indice n.149

RECOVERY FUND E SPESE MILITARI
c’è chi chiede un pass per non morire
Dai campi di internamento per immigrati/e
LA PANDEMIA VISTA DAI GHETTI DELL’AGROALIMENTARE
Lettere dal carcere di Milano-Opera
Lettera da una comunità terapeutica del Nord Italia
Da una lettera dal carcere di Piacenza
Lettera dal carcere di Reggio Emilia
Lettera dal carcere di Siano (CZ)
La salute dei lavoratori interessa ai padroni?
Lettera dal carcere di Sulmona (AQ)
Lettera dal carcere di Ascoli Piceno
Da una lettera dal carcere di Nuoro
Lettera dal carcere di Genova-MARASSI
Presidio al Distretto sanitario di Udine
Lettera dal carcere di Vibo Valentia
Lettera dal carcere di Pavia
Pandemia, vaccini, green pass
PNRR: Piano Nazionale di Radiazione di ogni Resistenza (umana)
ai lavoratori e lavoratrici del Collettivo Di Fabbrica GKN
NOTIZIE DALLE CARCERI
TE LO RICORDI L'8 MARZO AL CARCERE?


RECOVERY FUND E SPESE MILITARI
La pandemia non ha fermato, anzi ha accentuato la tendenza al rialzo delle spese militari già consolidatasi da qualche anno tra molti alleati della NATO. Il 2020 potrebbe costituire lo spartiacque tra un’epoca di bilanci militari ridotti o stagnanti e una nuova fase di incremento della spesa. E’ il caso dell’Italia che ha visto la spesa per le tre Forze Armate (Funzione Difesa) crescere nel 2020 fino a 15,32 miliardi di euro contro i 13,98 del 2019 con un incremento di ben 1,3 miliardi (+9,6%), nel 2021 tale stanziamento dovrebbe salire a circa 17 miliardi con almeno 7 miliardi (4 del bilancio e 3 dai fondi del Ministero dello sviluppo Economico) destinati ad acquisire nuovi mezzi, armi ed equipaggiamenti.
La crescita delle spese militari è favorita da due fattori. Il repentino mutamento della politica economica europea tramite lo strumento del Recovery Fund e la crisi di alcuni settori economici che di fatto hanno visto azzerare, nell’epoca del Covid i ricavi, in particolare nel trasporto aereo e marittimo. Sotto l’aspetto delle politiche economiche, dopo anni di austerity imposta dalla Germania a tutti i partner UE, l’epidemia ha determinato il successo delle “politiche economiche espansive” basate sull’aumento del debito e sulla spesa in deficit. L’Europa, per la prima volta assume la responsabilità di un debito comune ed ha messo a disposizione degli stati aderenti 750 miliardi di Euro. Bisogna chiarire un aspetto di fondo, spesso trascurato, i fondi europei non sono regalie o prestiti per “tamponare” le emergenze sociali, ci riferiamo in particolare alla sanità ed all’istruzione. Si tratta di debiti che devono essere ripagati. L’unica via per rientrare dal debito è quella di produrre profitti ovvero assicurare la famosa “crescita”. Il Recovery Fund ha quindi lo scopo di indirizzare la liquidità a quelle attività industriali che siano in grado immediatamente di essere competitive nel mercato globale e generare i ricavi. Due sono i settori che hanno tali caratteristiche, quello dell’industria digitale, industria 4.0, e l’apparato militare industriale, unico comparto che in epoca di Covid non ha subito, a livello globale, flessioni, conseguendo per contro uno sviluppo. La spesa militare non significa solo rinnovare e ammodernare le forze armate, ma soprattutto intervenire nei comparti economici che nello scorso anno hanno fatto azzerare o quasi il fatturato. L’apparato militare industriale ha compensato il crollo delle commesse dell’aviazione commerciale o delle navi da crociera. Ricordiamo che da anni lo sviluppo tecnologico dell’apparato militare industriale è indirizzato al Dual Use, ovvero all’utilizzo indifferenziato del “prodotto militare” in ambito civile. Di conseguenza indirizzare una parte cospicua dei fondi europei al settore industriale militare deve essere valutato non tanto sotto l’aspetto “etico” ma come logica conseguenza di una leva economica quella del profitto, unico mezzo per rientrare dal debito europeo. In sintesi il Recovery Fund è lo strumento di riconversione industriale non tanto e solo per garantire posti di lavoro e sopravvivenza alle industrie nazionali, ma soprattutto per competere sul mercato globale e la competizione si gioca e si giocherà nel futuro nel campo della digitalizzazione ovvero nel campi dell’Aerospazio, Cyber, Intelligenza Artificiale e in generale dell’Alta Tecnologia, dove non a caso è attivo ed in piena fase espansiva l’apparato industriale militare. Il fondo Europeo ha una consistenza di 750 miliardi di euro. All’Italia è destinata la quota maggiore, ovvero 209 miliardi di euro nei prossimi 6 anni; oltre 81,4 dei quali come sovvenzioni e i restanti 127,6 come prestiti.
Nell’attesa, i Ministeri della Difesa e dello Sviluppo Economico hanno presentato un elenco di progetti di carattere militare (complessivi 21) per l’ammontare di circa 30 mld. I progetti del Ministero della Difesa prevedono di spendere 5 miliardi di euro del Recovery Fund per applicazioni militari nei settori della cibernetica, delle comunicazioni, dello spazio e dell’intelligenza artificiale. Rilevanti i progetti relativi all’uso militare del 5G, in particolare nello spazio con una costellazione di 36 satelliti. Per avere un quadro completo delle spese militari, oltre ai fondi del Recovery Fund bisogna sommare 35 miliardi stanziati a fini militari dai governi italiani per il periodo 2017-2034, in gran parte nel bilancio del Ministero dello Sviluppo Economico. Essi si aggiungono al bilancio del Ministero della Difesa, portando la spesa militare italiana a oltre 26 miliardi annui, equivalenti a una media di oltre 70 milioni di euro al giorno, in denaro pubblico sottratto alle spese sociali. Cifra che l’Italia si è impegnata nella Nato ad aumentare a una media di circa 100 milioni di euro al giorno, come richiedono gli Stati Uniti. Lo stanziamento a tal fine di una ingente parte del Recovery Fund permetterà all’Italia di raggiungere tale livello. In prima fila, tra le industrie belliche che premono sul governo perché aumenti la fetta militare del Recovery Fund, c’è la Leonardo, di cui il Ministero dello Sviluppo Economico possiede il 30% dell’azionariato. Stando ad una relazione pubblicata dal consiglio per l’innovazione del ministero della difesa degli Stati Uniti, che “il vero potenziale del 5G sarà il suo impatto sulla rete di guerra del futuro. Questa rete includerà sempre di più un ampio numero di sistemi meno costosi, più connessi e più resilienti, in grado di operare in uno scenario di battaglia in rapida evoluzione”. Le tecnologie wireless di prossima generazione costituiscono anzitutto una rivoluzione nelle operazioni militari che cambierà tutto, dall’addestramento alla logistica, alle dimensioni tattiche, operative e strategiche della guerra. In Europa si prevede che satelliti ibridi e architettura di rete 5G modelleranno il futuro della comunicazione mediante droni. Infatti i droni necessitano di reti di dati attendibili per eseguire operazioni quali comando, controllo o volo in autonomia. Attualmente sembrerebbe che i ricercatori finanziati dall’UE pensino ad un’architettura ibrida nata dalla combinazione tra reti cellulari e satellitari per consentire il volo veloce e sicuro di droni commerciali nelle aree urbane. La stessa industria della difesa e sicurezza più importante italiana, Leonardo S.p.A., nella Relazione finanziaria annuale del 31 dicembre, inserisce il 5G nell’ambito dell’elettronica per la Difesa e Sicurezza, programmi di finanziamento su ricerca e innovazione, in ambito spazio e cyber. Insieme ad ENI, in quanto azienda di interesse strategico nazionale, fornisce informazioni sui propri sistemi di sicurezza cibernetica e valutazioni relative alle prospettive connesse con l’avvento della rete 5G. In conclusione il “digitale” è la nuova frontiera industriale. Ancora una volta è il settore militare, per le sue caratteristiche, dual use, alto contenuto tecnologico che fa da traino all’intero progetto di ristrutturazione. Ne consegue che da parte nostra dobbiamo sempre più considerare il “mondo militare” nel suo complesso come il centro dell’economia, una posizione sempre più strategica che esclude quelle “vecchie” ormai superate dalla storia, parole d’ordine: Riconvertiamo l’industria militare. “più burro e meno cannoni” appartengono ormai al passato, dobbiamo rimodulare il nostro antimilitarismo tenendo presente la centralità assoluta nel sistema capitalista dell’apparato industriale militare.
8 luglio 2021, pubblicato su “il seme anarchico”


c’è chi chiede un pass per non morire
Ormai da quaranta giorni, davanti agli uffici dell’UNHCR di Tripoli, ci sono circa 4.000 persone accampate in protesta che chiedono di essere evacuate immediatamente dalla Libia verso paesi sicuri. Molte ci sono arrivate dopo una serie di attacchi governativi iniziati il primo ottobre, veri e propri rastrellamenti dove almeno cinquemila persone, incluse intere famiglie con donne e bambini, sono state prelevate a forza dalle loro case o per strada, imprigionate nei centri di detenzione e sottoposte a violenze e torture. Dall’inizio del presidio, largamente ignorato dalle ONG così come dai media, gli episodi di violenza sono stati molteplici e quasi quotidiani: dalla morte di un giovane sudanese attivo al presidio, picchiato da uomini mascherati, agli attacchi delle guardie di sicurezza dell’edificio dove si trova l’ufficio dell’agenzia ONU. Dopo la fuga di circa duemila persone dalla prigione di Al Mabani, la polizia ha sparato sulla folla uccidendo un numero imprecisato di persone (almeno 34) e ferendone centinaia, per poi ri-arrestarne moltissime. I sopravvissuti e gli sfollati hanno occupato le strade di fronte alla sede dell’agenzia ONU che dovrebbe occuparsi dei diritti dei rifugiati (l’UNHCR, appunto) e chiedono di essere registrati come rifugiati e di venire evacuati.
L’UNHCR, di fatto, sta a guardare, mentre l’UE finge di non vedere gli episodi delle ultime settimane, preoccupata solo dalla stabilità politica del paese, funzionale al controllo delle frontiere e al mantenimento di interessi economici (come si dirà oggi a Parigi alla conferenza per “stabilizzare la Libia”), tra cui quelli di Eni in testa. In poche parole, il gas deve passare, le persone soltanto opportunamente e brutalmente selezionate, pronte per essere poi sfruttate nelle campagne del Made in Italy.
Le imbarcazioni di chi prova a raggiungere le coste italiane continuano ad essere respinte dalla guardia costiera libica e la quasi totalità di chi ri-sbarca in Libia dopo aver fallito la traversata viene imprigionato. Tutto ciò accade leggittimizzato dal governo italiano (e dalla commissione europea), che con il Memorandum d’Intesa siglato nel 2017 con il governo libico (ma ricordiamo che si tratta di una politica che affonda le sue radici nell’era degli accordi tra Berlusconi e Gheddafi) di fatto hanno un ruolo chiave nel respingimento delle persone in mare, continuando a fornire ingenti finanziamenti alla guardia costiera libica, che poi è anche il soggetto che favorisce gli sbarchi illegali, a carissimo prezzo.
Sulla frontiera orientale dell’Unione, intanto, tra Polonia e Bielorussia, la follia della violenza dei confini ha già ucciso decine di persone rimaste intrappolate e ibernate nelle foreste verso cui vengono respinte dai soldati polacchi. È di due giorni fa la notizia di 50 persone arrestate al confine per aver rotto e superato la recinzione di filo spinato; e mentre i soldati polacchi sparano, quelli bielorussi impediscono a chi scappa di tornare indietro. Anche qui, i migranti sono oggetto di un crudele mercato politico. L’Europa punta il dito contro il despota bielorusso Lukashenko, accusato di usare i migranti come arma umana per vendicarsi delle sanzioni europee. Sulla sorte di chi sta lottando contro due eserciti e il freddo per sopravvivere non si esprime, se non per parlare di muri e di rimpatri forzati.
In risposta a queste drammatiche cronache in molte città le comunità della diaspora si sono mobilitate per protestare e mettere pressione ai governi europei finora rimasti in silenzio, nonostante siano i principali e conclamati responsabili – per conto dei grandi interessi economici di cui sono espressione – delle morti e delle violenze così come delle crisi economiche, politiche e climatiche che portano le persone a rischiare la propria vita per attraversare il mare o le foreste. Ma il silenzio su quanto sta accadendo è troppo diffuso, una barriera di indifferenza che è tanto complice quanto assassina, da parte non solo delle istituzioni, ma anche della “società civile” europea, poche eccezioni a parte. La flebile attenzione generale al momento, poi, è puntata sui confini orientali dell’Europa, e quasi non si parla di come la repressione delle persone immigrate continui anche dopo essere sbarcati sulle nostre coste. Al superaffollato hotspot di Lampedusa al momento sono rinchiuse 850 persone, arrivate nei giorni scorsi e destinate a passare per tutti i gironi infernali della burocrazia razzista che regola i meccanismi di richiesta di asilo in Italia e in Europa. Nella stragrande maggioranza dei casi le persone sono prive di un documento per anni, condannate ai ghetti, alla precarietà, ai lavori in nero, alla strada o alla detenzione nei CPR o nelle carceri.
Solo un mese fa, proprio in Sicilia, a Campobello di Mazara, un ghetto dove vivevano centinaia di lavoratori braccianti africani giunti lì per raccogliere le olive è bruciato, uccidendo Omar, un lavoratore senegalese. Alle insistenti proteste dei suoi compagni, le istituzioni locali hanno risposto nell’unico modo che conoscono: repressione e poi prefabbricati in plastica, forniti proprio dalla stessa UNHCR in collaborazione con la fondazione IKEA. Praticamente un nuovo ghetto, ma istituzionale e non più abusivo (e quindi riservato a chi è in possesso di documenti, gli irregolari si arrangino), dove i lavoratori continuano a vivere segregati in scatoloni che saranno nuovi e scintillanti per una stagione, il tempo di fotografarli e sbandierarli come soluzioni abitativa dignitosa.
La stessa UNHCR che caldeggia la creazione di un sindacato di lavoratori agricoli immigrati si tappa occhi orecchie e bocca, dalla Libia alla Sicilia, quando quegli immigrati e quei lavoratori pretendono il minimo riconoscimento, quello di potersi spostare e fuggire da guerra, povertà, stupri, abusi e torture, e di vivere senza essere segregati in regime di apartheid a seconda del profilo giuridico, in luoghi in tutto e per tutto simili alle baraccopoli che periodicamente vengono smantellate, ma decisamente più controllati. E che dire di chi una volta arrivato viene obbligato a vivere in un centro di accoglienza o imprigionato in un CPR, e se prova a ribellarsi viene arrestato, deportato, processato? La repressione e le violenze che iniziano ben prima dei confini costituiti da barriere e filo spinato, continuano ben oltre, dalla fase della cosiddetta “accoglienza”, ai magazzini e ai campi, fino alle piazze dove da anni immigrati e solidali manifestano per chiedere documenti per tutti. Il gioco perverso della macchina umanitaria di UNHCR e di chi li sostiene deve essere smascherato e fermato. Contro confini e sfruttamento, l’unica strada è la lotta.

