno cercando, da quello che sento, ripari alle loro

mancanze, ma con una confusione totale che hanno posto sui cittadini sulla serietà

degli stessi vaccini, la stessa confusione è arrivata qui dentro tra noi imprigionati,

se farli o meno e se sì quale fare? Per intanto anche qui hanno iniziato a vaccinare i

reclusi. Tra l’altro ieri nelle tre sezioni del primo piano dove sono recluso io hanno

vaccinato tutti coloro che hanno patologie gravi e tutti quelli che son stati

contagiati nei mesi scorsi di covid. Per ora hanno iniettato il Pfizer e credo che in

settimana vaccineranno anche noi con lo stesso farmaco. Per ora sono vaccinati tutti

gli anziani, e gli altri, come ti ho detto per i più giovani bisognerà aspettare

perché non credo che in settimana lo faranno così come ci è stato detto; come lì fuori

anche qui dentro la gestione è in mano a dei caproni.
Nel frattempo, non ci sono state novità da segnalare, tutto è rimasto come prima, con

l’evento del nuovo ministro della giustizia i tribunali continuano a decidere che i

prigionieri anziani malati gravi devono continuare a morire nelle patrie galere. Per

ora l’anima democratica e garantista è rimasta come prevedibile fuori dalla stanza del

potere. Per questi indegni è uno smacco allo stato se un relitto umano va a morire a

casa.
Il protocollo della gestione per il covid, contenga ad essere lo stesso qui dentro

come gli altri istituti che sono in contatto; colloqui non se ne fanno, e se sì, in

base al colore della regione; continuano a tenere tutto chiuso tranne la scuola che

fanno entrare solo i professori vaccinati.
Ora vedremo cosa decideranno dopo che ci avranno vaccinati tutti. Credo che qualche

apertura la dovranno fare, almeno è questa la speranza, per ora ci hanno messo

all’ingrasso come i pezzi da macelleria, tanto lo sanno che con quello che hanno

combinato nella prima fase dell’epidemia con le proteste, in questi posti si è tornati

alla vita dormiente. Oramai i nostri governanti sono indottrinati nelle frasi dette

pur di mantenere il potere qualunque cosa che accade, sia nelle carceri, sia che il

popolo protesta perché ha fame, fanno la solita carrellata in tv e tutti a dire “con

la violenza non si ottiene nulla!” non c’è mai una voce fuori dal coro che grida “qui

non si ottiene nulla comunque”. Oramai questo è uno stato miserabile. Contiamo le

parole, più sono forti e colpiscono la società perbene più la concretezza delle cose

latita; dopotutto basta buttare benzina su di noi, la criminalità organizzata e hanno

risolto tutto, come se la criminalità, le mafie, come loro vogliono fare intendere

esistono ancora.
Oggi più che mai le carceri sono l’emblema della società di fuori. Siamo tutti

truffati, ricattati, rapinati, estorti dal potere. Ti potrei elencare le centinaia di

estorsioni che ogni cittadino ha dovuto pagare ogni giorno a questi dei poteri dello

stato, e pagano inconsciamente e poi i criminali siamo noi. Chiusi qui dentro. Pensa

che Strasburgo ha condannato di nuovo l’Italia sulla gestione delle carceri;

all’apparenza sembra una cosa politica, ma la realtà di queste condanne non fanno

altro che peggiorare la nostra situazione, perché i signori del DAP, con la

compiacenza dello stato, anziché costruire altri istituti per darci più spazio, non

faranno altro che portarci altre brande in cella per dire poi a Strasburgo che hanno

creato più posti, togliendoci lo spazio per la nuova branda. Quindi come vedi certe

condanne all’Italia peggiorano la nostra vivibilità. Ma questo nessuno lo sa, lo

sappiamo noi che subiamo. Si, ma io prima o poi, le brande ce le butto nel corridoio,

cosi come ho fatto a Oristano, e a Volterra. Dalle parti mie si dice (senza offesa per

nessuno, perché io ho massimo rispetto per tutti”) “fai il frocio con il tuo culo”!

quindi non permetto che questi del DAP lo facciano con il mio! Per ora mi fermo qui

saluti e abbraccio tutti/e i compagni.

Milano-Opera, aprile 2021


NOTIZIE DALLE CARCERI
Segue una rassegna di notizie e informazioni sulle carceri riportate da diversi

giornali nazionali e locali. Chiediamo a tutti i prigionieri di portare contributi

diretti sui fatti riportati, in modo tale da liberarci dalla stampa dei sindacati di

polizia penitenziaria e dei governi di turno.

19 febbraio. La Cassazione ha confermato la decisione del Csm sull'allora magistrato

di sorveglianza di Brescia che con la sua condotta aveva danneggiato la donna. Era ai

domiciliari, l'allora magistrato di sorveglianza di Brescia le aveva negato il

permesso per andare in ospedale a interrompere la gravidanza. Lo aveva fatto per

obiezione di coscienza. Per questo è stato censurato dal Csm per la sua condotta che

aveva anche danneggiato la donna. Ora la Cassazione, con la sentenza numero 3780,

conferma tale decisione.
27 febbraio. Lo studio promosso da Area Dg che ha coinvolto 60 tra pm e giudici del

Piemonte: "É aumentato il numero di arresti in flagranza soprattutto per fatti non

connotati da particolare gravità". I numeri sul totale degli arresti e dei fermi è

passato dai 2.466 del 2014 ai 3.538 del 2019. Durante l'emergenza sanitaria del 2020

sono scesi nel complesso a 3.285, anche se sono aumentati in maniera netta quelli per

resistenza a pubblico ufficiale (370 nel 2016, 540 nel 2020). Tra di esse gli arresti

per furto per particolare tenuità del fatto ("La professoressa incensurata arrestata

perché in coda all'Ikea passa dritta alle casse rubando un mestolo") o gli arresti per

false dichiarazioni sull'identità personale".
28 febbraio. Sassari. La decisione del magistrato di sorveglianza per Domenico

Strisciuglio detenuto dal 1999 al regime del 41bis: accolto il reclamo proposto dal

difensore. Visto il momento di pandemia, in caso di impossibilità alla visita, si può

ricorrere alla tecnologia. Potrà fare una videochiamata al mese con i familiari. Il 19

febbraio gli era stato concesso anche l'acquisto di un lettore e dei dischi. Anche in

questo caso il Tribunale di sorveglianza di Sassari aveva stabilito che si trattava di

"un diritto primario, un residuo di libertà".
1 marzo. Gli ultimi due militari di guerra tedeschi superstiti condannati

definitivamente all'ergastolo per l'uccisione indiscriminata di militari e civili

italiani sono morti: si tratta, come conferma all'Ansa il procuratore generale

militare Marco De Paolis, del centenario Karl Wilhelm Stark, accusato di vari eccidi

commessi nel 1944 in varie località dell'Appennino tosco-emiliano e di Alfred Stork

(97 anni), ritenuto responsabile di una delle stragi avvenute sull'isola di Cefalonia

nel settembre 1943 nei confronti dei militari della Divisione Acqui. Nessuno dei due

ha mai fatto un giorno di carcere o di detenzione domiciliare. Sono stati 60 gli

ergastoli inflitti dalla magistratura militare italiana dopo la scoperta, nel '94, del

cosiddetto Armadio della vergogna, dove centinaia di fascicoli di stragi nazi-fasciste

erano stati occultati nel 1960. Ma di fatto nessuno è stato eseguito, perché le

richieste di estradizione o di esecuzione della pena nei Paesi dei condannati sono

sempre cadute nel vuoto.
2 marzo. "Presenteremo esposto in procura". Lo ha annunciato l'avvocato della famiglia

Cutolo: "La visita di moglie e figlia al defunto è durata solo 5 minuti. Il magistrato

di Parma titolare, che ha disposto l'autopsia sul corpo dell'ex boss ha disposto che

la moglie di Cutolo e la figlia 13enne non si avvicinassero alla salma, che non

potessero porre sulla salma alcun oggetto, non un fiore, non una corona, non

un'immagine sacra, e che la visita fosse realizzata a distanza e alla presenza di più

operatori delle forze dell'ordine. La visita di moglie e figlia al defunto è durata

solo 5 minuti. C’è stato un corteo di auto di Polizia e Carabinieri partito da Parma

per raggiungere in piena notte il cimitero di Ottaviano, circa 200 uomini impegnati

per 700 chilometri: una vera e propria scorta. Addirittura il sacerdote che ha

officiato quella breve cerimonia è stato prelevato presso la sua abitazione e portato

pochi minuti prima al cimitero di Ottaviano.
5 marzo. Firenze. Violenze nel carcere di Sollicciano, altre tre segnalazioni per

presunti pestaggi. Stesso modus operandi a Sollicciano, denuncia l'associazione

"L'Altro diritto", dove 9 agenti sono stati raggiunti a gennaio da una misura

cautelare. È notizia recente che nove agenti penitenziari, tra i quali un'ispettrice,

sono stati raggiunti dalle misure cautelari perché avrebbero pestato due detenuti in

momenti differenti nel carcere di Sollicciano. Uno nel 2018 e l'altro a maggio del

2020. Ora però emerge che si sarebbero verificati altri tre casi di abusi con lo

stesso modus operandi che confermerebbe il clima di terrore perdurato nel tempo a

Sollicciano.
13 marzo. Padova. Detenuti declassificati. "Non c'è stato alcun reato". Si tratta

dell'indagine di cui è stato protagonista Salvatore Pirruccio, all'epoca dei fatti

direttore del Due Palazzi da 13 anni, poi rimosso nell'ottobre 2015 dall'incarico.

L'accusa contestata era di falso ideologico in seguito alla declassificazione di 6

reclusi dal regime di Alta sicurezza (riservato ai condannati inseriti nella

criminalità organizzata per reati di tipo associativo come mafia e traffico di droga a

livello internazionale) a quello proprio dei detenuti comuni.
21 marzo. Torino. Un giovane, 24 anni, in carcere per una tentata rapina. Poi il

trasferimento in una cella di osservazione del reparto psichiatrico, dove avrebbe

dovuto trascorrere solo poche notti. La "liscia", così la chiamano al carcere Lorusso

e Cutugno. È la numero 150 e si trova all'interno del Sestante, il reparto

psichiatrico. Una stanza completamente vuota, priva di mobili e suppellettili. Le

uniche parvenze di arredo sono un materasso, una coperta e il bagno a vista con lo

scarico attivato dall'esterno. M., 24 anni, nella "liscia" avrebbe dovuto trascorrere

solo poche notti, invece vi sarebbe rimasto per molto più tempo: oltre i limiti

stabiliti dai regolamenti. "È rimasto nudo, con la luce sempre accesa e senza acqua

corrente", denuncia il padre. “Per quattro giorni, poi, non gli hanno fornito acqua in

bottiglia e così quando dall'esterno attivavano lo scarico dei bagni, lui la

raccoglieva prima che finisse negli escrementi. Lo hanno mortificato, insultato,

umiliato". Una perizia psichiatrica ha anche stabilito che M. era sottoposto a

trattamento psicofarmacologico "esagerato" e "abnorme", con il rischio "non solo di

aggravare e perpetuare la sintomatologia psichica e comportamentale, ma anche di

ostacolare e compromettere le possibilità di recupero".
30 marzo. Nonostante ci siano diverse sentenze di Cassazione che dicono chiaramente di

non sanzionare un semplice scambio di saluti al 41bis tra detenuti appartenenti a

diversi gruppi di socialità, l'amministrazione penitenziaria continua a punire chi lo

fa. Come rivelato da Il Dubbio è stata emanata una importante circolare che aveva come

oggetto i "reclami giurisdizionali (articolo 35- bis OP)". Nello specifico chiede ai

direttori delle carceri che ospitano i 41bis, di conformare l'azione amministrativa ai

princìpi e alle ordinanze di accoglimento dei reclami dei detenuti da parte della

magistratura di sorveglianza in materia di cottura dei cibi (sentenza Corte

costituzionale del 26 settembre 2018 n. 186), di eliminazione del divieto di scambio

di oggetti tra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità (sentenza Corte

costituzionale del 5 maggio 2020 n. 97), di eliminazione delle limitazioni alla

permanenza all'aria aperta a una sola ora e di annullamento di sanzioni disciplinari

inflitte per condotte consistenti in meri scambi di saluto tra detenuti come motivato

da diverse sentenze della Cassazione. La circolare è a firma del direttore generale

Turrini Vita. Ma è stata clamorosamente revocata dopo appena due giorni dal capo del

Dap Bernardo Petralia e dal vice Roberto Tartaglia.
30 marzo. “Effettuare periodici controlli così da garantire una reale corrispondenza,

tra i prezzi dei prodotti alimentari e non in vendita nei sopravvitti e quelli dei

supermercati più vicini ai luoghi in cui gli istituti penitenziari si trovano" questa

la richiesta avanzata dall'on. Lorefice ed altri del Movimento 5 Stelle, in merito

alla situazione delle carceri italiane. Lorefice nella sua interrogazione cita la Saep

Spa, una delle principali rifornitrici di prodotti alimentari e non, nelle carceri

italiane ricordando che "la Saep Spa è una società che da anni gestisce gli spacci

interni di ben 26 carceri italiane, di cui otto in Lombardia. "È una delle tredici

società controllate dalla Tarricone holding srl, con sede a Balvano in provincia di

Potenza e un giro d'affari anche nel gioco d'azzardo: gestisce due sale bingo, una

piattaforma telematica per il poker online e la raccolta di scommesse sportive e

ippiche, tutte licenze garantite dallo Stato.
4 aprile. 41 bis e i diritti negati ai minori. La Consulta non entra nel merito. Chi è

al 41bis, a causa della pandemia, a differenza dei detenuti "ordinari" non può

effettuare i video colloqui con i figli minori. Il caso è stato sollevato alla

Consulta, ma quest'ultima ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità

costituzionale della norma. A sollevare il caso è stato il Tribunale minorenni di

Reggio Calabria che si occupa dei minori i cui genitori sono stati dichiarati decaduti

dalla potestà genitoriale anche quando questi ultimi chiedono al Tribunale di

autorizzare i colloqui con i figli tramite strumenti informatici.
17 aprile. In un anno e mezzo soltanto cinque ergastolani hanno ottenuto il permesso

premio. Solo 5 detenuti su 1.271 ergastolani ostativi. La Consulta, nonostante

l’ultima sentenza (21 giugno 149/2018) che contestava il carattere automatico della

preclusione temporale all'accesso ai benefici, impedendo al giudice qualsiasi

valutazione individuale sul concreto percorso di rieducazione compiuto dal condannato,

in ragione soltanto del titolo di reato che supporta la condanna, ha mantenuto dei

rigidi paletti per i benefici. Da una parte c'è una apertura perché si dà al giudice

di sorveglianza un margine di valutazione che fin qui non aveva; dall'altra va provata

la "non attualità della partecipazione all'associazione criminale" e va "escluso il

pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata". L'essenza

della decisione della Consulta: "La collaborazione con la giustizia non

necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario (la

mancata collaborazione) non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato

ravvedimento o "emenda", secondo una lettura "correzionalistica" della rieducazione.
18 aprile. Torino. È stato condannato a 4 mesi di carcere dal Tribunale di Torino, ma

nessuno sa quale sia il suo nome, né quanti anni abbia o dove sia nato. L'uomo infatti

non ha mai declinato le proprie generalità durante i controlli della polizia, al punto

che negli atti consegnati al suo avvocato d'ufficio per questo processo, dove era

imputato per resistenza a pubblico ufficiale, è stato indicato come "sconosciuto".
20 aprile. C'è un capitolo nel Piano che il Governo Draghi sta per sottomettere

all'attenzione delle Camere e di Bruxelles nel Recovery Plan. Titolo: "Miglioramento

degli spazi e della qualità della vita nei penitenziari per adulti e minori". Spesa

prevista 132,9 milioni di euro, di cui un terzo servirà per ammodernare quattro

istituti per minorenni (a Roma, Benevento, Torino e Bologna) e due terzi per costruire

otto nuovi padiglioni e per una campagna di manutenzione straordinaria in altri.
21 aprile. Parma. Il DAP ha chiesto la rimozione di Choroma Faissal, il responsabile

sanitario del carcere di Parma. La motivazione sarebbe da ritrovarsi nel fatto che

abbia messo a conoscenza delle autorità esterne - dai garanti al tribunale di

sorveglianza - il focolaio che ha coinvolto il 41 bis del carcere parmense. Ma

soprattutto per aver messo in guardia delle possibili complicazioni per i detenuti che

hanno gravi patologie pregresse. Ultimamente aveva anche segnalato la criticità che

persiste al centro clinico del carcere di Parma, dove denuncia la difficoltà oggettiva

nell'assistere h24 quei detenuti che richiedono tale assistenza.

***
stralci dal XVII rapporto di Antigone sulle carceri italiane
Il rapporto segnala che i 189 istituti penali hanno bisogno di essere ancora spopolati

e non solo per fronteggiare il virus. Crescono i suicidi, le donne detenute sono solo

il 4,2%, gli stranieri non aumentano, mentre risultano buoni i sistemi e la gestione

dell'epidemia nella giustizia minorile. Il Rapporto ci dice inoltre che il numero di

positivi oltre le sbarre è più alto di quello che sta fuori. Dentro le mura degli

istituti di pena italiani sono morte 18 persone detenute e 10 guardie penitenziarie. I

tassi medi di positivi, stando ai dati aggiornati al febbraio 2021, mostrano che su

10.000 reclusi, il numero di positivi era di 91 persone, mentre nel resto della

popolazione 68. Riguardo i vaccini, tra fine febbraio e inizio marzo è finalmente

iniziata la campagna di immunizzazione nelle carceri. I detenuti che, sempre fino al 9

marzo, hanno ricevuto il vaccino solo in 927. Al 28 febbraio 2021 i reclusi in Italia

erano 53.697; il 29 febbraio dell'anno scorso erano 61.230. In un anno, il calo dei

detenuti è stato di 7.533 persone: il 12,3% di tutta la popolazione penitenziaria. Una

diminuzione che ha riguardato sia condannati che persone in attesa di giudizio. I

condannati sono il 68%, ma le persone che non hanno ricevuto il primo giudizio il

16,5%.
I reati più diffusi: contro il patrimonio e contro la persona. I dati criminali

informano che i reati per i quali in Italia si va in carcere più spesso sono prima di

tutto quelli contro il patrimonio (30.745), poi quelli contro la persona (23.095) e i

reati in violazione della legge sulle droghe (18.757). Seguono le violazioni della

legge sulle armi (9.397) e i delitti di associazione di stampo mafioso (7.274). Ogni

detenuto è mediamente in carcere per aver commesso più di due delitti.
Omicidi ai minimi storici; femminicidi in aumento. Come negli anni precedenti, anche

nel 2020 vi è stata una diminuzione degli omicidi volontari: si è passati dai 315

omicidi del 2019 ai 271 del 2020, con una riduzione del 14%. La diminuzione degli

omicidi totali non ha trovato corrispondenza nella riduzione negli omicidi contro le

donne. Risultano in lieve aumento le vittime femminili (da 111 del 2019 a 112 del