12 novembre 2021, Comitato lavoratori delle campagne


Dai campi di internamento per immigrati/e
Torino, aggiornamenti dal Cpr di corso Brunelleschi.
10 ottobre 2021. “Buongiorno ragazzi, come va? Tutto bene? Buona domenica, siamo i ragazzi del centro! Qui stanno iniziando a costruire una nuova area visto che abbiamo distrutto la rossa nelle rivolte, in questo momento siamo in punizione, isolati. Rimpatriano i nostri fratelli tunisini, è rimasto solo un fratello. Ieri quando vi abbiamo sentito abbiamo cominciato a gridare anche noi, tanto non ci hanno fatto di nuovo andare al campetto perché siamo “quelli” della rossa, ci hanno spostato nella viola da tanto tempo, quasi un mese, comunque vi ringraziamo tanto. Per il resto qui le solite cose, la sanità fa schifo, il mangiare fa schifo, stiamo vivendo solo di acqua e biscotti, neppure il latte… ci portano solo un caffè la mattina, mamma mia, le medicine… chi beve il caffè dorme, chi mangia dorme. Ci stanno ammazzando piano piano, io sono dimagrito, tutti siamo dimagriti, la bilancia dell’infermeria non funziona più perché chi va a pesarsi si incazza, quindi hanno deciso di spegnerla del tutto. Ciao… confermo che stanno costruendo una nuova area, noi che eravamo nell’area rossa siamo rimasti in pochi e ci trattano malamente perché siamo noi ad aver creato quel casino ed ora ce la stanno facendo pagare, anche i pacchi quando entrano vengono aperti, le cose da mangiare buttate a terra”. (In un’altra telefonata di qualche giorno prima avevano raccontato: “Veniamo insultati ed umiliati, i pacchi di biscotti aperti e gettati a terra. Ci dicono mangia maiale”).
“Il vostro pacchetto sono riuscito a proteggerlo facendo un po’ di casino perché arrivo da 7 anni di carcere. Noi della rossa siamo isolati nell’area viola, non vediamo nessuno e non ci vede nessuno, vi ringraziamo tanto per tutto quello che avete fatto per noi.”
20 ottobre 2021. Recentemente il Ministero dell’Interno ha prodotto un rapporto in risposta ad “alcune criticità” emerse all’interno del CPR di Torino durante l’ultima visita del Garante Nazionale avvenuta lo scorso luglio con un riferimento particolare ad “alcuni aspetti ritenuti essenziali ai fini del proseguimento del rispetto della dignità umana delle persone trattenute e, in particolare, dell’assistenza sanitaria”. Prima di parlare del contenuto di questo rapporto occorre ricordare chi sono gli autori e gli attori coinvolti. Il documento è stato prodotto da Michele di Bari (Capo del dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione), Michela Lattarulo (Direttore centrale dei servizi civili per l’Immigrazione e l’Asilo) con relazione tecnica a cura di Claudio Palomba (Prefetto di Torino) che formalmente rispondono a Mauro Palma (Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale), autore di una serie di dichiarazioni che coinvolgono l’ente gestore GEPSA e l’Azienda Sanitaria Locale (ASL) “Città di Torino”, che si ricorda della presenza di un lager in città solo quando i riflettori sono puntati, raramente, sul CPR a causa di un’emergenza. Interessante notare come su sei attori coinvolti, cinque rappresentano lo Stato a dimostrazione del fatto che chi decide ed impone le regole coincide con i difensori di chi le regole le subisce. Una storia già vista, lo Stato che giustifica e controlla se stesso attraverso il mantenimento di una narrazione che vuole far passare per accoglienza quello che in realtà non è altro che una mascherata forma di carcerazione e di privazione della libertà.
Il rapporto entra nel merito di tre punti: la sezione del Centro denominata “l’Ospedaletto”, la comunicazione con l’esterno e la visita medica di ingresso.
Per quanto riguarda il primo punto si parla della creazione di “ambienti più gradevoli” in sostituzione dei vecchi e viene ribadito che “al momento l’utilizzo di tale area è stato sospeso al fine di richiedere la progettazione di interventi migliorativi per rendere tale struttura più rispondente alle esigenze sanitarie a cui la stessa risponde”. Le parole vengono sottoposte ad un vero e proprio slittamento semantico, deciso da chi ha il potere di riprogrammare e ridefinire il significato delle parole. Parole che invece è necessario confrontare con le voci dei reclusi che vivono quotidianamente sulla propria pelle le conseguenze di tutto questo. Voci che ci raccontano di una sezione isolata dalle altre dove le persone vengono condotte con la forza dalle guardie e abbandonate all’interno di piccole stanze circondate da grate. Una sezione che è “presente presso il CPR di Torino fin dalla sua prima destinazione”, come afferma il Prefetto nella relazione tecnica del rapporto. Una sezione punitiva dove da più di vent’anni le persone vengono torturate lontane dagli occhi degli altri reclusi che potrebbero risultare scomodi testimoni. Un luogo in cui, è necessario ricordarlo, sono morti due uomini abbandonati in isolamento negli ultimi due anni. Una gabbia non può essere resa più gradevole, più bella, perchè rimane sempre una gabbia. Come ci hanno insegnato gli harraga in questi anni attraverso le rivolte, una gabbia può essere solo distrutta. Non basterà la chiusura di una sezione del CPR o qualche miglioria strutturale per ripulirsi la faccia o la coscienza e dimenticare le violenze che lo Stato ha compiuto all’interno dell’Ospedaletto in tutti questi anni.
Per quanto riguarda il secondo punto si “evidenzia una particolare attenzione” al tema della comunicazione con l’esterno. Vengono “perseguiti ed assicurati adeguati servizi e standard per le persone trattenute” tramite l’attivazione di nuove postazioni di telefonia pubblica. Secondo la Prefettura dal 2 Aprile 2020 “sono stati messi a disposizione dei migranti telefoni cellulari non classificabili come smartphone da utilizzare in locali che consentono il rispetto della privacy”. Dai racconti dei ragazzi dentro che abbiamo avuto modo di sentire in questi mesi emerge invece che non solo non sono state mai attivate o predisposte nuove postazioni telefoniche ma che addirittura non tutte le aree del Centro hanno almeno una cabina pubblica per chiamare. Da inizio 2020, ovvero quando è stato “inibito” l’utilizzo del proprio telefono cellulare all’interno del CPR di Torino, l’unico modo per comunicare con i propri parenti, molti dei quali all’estero, è attraverso l’utilizzo di una cabina telefonica utilizzabile tramite una scheda a pagamento che i reclusi possono comprare dall’ente gestore GEPSA che lucra sulla necessità delle persone di comunicare anche solo con il proprio avvocato. Ecco come funziona la comunicazione con l’esterno all’interno del CPR: limitandola il più possibile!
Per aumentare ulteriormente l’isolamento dei reclusi le cabine telefoniche presenti nelle aree non possono essere chiamate dall’esterno (come una normale cabina telefonica pubblica) in quanto le chiamate in entrata sono disattivate. All’interno del rapporto le falsità continuano quando viene sottolineato che “dal 5 Luglio 2021 sono riprese le visite dei familiari”. Nessuno dei ragazzi che abbiamo sentito in questi mesi ha mai visto un famigliare ne tramite un colloquio dal vivo ne tramite una video chiamata.
Ci hanno raccontato che molti pacchi spediti dall’esterno vengono bloccati all’ingresso senza motivazioni o senza alcun riscontro oggettivo come il caso di diversi indumenti respinti perchè non sanificati e contenuti in apposito contenitore igienizzato. Per quanto riguarda il punto relativo alla la visita medica preliminare di ingresso al Centro (che dovrebbe evidenziare eventuali incompatibilità con la detenzione) lo sganciamento dalla realtà e dalla vita concreta non cambia. Anzi, lo slittamento semantico aumenta nel momento in cui il Prefetto di Torino risponde alle “criticità” emerse negli ultimi mesi sul perchè l’Azienda Sanitaria Locale (ASL) “Città di Torino” ha da sempre omesso di effettuare tale visita. Ricordiamo che nel 2015 il Prefetto di Torino e il Direttore Generale dell’ASL Torino hanno firmato il protocollo d’intesa e collaborazione tra i due enti al fine di garantire ai reclusi il pieno accesso al Servizio Sanitario Nazionale e nel 2018 per dare attuazione all’articolo 3 del Regolamento Unico dei CIE affinchè le visite mediche di ingresso nel CPR siano condotte da un medico della Regione o dell’ASL locale.
La risposta del Prefetto di Torino rappresenta una compiuta sintesi della volontà di trasformare le persone in non persone attraverso l’imposizione di un comportamento, di una condizione: chi non ha i documenti giusti non viene curato! L’assistenza sanitaria passa attraverso il riconoscimento, e la sua conseguente negazione, di una condizione imposta che costringe le persone all’interno di un lager per settimane perchè pende su di loro l’Ordine di allontanamento dal territorio nazionale del Questore. La sanità come strumento coercitivo, di controllo, di potere, di ricatto sociale. Possiamo estendere questo razzismo strutturale anche all’ordine sociale in cui viviamo se consideriamo come condizione discriminante l’essere una persona che viene detenuta in carcere. Allora si potrebbe dire: chi è detenuto, chi viene riconosciuto come un nemico di questo ordine sociale, non viene curato. Secondo il rapporto del Ministero dell’Interno l’unica soluzione possibile sarebbe quella di “rilanciare i contatti” tra Prefettura e ASL di Torino: ovvero lo Stato che cerca di entrare in contatto con se stesso a quasi dieci anni di distanza dal primo accordo che ha firmato, chiaramente, sempre con se stesso!
Nel mentre le persone continuano ad entrare dentro il CPR di corso Brunelleschi con gravi patologie, lesioni e traumi al corpo incompatibili con la detenzione che, nella maggior parte dei casi, richiederebbero un ricovero ospedaliero. Problemi fisici che vengono ignorati nella totale assenza di interventi di assistenza sanitaria. Persone costrette a sopravvivere all’interno di un lager, dove l’unica terapia consiste nel dare “psicofarmaci a litri” con la complicità del responsabile medico e della direzione assunti da GEPSA.
In questi giorni siamo in contatto con un ragazzo che soffre della sindrome di Crohn e nonostante le ripetute richieste di soccorso non ha potuto vedere un medico o parlare con il suo avvocato dopo diversi giorni di detenzione all’interno del CPR. Alla luce dell’evidente operazione di travisamento della realtà e annullamento della persona svolta da Ministero dell’Interno, Prefettura e ASL di Torino vogliamo ribadire la nostra solidarietà e complicità a chi si ribella contro tutto questo schifo distruggendo con coraggio la propria gabbia come è successo il mese scorso quando un gruppo di ribelli ha reso inagibile una sezione del CPR di corso Brunelleschi per protesta.
Al fianco degli harraga in lotta. Contro ogni gabbia e frontiera. Fuoco ai CPR.
22 ottobre 2021. Negli ultimi giorni gli atti di autolesionismo e i tentati suicidi all’interno della struttura di Corso Brunelleschi sono stati talmente numerosi da richiamare persino l’attenzione dei media mainstream. Le persone recluse ci raccontano di una situazione ancor più grave: i giornali parlano di 26 casi, ma solo la settimana scorsa nell’aria Viola c’è stata una media di due persone al giorno a “fare la corda” ovvero tentare di impiccarsi. Sempre nella stessa area altre due persone hanno bevuto del detersivo e sono state portate all’ospedale per una lavanda gastrica. Molte altre meditano di fare lo stesso. Quando le persone “fanno la corda” le guardie arrivano volutamente all’ultimo momento. Nell’area Viola al momento ci sono 35 persone, in 7 per ogni cella, ed è l’area in cui sono state portate le persone dell’area Rossa che si sono rivoltate il 10 settembre e che l’hanno resa completamente inagibile: per questo motivo nei loro confronti vi è un accanimento particolare da parte della polizia e del personale del Centro. Inoltre, sono state portate le persone di un’altra area nello stesso edificio. Sono quindi forse due le aree in costruzione/ricostruzione. I gesti di autolesionismo e i tentativi di suicidio rappresentano un tentativo di essere portati fuori dal centro: una volta in ospedale le persone spesso tentano la fuga e fortunatamente talvolta riescono a scappare.