2020) e quelle uccise in ambito familiare-affettivo (da 94 a 98).
Affollamento ufficiale al 106,2%, effettivo al 115%. Il tasso di affollamento è al

106,2%. L'amministrazione penitenziaria riconosce che "il dato sulla capienza non

tiene conto di situazioni transitorie"; i reparti chiusi, poi, riguarderebbero circa

4mila posti: chiarito ciò, il tasso di affollamento effettivo, non ufficiale, cresce e

raggiunge il 115%. Per arrivare al 98% della capienza ufficiale regolamentare

(percentuale di un sistema vivibile, che abbia un certo numero di posti liberi per

eventuali arresti), sarebbe necessario diminuire il sistema di 4.000 persone (8.000

con i reparti chiusi). Taranto, con 196,4% di detenuti in più; Brescia, con 191,9%;

Lodi, con 184,4%, sono i penitenziari più affollati. Ma sono oltre 20 le carceri

sovraffollate d'Italia.
Sono stati 61 i suicidi in cella: numero senza precedenti. Nel 2020, 61 persone si

sono tolte la vita negli istituti di pena italiani. 11 suicidi ogni 10.000 persone.

L'età media è di 39,6 anni. La fascia più rappresentata, 15 decessi, è quella fra i 36

e i 40 anni, seguita da 8 decessi di ragazzi tra i 20 e i 25 anni. I più giovani

avevano 22 anni, morti uno a Benevento e l'altro a Brescia; la persona più anziana

aveva 80 anni, a Cagliari. Il carcere dove si sono concentrati più suicidi è a Como,

con 3 decessi fra i mesi di giugno e settembre. Seguono, con 2 casi ognuno, gli

istituti di Benevento, Brescia, Napoli Poggioreale, Palermo Pagliarelli, Roma

Rebibbia, Roma Regina Coeli e Santa Maria Capua a Vetere. 13 i suicidi dopo le rivolte

e le proteste sui tetti di marzo 2020, a inizio lockdown, e il conseguente

allontanamento tra detenuti e i loro cari.
Solo 1/3 dei detenuti frequenta la scuola. Appare urgente un piano di scolarizzazione

e formazione. I detenuti che frequentano la scuola sono circa 1/3 del totale.

Nell'anno scolastico 2019/2020 gli iscritti a corsi scolastici, dentro, erano 20.263

(il 33,4%). Poco meno della metà (9.176) erano stranieri. Gli infratrentenni detenuti,

inoltre, sono ben 9.497.
Il carcere costa 3,1 miliardi. Il personale penitenziario è scarso e disomogeneo. Il

bilancio del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (Dap) è pari a 3,1

miliardi, mentre quello del Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità (Dgmc) è

molto più contenuto, pur occupandosi di minori, giovani adulti e dell'area penale

esterna ed è meno di 1/10 delle risorse del DAP. Su un organico di 37.181 persone,

poi, sono 32.545 gli agenti di polizia penitenziaria operativi. La differenza fra

personale previsto ed effettivo è pari al 12,5%. La carenza di agenti rispetto

all'organico non è equamente distribuita: alcuni provveditorati hanno un sotto

organico oltre al 20% (Sardegna e Calabria), altri hanno un numero effettivo anche

superiore a quello previsto (Campania e Puglia-Basilicata). In 31 carceri italiane

manca un direttore titolare e, rispetto ai 67 mediatori culturali previsti dal

Ministero della Giustizia, quelli realmente in servizio in Italia sono solo 3.
Cresce l'area penale esterna: 61,589 persone. L'area penale si compone anche di misure

non detentive. Sono 61.589 le persone in misura alternativa alla detenzione, sanzione

sostitutiva, libertà vigilata, messa alla prova, lavori di pubblica utilità. Di

queste, 6.961 sono donne. 16.856 in affidamento in prova al servizio sociale, 11.788

quelle in detenzione domiciliare e 752 in semilibertà. Ben 8.828 sono sottoposti a

lavori di pubblica utilità, quasi tutti per violazione del codice della strada, 18.936

in messa alla prova e la convertibile pena residuale, per far fonte al

sovraffollamento.
Stranieri detenuti. Da tempo sono il 32,5%, soprattutto da Marocco, Tunisia, Albania.

I detenuti stranieri, da alcuni anni, rappresentano il 32,5% della popolazione

carceraria. Al 31 dicembre 2020, la popolazione detenuta straniera in Italia proveniva

soprattutto dall'Africa, con 9.261 ristretti, in particolare da Marocco (3.308) e

Tunisia (1.775). Dall'area UE provengono 2.691 detenuti. L'Albania, con 1.956

detenuti, è lo Stato balcanico extra UE con il più alto numero di detenuti in Italia.
Le donne delinquono pochissimo. Sono solo il 4,2%. Erano 2.250 le donne presenti negli

istituti penitenziari italiani al 31 gennaio 2021, 27 delle quali con figli al

seguito: solo il 4,2% del totale della popolazione detenuta. Le quattro carceri

femminili italiane (Trani, Pozzuoli, Roma, Venezia) ospitano 549 donne, meno di 1/4

del totale. L'Istituto a custodia attenuata di Lauro, unico Icam non dipendente da un

carcere ordinario, ospita 7 madri detenute. Le altre 1.694 sono nelle 46 sezioni

femminili di carceri maschili. Il 28,9% dei 4.160 reati ascritti alle donne riguarda

reati contro il patrimonio, contro la persona (18,5%) e le violazioni della legge

sulle droghe (15,7%). L'associazione mafiosa riguarda il 3% delle detenute. A fine

2020, erano 13 le donne in 41bis.
La detenzione minorile fa fronte virus. A metà gennaio 2021, erano 281 i ragazzi

detenuti nei 17 Istituti penali per minori, 119 minorenni e i 162 giovani adulti. I

giovani in Ipm costituiscono il 22% dei 1.276 che vivono in strutture residenziali

della giustizia minorile e il 2,11% dei 13.282 in carico agli uffici di servizio

sociale per i minorenni, tra questi 2.149 sono in messa alla prova. Gli italiani sono

158, gli stranieri 123. Le ragazze sono 13 (4 italiane e 9 straniere), ospitate nelle

sezioni femminili di Nisida e Roma e nell'unico Ipm tutto femminile di Pontremoli, con

attualmente 8 donne. Sono 148 i ragazzi che hanno una sentenza definitiva, il 52,7%

del totale, mentre il 20,6% è in attesa di primo giudizio.

***
Di seguito aggiornamenti su processi e notizie su alcune delle Operazioni contro

anarchici e anarchiche in Italia, per i quali gli inquisitori nostrani mostrano una

notevole attenzione riservando loro anche circuiti penitenziari speciali.

Lunedì 22 febbraio si è tenuta a Trento l’udienza d’appello con sentenza per i 7

compagni coinvolti nell’operazione Renata. Le condanne per sei di loro, uno è stato

assolto, vanno dai tre anni a un anno e nove mesi. Il 13 aprile sono state confermate

ancora una volta le misure restrittive, con obbligo di dimora e rientro notturno, per

cinque imputati.
Il 26 febbraio la Digos di Messina si è recata in carcere per notificare alla compagna

Anna Beniamino un nuovo 270bis. Il motivo è un dischetto richiesto contenente… gli

atti del processo per Scripta Manent!
Per scriverle: Anna Beniamino, via Consolare Valeria, 2 - 98124 Messina
Tra il 12 e il 15 marzo, a nove mesi dagli arresti per l’operazione Bialystok, Roma,

sono stati scarcerati Flavia, Roberto, Nico e Francesca con obbligo di dimora e

rientro notturno. Non è stata fatta istanza né per Claudio né per Daniele (ai

domiciliari) le cui misure rimangono per ora invariate.
Per scrivere: Claudio Zaccone, strada Monasteri 20 - 96014 Cavadonna (SR)
Dopo due anni, il 13 marzo la procura di Torino nella figura della PM Pedrotta si è

decisa a dichiarare chiuse le indagini per l’Operazione Scintilla. Gli indagati che

affronteranno l’udienza preliminare salgono a 18. I reati contestati aumentano e si

differenziano, si va dall’oltraggio all’incendio passando per l’imbrattamento e le

lesioni personali. Sono riconfermati sia l’istigazione a delinquere sia il 270 che

viene contestato a 16 degli indagati. Fra i reati-scopo dell’associazione compare ora

quello di danneggiamento a mezzo incendio della struttura di Corso Brunelleschi, in

collaborazione con alcuni reclusi. L’udienza preliminare si è svolta il 4 maggio.

Carla, arrestata all’interno dell’operazione Scintilla e detenuta al carcere di

Vigevano, è uscita ai domiciliari.
Claudio Lavazza dopo essere stato trasferito a metà marzo nel carcere di Nanclares de

la Oca (Paesi Baschi) ora è in Francia, ma non si sa ancora dove.
Il 25 marzo, Leonardo Landi è uscito dal carcere di Sollicciano (FI) per fine pena.
Il 17 aprile, udienza al processo in Corte d’Assise a Treviso per Juan accusato di

strage per un attacco alla sede della Lega a Villorba di Treviso. Ha parlato il perito

di parte e Juan ha fatto la sua dichiarazione spontanea in videoconferenza senza

essere interrotto. Fuori, in città, un presidio in solidarietà e un saluto al carcere.