ottobre 2021, da nocprtorino.noblogs.org


LA PANDEMIA VISTA DAI GHETTI DELL’AGROALIMENTARE
Mentre il settore agroalimentare continua a cavalcare la crisi pandemica, come prima cavalcava la crisi finanziaria, continuando ad aumentare i suoi profitti, i lavoratori impiegati nel comparto agricolo, definiti indispensabili, sono però scomparsi dai radar mediatici. Nei primi mesi di pandemia non si faceva che parlare di braccianti e di quanta forza lavoro fosse venuta a mancare a seguito del lockdown, e il governo metteva in piedi un processo di regolarizzazione degli stranieri privi di documenti, ma anche dei lavoratori italiani a nero, sbandierato come la risposta alla carenza di braccia (dimenticandosi delle lotte dei diretti interessati, che hanno giocato un ruolo cruciale nella decisione di procedere con una sanatoria).
Una misura rivelatasi però fallimentare e subito aspramente criticata da più parti – anche da chi è per anni rimasto sordo agli appelli alla solidarietà di lavoratori e lavoratrici in lotta per i documenti. Le associazioni di categoria, d’altra parte, hanno cercato sfacciatamente ed insistentemente di approfittare della situazione per forzare la reintroduzione di forme di ingaggio tramite voucher, ancora più precarizzanti di quanto non siano già i contratti a termine dei braccianti agricoli. Allo stesso tempo, c’era addirittura chi – eminenti opinionisti di importanti testate nazionali, ma anche medici – sosteneva, nella migliore delle tradizioni suprematiste, che ‘i neri’ erano immuni al coronavirus perché non si registrava la loro presenza tra i dati dei contagiati. A pochi è venuto in mente che per chi vive nella quarantena dell’apartheid razziale, soprattutto nei ghetti e nei campi di lavoro che costellano i distretti agro-industriali da nord a sud, l’isolamento è una condizione permanente. Le uniche occasioni di socialità, se così si può chiamare, al di fuori delle proprie comunità sono per i braccianti immigrati legate al lavoro e poco più. E quindi, in una stagione in cui il lavoro era poco, i braccianti sono stati ‘protetti’ dal contagio. 
Prevedibilmente, però, ad una fase di iper-mediatizzazione ma anche di poca esposizione al virus ne è seguita un’altra, non solo di oblio ma anche di iper-mobilità e di conseguenza di diffusione della pandemia tra i braccianti stranieri. In diversi distretti, da Saluzzo (CN) a Campobello di Mazara (TP), passando per il Tavoliere, il casertano, il potentino e il metapontino (MT), le necessità stagionali di braccia per la raccolta di frutta e ortaggi hanno richiamato migliaia di lavoratori che in questi mesi hanno più volte attraversato l’Italia per cercare lavoro (e magari sperare di regolarizzarsi). Chi ‘porta il cibo sulle nostre tavole’, come ama ricordarci la retorica umanitaria, è spesso stato costretto a dormire in abitazioni di fortuna, ammassato e in molti casi senza accesso nemmeno all’acqua potabile, quando non proprio per strada, come è accaduto e tuttora accade nella opulenta provincia di Cuneo – ‘fiore all’occhiello’ per le numerose eccellenze enogastronomiche prodotte sulla pelle di decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici trattati come carne da macello. Qui esercito e forze dell’ordine hanno sottoposto chi già viveva una condizione al limite a snervanti controlli, corredati di denunce, fogli di via e ripetuti sgomberi, che avevano evidentemente il solo scopo di intimidire. Soltanto una protesta ha permesso che qualche comune corresse ai ripari mettendo a disposizione un centinaio di posti in container e tende, dove le condizioni non sono certo ideali, e in alcuni casi posti letto in strutture di accoglienza. Nessuno, né in Piemonte né altrove, si è davvero preoccupato di tutelare la loro salute né di fornire una comunicazione adeguata rispetto alla natura della pandemia e alle misure necessarie per fronteggiarla. 
E così, dopo mesi di disoccupazione forzata, attenuata dall’elemosina del governo solo per chi aveva la fortuna di avere un permesso di soggiorno e un contratto di lavoro, anche chi risultava positivo al coronavirus è stato costretto a lavorare. In alcuni casi questo è avvenuto con il placet delle autorità, che sempre nell’avanguardistico distretto della frutta del cuneese hanno tirato fuori dal cilindro una ‘quarantena fiduciaria’, permettendo, bontà loro, a chi fosse entrato in contatto con soggetti positivi di recarsi al lavoro per poi rientrare tassativamente alle loro abitazioni. In molte altre situazioni, come ad esempio nelle provincie di Foggia e di Potenza, le disposizioni sanitarie hanno fatto sì che i positivi, anche asintomatici, venissero prima ricoverati in ospedale – da cui molti fuggivano per tornare al lavoro –, e poi confinati in container, capannoni o tende allestiti appositamente per loro (come è accaduto anche nella Piana di Gioia Tauro).
In alcuni territori dove erano disponibili gli alberghi COVID (il foggiano tra questi), i sindaci si sono semplicemente rifiutati di metterli a disposizione ‘degli immigrati’, senza che nessuno si indignasse. D’altronde, il posto degli africani è nelle tende. Lo sanno tutti. È normale. Intanto, si diffondeva in tutta Italia l’ennesimo spauracchio legato all’immigrato, che da immune era improvvisamente diventato un untore. Ma poi, siccome la frutta e la verdura vanno raccolte, anche dalle zone rosse presidiate dalle forze dell’ordine, in cui erano confinati insieme positivi e negativi (sempre perché immigrati), di fatto si esce per andare al lavoro, nel silenzio complice di autorità che fingono di non vedere e di non sapere. Tutto ciò nella tragedia ormai conclamata di un sistema sanitario al collasso dopo anni di privatizzazioni e clientelismo, votati al profitto di alcuni, come le vicende calabresi hanno prepotentemente messo in luce. 
Così i braccianti stranieri non fanno più notizia, non devono più fare notizia: devono essere criminalizzati e isolati, ma non troppo, perché poi servono per lavorare. E infine, quando non servono più, devono scomparire.
Mentre nel cuneese la stagione della raccolta della frutta volge al termine, i sindaci del comprensorio hanno avuto la faccia tosta di proporre una chiusura anticipata delle strutture di accoglienza che hanno ospitato una parte dei lavoratori. Per l’emergenza sanitaria, dicono. E anche se nel frattempo, costretti dalla denuncia pubblica persino della FLAI CGIL, hanno dovuto ritrattare, ai braccianti stranieri in tutta probabilità non sarà comunque concesso di rimanere oltre la fine di questo mese, sia come sia. Così in molti hanno già tolto il disturbo, magari senza nemmeno aspettare la paga, e sono ritornati ai ghetti e ai campi di lavoro del Mezzogiorno, dove il virus circola ma in silenzio, senza clamore e indisturbato. Insomma, i lavoratori agricoli stranieri non hanno diritto alla salute, né alla casa, per non parlare di contratti regolari o di documenti. 
Ma da Saluzzo alla Piana di Gioia Tauro e alla Basilicata, la voce dei lavoratori delle campagne si è alzata più volte, a protestare per questo stato di cose. Contro la militarizzazione e la gestione carceraria delle loro esistenze, perché anche le loro vite contino. Davanti a questo stato di cose, non ci resta che ribadire la nostra solidarietà e il nostro impegno al loro fianco, fino a che tutt* avranno casa, documenti ed un contratto regolare – perché questa è anche la nostra lotta. 

18 novembre 2021, da Enough is Enough - braccianti in lotta Saluzzo


Lettere dal carcere di Milano-Opera
Caro, la scorsa settimana ti ho scritto proprio per parlare dei fatti di S. Maria.
Il mondo delle carceri è un mondo di merda, gestito da persone di merda. All’esterno di questo mondo negli ultimi anni è uscito ben poco. L’insieme di tutta la gestione è più di una associazione, molto più radicata di qualsiasi e solita associazione criminale e questa è gestita, capitanata dai giudici. Questo mondo è gestito dall’antimafia e più criminali di questi personaggi non esistono. Quello che è uscito fuori, è comunque la punta dell’iceberg, non esiste solo S. Maria, purtroppo la media sicurezza è stata massacrata negli istituti italiani. Tutto quello che si è percepito un anno fa, certo che hanno fatto di tutto per coprirlo questi indegni dei magistrati che gestiscono questo mondo intercedendo in quelle procure dove sono state palesati i disordini tipo Modena, Bologna, Ascoli, qui a Milano, perché anche qui sono entrati con manganelli e hanno massacrato i carcerati.
Comunque quello che è emerso da S. Maria ha rotto i piani di molti miserabili e tutte quelle procure che stavano occultando le fetenzie di questi bastardi ora sono esortati a chiarire meglio quel momento storico, ma ti ripeto, io spero che esca qualche pentito in mezzo a loro, qualcuno che si sia fatto un esame di coscienza davanti a quelle immagini così da fare saltare tutto questo sistema infame, non degno di essere democratico.
Qui in Italia nulla è democratico, se non quello che i politici di turno si sforzano per apparire accettabili verso la popolazione. Nelle stanze di potere si decide sempre avversi verso la società è tutto mascherato con le belle parole tutte le estorsioni e le rapine che ogni cittadino subisce ogni mattina che si scelga con le decisioni di questi miserabili. È tutto marcio non solo il mondo carcerario.
Questi del D.A.P. (gestori dell’antimafia) sono padroni di una parte di questo stato, se lo sono divisi e tutto questo finirà se sono loro stessi a fare saltare tutto, o ci penserà il popolo contando il referendum della divisione dei poteri dei giudici. Perché se questo accadrà tutto questo mondo marcio che loro si sono costruiti negli ultimi 30 anni finirà, ognuno di loro dovrà andare a occupare quel posto che gli viene assegnato in una democrazia normale. Salutami calorosamente tutte le compagne/i. A presto.

19 luglio 2021

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Carissimo, stiamo aspettando settembre per conoscere le nuove direttive del D.A.P. e della direzione in base ai colloqui e le altre aperture dell’istituto, speriamo in bene, che ci lasciano finalmente un po’ più vivere, già in questo regime di per sé le restrizioni son tante poi ci si mettono anche quelle dell’epidemia, ed è un po’ esagerato, anche perché questo di Opera è l’ultimo baluardo della gestione infame da parte della direzione, anzi più che altro da parte della custodia. Qui è tutto fermo come regolamento interno al 1987 (da manicomio). In questi 34 anni non è stato mai aggiornato il regolamento e l’ottusità dei gendarmi è bloccata sui punti di allora come se la società non abbia fatto progressi li fuori. È una cultura e una filosofia di gestione barbara, tortuosa, restrittiva. Si è perennemente in punizione, una mentalità che può cambiare solo con la rimozione del comandante del carcere e soprattutto del coordinatore di questo reparto, un vero demente.
La direzione li lascia pascolare, proprio perché è il sistema Opera marcio dalle fondamenta. Con queste personalità a capo del potere dell’istituto cambiano tutto per non cambiare nulla, quindi, devono essere rimossi tutti loro e sostituiti da chi ha proceduto con la società stessa oppure ci vorrebbe una protesta massiccia, purtroppo la popolazione detenuta è lontana da queste idee, sono quasi tutti concentrati sull’ “inserimento”, da una popolazione da geriatria non puoi aspettarti diversamente e questi bastardi se la godono, hanno certezze che con i loro soprusi non c’è ribellione. Sono forti dei loro poteri.
Ti dico finalmente che se io riesco a prendere quello che mi tocca alla fine non mi sta nemmeno tanto bene proprio perché è parte dell’egoismo e io non sono affatto egoista, anche se tutto l’insieme di questi figli di puttana ti portano ad agire in questo modo.
Salutami caramente tutte le compagne/i. A te un caro abbraccio.

9 agosto 2021

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[...] certo che questo virus ha sconquassato le intere vite delle persone e tornare alla normalità da quello che sento dai media sarà un'impresa titanica, visto che il governo continua ad emanare provvedimenti a discapito della libertà della società mi dà l'impressione che certe decisioni sono prese da una dittatura mascherata. Ti impongono con la classica demagogia a fare cose contro la propria opinione e scelta personale. E tutto questo come puoi immaginare lo subiamo in modo diverso ma anche noi che facciamo parte della popolazione prigioniera.
Qui come nella grande massa degli istituti italiani subiamo gli stessi provvedimenti per quella libertà di movimento che abbiamo in questi luoghi e per i colloqui.
Certo che ci sono stati nuovi provvedimenti ma la sostanza non cambia nei fatti, i colloqui sono sempre gli stessi con la solita procedura dei mesi scorsi, l'unica novità è trovare quel pizzico di umanità nel secondino di turno che ti permette di abbracciare e baciare il familiare. I malumori delle persone si percepiscono anche qui dentro ma sono solo degli screzi, una vera ribellione non accadrà mai più. I tempi sono cambiati per tutti, una volta c'erano gli anni 60, 70, 80, oggi tutti si credono più intelligenti di quelle generazioni, è vero che allora non si è riuscito a cambiare granché, ma ci sono state tante conquiste, la generazione attuale godono di quelle conquiste di quegli anni e di loro non conquistano nulla.
Da qui ho l'impressione che ogni cosa si è […] ogni categoria occupa il proprio posto abituato alla propria conquista di potere. Certo che io mi ribello a tutto questo, ma alla fine è solo una lotta personale e non generalizzata. Le mie conquiste sono quelle di non dare soddisfazione agli orientamenti degli opportunisti di carriera.
Per ora mi soffermo qui in attesa di buone nuove ti saluto caramente unitamente a tutte le compagne e i compagni, un caro e forte abbraccio.