Il 12 aprile Juan ha iniziato uno sciopero della fame, ecco un suo scritto.
“Io, Juan Sorroche Fernandez, della Sezione AS2 di Terni comunico: l’inizio di uno

sciopero della fame fino a che lo riterrò opportuno. Dal giorno 12 aprile alle ore

0:00
- in solidarietà ai prigionieri della guerra sociale di santiago del cile, che dal 22

marzo 2021 hanno iniziato lo sciopero della fame liquido.
- in solidariet**à** a tutti i processati per le rivolte del marzo 2020 e ai 5

detenuti di ascoli/modena che hanno avuto il coraggio di fare l’esposto scritto per

le rivolte di modena.
- in solidarietà all’anarchico davide delogu sottoposto all’art. 14bis, chiedendo che

venga tolto dall’isolamento a cui è sottoposto da tempo.
- in solidarietà ai prigionierx di spini di gardolo (tn) dove è morta ancora una

detenuta! ambra, di 28 anni, per le abituali carenze ‘sanitarie’.
- in solidarietà ai prigionieri in lotta del centro di permanenza di via corelli

(milano).
- coraggio e solidarietà ai più fragili: a tuttx i bimbx e ragazzx, ignorati,

annullati, isolati e sempre di più rinchiusi in gabbie fisiche/

“sanitarie”/tecnologiche/repressive.
- alle nonne e ai nonni trattati come scarti da buttare e sacrificare!”
Dopo 12 giorni di sciopero della fame Juan, oggi [23.04] avvisa che sta bene ed è su

di morale. Ha perso 3 kg e gli vengono monitorati ogni giorno i valori della

pressione, glicemia, peso. Non ha ancora deciso fino a quando proseguirà con lo

sciopero.
Per scrivergli: Juan Sorroche Fernandez, Strada delle Campore, 32 - 05100 Terni
Il 28 aprile Beppe Bruna, dal carcere della Dozza a Bologna, si unisce allo sciopero

della fame di Juan. Aggiunge “contro la dispersione dei/delle prigionieri/e

anarchici/che”.
Il 22 aprile, a Trento, 5 anarchici vengono condannati a oltre 2 anni di reclusione

per fatti del febbraio 2018 quando Salvini era un tour elettorale a Rovereto. Le pene

che vanno da 5 mila euro di ammenda a 2 anni 4 mesi e 20 giorni di reclusione. I reati

loro contestati sono resistenza a pubblico ufficiale e radunata sediziosa, aggravata

dall’uso di oggetti atti ad offendere.
Il compagno anarchico sardo, prigioniero deportato, Davide Delogu ha iniziato uno

sciopero della fame giovedì 22 aprile. Questo sciopero della fame nasce in seguito

alla revoca delle chiamate con una compagna sarda. A quanto pare il direttore del

carcere ha dato il diniego facendo riferimento a un documento che era stato prodotto

dal magistrato di sorveglianza di Agrigento risalente a tre anni fa. Il 5 maggio si

apprende che Davide ha concluso lo sciopero della fame in quanto qualcosa si è smosso:

è uscito dall'isolamento in cui si trovava dal 5 aprile; al momento si trova in cella

singola insieme ai "comuni". Sono state ripristinate anche le chiamate. Davide Delogu

comunica che in questo carcere i libri possono essere spediti solo tramite pacco e non

come posta ordinaria. Questione problematica per il peso totale dei pacchi che gli si

può spedire mensilmente.
Per scrivergli: Davide Delogu, Contrada Cocari - 89900 Vibo Valentia (VV)
Il 4 maggio c’è stata la sentenza d’appello per l’Operazione Panico, Firenze. Cade il

reato associativo (art.416) le condanne, con rideterminazione delle pene di primo

grado, vanno da otto anni a un anno e due mesi. Confermate le altre pene del primo

grado che vanno dai tre anni e quattro mesi a pene pecuniarie.
Lunedì 10 maggio, presso il tribunale di Genova, è iniziato il dibattimento del

processo Prometeo che vede imputati Natascia, Beppe e Robert. Fra luglio e settembre,

è prevista la sentenza di primo grado.
Il 13 marzo Natascia è stata trasferita al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ora è

in sezione in una cella che le stesse guardie chiamano “cubicolo”: una cella singola

dove invece sono rinchiuse due persone, che con l’arrivo di Natascia sono diventate

tre. Non appena arrivata le hanno requisito i cd e il lettore. La quantità di libri

(una borsa) che Nat aveva con sé al suo arrivo nel carcere di S. Maria Capua Vetere

pare che abbia messo in crisi le guardie al punto che si sono sentite in dovere di

porre un tetto a quelli che può tenere in cella: all’inizio 2, quando Nat ha

protestato che persino al 41 bis i libri concessi sono 4, l’hanno alzato, appunto, a

4. Può chiamare i suoi genitori solo due volte al mese (da Piacenza poteva chiamarli

due o tre volte alla settimana) e può fare alcune video chiamate, ma al momento anche

in questo a quanto pare ha delle limitazioni. Il giudice autorizza e il direttore

stabilisce il numero consentito di colloqui. A SUA DISCREZIONE. Attualmente l’avvocato

ha fatto ricorso alla corte d’assise. Alla chiusura indagini per l’Operazione

Scintilla Natascia è stata inserita tra gli indagati che andranno a udienza

preliminare.
Nei primi giorni di aprile i carabinieri hanno notificato a Robert, a processo per

l’operazione Prometeo, un avviso di garanzia per l’articolo 280 (attentato con

finalità di terrorismo) con annessa la richiesta di accertamenti irripetibili urgenti

da svolgersi in data 13 aprile 2021 presso la sede dei RIS di Parma sui materiali

repertati in data 27 e 28 novembre 2016 nelle aree prossime alla stazione carabinieri

di Bologna- Corticella. Appena un paio di giorni dopo vengono notificate le stesse

carte a Giuseppe, rinchiuso attualmente nel carcere bolognese, indagato sempre per

l’inchiesta Prometeo. I fatti contestati riguardano l’esplosione di un ordigno

avvenuta la notte del 27 novembre 2016 sotto la caserma dei carabinieri.
Per scrivergli: Natascia Savio, S. S. Appia 7-bis - 80155 Santa Maria Capua Vetere

(CE)
Giuseppe Bruna, Via del Gomito, 2 - 40127, Bologna (BO)
A proposito della Sorveglianza Speciale, una misura che dai tempi del Codice Rocco del

1930 è sempre utile per gestire la prevenzione del possibile emergere del conflitto

sociale, a Bologna si è chiusa l’indagine per l’Operazione Ritrovo con l’accusa di

istigazione a delinquere, ma senza il 270 per il quale è stato aperto un nuovo

fascicolo a parte. Nel frattempo per cinque degli inquisiti è stata richiesta la

Sorveglianza Speciale per cinque anni con obbligo di dimora. Le udienze sono fissate

il 12 luglio.
Giovedì 1° aprile è stata notificata da parte della questura e della procura di

Torino, firmata dalla solita Pedrotta, una nuova richiesta di Sorveglianza Speciale.

La motivazione è ovviamente la pericolosità sociale così argomentata: la militanza di

lunga durata, l’inutilità nei suoi confronti delle misure cautelari (“sottoposto a

misure di cautela… non valevano a produrre nessun effetto deterrente”), “una capacità

criminale di tipo professionale”, i precedenti penali. Inoltre scrivono che “la

militanza negli ambienti antagonisti torinesi”, la qualifica di redattore di radio

blackout e l’essere riconosciuto tra i primi occupanti di El Paso danno una forte

matrice ideologica ai reati commessi e al ruolo della Boba nel movimento. In ultimo,

viene citato quanto scritto nel retro copertina del romanzo (definito dagli inquirenti

autobiografico) “Io non sono come voi” a riprova della pericolosità sociale della

Boba. La futura libertà di Marco verrà discussa il 12 maggio, dopo il rinvio

dell’udienza del 21 aprile.
A Firenze, il 14 aprile, si è svolta l’udienza per la Sorveglianza Speciale a una

compagna per i fatti di piazza del 30 ottobre. Non c’è ancora la risposta.

Altre notizie su arresti e scarcerazioni
16 marzo, Torino. Rimangono detenuti dieci dei tredici minorenni raggiunti da

provvedimento di custodia cautelare per i fatti dello scorso 26 ottobre in via Roma.