Lettera da una comunità terapeutica del Nord Italia
Di psicofarmaci e di altri mandainparanoia
Oramai è già da troppo tempo che le case farmaceutiche lucrano sulla salute della popolazione mondiale soprattutto sulla pelle dei più deboli di carattere, tossicodipendenti, alcool dipendenti e dipendenti vari.
Tedio domenicale dicevano i CCCP in una loro canzone o Emilia paranoica che è diventata terra Gaia paranoica che consuma i cuori distruggendo le menti di quanti benpensanti che vorrebbero vivere e lasciar vivere a uno come gli pare ma invece NO, l'ordine, l'obbedienza, la proprietà il capitalismo, i grandi della terra manipolano le nostre menti e le vogliono consumistiche e produttive all'altare delle patrie di tutto il mondo.
Forse era meglio prima, forse quella che sto per dire per tanti è una blasfemia ma io credo che le droghe siano state lo spartiacque per i farmaci di nuova generazione. Psicofarmaci, benzodiazepine, oppiacei sintetici per il progress per questo reame dove siamo controllati in ogni modo anche con ogni spostamento e poi il DNA schedato per chi ha subito una carcerazione, ma tra non poco tutti saranno DNASCHEDATI. Con il COVID le multinazionali si sono fatte i miliardi con i vaccini e ci hanno inoculato quello che hanno voluto.
La vera via da seguire sarebbe stata quella dei prodotti naturali, i medicamenti dei nostri avi; chissà che un giorno ritorniamo ai bei tempi sicuramente i più giusti, quelli in cui da madre natura ci procuravamo tutto il necessario.
La canapa sarebbe il futuro, il suo olio, la sua fibra cambierebbe tutto, sostituendo i farmaci oggi utilizzati, il petrolio e la plastica, la benzina, ecc ecc… fumarla è l'uso più stupido che si possa fare.
Io voglio mettere sul piatto me stesso, quello che ho e sto vivendo. Prima di entrare in carcere prendevo dall'allora s.e.r.t. il SUBUTEX ed il PROZAC. Purtroppo da testa marcia che ero aggiungevo ciliegine sulla torta fatte di cocaina, lsd, funghetti e marijuana.
Varcai purtroppo le porte della galera per la prima volta in vita mia e mi aggiunsero le benzodiazepine per rimanere calmo dove mi sentivo diventare pazzo per la costrizione cui ero tenuto a rispettare. Mea culpa se ho fatto quello che non dovevo fare ma mi sono ritrovato a fare delle rapine per procurarmi il denaro per la cocaina che mai il s.e.r.t. a cui facevo riferimento mi avesse trovato positivo alle urine e quindi io continuavo la mia vita tossica alla luce del sole senza che nessuno si accorgesse. E allora mi chiedo a che serve un organo di prevenzione alla droga se non sa per niente fare il suo lavoro. Comunque il peggio non è ancora arrivato perché dopo quasi 4 anni di gattabuia mi trasferirono in una comunità dove tutt'ora mi ritrovo. Non vi dico l'entusiasmo, la felicità di uscire dalle mura e di potermi immergere nel bel mezzo della nostra madre natura. Facevo i salti dalla felicità, io che amo il verde, la natura, gli animali. Ma loro mi videro troppo su di giri e allora farmaci a manetta per sedarmi. Si mi hanno rovinato la vita. O prendi i farmaci che ti diamo o te ne torni in carcere. Psicofarmaci, benzodiazepine, antipsicotici, stabilizzatori dell'umore, sonniferi ed il SUBUTEX ovviamente non si toglie nemmeno pensarci.
E allora mi ritrovo con una pancia gonfia da paura ed indovinate cosa mi dice il mio psicologo… è perché sei vegetariano e mangi troppe verdure se mangi carne non avresti quella pancia. Mi fa ridere, mi fanno scoppiare dal ridere sono ridicoli.
Dovrai prenderli a vita i farmaci mi dicono. Ma cosa sono questi posti convenzionati dal SERT e quindi dallo stato, dei lager per le menti????
Certo che ho avuto i miei momenti di paranoie ma ero sotto effetto dei loro farmaci anzi lo sono. Il psichiatra della comunità era propenso sotto una mia richiesta a sostituire tutti i farmaci con l'olio di canabinolo ma purtroppo l'equipe dice NO alla mia richiesta. Il parere di un dottore psichiatra è debole di fronte al giudizio di un psicologo ma quando mai accadono certe cose. Qui ci vuole l'antipsichiatria.
E si ho capito fin troppo bene che le comunità ci marciano con i farmaci e vogliono utenti rincoglioniti e sottomessi anche se non producono, l'importante è che restino in comunità per sempre. Hanno bisogno di carne da macello per sopravvivere.
Invece parlando telefonicamente con il psichiatra di una comunità privata ho scoperto che si costa circa sui 2000 euro al mese ma dopo pochissimo resti pulito ed il loro intento è farti uscire pulito senza farmaci. Beati i borghesi che se le possono permettere. Concludo con il seguente pensiero: se sei figlio di un imprenditore il tuo cervello sarà libero ma se sei figlio della classe operaia e magari per giunta anche anarchico se finisci nella spirale sei fottuto ed il tuo cervello sarà padronedipendente e non c'è niente da ridere credetemi.
L'unica salvezza che a mio parere potremmo avere noi classe proletaria è quella di non usare ed insegnare nelle scuole ai nostri figli fin da piccoli ad evitare droghe, alcool, tabacco e farmaci che danno dipendenza come quelli che ho accennato sopra. Gente che ha avuto problemi come me dovrebbero andare nelle scuole a fare d'esempio ed insegnare, dimostrare, sollecitare i bambini ed i ragazzi che la vita non sta nelle dipendenze ma nelle cose concrete e naturali della vita come potrebbero essere la natura, lo sport, la lettura, lo studio e sopratutto dedicare la propria vita alla lotta contro il capitalismo, l'imperialismo, il razzismo ed i nuovi fasci e nazi.

Agosto 2021
Firmato A.A. (Anonimo Anarchico)


Da una lettera dal carcere di Piacenza
[…] Sono in paranoia che questa lettera ti raggiunga. Da Parma [da dove è stato trasferito a Piacenza, ndr] mentre è arrivato il mio turno di isolamento ho imbucato nella posta due lettere per C. ed una per te, guarda che roba [non arrivate]. Mi hanno torturato nelle scale dove sono invisibile alle telecamere e buttandomi in isolamento dicendomi: "ora grida per il tuo diritto". Ho dovuto avvisare mia sorellina che ha fatto un bordello di telefonate. Si sono un po’ impauriti ed è arrivato il medico di guardia. Mi hanno accompagnato in ospedale dicendomi di dichiarare che erano stati gli altri detenuti a picchiarmi. Con tutti noi non vince mai. Ho promesso all'ispettore in faccia che non ci sarà mai più tregua per l'accaduto. Dopo 20 giorni già sanno che non sono uno facile.
Mi hanno spedito a Piacenza e hanno pure comunicato con i loro colleghi di qua. Poi è iniziata la tortura mentale: ad una richiesta-domanda che faccio la risposta è sempre che l'hanno persa. Ho dovuto fare uno sciopero della fame. Dopo mi hanno permesso di lavorare ma ho rifiutato: era una loro strategia in modo tale da diventare una spia per loro e scordarmi i diritti. Io sono sempre contro questo e preferisco l'orgoglio. Mi chiama una cara bugiarda direttrice, ci siamo scontrati come non mai. Con la scusa del covid-19 è l'unico carcere dell'Emilia Romagna rimasto a regime chiuso. Fa comodo a loro. Qui non sono stati risparmiati i detenuti dell'8 marzo… hanno picchiato fortemente i detenuti dopo l'entrata dall'ingresso dove c'è un magazzino e poche telecamere buttandoli in isolamento ed umiliandoli. Ora li vedo in paranoia per il terrore che abbiamo visto in TV al carcere di Caserta. Si vede che pure questi hanno la puzza sotto al naso. Parma e Piacenza sono due carceri molto amici e si coprono a vicenda. Ma Dio vede e provvede. Mi sto informando con certezza su cosa accade qui.
Mi dispiace quanto a voi per i diritti dei detenuti ma sfortunatamente tantissimi di noi hanno paura di denunciare ma li capisco: con sti cannibali è molto difficile vincere… persone come voi sono la nostra forza.
[…] Mi scrivi che [nel carcere di Parma, ndr] il cibo fa schifo [uno dei motivi di una recente rivolta, ndr], pure qui a Piacenza. Ho lavorato in cucina a Parma per un mese, poi mi sono dimesso. Per colazione erano previsti 24 litri di latte per circa 320 detenuti della media sicurezza. Vengono messi nel pentolone e poi la guardia aggiunge l’acqua. Due pacchi di caffè, vengono bolliti con circa 15-20 litri di acqua… una colazione super all’americana! Parecchie guardie vengono affamate in cucina a cucinarsi pizza, grigliate e salsicce… ma non si vergognano? […] L'ispettore superiore crea differenza razziale in modo che ci siano sempre litigi tra di noi. Poi ci sono 6, 7 guardie che come scambio di favore regalano a parecchi detenuti psicofarmaci del tipo rivotril, contromal, e lirika che contengono oppio… L'area sanitaria è compatta con le guardie. […] Mi preoccupa tanto che molti detenuti siano rovinati da psicofarmaci che fuori non avrebbero mai usato. Anche qui a Piacenza ci sono abusi di potere come regime chiuso, cibo brutto e mala sanità. Ѐ la quarta volta che torno a Piacenza. Non hanno piacere di rivedermi, io sto andando contro, rimanendo in cella da solo.

Piacenza, luglio 2021


Lettera dal carcere di Reggio Emilia
Compagni e compagne di OLGa, l’ex Opg è nuovamente pieno. In queste notti ci è stato difficile dormire. I così detti folli si sono impegnati un bel po’ a sbattere e ad urlare. Questo genere di cose ti infrangono il cuore, perché si sa che l’intolleranza dei reclusi verso quei poveri rinchiusi cresce e in maniera egualitaria il trattamento riservato loro da parte dei gendarmi. Metodi equiparabili a quelli delle Gestapo. Arrivano i gendarmi che immobilizzano il soggetto al quale praticamente viene inoculata da una delle TRP una iniezione di DEPO. Farmaco a rilascio lento che li trasforma in zombie. Ho assistito basito più volte a questa tipologia di intervento ritengo sia inaccettabile un trattamento di questo tipo, come ritengo volutamente inconsapevoli di tali eventi sia la direttrice che la comandante ma più che altro il supervisore dell'area psichiatrica. Questo lager odora di tortura e morte.
Dall 11/09/1991 all'interno vi sono verificati più di 230/240 decessi. Alcuni forse per scelta ma altri per mano poliziotta! In due anni e mezzo pur vivendo nel sesto padiglione penale ho potuto constatare di persona l'odio di reprimere la diversità. Questo per decisione dei protettori della legge, i fautori del reinserimento e della medicalizzazione. Secondo il mio punto di vista o l'hanno capita male o è proprio un messaggio che dice: con le bastonate vi trasformeremo in stanche pecore bianche, purtroppo io non mi lego a questa schiera e crew però pecora nera. Episodi del genere non capitano solo alle ex Opg ma riguardano anche reclusi extracomunitari che la logica fascista degli sbirri autorizzati dai boia del dap legalizzano con modalità esemplari per tutti. È anche vero che le guardie scelgono i malcapitati. Insomma, i lager di Stato sono il posto giusto per far lavorare nullafacenti che non sono in grado di pensare e queste sono le guardie. Quando verra il momento dello sgombero totale dichiareremo l'estinzione dello Stato e la morte dei suoi aguzzini.

16 settembre 2021


Lettera dal carcere di Siano (CZ)
Alla ministra della giustizia Dr.ssa Marta Cartabia
All'associazione Ampi Orizzonti CP 10241 20110 Milano
All'Associazione Yairaiha Di Sandra Berardi, via Salita Motta, 9 - 87100 Cosenza
All'Associazione Nessuno Tocchi Caino via di Torre Argentina, 76 - 00186 Roma
Morte annunciata e voluta di un uomo solo perché detenuto.
Oggi è giorno di polemiche, non è giorno di diritti negati non è giorno di scannarsi.
Oggi è il giorno di Michele Carosiello, un ragazzo di 40 anni di Carinola, entrato in carcere a Catanzaro e morto grazie all'incompetenza, all'arroganza e alla strafottenza di alcuni medici di questo carcere.
Come vi ho detto poc'anzi, niente polemiche, voglio commemorarlo spiegandovi l'iter della sua morte, poi sarete voi a giudicare di chi sono le responsabilità e chi sono gli assassini di quest'uomo che lascia una moglie e due figlie.
Michele Carosiello inizia ad avere la febbre e si segna dal medico, spiega il suo problema, qualche aspirina e viene rimandato in cella , 2° giorno, la febbre permane, altra visita medica, la febbre continua, 3° giorno, altra visita medica, 4° giorno altra visita medica, 5° giorno altra visita medica, 6° giorno, altra visita medica, 7° giorno altra visita medica, 8° giorno , altra visita medica, 9° giorno, altra visita medica, 10° giorno, altra visita medica con una soggetta che si spaccia per dottoressa perché gli è stato dato un pezzo di carta che si chiama laurea in medicina, la stessa dice a Michele che per lei lui non ha niente e cosicchè il suo turno scade a mezzanotte, fino a quell'ora si può togliere dalla testa che lo manderà in ospedale.
Michele ritorna in cella e riferisce l'accaduto ai compagni i quali iniziano a protestare, arriva l'ispettore che chiama la dottoressa, la quale risponde che non si piega ai ricatti, l'ispettore chiama il dirigente sanitario, il quale ordina alla dottoressa di ricoverare Michele, due ore dopo Michele è in ospedale, 3 giorni orsono Michele è morto per setticemia.
Mercoledì 25 ho telefonato a casa e ho parlato con mia sorella, la quale lavora in ospedale, (non è una dottoressa) mi ha detto che anche il medico più demente di questo pianeta sa che se la febbre permane per più di 3 giorni vuol dire che c'è un'infezione e la persona deve essere portata in ospedale per accertamenti affinché si accerti da cosa o da quale agente è affetta la persona.
Michele è stato ricoverato 10 giorni dopo e a seguito della protesta dei detenuti e dell'intervento del dirigente sanitario. Non voglio parlare dell'incompetenza di questi soggetti, non voglio parlare della tracotanza, non voglio parlare della strafottenza, non voglio parlare dell'umanità e nè tanto meno del giuramento di Ippocrate.
Oggi commemoro solo un ragazzo morto che la sua famiglia ha avuto il coraggio, l'ardire e l'umanità di portarlo morto sotto il carcere per fargli dare l'ultimo saluto da parte nostra. Ho visto quella bara, ho visto la moglie e ho visto due ragazzine che sono le sue figlie, e in quel momento mi sono rivisto in quella bara.
Che Dio tenga in gloria Michele e punisca i suoi carnefici, perché in questa storia i carnefici ci sono e si conoscono. Onore e pace a Michele Carosiello!

[Seguono le firme di quindici detenuti di Catanzaro]
Luigi Iannaco, via Tre Fontane, 28 - 88100 Siano (Catanzaro)


La salute dei lavoratori interessa ai padroni?
La Confindustria e i governi dopo aver costretto a lavorare fianco a fianco per oltre un anno e mezzo i lavoratori in piena pandemia senza fornire adeguate misure di sicurezza alle lavoratrici e ai lavoratori dispositivi di protezione individuali e collettive sembrano diventati i primi difensori della salute degli operai.
Gli stessi che considerano "normale" che ci siano oltre 1.400 morti sul lavoro (omicidi) decine di migliaia di morti per malattie professionali e invalidi causate dalla mancanza di sicurezza nei luoghi di lavoro sembrano diventati improvvisamente anime candide, delle crocerossine che si preoccupano della salute dei lavoratori.
In realtà ai padroni e ai governi di turno interessa poco che gli operai non si ammalino e muoiano, ma che non s'interrompa la produzione e la ripresa economica, cioè i loro profitti. L'obbligo del Grenn pass per lavorare, pena la sospensione del salario, che impongono, non è perché hanno a cuore la salute dei lavoratori e cittadini ma la produzione, lo sfruttamento che per loro e fonte di profitto.
Per raggiungere i loro obiettivi, i padroni e i governi hanno da sempre usato scienziati, medici di fabbrica sul loro libro paga, pagati lautamente per fare i loro interessi e non certo quello dei lavoratori. Questo si evidenzia ancora di più oggi con il covid19.
La medicina del padrone, del capitale che cura le malattie del lavoratore o sociali è funzionale unicamente al sistema produttivo per il profitto. Per il padrone il lavoratore è una cosa, una merce che può "guastarsi", ammalarsi creando scompensi nel sistema produttivo. Non interrompere la produzione e la ripresa economica è il primo interesse del governo, dei padroni, di tutte le forze politiche parlamentari e dei sindacati confederali. L'ipocrisia del potere si nasconde dietro la maschera della difesa della salute dei lavoratori, quando il loro interesse primario è solo il profitto. I responsabili di migliaia di omicidi sul lavoro, invalidi, malattie professionali oggi si ergono a paladini della salute pubblica imponendo regole e abolendo diritti costituzionali dopo averla distrutta a favore dei privati costringendo tutta la popolazione a fare quello che è interesse dei padroni.
Il covid19 è usato dagli imperialisti/capitalisti di tutto il mondo per portare avanti profonde ristrutturazioni nel sistema produttivo per cercare di contenere la crisi economica ha scapito dei lavoratori e della parte più povera della popolazione.
Oggi assistiamo ad un uso politico della pandemia per colpire i diritti dei lavoratori. Il covid ha oscurato e fatto dimenticare tutte le altre malattie professionali creando a fianco delle vecchie nuove nocività.
Oggi più di ieri i padroni parlano unicamente di covid, di obbligo di Green pass nascondendo le malattie professionali e ambientali degli esseri umani dividendo i proletari e degli animali. In Italia per ischemie, infarti, malattie del cuore e cerebrovascolari muoiono 230mila persone l'anno (630 il giorno), In seconda posizione troviamo i tumori, che causano la morte di 180mila persone (circa 500 ogni giorno). Altre 60 mila persone ogni anno muoiono per l'inquinamento atmosferico, ma queste morti non interessano gli industriali e il governo.
La storia della difesa della salute nei luoghi di lavoro e nel territorio è quella della lotta di classe. Nessun vaccino, nessuna cura può salvaguardare la nostra salute finche non si distrugge il virus più pericoloso di tutti; il sistema capitalista che distrugge gli esseri umani e la natura.

Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio
18 settembre 2021, da comitatodifesasalutessg.com


Lettera dal carcere di Sulmona (AQ)
Carissimi compagni, ho ricevuto vostre notizie insieme all'opuscolo 148 e anche il libro, come sempre vi ringrazio di cuore per la vostra vicinanza e il sostegno che manifestate a tutti quelli che si trovano nelle sofferenze come ai prigionieri che lottano contro le ingiustizie e per un mondo di uomini liberi, perché le galere sono posti di sofferenza, per quanto aperta può essere. Non si sta mai bene, una condizione in cui non ci si può “abituare” senza perdere la dignità e il senso della misura che deve essere la vita di un uomo nelle condizioni in cui si può essere umani.
Il carcere è cancerogeno per tutti quelli che sono obbligati a viverci perchè come si può pensare di garantire la sicurezza sociale non facendo vedere il cielo, le stelle e la luna, o poter dare un abbraccio ai propri famigliari, ai detenuti sottoposti al regime di tortura del 41bis?
Chiamateli come vi pare, i funzionari rieducativi si sentono così buoni che possono picchiare e distruggere cuore e anime di persone che hanno trasgredito le regole, ma bisogna chiedersi: chi decide – e come – le regole di questa società? Dicono che il carcere aiuta a riscattarsi e a reinserirsi nella società, ma veramente questa società è così virtuosa, dispensatrice di valori così elevati e di relazioni così egualitarie da raccomandare di integrarsi al suo interno?
Oggi viviamo tempi difficili e incerti, dentro le carceri, come fuori, per questa pandemia, un nuovo nemico globale che tocca tutti, e si porta via tanta gente, e allo stesso tempo essere inconsapevole veicolo di sofferenze e di paura, e di grande incertezza. E tutto questo avrà delle ripercussioni sulla vita delle persone – la salute è una merce, come ogni cosa ormai. Le piaghe mortali, o come chiamiamo pandemia - nella storia umana hanno colpito sempre la gente più sofferente e povera - ci dicono andrà tutto bene? Che significa? che tutto tornerà come prima?
Penso che per tutti la cosa più importante è vincere le nostre battaglie quotidiane per il nostro bene e la libertà di tutti.
Vi invio cari saluti a tutti e vi auguro tanto bene. Antonino.

22 agosto 2021
Antonino Faro, P.le Vittime del Dovere - 67039 L'Aquila


Lettera dal carcere di Ascoli Piceno
Mi ricordavo di Ascoli piceno dove fino all’anno 1988 c’erano molti compagni rivoluzionari. Chi avrebbe pensato oggi di trovarmi io e di scrivervi dell’ex carcere speciale di Ascoli Piceno? Per voci sentite da altri prigionieri nel reparto dove mi trovo per osservazione covid, molti anni addietro questo reparto era adibito come 41 bis. E sembrerebbe che ritornerà ad essere adibita a primo e secondo piano come 41 bis. AS1, AS3 già ci sono. Da quanto mi è stato detto entro gennaio 2022 tutti i detenuti verrerano allocati in altri istituti perché qui verrà fatta tutta alta sicurezza. Non è detto che non venga fatto un AS2.
Io al momento sto continuando a girare carceri, dal 2018 ne ho girate 5. Lucca, La Spezia, Agrigento, Vicenza e Ascoli Piceno un trasferimento ogni sei mesi e non riesco a comprendere quale è il motivo di questi trasferimenti che probabilmente son dovuti per sicurezza e ordine esterno ed interno degli istituti, oppure se oltre questo è dovuto per altre ragioni, ragioni affinché i compagni e fuori non sappiano dove posso trovarmi. Non ho più ricevuto posta da più di quattro mesi nonostante che io scriva. Qualcuno dall’ufficio comando di Vicenza dicevano che ero un detenuto un po’ particolare. A volte venivo accompagnato a passeggio, non sempre.
Ho potuto leggere su ampi orizzonti n. 145 novembre 2020 a pagina 16, antimafia DAP e governo: una sola cosa. Si dice che il ministro della giustizia Bonafede aveva scelto un nuovo capo DAP cioè Dino Petralia che venne affiancato nel ruolo di vicecapo ex PM Roberto Tartaglia. Non c’è da stupirci almeno io che si è venuta ad organizzare un gemellaggio di assassini legalizzati tra antimafia, DAP e governo e soprattutto con le complicità di varie procure che hanno insabbiato quanto è successo dopo le rivolte per non parlare dei signori magistrati di sorveglianza. Tutta questa merda che ancora hanno parola libera nel dire di inaugurare una fase all’insegna del pugno di ferro e del “buttare via la chiave” qui ci troviamo di fronte una banda di assassini organizzati che forse se tutto questo fosse successo 40 anni fa le cose sarebbero state ben diverse. Spero che quanto è avvenuto non venga dimenticato ne venga buttato in sordina .

Mauro Rossetti Busa, via dei Meli, 218 - 63100 Marino del Tronto (AP)

In una lettera del 5 settembre Mauro ci aveva scritto dal carcere di Vicenza che:
[...] dal giorno 3 settembre ho iniziato lo sciopero della fame. Il motivo di questa mia iniziativa è al fine di ottenere l’avvicinamento a casa per effettuare i colloqui con gli unici famigliari cioè con mia sorella e con due miei fratelli che non li vedo dal 2018. Purtroppo avendo problemi di salute questo sciopero è facile che mi porterà dei problemi e quindi l’ho messo in conto. Più volte avevo inoltrato istanze ma continuavano a respingerle, cioè prima per motivi di inopportunità; secondo per motivi di sicurezza dell’istituto. Ora non faccio più istanze. Vengo pesato tutti i giorni, preso la pressione e stamattina sono stato pesato e pesavo 62 e mezzo. Quando ho iniziato pesavo 64. Se non terranno in considerazione questa mia richiesta sono disposto anche a fare lo sciopero della sete e del salva-vita che prendo.
E in una successiva del 19 settembre ci informava che il giorno 9 aveva interrotto lo sciopero della fame, con un peso di 59 chili. Lo sciopero della fame era motivato dalla richiesta di essere avvicinato in un carcere della Toscana per effettuare il colloquio con la sua famiglia che vede dal 2018 ma nessuno della direzione ha pensato di chiamarlo.


Da una lettera dal carcere di Nuoro
Seguono stralci di una lettera datata 26 ottobre e arrivata con notevole ritardo alla Cassa AntiRepressione delle Alpi occidentali.

Qua c'è un tunisino che avevo conosciuto ad Uta, e che fu trattato di merda dai secondini... tra pestaggi e idranti si passò una buona parte dell'estate tra la sezione chiusa (dove ero anche io) e molto isolamento, e più di una volta fu portato pure in ospedale. La sua odissea in quel di Uta durò un bel po' di tempo finché non fu trasferito a Sassari.
Da quasi 10 giorni è in sciopero della fame, si è procurato dei tagli ed oggi ho saputo che si è cucito la bocca... tutto questo perché non lo vogliono trasferire in un carcere in Italia, per poter fare colloqui (de visu) con i figli che non vede dal 2017 (se non erro).
Ha sempre combattuto dentro le carceri, non ha mai abbassato la testa... in una delle mie note che uscivano da Uta, io lo chiamavo Mohamed... vedete voi di fare sapere in giro il tutto...


Lettera dal carcere di Genova-MARASSI
Ciao carissimi compagni e compagne, sono Rosario. Vi scrivo per un grosso grazie... Mi avete sollevato un po’ dalla mia situazione in cui ero messo. Gli abiti sono passati tutti, tranne le tre felpe con il cappuccio perché qui come al solito stanno ancora all’età della pietra, mentre in altri istituti li fanno passare. Io non so come mai questo carcere ha tante anomalie. Comunque vi ringrazio ancora. Forse la morsa della pandemia qui non si è ancora allentata e ovviamente ci sono delle disposizioni a noi sconosciute ma basta poco a comprendere come affermate pure voi sull’opuscolo “cambiamenti in carcere” dall’inizio della pandemia, cioè: restrizione dei colloqui visivi, della posta, vaglia, colloqui con organi interni, e quant’altro. Alcuni carceri si può dire che mano mano stanno ritornando alla normalità, ma qui a Marassi è ancora un casino specialmente per chi come me è tenuto sotto stretta sorveglianza. Sono due anni che combatto per ritornare verso il Meridione o al Sud verso la Campania, ma dalle istanze fatte, oltre 5-6, non ho avuto né una risposta negativa né positiva e per questo sto sempre in difficoltà e meno male che ho avuto il vostro recapito da un compagno se no sarebbe stata ancora più dura.
Mi rafforza solo il fatto che sono riuscito ad avere un cubicolo perché nei cameroni con 5-6 non se ne può più, ci si influenza troppo, non sei compreso come è giusto che sia, spesso ci sono prevaricazioni, risse, prepotenze e si rischia per un non nulla di fare a botte. Almeno da solo la situazione è più gestibile anche se è snervante, ma mi dedico alla lettura, alla corrispondenza per cui cerco di farmi passare la giornata. Ho appreso dall’opuscolo, che poc’anzi ho menzionato, il mio tragitto: Salerno, Ariano Irpino, La Spezia, San Remo e sono due anni che sono rimasto bloccato qui a Marassi. L’unica cosa che è andata in porto è che mi hanno portato al centro clinico di Pisa, al reparto di oncologia per degli accertamenti che parzialmente sono risultati positivi a furia di sintomi al pancreas e allo stomaco ma dovrei fare altri accertamenti per vedere se la cosa è stabile o va aggravandosi, già ho altri acciacchi che rispetto a questi sono poca cosa. Purtroppo le cose vanno a rilento, anche se mi sono rivolto al garante dei detenuti regionale e a quello nazionale. Il mio avvocato sta impazzendo perché neanche lui riesce a tirarmi giù al Sud perchè ho dei processi da fare ma me li rinviano congelandomi la prescrizione. Non solo si sta in carcere ma si sta anche male specialmente qui dove sto avendo più permanenza di altri istituti dove sono stato e le problematiche interne vanno sempre più verso il peggioramento. Non si riesce a fare un colloquio con il direttore né tanto meno con il comandante, è una vera e propria impresa per chi ci riesce. Mi tocca lottare di continuo nel vero senso della parola di noi compagni, lotta continua lotta continua, ma qui siamo solo in tre persone a fare questa forma di lotta perché agli altri poco importa, hanno delle pene basse e sperano nella pena alternativa. Non gli si può dare neanche torto anche se il tribunale di sorveglianza di Genova concede poco e niente. Ci sono persone con un anno da fare e gli hanno rigettato ogni forma di pena alternativa eppure da programmi televisivi e affermazioni di alcuni quotidiani si parla di reinserimento, di migliorare queste poche cose che ci permetterebbero di tornare liberi e ai nostri cari, ma non vengono applicati né concesse dai magistrati di sorveglianza. Quindi come si può credere che un giudice è imparziale e equo, non dico per chi ha un curriculum di tendenza alla delinquenza ma almeno per quelle persone che hanno saggiato il carcere per una due volte al massimo tre. Ripeto, c’è solo inasprimento e abbiamo e stiamo regalando tutt’ora un introito di milioni di euro alle istituzioni che si ringalluzziscono sulla nostra pelle.
Mi aggrego anche io alle persone di cui ho letto sugli opuscoli che dicono che la vostra è davvero una voce che arriva da dentro e solo chi ha vissuto il carcere può comprovare le cose vere che si raccontano su un luogo come questo. Io lo chiamo il pianeta delle scimmie perché se la scimmia si è rivoltata contro l’essere umano, essendo anche lei quasi un essere umano, è solo perché è stato contaminato il suo habitat naturale.
Quindi è davvero importante che qualcuno ci creda e ci dia quel senso di giustizia anche con due righe pubblicate sui vostri opuscoli che sicuramente leggono non solo i detenuti ma anche persone che fanno parte di questo sistema malato e marcio come un albero da frutto, perché non è solo il frutto che è marcio, come dice un compagno, ma è l’albero che dà frutti marci.
Bene cari compagni e care compagne mi avvio a concludere. Davvero un grazie dal cuore non solo per quello che pubblicate ma per il sostegno. So che è un lavoro lento, laborioso e legato a un vero atto di solidarietà e umanità cosa che qui si sta spegnendo anche nelle varie forme di volontariato. Perché almeno qui a Marassi ci sono due grandi associazioni ONLUS: la Misericordia e la Comunità di Sant’Egidio che a Pasqua e a Natale ci portano la colomba e il panettone. Ma non è questo che vogliamo. Vogliamo che pure loro si uniscano a voi per portar aventi una vera missione. Con questo non discrimino quello che fanno ma potrebbero fare di più se non ci fosse quella promiscuità che è velata da una forma di tu mi dai una cosa a me ed io do una cosa a te. Non è così che funziona. Chi ha un animo buono lotta con chi è in difficoltà e lotta non solo per una morale ma per una libertà di pensiero, non dico libertà materiale perché quella la riconquisteremo da soli e con pazienza. Un caro abbraccio, a presto. Rosario.