Lo ha disposto il giudice del Tribunale dei Minori al termine degli interrogatori di

garanzia. Per una ragazza è stata confermata la permanenza in comunità, mentre per due

ragazzi la misura è stata attenuata e sono stati sottoposti agli arresti domiciliari
Il 18 marzo è stato arrestato Paolo Polari, un compagno milanese, per una vicenda del

2009 legata a un diverbio tra studenti dell’università statale in cui alcuni compagni

si sono rifiutati di pagare alla libreria CUSL (di area Comunione-Liberazione) circa

700 fotocopie di volantini politici, per cui hanno poi ricevuto una condanna di circa

2 anni e mezzo a testa con l’accusa di rapina e lesioni. Si trova nel carcere di

Bollate, gli si può scrivere delle e-mail, che ogni mattina gli vengono stampate e

consegnate (zeromail.bollate@maidiremail.it)
22 marzo a Torino, 13 misure cautelari contro i No Tav. A quasi due anni dai fatti, la

polizia ha eseguito tredici misure cautelari nei confronti di attivisti No Tav e

giovani impegnati nelle lotte sociali in città nell'ambito di un'indagine sul Primo

Maggio del 2019.
La mattina del 23 marzo, la polizia, insieme a vigili del fuoco e ad alcune ONG, hanno

sgomberato la Casa Cantoniera occupata a Oulx in Alta Valle di Susa. I 13 compagni che

erano presenti nella casa durante lo sgombero sono stati accusati di occupazione,

mentre oltre 60 persone di passaggio sono state sottoposte a test forzati per il

coronavirus, identificate, prese le impronte digitali, e poi trasportate in diverse

strutture.
Il 24 marzo a Barcellona, Sara Casiccia, videomaker torinese, viene scarcerata. Era in

carcere da tre settimane con l'accusa di tentato omicidio. L'esame dei filmati ha

dimostrato che non era la persona responsabile di aver cosparso di liquido

infiammabile un mezzo della Guàrdia Urbana.
Il 26 marzo, Carlo Pallavicini e Mohamed Arafat, i sindacalisti di Sì Cobas Piacenza

arrestati in seguito agli scontri avvenuti davanti al magazzino Fedex Tnt di Piacenza

il 1 febbraio scorso, “tornano liberi”.
Il 14 aprile Paolo Todde è stato trasferito al carcere d Badu e Carros a Nuoro. Paolo,

recluso dal 31 ottobre 2017 per una rapina a un ufficio postale, ha subito oggi il

primo trasferimento che puzza tremendamente di punizione. Infatti da quando è stato

recluso presso il carcere di Uta, Paolo non ha mai perso occasione di mostrare la sua

avversione e refrattarietà verso le guardie e le arroganze da esse perpetrate, per

questo negli anni ha subito moltissimi rapporti e solo poche settimane fa è stato

sottoposto a censura, questa misura è stata richiesta dal direttore del carcere di Uta

per le sue corrispondenze con chi lotta contro il carcere, in Sardegna e altrove.
Per scrivergli: Paolo Todde, Via Badu e Carros, 1 - 08100 Nuoro
Il 15 aprile, dopo sette mesi di detenzione il Tribunale ha concesso gli arresti

domiciliari con una serie di restrizioni a Dana Lauriola, attivista No Tav, che deve

scontare due anni per un episodio avvenuto nel 2012, quando, durante un'azione

dimostrativa sulla A32, spiegava al megafono le ragioni della manifestazione.
La compagna Lisa Dorfer è stata arrestata il 13 aprile 2016, con l’accusa di aver

rapinato una banca ad Aachen, in Germania. Nel giugno 2017 è stata condannata a 7 anni

e 6 mesi di prigione. Dopo 3 anni e mezzo di prigione e un anno e mezzo di cosiddetto

regime di “semilibertà”, lunedì 19 aprile 2021 le hanno concesso la liberazione

condizionale, dato che ha scontato i 2/3 della pena. Questa misura può essere revocata

o sospesa in ogni momento, se le autorità decidono che le condizioni non sono

soddisfatte.
Il 27 aprile si è saputo che per alcuni compagni e compagne dell’Assemblea permanente

contro il carcere e la repressione di Udine e Trieste sono state aperte indagini per

oltraggio e istigazione a delinquere. Per la digos esprimere solidarietà nei confronti

dei detenuti e delle detenute in lotta, dichiarare la propria vicinanza coi compagni

inquisiti, denunciare la gestione criminale della pandemia nelle carceri giustificano

l’apertura di indagini.
Il 28 aprile, sette condannati per episodi di terrorismo, tra cui appartenenti a

Brigate Rosse, Nuclei armati contropotere territoriale e un ex militante di Lotta

Continua, sono stati arrestati in Francia su richiesta dell’Italia, mentre altri tre

sono ricercati. Due di loro si sono poi costituiti. I dieci sono accusati di omicidi e

altri fatti di sangue, risalenti agli anni ‘70 e ’80. La procura di Parigi li ha

scarcerati il giorno successivo.
10 aprile, Milano piazzale Selinunte zona San Siro. 300 ragazzi “assembrati” per

girare il video del rapper Neima Ezza. Camionette blindate, almeno cinque tra polizia

e carabinieri. Uomini in tenuta antisommossa, con caschi, scudi e manganelli. E

qualche pattuglia. Allora pietre e bottiglie contro questa dispiegamento di forze. Il

16 mattina, la polizia ha eseguito tredici decreti di perquisizione domiciliare nei

confronti di dieci maggiorenni e tre minorenni. I provvedimenti sono stati emessi dal

sostituto procuratore Alberto Nobili, coordinatore del pool antiterrorismo della

Procura, e da Ciro Cascone, Procuratore presso il Tribunale per i Minorenni, "per

manifestazione non preavvisata, violenza e resistenza a pubblico ufficiale aggravate,

nonché per porto d'armi per un maggiorenne".
Fine dello sciopero della fame di Dimitris Koufondinas. Recentemente si è concluso lo

sciopero della fame (e per un periodo anche della sete) del prigioniero rivoluzionario

Dimitris Koufondinas, che a seguito dell’entrata in vigore di una legge vendicativa

riguardante i prigionieri politici di lungo corso ha perso il diritto a scontare la

condanna nelle carceri rurali. Il seguito è ben noto, con il governo che si rifiuta di

applicare la sua stessa legge e Dimitris Koufondinas che intraprende uno sciopero

della fame durato numerosi giorni, esigendo il proprio ritorno al carcere di

Korydallos come previsto dalla legge stessa.
Un trattamento simile nei confronti dei prigionieri politici, questa volta da parte

dello Stato cileno, è il motivo dell’inizio delle mobilitazioni nelle carceri di

Santiago. Così, da lunedì 22 marzo 2021, a Santiago del Cile, anarchici e altri

prigionieri, così come i prigionieri per la lotta di liberazione dei Mapuche, hanno

iniziato una mobilitazione avente le caratteristiche di uno sciopero della fame che

proseguirà per tempo indefinito. Si tratta dei compagni Mónica Caballero Sepúlveda nel

carcere femminile di San Miguel, Marcelo Villarroel Sepúlveda, Joaquín García Chanks,

Juan Flores Riquelme, Juan Aliste Vega nel Carcere di Alta Sicurezza (quest’ultimo non

partecipa allo sciopero, ma che lo sostiene, date le sue condizioni mediche),

Francisco Solar Dominguez nella sezione di massima sicurezza, Pablo Bahamondes Ortiz,

José Ignacio Duran Sanhueza, Tomas González Quezada e Gonzalo Farias Barrientos nei

moduli 2 e 3 del carcere di Santiago 1.
Le richieste della mobilitazione sono l’abolizione dell’articolo 9 e il ripristino

dell’articolo 1 del decreto legge 321, la scarcerazione dell’anarchico Marcelo

Villarroel, la scarcerazione di tutti i prigionieri sovversivi, anarchici, militanti

imprigionati per la liberazione dei Mapuche e dei prigionieri della rivolta.
Dal 22 marzo in Cile è in corso uno sciopero della fame dei prigionieri e delle

prigioniere della guerra sociale ora (10 maggio) giunto al 50° giorno. Di seguito il

comunicato.
“Ai popoli, agli individui, alle comunità e territori in lotta e resistenza. A coloro

che si ribellano a questo presente di oppressione e miseria. Ai nostro branchi,

famiglie, amici, complici , compagni e amori in tutto il mondo. A Tuttx. Oggi, lunedì

22 marzo, alle 00.00 ora di Santiago del Cile, i e le prigionierx della guerra

sociale: Mónica Caballero Sepulveda nel carcere femminile di San Miguel, Marcello

Villaroel Sepùlveda, Joaquìn Garcia Chanks, Juan Flores Riquelme e Juan Aliste Vega

rinchiuso nel C.A.S. aderendo ma non potendo fare uno sciopero della fame data la sua

situazione medica all’interno del carcere di massima sicurezza, Francisco Solar

Dominquez rinchiuso nella sezione di massima sicurezza, Pablo Bahamondes Ortiz, Jose

Ignatio Duran Sanhueza, Tomas Gonzalez Quezada e Gonzales Faria Barrento rinchiuso nel

modulo 2 e 3 del carcere/azienda di Santiago 1. Diamo inizio allo sciopero della fame

liquido indefinito per: Abrogazione del art. 9 e il reinserimento dell’ art 1 Del

decreto di legge 321!!!
Vogliamo la liberazione del compagno Marcello Villaroel e di tutti i prigioniere

sovversive, Anarchici, che lottano per la liberazione mapuche e quelli della

rivolta!!”


DOVE STA ANDANDO LA SCUOLA PUBBLICA?
“Voi la dimenticate, noi la riapriamo”. “Voi ce la togliete, noi ce la riprendiamo”.

“Non l’avete ricostruita voi, ce ne occupiamo noi”. “Avevate in mano il nostro futuro,

ce l’avete tolto”. (Dalle occupazioni dei licei milanesi)
La scuola superiore italiana è in didattica a distanza (dad) dal 24 febbraio 2020.