22 ottobre 2021
Rosario Mazzone, P.le Marassi, 2 - 16139 Genova


Presidio al Distretto sanitario di Udine
Giovedì 11 novembre, dalle 8.30, saremo ancora una volta fuori dal Distretto sanitario di Udine per informare utenti, pazienti e passanti che in quella struttura i funzionari e le autorità promuovono i trattamenti egli abusi che, nel carcere di questa città, negli ultimi anni hanno portato sofferenza, abbandono, disperazione… e, ultimamente, alla morte deldetenuto Ziad Kritz, di soli 22 anni, avvenuta per azioni e sceltedeliberate – che lo stesso garante Corleone ha definito pubblicamente «discutibili».
Saremo in strada, fuori dal Distretto sanitario, perché quella mattina due nostr* compagn* avranno l’udienza al processo intentato dallo Stato con l’accusa di istigazione a delinquere e diffamazione nei confronti difunzionari pubblici: ovvero i responsabili della gestione sanitaria (scellerata) del carcere di Udine.
In altre parole, pare che la Digos e la procura di Udine vogliano farci pesare penalmente ogni nostra parola che, superando la sterile libertà di indignarsi, rivendichi la libertà dil ottare. E così, tanto per fare degli esempi dei nostri capi di accusa, affermare che è giusto colpire con l’azione diretta chi (veramente) istiga al razzismo e alla guerra tra poveri, come la Lega, diventa istigazione a delinquere. Dire che la malasanità in carcere è tortura e dunque denunciare come torturatori i medici che se ne fregano dei/delle detenut*, diventa diffamazione. La farsa giudiziaria nasconde impercettibilmente una violenza sottile ma precisa. Contrariamente a quanto ritengono alcuni, indossare un’uniforme o utilizzare un distintivo non sono atteggiamenti professionali, come se si trattasse di un indumento o un utensile di lavoro. Attraverso essi viene perseguito l’obbiettivo di esprimere la legittimità di una funzione. Quale? Individuare gesti di ostilità, resistenza, refrattarietà al patriarcato eal capitale, inserirli nella logica del diritto penale per screditarli, sminuirli, trasformarli in banali comportamenti personali diretti contro altre persone (i funzionari), per oscurare le reali condizioni sociali e per consolidare i rapporti di dominazione.
Sabato 13 novembre, dalle h 8.30, contesteremo garanti, direttori di carcere, funzionari dell’amministrazione penitenziaria, magistrati, preti, scienziati sociali, esponenti del terzo settore,… in convegno presso la sala Ajace di Palazzo D’Aronco, sede municipale cittadina. Saremo là, perché non diamo nessun credito alla capacità delle istituzioni di assumersi la responsabilità collettiva dei problemi causati da privilegi e differenze strutturali di questa società, problemi per i quali i reietti sono rinchiusi dietro le sbarre, così da fare sparire tali problemi dallo sguardo di chi invece, in virtù delle decisioni del sistema giudiziario, può vivere fuori dalle mura. Queste iniziative possono concorrere aprodurre solo nuove figure di operatori penitenziari, del tutto ideologiche, mettendo al riparo i dipendenti pubblici dalle loro concretere sponsabilità.

Assemblea permanente contro il carcere e la repressione (liberetutti@autistiche.org)
Recapito postale: c.p. 129 – 34121 TRIESTE


Lettera dal carcere di Vibo Valentia
Saludi Kumpanjus de OLGA! Da quando sono in questo carcere il vostro opuscolo non mi è MAI arrivato, se fosse stato “trattenuto” mi avrebbero fatto il verbale come è accaduto con altri. Quindi se mi spedite il n° che uscirà, mi avviserete con una cartolina a parte e vedremo, così avremo più certezza, che ne dite, vi sta bene? E che cavolo, è ormai 12 anni che lo ricevo (abusi che mi fecero altrove a parte) vorrei capire meglio.
Sarebbe molto interessante se si riuscisse a legare la lotta contro il carcere con il movimento operaio e la loro lotta, avvertita negli ultimi tempi abbastanza determinata, dalle mobilitazioni contro il dislocamento dei lavoratori all'agitazione dei portuali e a quelli della logistica, almeno per quanto sono riuscito a sapere. Tra l'altro una lotta non esclude l'altra e l'impegno per ottenere la responsabilità personale tramite la reciproca solidarietà, forse questa premessa servirebbe a risvegliare un po' di autodisciplina, forse questa riuscirebbe come forma di autodeterminazione, al contrario invece di certe assemblee prive di capacità di assemblare…
Con sincero affetto! Con interminabile rivalsa! Un grande abbraccio a tutta OLGA! Auguriamoci Buona Forza e Buona Lotta! Sempri Ainnantes! Davide.

Galera di Vibo, 27 ottobre 2021
Davide Delogu, Contrada Cocari - 89900 Vibo Valentia
Lettera dal carcere di Pavia
Con questa mia voglio farle capire questo carcere come funziona e quanto non è funzionale ma tortura le persone come animali.
In data 04/11/21 emettevo, nei confronti del capo educatori della C.C. di Pavia una diffida a 10 giorni, per rilasciarmi il numero di protocollo dell'istanza di liberazione anticipata avanzata in data 23/7/21, non avendolo mai ottenuto nonostante le miriadi di richieste. Alchè l'8/11/21 venni convocato dall'educatrice che mi “segue”, la dott.sa Prestia Letizia, dove finalmente mi consegnava il numero di protocollo della mia istanza, approfittai di questa rara occasione per ottenere alcune risposte in merito alla mia situazione attuale. Le chiesi nell'immediato come mai dopo 2 anni in questo istituto non avesse fatto un progetto trattamentale sulla mia persona, chiesto anche dalle Comunità/Case Famiglia per ottenere un beneficio come l'affidamento ai servizi sociali. La dottoressa rimase senza nulla da dire e cercò di sviare il discorso non dandomi di fatto alcuna risposta. Alchè chiesi alla stessa se poteva formulare una richiesta di articolo 21 motivandola con validi motivi come: dopo 9 anni e 1 nese, mancandomi 11 mesi al fine pena, mi serve un avvicinamento al lavoro e alla società così da non essere completamente disorientato alla scarcerazione.
La dottoressa, se così si può chiamare, incominciò a dire: dire “Non sò, ora vediamo, devo parlarne con l'equipe”, ma è difficile. Incominciai a chiedere il perchè fosse difficile nel mio caso, essendo ormai prossimo alla scarcerazione. Di fatto non diede motivazione, ma insisteva che ne doveva parlare con l'equipe.
Capii e le dissi “non volete aiutarmi come non mi avete aiutato in precedenza con l'affidamento ai servizi sociali, che me lo avete fatto bocciare”. Lei mi rispose: “non sono stata io”, sostenendo che l'intera equipe si era basata sulle dichiarazioni dell'esperto criminologo 47O.P. di cui lei si fida molto. Ove venivo descritto come uno 'psicopatico/socialpatico', alchè le dissi: “sono stato considerato in questi termini da voi, peccato che vi sono 7 referti psichiatrici e psicologici che vi smentiscono”, inoltre avete detto che sono “un buon manipolatore, ma senza provarlo e mi avete persino collegato ad associazioni andranghetiste senza prove”.
Inoltre vi è una perizia del criminologo e psicologo di parte che dice l'esatto opposto dell'esperto 47 O,P., mi rispose : “ma quest'ultima perizia è di parte e non dico altro”, mandando ad intendere che il mio perito mentiva.
Le portai alla luce anche altre problematiche, quali le ubicazioni delle celle per omosessuali che ancora vengono collocati con eterosessuali, mettendoli di fatto a rischio di incolumità personale, che né il direttore né il comandante vogliono parlare con i detenuti, che i dottori ti segni per giorni e giorni, ma mai ti chiamano, che gli ispettori, i capoposti, i brigadieri ti chiamano ma non risolvono le problematiche scocciandosi e rimandando i detenuti in cella, 2/3 settimane fa un detenuto dell'11a sezione è morto impiccandosi e nessuno ha fatto niente, sapendo che già 1 ora prima ci aveva provato.
Dopo 2 ore di colloquio con la stessa che rimaneva sempre senza parole o scaricando le responsabilità su terzi, lei concluse il colloquio dicendo “ora devo andare, tanto non serve a nulla continuare a parlarne” e no dottoressa le dissi, “è servito perchè ora so che non mi volete aiutare anche se la legge lo prevede ed è un mio diritto, se si va contro il criminologo voi non aiutate le persone”.
Non rispose ed alzò lo sguardo. Quanta omertà. Cara OLGA come vedi, ancora persistono nelle loro violenze psicologiche. Almeno lo sapete.

Nicolas Papandrea, via Vigentina 85 - 27100 Pavia
Pandemia, vaccini, green pass
L’introduzione del green pass e le restrizioni che l’inottemperanza a questo obbligo comporta, ha portato nelle piazze di tante città migliaia e migliaia di persone. Anche i porti di Trieste, Genova e Napoli sono stati bloccati in diverse occasioni dai lavoratori portuali con il sostegno della piazza, specialmente a Trieste, dove all’inizio di novembre il blocco del porto è stato rimosso con le cariche della polizia che ha utilizzato gli idranti. Anche a Napoli le manifestazioni contro il green pass si sono intercciate con le istanze di lotta dei disoccupati organizzati e di spezzoni del mondo operaio, anch’essi mobilitati per contrastare gli effetti della ristrutturazione in corso: licenziamenti, repressione delle lotte, privatizzazioni, aumento dei prezzi tra cui luce e gas.
Gli ultimi mesi hanno visto il rapido evolvere della legislazione di emergenza e dei dispositivi di coercizione e disciplinamento sociale (di cui il green pass ne è l’emblema) ma anche dell’intensità del conflitto sociale quantomeno in termini di partecipazione alle manifestazioni e generalizzazione di queste sul territorio nazionale e non. Rinunciando per ora a ricostruire quanto accaduto, riportiamo in questo numero dell’opuscolo una breve rassegna di scritti che speriamo possano aiutare a farsi un quadro di insieme. Il primo di questi è il testo di indizione di un’assemblea che si è tenuta a Ravenna a inizio ottobre che scegliamo a mo’ di introduzione.