Quindi da un anno solare che significa quasi due anni scolastici. Dopo un iniziale

periodo di smarrimento, dovuto all’eccezionalità della situazione, la maggioranza dei

docenti ha iniziato ad organizzarsi o meglio ad autorganizzarsi, attivandosi con

mezzi, strumenti e conoscenze personali o familiari per far fronte al meglio alla

situazione inedita.
Questa situazione ha messo fin da subito in evidenza alcune importanti ricadute sulle

nostre vite e sull’organizzazione del lavoro a scuola che necessitano una riflessione

seria e una presa di posizione.
Le ricadute familiari. Sempre più spesso sono state segnalate difficoltà nella

gestione degli spazi abitativi familiari, dove si ritrovano sia adulti in smart

working sia adolescenti in connessione da remoto alle loro lezioni. I problemi sorgono

sia per quanto riguarda la mancanza del numero dei locali idonei allo svolgimento

delle rispettive attività, lavorative e scolastiche, evitando di disturbarsi a

vicenda, sia per quanto concerne la mancanza di un numero sufficiente di pc e,

quand’anche questo ci fosse, si evidenziano numerose difficoltà di connessione nel

reggere più collegamenti contemporaneamente. Queste difficoltà oggettive hanno fatto

sì che alcuni docenti, che spesso hanno famiglie e figli, fossero costretti a fare

lezione in orario pomeridiano anziché mattutino creando ovviamente disagi ai loro

allievi. Il problema non è solo di carattere “tecnico”, strumenti e spazi a

disposizione, ma anche socio-economico, che compromette la possibilità di “stare al

passo” con i tempi e i ritmi, le richieste per un numero significativo di alunni-

studenti. È dovuta alla difficoltà di attrazione e motivazione di questo tipo di

modalità, nonostante gli innumerevoli sforzi da parte di molti insegnati per renderla

attraente e coinvolgente, ma che si propone essenzialmente come trasmissione

nozionistica e passiva delle conoscenze, a cui si aggiunge la mancanza di un ambito

familiare che sia in grado di supportare e sopperire alle difficoltà di

concentrazione, interesse, memorizzazione e comprensione che l’uniformità di questo

tipo di didattica genera perché privata totalmente della relazione ed interazione

attiva dello studente con l’oggetto dello studio. Lo studente viene privato della

possibilità di sperimentare, ipotizzare, verificare, progettare, scoprire e formulare

soluzioni, concetti, ragionamenti, critica attraverso attività e meto-dologie che lo

stimolino e motivino alla conoscenza e all’apprendimento.
La dad appiattisce l’insegnamento, lo acriticizza, spersonalizza le relazioni, annulla

le metodologie standardizzando l’insegnamento ad un rapporto basato sull’ascolto, la

memorizzazione e la ripetizione di nozioni in cui molti non riescono, per innumerevoli

motivi: mancanza di metodo, difficoltà di comprensione, di memorizzazione,

concentrazione…
Difficoltà che diventano ancor più macroscopiche per chi ha problematiche certificate

e che, più di altri, avrebbe bisogno di interventi mirati, di strumenti diversificati

e multiformi, linguaggi non solo verbali o scritti.
Accentua le differenze di classe perché i ragazzi che più risentono delle difficoltà

provengono da ambiti familiari socio-economici più deboli che non hanno gli strumenti,

le capacità o le possibilità economiche di supportare ed aiutare i propri figli.
Le ricadute culturali. D’altra parte, per le stesse motivazioni, la scuola italiana ha

letteralmente perso diversi studenti, impossibilitati a seguire le lezioni da remoto

per mancanza di spazi e/o di mezzi idonei, favorendo ed incrementando la diffusione

del fenomeno della dispersione scolastica, piaga sociale già rilevante soprattutto al

sud. E’ quindi ormai più che assodato che i ragazzi studino e imparino meno in dad per

motivi oggettivi, ambientali, logistici, strumentali, chiaramente riconducibili

all’approfondirsi del solco della differenziazione classista, per cui chi può

permetterselo economicamente perché ha case più spaziose e strumenti, va avanti, chi

non può permetterselo rimane indietro o addirittura si ritira. A ciò poi si aggiungano

le problematiche soggettive, personali e familiari, le fragilità degli adolescenti in

senso lato, oggi più che mai destrutturati e forzatamente educati alla precarietà

esistenziale, il loro indiscutibile bisogno di formarsi e quindi di crescere

attraverso esperienze di socialità tra pari la cui negazione istituzionale attraverso

l’imposto isolamento sociale ha fortemente colpito chi tra loro (e tra noi) è più

sensibile.
Le ricadute lavorative. Rispetto alla professione dei docenti, che consiste non solo

nell’insegnamento e nella comunicazione, ma nell’organizzazione, nel coordinamento,

nella progettazione, nella collaborazione, nell’osservazione, nella costruzione di

relazioni positive, si assiste ad un veloce smantellamento dell’organizzazione lavoro.

Il nostro è un lavoro che deve svolgersi in presenza: in primis per motivi

comunicativi, pedagogici, didattici, ma non solo, perché fare l’insegnante da casa

significa un aumento del lavoro e dei costi a carico del lavoratore, perché qualsiasi

contatto organizzativo deve svolgersi tramite telefono personale o via mail e comporta

una dilatazione infinita dei tempi lavorativi, visto che ormai chiunque, studente o

collega che sia, contatta gli altri in qualsiasi momento della giornata, della serata

e della settimana. Non ci sono più orari di lavoro e non c’è più privacy. Costringe ad

un aumento delle attività burocratiche imponendo continue verbalizzazioni,

comunicazioni ed incontri a seguito dei mille cambiamenti che a distanza anche di

pochi giorni vengono imposte.
Depotenzia l’idea della lotta come possibilità per modificare la situazione esistente:
- mancando lo spazio fisico -la struttura scuola- si perde l’idea dell’incisività di

una qualsiasi protesta, perché ad una scuola vuota si contrappone una scuola

altrettanto vuota, quindi l’invisibilità della protesta (ma cosa scioperiamo a fare,

intanto siamo a casa! i ragazzi hanno perso già un sacco di giorni di scuola, non

possiamo far perdere altri giorni…);
- lo sciopero stesso, viene ritenuto spesso spuntato, anzi un “favore” agli studenti

che non hanno la “rottura” di doversi connettere e, in alcuni casi, per le famiglie

che non devono vigilare sui figli. O al contrario, innesca meccanismi di colpa nei

confronti delle famiglie già vessate da questa situazione;
- l’emergenzialità mette in secondo piano il rispetto delle normative che regolano il

rapporto lavorativo nell’ottica che si è tutti sulla stressa barca; si fa leva sul

senso di responsabilità individuale e collettiva affinché si contribuisca a trovare

soluzioni e ad attivarsi per organizzare e gestire la situazione nel miglior modo

possibile caricando responsabilità e decisioni, spesso, sui singoli insegnanti pur non

competendogli.
Durante l’estate le scuole hanno lavorato per allestire le sedi in sicurezza, seguendo

le normative in vigore, in vista della riapertura di settembre, ten-tando, senza

grande successo, di dialogare con delle istituzioni sorde e mute rispetto alle

richieste inerenti le mancanze strutturali. Mascherine, igienizzanti e disinfettanti

in ogni aula, distanziamento misurato al centimetro tra i banchi, abolizione degli

intervalli, ingressi scaglionati. Lavoro colossale, realizzato, come avviene da anni,

sotto organico di personale.
Dopo la brevissima parentesi di riapertura settembrina, da ottobre è iniziata la

delirante proliferazione di Dpcm e circolari anche tra loro contrastanti, per via

delle lotte intestine tra i diversi poteri locali, comuni e regioni, o centrali, il

governo. Questo ha determinato un ulteriore carico lavorativo, perché l’orario che

generalmente si fa due volte all’anno, provvisorio e definitivo, è stato rifatto

molteplici volte in ogni scuola, al fine di adattarsi ad ogni cambiamento di

disposizione legislativa.
Dal 6 novembre tutte le scuole superiori sono rientrate in dad e lo sono tuttora. A

seconda del colore delle regioni (giallo, arancione, rosso) anche gli allievi delle

seconde e terze medie vengono periodicamente obbligati a rimanere a casa a seguire le

lezioni da remoto: a novembre erano a casa, qualche settimana prima di Natale a scuola

fino al 18 gennaio, quindi ora di nuovo a casa.
Di fronte a questa situazione di evidente e progressivo smantellamento della scuola

pubblica, di disinteressamento totale per chi lavora e per chi cresce nelle scuole,

della formazione degli studenti italiani forse perché ancora non votano e non sono

produttivi, qualcuno ha cominciato a reagire.
Priorità alla scuola (PAS). Si tratta di un movimento, che si dichiara apolitico, nato

lo scorso aprile per pensare ad una scuola nel periodo dell’emergenza e per riportare

la scuola pubblica e il diritto all’istruzione al centro del dibattito e delle

politiche pubbliche. PAS ha riunito insegnanti, studenti e genitori e in poco tempo si

è diffuso in decine di città italiane per provare a garantire a bambini e ragazzi una

scuola aperta e in sicurezza, ma anche per avviare un confronto con le istituzioni

sulla scuola del futuro, che, citando le loro parole, non deve solo sopravvivere alla

(in)capacità di gestione dell’emergenza pandemica ma uscirne rinnovata, mettendo al

centro gli studenti e il loro diritto allo studio, i lavoratori e i loro diritti, gli

educatori e la loro creatività. Una scuola in cui siano i servizi (trasporti in testa)

a disposizione del diritto all’istruzione e non viceversa. PAS ha organizzato alcuni

presidi piuttosto partecipati prima dell’estate e sicuramente è un punto di

riferimento per le attuali mobilitazioni milanesi.
Nasce il Comitato “A Scuola!”. Motivato dal pensiero che aprire le scuole debba essere

una priorità, nasce il Comitato, costituito da genitori, studenti e docenti che dal 16

novembre 2020 tiene un presidio davanti alla sede del Comune di Milano, a Palazzo

Marino. Due persone al giorno, tutti i giorni, per un’ora (dalle 13,30 alle 14,30).