Se la cocente sconfitta dell'imperialismo USA e dei suoi “soci di minoranza” (Italia compresa) in Afghanistan ci ha ricordato l'esistenza di un “fronte esterno”, l'esplosione del Covid, innestata a una situazione di crisi precedente, ha fornito una ghiotta occasione alle classi dominanti e ai suoi esecutivi per inasprire le politiche di ristrutturazione sociale e del mondo del lavoro sul “fronte interno”.
E così, legislatura dopo legislatura, ci siamo ritrovati di fronte a una restrizione sempre più marcata degli spazi di libertà sociali, sindacali e politici.
Le recenti misure, dietro il pretesto di contenimento del COVID, sono il condensato della filosofia che ha ispirato le politiche neo-liberiste di questi anni. Proprio nello smantellamento progressivo della sanità pubblica ha trovato uno dei suoi punti cardine, rivelando, di fronte alla pandemia, tutta la sua fragilità e inadeguatezza con esiti drammatici.
Questa è la sintesi di ciò che è avvenuto in uno spazio di tempo relativamente breve a ridosso e dopo il COVID: il decreto Salvini, i disegni in discussione di nuove leggi anti-sciopero, l'utilizzo di agenzie private di squadre di picchiatori contro i lavoratori in sciopero (vedi la logistica). Parallelamente un controllo sociale sempre più stretto e invasivo, anche in previsione di un impoverimento di settori significativi di ceto medio e la crescita esponenziale di essere umani considerati “inutili”, destinati a vivere nel sistema dell'incertezza, senza alcuna prospettiva se non quella di dormire sotto i ponti, nutrirsi alla Caritas o vivere di espedienti in una società blindata.
Un controllo che passa attraverso una presenza sempre più massiccia di militari e poliziotti nelle strade, telecamere ovunque, coprifuoco, i droni sulle spiagge, sanzioni amministrative, dispositivi elettronici, GPS, badges, un generale della NATO a capo dell'emergenza sanitaria, digitalizzazione dei documenti, la riforma della giustizia e, da ultimo, il “green pass”, il cui campo di applicazione ora viene esteso anche sui luoghi di lavoro con il sostegno di Confindustria. Strumento di ricatto, di divisione e contrapposizione fra i lavoratori.
In questo contesto non possiamo che sentirci distanti e contrari da/a tutta quella sinistra, anche antagonista, che di fronte a provvedimenti come il lasciapassare verde e l'obbligo vaccinale cerca goffamente di giustificarli nascondendosi dietro il paravento della “neutralità della scienza” e, peggio ancora, delle “esigenze generali della società”. Quella capitalistica per intenderci. Non vedendo, o facendo finta di non vedere, che misure simili sono parte integrante di una svolta epocale voluta dal capitale all'attacco, non solo dei lavoratori, ma anche all'umanità intera ed al pianeta nel tentativo di plasmare/rapinare/sfruttare ulteriormente, ridurre la vita a mera merce.
Niente a che vedere con pericolose e sospette fantasie di alcuni settori su presunti complotti sanitari di “capitalisti cattivi” o “giudaico-massonici”. Per essere chiari: il “complotto” è il capitalismo stesso nella sua forma moderna che si sovrappone agli stati e controlla le organizzazioni mondiali.
La portata di questo attacco, che ha radici ultra-decennali, rivela la quota di investimenti “pubblici” destinata a sostenere piani di regolamentazione, che non mostra segni di diminuzione ma è destinata a fini differenti: i costi sono dirottati dal “prendersi cura” al “controllare e reprimere”, dallo “Stato che assiste” allo “Stato che incatena”. Tutto questo ci pone di fronte a un salto di qualità che trova negli Stati imperialisti, al servizio del capitale multinazionale, il braccio esecutore per imporre questi nuovi assetti di “ingegneria sociale”. Assetti che ci espongono al baratro di un cammino irreversibile, per ora solo intuito o inesplorato, che espone l'intera umanità a rischi e pericoli spaventosi. Il nostro problema è di come impedire che questo progetto sia attuato, e questo configurerà l'agenda politica di tutti i rivoluzionari nel prossimo futuro. Altrimenti potrebbe non esserci più un futuro da forgiare perché non ci saranno più esseri umani in grado di farlo.
A partire da questi presupposti proponiamo un momento di confronto collettivo su queste tematiche con il fine non solo di fare una “chiacchierata” sui destini del mondo ma cercando di individuare, fin da subito, possibili terreni di azione comune per la costruzione di un ampio movimento contro le manovre liberticide, un movimento che si qualifichi per le lotte per una sanità pubblica territoriale che sia anche di prevenzione, attenzione nella cura delle persone e ripristino dei territori ed ambiente, che dice no alle privatizzazioni e ai tagli; che di no alla nocività e ai licenziamenti sui posti di lavoro.
Superando questa dicotomia artificiosa “novax-sivax” di chi vorrebbe creare contrapposizioni partendo da una presa di posizione netta e chiara contro il “green pass” per quello che è realmente e per quello che rappresenta.

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Dalla piazza nogreenpass di Milano
L’introduzione del green pass, reso gradualmente obbligatorio per chiunque, dal 15 ottobre anche in tutti i luoghi di lavoro, si inserisce in un percorso già ben avviato di condizionamento dei comportamenti inteso a garantire obbedienza, divisione e rinuncia. Un mezzo adatto per garantire la stabilità di quella che non è certo esagerato definire come una vera e propria dittatura dei padroni per la quale Draghi è l’“uomo della provvidenza” che occorreva. L’unica “partecipazione” contemplata per i cittadini-sudditi è il sostegno attivo alle necessità e agli imperativi dello Stato e dei padroni, si tratti della campagna vaccinale, della produttività o del controllo-delazione nei confronti di chi non ci sta. Ormai abituati a obbedire delegando, non è facile ri-trovare la forza e l’autonomia per ri-alzare la testa.
Ma qualcosa sta succedendo. Da sabato 24 luglio hanno preso il via, in tante città, le manifestazioni contro il green pass. Le piazze si riempiono e contestano non solo l’obbligatorietà della certificazione lasciapassare, ma anche la divisione tra chi, per varie ragioni, ha deciso di vaccinarsi e chi no. Il divide et impera, così funzionale ai governi degli Stati, è svelato e respinto camminando nei cortei che, ogni sabato, da ormai diciassette settimane (13 novembre), sfilano nelle strade. Gli interessi giganteschi delle multinazionali del farmaco, che stanno compiendo una ulteriore e dilagante avanzata con la terza dose, sono talmente chiari, nella loro insaziabilità, da non necessitare di lunghe spiegazioni. Come ben riassume un cartello portato da un manifestante, “I bonifici superano il rischio”. Una considerazione che varrà anche per i bambini ormai avviati verso questo, per loro, ulteriore vaccino.
Non ovunque si svolgono queste manifestazioni e non hanno sempre caratteristiche simili, né nei numeri né nella composizione. A Milano, una delle piazze che insieme a quella di Trieste sembra essere tra le più interessanti, il numero dei partecipanti è sempre molto alto, diecimila è quasi la costante. Un aspetto quantitativo da prendere in considerazione in quanto rappresenta una rottura con il recente passato che raramente ha visto manifestazioni di tale consistenza. La domanda sorge spontanea “ma dov’era fino all’altro giorno tutta questa gente?” o “come mai è uscita di casa proprio ora?”. Le risposte sono solo ipotesi, ovviamente, ma parlando ai cortei con chi si incontra risulta piuttosto evidente che l’obbligo di green pass, esteso a ogni ambito della vita, dal lavoro alla scuola, dalla “sanità” allo svago, ha colpito nel vivo dei corpi e dello spirito e che questo colpo è stato considerato veramente troppo, non accettabile. Finalmente. La mercificazione di ogni momento della vita ha da tempo ridotto l’insieme delle attività umane a occasione di profitto e a suo strumento. Lo spazio per decidere in proprio come vivere, come curarsi, e anche ‒ perché no? ‒ come divertirsi, si riduce sempre più, fino ad annullarsi. E il green pass ha dato un’impressionante e funzionale accelerazione al processo già in corso. I cartelli e gli interventi improvvisati da megafoni, non da palchi con grossi impianti, si esprimono contro le discriminazioni e l’esclusione sociale, contro il ricatto e il dividi et impera, accusano i sindacati che non stanno dalla parte dei lavoratori e i giornalisti tutti schierati dalla parte di chi decide. Alcuni cartelli riportano scritti del genere: “Tu obbedisci perché finisca ma finché obbedisci non finirà mai”, l’immancabile “L’art. 3 il mio greenpass”, “Quando la legge è criminale resistere diventa un dovere”. Libertà di scegliere è il riferimento più ripetuto. Gli slogan attaccano Draghi, giornalisti e virologi ufficiali. Il potere dei banchieri, come Draghi, è sotto accusa. I partecipanti ai cortei di Milano sono, o almeno non sembrano, eterodiretti. Ci sono i cosiddetti sinceri democratici, certamente i complottisti, i cattolici, i no vax e certo i fascisti di diverse gradazioni che però non si palesano apertamente. In particolare nelle prime settimane, l’eterogeneo mondo dei cortei milanesi esprime una voglia, molto vivace e allegra, di stare in strada, di camminare per chilometri e chilometri riprendendosi, per qualche ora e “tutti insieme”, la città. Si oppone alle restrizioni o ai presunti accordi di qualche fantomatico comitato deviando dai percorsi prestabiliti, scavalcando e lascandosi alle spalle chi cerca di farli rispettare comandando con megafoni la testa del corteo. Si può dire che lo spirito di questi cortei permane dall’inizio, per ora, ed è quello di non voler chiedere permessi, di non volere capi o capetti. I momenti più frizzanti non mancano, quando non si accetta di essere bloccati dalla polizia o di dover sciogliere la manifestazione, che infatti dura ore e ore. Le forze dell’ordine, pur nell’evidente imbarazzo nell’aver a che fare con “gente comune”, colpiscono nel mucchio, vorrebbero poter dire di aver fermato o arrestato qualche vecchia conoscenza per utilizzare la solita pratica: dividere tra buoni e cattivi partecipanti e intimorire con lo spauracchio di presenze violente. Il pacchetto di accuse pare predisposto, uguale per tutti: manifestazione non autorizzata, istigazione a disobbedire alle leggi e, quando riescono, resistenza, tutti aggravati, perché si è in tanti. Qualche condanna è già fioccata e i denunciati sono centinaia.
Il mondo del lavoro e della scuola, inteso nelle organizzazioni di riferimento, è presente in numeri scarsi, gli universitari ci sono con il loro striscione. Non è caratterizzato da una forte presenze di lavoratori in lotta a parte per la presenza del Solcobas o di alcuni lavoratori della scuola e neppure da gruppi di attivisti in lotte specifiche. Le urla “libertà, libertà” non si capisce se alludano a un orizzonte che comprenda tutti, per esempio gli emigranti che ci vivono a fianco e che in questi cortei si vedono poco. Probabilmente non li sentono loro, oltre alla difficoltà derivante dall’essere troppo spesso privi di un altro lascia passare, il documento per restare in questo paese. Non si comprende dove andranno a finire questi cortei del sabato e se basterebbe la fine del green pass per vederli sparire. Contenuti che collegano il no green pass ad altro, lavoro, scuola, disastro sanitario ecc, compaiono nei cartelli o in interventi sparsi ai megafoni. Ma non è semplice ipotizzare se riusciranno a dare forza propulsiva per continuare anche in quelle direzioni. L’avversione per il governo è marcata e non c’è segno di simpatia per partiti o altro genere di organizzazioni politiche. Fascisti di partito o diversamente organizzati si vedono, ma non con una conclamata presenza. La questione è che questi oceanici cortei esistono, proseguono, hanno caratteristiche particolari che sfuggono per ora al controllo sia di chi li vorrebbe guidare sia di chi li vorrebbe vedere finiti.
Ora con gli ultimi provvedimenti diventa clamorosamente chiaro che è vietato dissentire - sabato 13 novembre a Milano, abbiamo visto le camionette della celere salire sulla pavimentazione davanti al Duomo con uomini in divisa, schierati, incordonati che tentavano goffamente di accerchiare i manifestanti senza poterli distinguere dai passanti. Rincorrevano a caso chiunque potessero riuscire a prendere. Centri storici vietati, manifestazioni statiche, niente cortei, sindaci che possono decidere se obbligare i partecipanti all’uso della mascherina e al distanziamento anche all’aperto. Un grave passo verso il divieto di contestare che, come è sempre accaduto, passando dai “nogreenpass” interesserà presto tutte le forme di lotta e opposizione. (Milano, novembre 2021)

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Come nel più prevedibile dei copioni di teatro, dopo aver sapientemente preparato il terreno per un paio di mesi, il cerchio si chiude e il governo Draghi-Lamorgese porta l’affondo finale: nell’Italia della ripresa-resilienza sarà vietato manifestare. L’esito è stato preparato attraverso diverse tappe. La prima avviene il 9 ottobre, quando una “sconsiderata” gestione dell’ordine pubblico a Roma permette un assalto di gruppi neofascisti alla sede nazionale della Cgil, dopo averlo annunciato due ore prima dal palco di Piazza del Popolo. La seconda avviene in vista del G20 del 30-31 ottobre, quando si costruisce una campagna di stampa di tre settimane su allarmi inesistenti in riferimento alle manifestazioni dei movimenti sociali, che portano esercito per strada e cecchini sui tetti a fronteggiare nientepopodimeno che la giovane generazione ecologista dei Fridays For Future. Naturalmente la buona riuscita delle mobilitazioni viene attribuita al Ministero dell’Interno che ha “impedito” alle stesse di produrre disagi all’ordine pubblico.
Serve la goccia per far traboccare il vaso: ed ecco l’annuncio di un possibile cluster di contagiati dovuto alla ripetute manifestazioni No Green Pass nella città di Trieste e la presa di posizione del Sindaco della città, il quale, senza nessun senso delle proporzioni e del ridicolo, richiede a gran voce l’adozione di leggi speciali “come ai tempi delle Brigate Rosse”. Il pranzo è servito e il governo Draghi – non contento di aver imposto un Parlamento embedded, totalmente allineato alle sue scelte politiche sul post pandemia – prova a risolvere anche l’altro polo del problema, rappresentato dal conflitto sociale. Ed ecco il nuovo pacchetto di provvedimenti annunciato sugli organi di stampa dalla Ministra Lamorgese, la quale, naturalmente non disconosce il diritto a manifestare (art. 21 della Costituzione), ma lo colloca dopo il “diritto” dei cittadini a non partecipare ai cortei (come se fosse obbligatorio) e dopo il “diritto” dei commercianti a poter trarre gli usuali benefici dallo shopping festivo e, ancor più, natalizio prossimo venturo. Saranno vietati i cortei nei centri storici delle città, in tutte le vie dei negozi e in prossimità dei punti sensibili. E, come se non bastasse, laddove non ci siano “particolari esigenze e garanzie” – chi le stabilisce? – saranno vietati i cortei in quanto tali e permesse solo manifestazioni statiche e sit-in. Il quadro è sufficientemente chiaro. La pandemia ha messo in evidenza tutte le contraddizioni e la generale insostenibilità di un modello di società basato sull’economia del profitto. Il governo Draghi si è imposto il compito di proseguire con quel modello costi quel che costi. Ed ecco allora un Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza tutto rivolto ad accontentare le imprese e a mortificare il lavoro e i suoi diritti; una politica fiscale volta a liberare i ceti abbienti dalle insopportabili imposte, di nuovo scaricate su lavoratori e pensionati; una transizione ecologica interamente vocata al greenwashing; una nuova ondata di privatizzazioni di tutti i servizi pubblici locali; un attacco alla povertà, attraverso provvedimenti vergognosi come il tentativo di restringere il reddito di cittadinanza e di comprimere l’indennità alle persone con disabilità. Tutte misure che, com’è ovvio, acuiranno il disagio delle persone e produrranno rabbia e conflitto sociale. Come risolverlo? Non c’è problema, basta vietarlo.
D’altronde, non è da tempo che i grandi poteri finanziari dicono che le Costituzioni dei paesi del Sud Europa sono poco adatte alla modernità perché troppo intrise di idee socialiste? (9 novembre 2021, da attac-italia.org)

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Autunno, si ritorna a scuola
Finita la bella stagione, con l’arrivo del primo freddo si riprendono le attività al chiuso, anche le lezioni in classe. Si pensava, o meglio ci volevano far credere che grazie ai vaccini l’emergenza Covid sarebbe passata. Invece no, ecco cha a scuola spuntano i primi contagiati.
Le norme predisposte dal ministero prevedono che, in caso di un alunno positivo, gli alunni in contatto 48 h prima dell’apparizione dei sintomi facciano la prova tampone entro le 48 h successive all’apparizione dei sintomi. In caso di negatività possono tornare a scuola, ma dopo 5 giorni devono sottoporsi a un’altra prova tampone. In caso di due positivi, gli alunni devono effettuare la prova tampone entro 48 h, se negativo, gli alunni vaccinati o guariti da meno di 6 mesi dal Covid, possono rientrare in classe e dopo 5 giorni ripetere la prova tampone. Gli alunni non vaccinati o guariti dal Covid da più di 6 mesi devono andare in quarantena, potendo usufruire della DAD (lezioni da remoto on line). In caso di 3 o più alunni positivi tutti gli alunni della classe vanno in quarantena. Morale: chi non è vaccinato, seppur sano, resta a casa. Mentre, chi ha fatto il vaccino, ha il privilegio di stare in classe a fare lezione.
Già questo potrebbe far sorgere dei dubbi sull’equità del provvedimento. Ma poniamo il caso di essere degli impenitenti scientisti, delle persone che hanno fatto della loro vita un modello improntato sulla fede cieca nella ricerca e nella tecnologia e che quindi, fregandosene della questione sociale, vogliano privilegiare i vaccinati, saremmo smentiti dalla macroscopica oggettività che ad ammalarsi sono sia i vaccinati che non. Tanti saluti quindi a chi credeva che con il vaccino la malattia sarebbe stata debellata e tanti saluti soprattutto a chi è stato obbligato a vaccinarsi dall’arma ricattatoria del greenpass. Quanti altri vaccini noi lavoratori, consenzienti o meno, saremo costretti a farci inoculare? Tre, quattro, cinque…?
Il governo ha di fatto imposto un medicinale di massa, criticato peraltro da varie autorevoli voci della scienza non ufficiale, facendo leva sul senso di responsabilità sociale della popolazione. Facciamo notare, la responsabilità sociale è un sentimento che, in quanto tale, deve essere supportato dall’analisi di contraddittori condivisi. Dal momento che ogni voce critica, anche solo chiedesse libertà di scelta, non è stata presa in ben che minima considerazione, quindi censurata, le persone sono state indotte ad allinearsi alle scelte dei soliti padroni: Stato, Confindustria, sindacati.
In nome della macchina della produttività che non può essere fermata e che, sotto gli occhi di tutti, uccide i lavoratori, avvelena e distrugge l’ambiente, il padronato ha scaricato le responsabilità sanitarie interamente su chi lavora. Né il greenpass né il vaccino assicura la sicurezza sul lavoro. E mentre il Covid continua a contagiare vaccinati e non, per gli insegnanti come per ogni altro lavoratore, soggetti sacrificabili sull’altare dell’economia, non è prevista alcuna profilassi, che sia distanziamento, quarantena o tampone. Si deve continuare a lavorare e chi si è visto si è visto. (Milano, novembre 2021)


PNRR: Piano Nazionale di Radiazione di ogni Resistenza (umana)
Pubblichiamo una sintesi di un articolo apparso sul blog ilrovescio.org che contiene preziose riflessioni sulla Sanità 4.0, scritte da una compagna che da trent’anni si occupa di salute (in senso professionale e non solo) ispirandosi alla medicina tradizionale cinese. Dai corpi ai campi, dai laboratori alle strutture sanitarie, l’intreccio tra digitalizzazione e biotecnologie ci sta portando verso un “nuovo ordine sociale” in cui l’umanità stessa viene concepita e trattata come un “prodotto difettoso”. Diventa allora sempre più urgente, secondo l’autrice del testo, pensare e praticare percorsi di autorganizzazione anche in ambito medico. Uno stimolo, insomma, ad aprire un’ampia discussione che coinvolga sia compagne e compagni sia quella parte del personale sanitario che è ancora e vuole restare umana.

È ormai evidente che un’emergenza sanitaria reale è diventata il cavallo di Troia attraverso cui limitare in modo sempre più accelerato le libertà individuali e plasmare un nuovo ordine sociale, in cui il valore di ogni specie, compresa quella umana, e del pianeta diventano esplicitamente secondari rispetto alla sopravvivenza e al funzionamento adattato del sistema… La pandemia (la definisco tale in senso letterario, ovvero come qualcosa che ha coinvolto la popolazione dell’intero pianeta) ha mostrato tutte le conseguenze delle scelte operate negli ultimi 30 anni nel servizio sanitario nazionale; la privatizzazione di servizi, i tagli delle strutture e del personale, la trasformazione delle unità sanitarie locali in aziende sanitarie locali in nome delle regole dell’economia e del profitto, hanno ridefinito l’accesso oltre che l’approccio alle cure. A precedere e stimolare queste prassi vi è da un lato la direzione assunta dalla medicina nel suo complesso a partire dagli anni ’50; la scelta di investire tempi e risorse nell’investigazione e la classificazione dei sintomi, limitando via via l’indagine e la rimozione delle cause dello squilibrio, ha prodotto una visione nuova della malattia. Ogni segnale di squilibrio va rimosso attraverso l’utilizzo di farmaci e protocolli, senza alcuna considerazione del contesto individuale e ambientale in cui si producono... In concomitanza, il potere economico e politico assunto dalle case farmaceutiche, diventate “big” attraverso processi di fusione – sarebbe forse più appropriato parlare di inglobamento delle imprese più limitate – di realtà similari (ad esempio Pfizer) e/o di aziende di alto interesse tecnologico (ad esempio Bayer), il potere appunto delle case farmaceutiche è aumentato esponenzialmente; il paziente (colui che sente), dopo essere classificato come malato (colui che ha una malattia), diventa infine consumatore fidelizzato, in virtù di quanto sopra, ovvero una mancata ricerca, denuncia e risoluzione delle cause dello squilibrio, ma anche dell’approccio espressamente commerciale utilizzato dai produttori sia verso i destinatari dei farmaci, sia verso quella fetta, ahimè consistente, di medici e ricercatori compiacenti. La visione meccanicistica della vita è stata cavalcata quindi da un approccio farmacologico e specialistico e il ruolo della medicina di base, quella per cui un individuo si rivolge al medico di fiducia, si è progressivamente ridotto fino a diventare nei fatti un ambito burocratico, ovvero il punto di accesso per le necessarie prestazioni mirate…. Alla luce di ciò tutto ciò la gestione nel suo complesso di quanto è accaduto a partire da marzo 2020 sul piano sanitario diventa forse più comprensibile; non stupisce da parte della maggioranza di medici né l’adesione alle indicazioni e ai protocolli imposti, né l’abbandono dei pazienti a casa, né la ritrosia verso un confronto pubblico sul territorio, né, oggi, la mancanza di prese di posizione rispetto a quanto si verificherà se verrà attuata la linea prevista nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Il primo paragrafo del PNRR recita così: «La pandemia da Covid-19 ha colpito l’economia italiana più di altri Paesi europei. Nel 2020, il prodotto interno lordo si è ridotto dell’8,9 %, a fronte di un calo nell’Unione Europea del 6,2…». L’esordio quindi è spudoratamente riservato all’economia; d’altro canto il piano riguarda la ripresa (dell’economia) e la resilienza. Fa specie anche il riferimento, sempre nella premessa, al miracolo economico nel secondo dopoguerra; ogni azione individuale e collettiva deve da marzo 2020 tener conto della guerra in corso contro il virus, in primis appunto per indurre la ripresa economica, sacrificando le vite di troppi e le libertà degli altri. Il PNRR è il testo programmatico che consente di avviare concretamente la partecipazione al Next generation EU; i contributi ammontano a 191,5 mld da impiegare nel periodo 2021-2026, di cui 68,9 mld a fondo perduto (quindi oltre 120 miliardi di debito che ricadranno sulle teste dei lavoratori nell’arco di poco tempo, elemento anche questo non trascurabile). Questi fondi sono stati concessi previa approvazione della loro destinazione e non hanno di fatto nulla a che vedere con la tutela della popolazione e dell’ambiente ma, al contrario, favoriscono la tendenza alla digitalizzazione di ogni aspetto della realtà a discapito dei territori e delle specie viventi… È evidente che favorire condizioni e pratiche che consentano a ogni individuo di esprimere liberamente le proprie potenzialità va nella direzione esattamente contraria al progresso del sistema, che per riprodursi efficacemente e indisturbatamente necessita del prolificare di malattia e disagio, di fatto il terreno attualmente più fertile per il controllo sociale ed per il mantenimento di una società gerarchica. Le restrizioni e l’isolamento sociale radicale imposti a partire da marzo 2020 stanno ridefinendo le relazioni nel loro complesso; la percezione del contatto – fisico e non – con l’altro – o con altro – è stata facilmente manipolata, traducendo il valore dei rapporti in potenziale minaccia; gioco facile, agevolato per esempio da decenni di pratiche e di propaganda razziste. In una dimensione di dubbio, impotenza e paralisi generalizzata, lo Stato ha approntato una campagna mediatica per spingere alla vaccinazione e per introdurre il green pass, basata su slogan legati al senso di responsabilità civile, di solidarietà, facendo leva sulla mancanza di senso di appartenenza, strumentalizzando così anche la solitudine e la sofferenza dei più. Ecco che anche nel PNRR questa tendenza trova espressione, nella scelta di termini quali “casa della comunità” e “ospedale del territorio”, per indurre adesione a questo grande progetto di riforma sanitaria e sociale. I fondi destinati alla «missione 6: salute» sono 15,63 mld, così ripartiti: 7 mld per reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale e 8, 63 mld per innovazione, ricerca e digitalizzazione del Sistema Sanitario Nazionale. La “casa della comunità” rappresenta il fulcro della nuova medicina territoriale e sarà una «struttura in cui opererà un team multidisciplinare di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, medici specialistici, infermieri di comunità, altri professionisti della salute e potrà ospitare anche assistenti sociali». Mesi fa erano state definite “ufficio unico del malato”, aperte dalle 8 alle 20. In questo modo la medicina del territorio verrà completamente smantellata nel suo significato; intanto perché i servizi di base diventeranno fisicamente raggiungibili con più difficoltà (considerando 60 milioni di abitanti, la media è di 1 casa della comunità ogni 46000 abitanti). Ma soprattutto preoccupa il fatto che è previsto entro il 2024 un numero elevatissimo di pensionamenti dei medici di medicina generale. Quindi si fa strada la possibilità concreta che verrà di fatto eliminata la figura del medico di fiducia; il paziente dovrà affidarsi a medici turnisti che si occuperanno del sintomo o del quesito contingente… In questo contesto di carenza di personale e di perdita di relazione, ben si spiega la destinazione di fondi alla telemedicina. Certo è che, tolto il valore delle relazioni, tolto il senso delle loro peculiarità, tolto il peso specifico di memoria ed intuito, come può essere paragonata la capacità di analisi di un medico, di un umano, con quella di un algoritmo? Da qui a delegare ad una “macchina efficiente” e per ora obbediente il compito, oltre che di risolvere le anomalie, anche di decidere modalità e requisiti per l’accesso alle cure in base ai dettami del potere, il passo non è poi tanto lungo. Non lo è neppure per prospettare l’utilizzo massivo di chip per il monitoraggio delle condizioni cliniche prima dei “cronici” e poi di tutti indistintamente e un domani, potendo controllare in tempo reale l’adesione o meno alle indicazioni prima sanitarie e poi comportamentali dei singoli, stabilire chi ha diritto alle cure e chi no. Un’ultima conferma viene dalla realizzazione di 381 ospedali di comunità, strutture intermedie dotate di 20 (fino a 40) posti letto «destinate a pazienti che necessitano di interventi sanitari a media/bassa intensità clinica e per degenze di breve durata… A gestione prevalentemente infermieristica». Saranno dunque gli infermieri, nella migliore delle ipotesi, a relazionarsi con i pazienti, mentre i medici del territorio staranno davanti a degli schermi. Per realizzare questo progetto che spersonalizza tanto il paziente quanto il medico è necessario implementare l’utilizzo del fascicolo sanitario elettronico. La maggioranza dei fondi vengono spesi per la digitalizzazione di ogni dato sanitario, che deve diventare consultabile in tempo reale attraverso la meraviglia del 5G in qualsiasi contesto. La concretezza del corpo evapora insomma e restano solo un flusso di dati e la lettura del loro funzionamento.
Tornando al PNRR, quasi tutti i fondi vengono di fatto spesi per la digitalizzazione e per la tecnologia. È coerente con quanto sopra il riferimento nella “missione 4” del PNRR – istruzione e ricerca – che, fra gli altri, si pone come obiettivo quello di «incrementare il numero di iscritti e diplomati negli ITS», con il potenziamento dei laboratori con tecnologie 4.0. Sintetizzando potremmo pensare a una nuova classe da un lato di tecnici, istruiti ad hoc in giovane età verso un approccio acritico alle scienze, dall’altro di burocrati laureati in medicina generale, che avranno già fatto atto di fede al momento dell’iscrizione all’università sottoponendosi senza alcuna possibilità di discussione per ora a vaccinazioni e domani si vedrà (come accade già da tempo nell’esercito). Un elemento che merita di essere affrontato con attenzione riguarda le biotecnologie: la “deroga temporanea” dell’UE all’utilizzo degli OGM per poter autorizzare la produzione e la somministrazione dei “vaccini” anti-Covid, ha permesso, nell’arco di pochi mesi, di “sdoganare” l’utilizzo di tecniche basate sull’editing genetico senza trovare alcuna ostacolo né concreto, né di critica. Ogni giorno, da qualche mese, vengono presentate studi in vari settori sia dell’agroalimentare, sia della medicina, che utilizzano