Consapevoli dell’emergenza sanitaria, sono altrettanto preoccupati per le ricadute

psicologiche dell’istruzione esclusivamente in dad, quindi insistono affinché le

istituzioni si adoperino per garantire il rientro a scuola in sicurezza. A tal fine il

Comitato l’ 11 gennaio 2021 ha presentato un ricorso, che è stato accolto dal Tar, per

l’annullamento dell’ordinanza di regione Lombardia dell’8 Gennaio sul rinvio

dell’apertura delle scuole secondarie al 25 /01/2021. Secondo il ricorso “l’ordinanza

non è sufficientemente motivata” e il decreto regionale avrebbe violato l’art. 4 del

decreto legge n.1 del 5 gennaio 2021 che prevedeva la progressiva ripresa

dell’attività scolastica in presenza per gli alunni delle secondarie di secondo grado.

In buona sostanza il punto è che secondo i dati scientifici non sembrerebbero essere

le scuole i luoghi deputati all’innalzamento dei contagi da Sars-Covid 19, ma gli

assembramenti che si creano durante il tragitto da casa a scuola e viceversa, quindi

la soluzione non è chiudere le scuole, ma agire sull’organizzazione e sul

potenziamento dei mezzi pubblici. Purtroppo però dal 18 gennaio la Lombardia è

nuovamente entrata in zona rossa, cosa che ha momentaneamente sospeso il contenzioso e

decretato la chiusura delle scuole.
Le occupazioni dei licei milanesi. In data 21 gennaio 2021 le occupazioni simboliche e

veloci dei licei milanesi sono più di 10. E’ partito il Liceo Manzoni e a seguire il

Severi-Correnti, il Volta, il Tito Livio, il Tenca, l’Albe-Steiner, il Vittorio

Veneto, il Caravaggio, il Parini, l’Einstein, il Cremona-Zappa, il Virgilio. Gli

studenti, sostenuti dai genitori e da alcuni docenti e Dirigenti Scolastici non

chiedono la riapertura immediata delle scuole, ma puntano ad un cambiamento del

modello scuola affinché la riapertura sia una naturale conseguenza di investimenti

politici ed economici che colmino quei buchi che da anni vive la scuola pubblica.

Progressivamente sembra assumere la forma di una protesta che non si oppone soltanto

alla didattica a distanza come metodo di insegnamento, ma che si basa su una visione

di critica più ampia che mette in discussione anni e anni di tagli ai danni della

scuola pubblica. La situazione è in evoluzione e al momento concentrata nei licei

nella città di Milano, non nelle periferie, non in altre città. Oggi, sabato 23

gennaio viene a Roma occupato il liceo Kant (immediatamente oggetto di un aggressione

poliziesca) preludio di nuove mobilitazioni.
Lo sciopero del 29 gennaio. Gli studenti si mobiliteranno al fianco dei lavoratori in

occasione dello sciopero generale indetto per il 29 gennaio 2021 da S.I.COBAS -

Sindacato intercategoriale Cobas e SLAI COBAS per il sindacato di classe e promosso

dall’Assemblea nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi. Vedremo cosa

accadrà.

Queste poche righe non sono certo esaustive, anzi devono essere costantemente

aggiornate, perché la situazione è in continua evoluzione. Hanno però l’obiettivo di

proporre qualche spunto di riflessione per cominciare a ragionare e a prendere

provvedimenti e contromisure rispetto al futuro che sembra delinearsi all’orizzonte

per la scuola pubblica. Si va verso l’istruzione impartita secondo la modalità della

didattica digitalizzata e conseguentemente un’accelerazione di un processo già in atto

di stampo classista? Si va verso la privatizzazione e la conseguente distruzione della

scuola pubblica, dopo almeno 15 anni di continui tagli di fondi e personale, come già

avvenuto ai danni della sanità pubblica e di cui abbiamo toccato con mano gli esiti

nefasti la scorsa primavera con le terapie intensive stracolme, il blocco

dell’erogazione dei servizi essenziali come visite ed esami, il proliferare di servizi

a pagamento?
È notizia di qualche ora fa che la Lombardia dopo una settimana di zona rossa ritorna

ad essere arancione perché pare che i dati forniti in merito agli indici di contagio

Rt fossero estremamente imprecisi. E il braccio di ferro tra regione e governo si è

concluso con la inaspettata decisione di riaprire le scuole al 50% di presenze a

partire da lunedì 25 gennaio 2021. Come docenti abbiamo solo qualche ora per

riorganizzare l’orario al fine di ottemperare alla nuova normativa. Direi che ci

vedremo numerosi allo sciopero del 29 gennaio.
Panetteria Occupata
Milano, febbraio 2021


NO AL CONTRATTO PILOTA DI JUST EAT
Subito dopo gli scioperi di inizio novembre 2020 Just Eat è uscita da Assodelivery,

dividendo il fronte delle piattaforme e dichiarando che avrebbe assunto i propri

fattorini con contratti da lavoratore subordinato all’interno del cosiddetto “modello

Scoober”.
Questa è stata senza dubbio una vittoria delle lotte dei rider in tutta Italia.
Just Eat ha individuato una città campione, Monza, dove far partire da Marzo un

contratto-pilota per “testare” la subordinazione, con 40 assunzioni. Questo contratto

per noi è irricevibile e non può essere definito come un miglioramento rispetto alle

condizioni attuali di lavoro di molti rider in Italia. In questo testo analizziamo i

punti significativi e a tratti poco chiari. Inoltre, segnaliamo come alcune importanti

clausole lavorative, tra le quali le modalità degli straordinari, l’indennità per

utilizzo del proprio mezzo, la determinazione dei giorni festivi e dell’orario

notturno sono rimandate ad un regolamento aziendale, del quale il rider non ha visione

al momento della firma del contratto. Tale regolamento, infatti può essere modificato

solo da Just Eat “unilateralmente e a sua esclusiva discrezione”, ed entrerà

automaticamente in vigore per ogni dipendente dopo la firma del contratto di lavoro.

Giorni di prova, orario di lavoro, compenso, CCNL e pause non pagate
1) All’articolo 2.4 del contratto sono previsti ben 26 giorni di prova, nei quali il

datore di lavoro può lasciare a casa senza nessuna motivazione il lavoratore

neoassunto, lasciato senza tutele e totalmente ricattabile. Oltre ad essere una durata

spropositata per un periodo di prova, essa non ha nessun senso in quanto molti degli

assunti erano rider che già lavoravano per Just Eat.
2) L’articolo 3.1 del contratto dice che l’orario base di lavoro del dipendente è di

solamente 10 ore a settimana.
3) L’articolo 3.3 del contratto specifica che il dipendente è obbligato a lavorare

“almeno 4 sabati o domeniche al mese e 4 giorni festivi all’anno”. La domenica non è

considerata giorno festivo, proprio come nel contratto nazionale truffa di Anar-Ugl.

Ciò è confermato anche dal regolamento aziendale (art. 15), dove è presente l’elenco

delle festività (1 gennaio, 25 aprile ecc) nelle quali è corrisposta la maggiorazione.
4) L’articolo 3.4 del contratto specifica come i turni di lavoro verranno scelti dal

datore di lavoro sulla base delle disponibilità del dipendente. I turni potranno

essere modificati sulla base di un preavviso “adeguato”. Tuttavia non è specificato

cosa significhi esattamente “adeguato”. La questione è affrontata anche nel

regolamento aziendale, dove è stabilito che il dipendente deve fornire le sue

disponibilità entro il martedì di ogni settimana, e che i turni di lavoro gli verranno

comunicati il giovedì. Tuttavia è prevista una cosiddetta “clausola di elasticità”

(art. 15.3 del regolamento aziendale), che permette all’azienda di modificare a

piacimento l’orario settimanale dato ai lavoratori il giovedì, senza che siano

specificati termini di preavviso. Ciò significa che, in linea teorica, il lavoratore

può essere costretto a lavorare anche con poche ore di preavviso.
5) L’articolo 4.1 del contratto precisa come la paga oraria sia soltanto di 7.50 euro

lordi. Nonostante ciò sul regolamento aziendale (art. 7.0), essa è descritta come “una

retribuzione competitiva, superiore agli standard di mercato”.
6) Nonostante il rider lavori su orari definiti secondo il contratto, l’articolo 15.1

del regolamento aziendale prevede che i turni finiscano soltanto “quando non ci sono

più ordini”. “La fine del turno di lavoro può variare in relazione alla necessità di

completare il lavoro, anche più tardi del previsto”. Ciò si traduce nel fatto che il

lavoratore sa quando inizia a lavorare, ma potrebbe non sapere quando potrà finire,

essendo obbligato a prolungare il suo orario di lavoro o a terminare prima il proprio

turno, a libera discrezione dell’azienda. Inoltre, questi prolungamenti in corso

d’opera dell’orario di lavoro non è specificato se siano pagati come lavoro

straordinario.
8) L’articolo 18 del regolamento aziendale specifica come l’orario considerato come

“notturno” sia tra mezzanotte e le 5, anziché partire alle 22, peggio che nel

contratto di Anar-Ugl. Ovviamente in quell’orario non sono previsti turni, visto che

l’orario di lavoro definito soggetto a turnazione va dalle 7 alle 23. Questa

formulazione è una presa in giro nei confronti dei lavoratori.
9) Per i dipendenti che svolgono turni superiori a 6 ore, è possibile usufruire di una

pausa di 30 minuti non pagata. La pausa non è automatica ma va ogni volta richiesta al

“line manager” prima del turno, che deciderà quando farla svolgere al lavoratore.
10) “Ai soli fini della determinazione dei livelli retributivi minimi” e non di altre

clausole, il contratto di Just Eat fa riferimento al pessimo CCNL Multiservizi.

Straordinari e incentivi
1) Articolo 3.5 del contratto. Gli straordinari. Il dipendente è obbligato a svolgere

ore straordinarie di lavoro. Infatti egli “non può rifiutarsi di prestare lavoro

supplementare e straordinario se non per comprovate esigenze sanitarie, familiari o di

formazione professionale.” Ciò è ribadito dal regolamento aziendale.
2) L’articolo 4.5 del contratto prevede delle indennità per utilizzo del proprio

veicolo di lavoro senza farne menzione, specificate soltanto nel regolamento aziendale

(art 10). Esse sono molto basse: 0.15 centesimi a km per l’utilizzo del motorino e di

0.06 per la bicicletta.
3) L’articolo 9.2 del regolamento aziendale prevede un piano di ridicoli incentivi di

produttività. Fino a 250 consegne al mese, scatta una maggiorazione di 0.25 centesimi

(lordi) per ogni ordine effettuato. Dopo le 250 consegne, esso aumenta a 0.50. Senza

specificare quanto sia ridicolo economicamente tale incentivo, ci chiediamo come 250

consegne possano essere raggiunte da un lavoratore con un contratto di 10 ore a

settimana. Si tratta di una vera e propria presa in giro a tutti i lavoratori.

Libertà di parola e divieto di critica
1) Articolo 10.1 del contratto. Dovere di diligenza e lealtà. “Il dipendente è tenuto

a salvaguardare e a promuovere gli interessi del datore di lavoro. Il dipendente deve

astenersi dal porre in essere qualsiasi attività che sia contraria o possa ledere gli

interessi del datore di lavoro”. In altre parole, se il dipendente volesse scioperare

per migliorare le proprie condizioni di lavoro, questo significherebbe di certo ledere

gli interessi economici di Just Eat. È chiaro come la formulazione di questo articolo

attacchi non solo il diritto di sciopero, ma anche di semplice critica rispetto al

proprio datore di lavoro dei rider.
2) Inoltre, all’articolo 37 del regolamento aziendale (“policy dei social media”) è

specificato come il dipendente non possa parlare come “semplice cittadino” sui social

media ma debba “rimanere fuori” dalle discussioni riguardanti i prodotti e i servizi

di Just Eat.

Indumenti e valutazioni
1) Come dice l’articolo 39 del regolamento aziendale, il dipendente è valutato “su

base continuativa” in relazione alle sue “prestazioni lavorative” dai responsabili di

Just Eat, attraverso 12 parametri elencati. In caso di prestazioni “ritenute

insufficienti” dall’azienda è previsto un “piano di miglioramento delle prestazioni”,

obbligatorio per il dipendente.
2) Per quanto riguarda gli indumenti da indossare sono previste clausole molto

strette, definite nel regolamento aziendale, in particolare agli articoli 36 e 40.

Oltre, logicamente, a vestire gli indumenti recanti il logo dell’azienda, il

lavoratore è obbligato a lavorare con jeans “neutri, di un solo colore e senza buchi”

e con scarpe chiuse. D’estate è concesso indossare dei pantaloncini “purché siano di

un solo colore e vadano fino al ginocchio”. È specificato come “tute da ginnastica e

pantaloni da jogging non siano ammessi” e che le violazioni di queste norme possono

comportare sanzioni disciplinari. Troviamo del tutto assurde e sbagliate queste

prescrizioni. Chiunque va in bici si può benissimo rendere conto di come siano molto

più comode delle tute per lavorare e per percorrere lunghe distanze, rispetto ai

jeans.

Il contratto di “comodato d’uso” delle attrezzature di lavoro
Come se non bastasse, al contratto “normale” è allegato un altro “contratto di

comodato d’uso”, che definisce il rapporto tra dipendente e Just Eat riguardo le

attrezzature di lavoro. Esse non sono fornite gratuitamente al rider ma concesse in

“comodato d’uso”, da usare solamente durante l’orario di lavoro e non per “uso

personale”. Just Eat definisce arbitrariamente un valore monetario per la sua

attrezzatura. Al termine del contratto di lavoro, il rider è obbligato a restituire

tutta l’attrezzatura in buone condizioni, altrimenti scatterebbero detrazioni

monetarie. Ma non solo, anche in caso di “(presunta) perdita e furto o danneggiamento,

a meno che il rider non dimostri che furto danneggiamento e perdita non siano a lui

imputabili” il rider è obbligato a risarcire l’azienda che ha la libera facoltà di

“emettere una fattura al rider per ottenere il risarcimento del danno e recuperare

eventuali costi connessi al recupero del credito” oppure “agire per compensazione

mediante trattenute sulla retribuzione corrisposta al rider”. Per fare un esempio

pratico, ciò significa che se un rider dovesse scivolare in bicicletta e strappare la

giacca, Just Eat potrebbe trattenergli 30 euro sulla successiva busta paga!
Infine, notiamo con amarezza come né nel contratto né nel regolamento aziendale siano

menzionati bonus o indennità per condizioni meteo avverse.

È necessario prendere parola chiaramente e battersi contro queste condizioni pessime,

che al momento colpiscono soltanto i rider di Monza ma che presto potrebbero essere

estese a tutta Italia, rivendicandone di migliori per tutti i lavoratori del settore.

Per questo il contratto e il regolamento aziendale di Just Eat vanno respinti con

forza! Non vogliamo sottostare al gioco al ribasso tra chi si fa portavoce di una

finta autonomia senza tutele né diritti e chi ci propina, o tuttalpiù tace, riguardo

una subordinazione da fame! Solo la lotta e il protagonismo dei lavoratori possono

migliorare le nostre condizioni!

23 marzo 2021, da pagina Facebook di Rider in Lotta Milano


Per il Tribunale di Milano uccidere i lavoratori non è reato
Ancora una volta il tribunale di Milano ha assolto quattro ex dirigenti del Teatro

alla Scala di Milano, imputati per l’omicidio colposo di 10 lavoratori, con la formula

«il fatto non sussiste». Nel frattempo la lista dei morti d’amianto fra i lavoratori

del teatro si è allungata. Un’altra decina di lavoratori ha perso la vita per

l’asbesto.
Che i tribunali siano schierati a difesa dell’economia e del profitto lo sappiamo da

sempre. Fiducia nello stato e nei tribunali (in particolare quello di Milano) non ne

abbiamo mai avuta e la sentenza di assoluzione dei dirigenti imputati era chiara fin

dalle prime udienze. Infatti, la giudice – e presidente della 9° sezione penale –

Mariolina Panasiti, ha dimostrato la sua scelta di campo interrompendo e redarguendo

più volte il Pubblico Ministero, Maurizio Ascione, e gli avvocati delle parti civili,

come ha fatto anche nell’ultima udienza, interrompendo nuovamente le repliche del PM e

degli avvocati delle parti civili.
La 9° sezione del tribunale di Milano, più di altri, è spudoratamente servile con gli

avvocati della difesa dei potenti e arrogante con l’accusa e gli avvocati delle

vittime.
In Italia c’è una giustizia di classe che, nei conflitti fra padroni, manager e

operai, è schierata a sostegno del potere. Così, ancora una volta, i padroni e i

manager che non rispettano le leggi antinfortunistiche e le misure di sicurezza

possono dormire sonni tranquilli. Questo tribunale, sempre pronto a genuflettersi

davanti ai potenti e ai loro avvocati lautamente pagati per difendere gli assassini

dei lavoratori, ha sentenziato ancora una volta che UCCIDERE I LAVORATORI PER IL

PROFITTO NON E’ UN REATO.
La verità storica emersa dalle testimonianze dei lavoratori e consulenti del PM viene

così opportunamente cancellata da quella giuridica.
Eppure, durante le numerose udienze, è emerso che i lavoratori erano esposti ad

amianto prima delle bonifiche dei locali.... e anche dopo. L'amianto nel Teatro è

presente dalla ricostruzione di Piermarini del 1943 ed è servito a coibentare numerosi

spazi del palazzo.
Nel processo è emerso che i dirigenti non hanno mai informato i lavoratori sui rischi

e non hanno mai fornito dispositivi di protezione, che le condizioni di lavoro non

rispettavano le norme di sicurezza e i gravissimi ritardi nelle bonifiche. L’amianto è

stato messo al bando nel 1992 con tanto di obbligo di bonifica dei luoghi in cui fosse

presente.
Questi processi dimostrano ai famigliari delle vittime e ai lavoratori - più di tanti

proclami ideologici - che in una società divisa in classi tutte le istituzioni,

compresa la magistratura, sono al servizio della classe borghese dominante. E vogliamo

farlo proprio il 1° maggio, giornata simbolo della lotta della classe operaia in tutto

il mondo.
Nonostante questo non ci rassegniamo. La nostra battaglia per cambiare questa società

ingiusta basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo continua nei luoghi di lavoro,

nelle piazze, nel territorio e anche nelle aule di tribunale.
NOI NON CI ARRENDIAMO. NOI NON PERDONIAMO.

1 maggio 2021
Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio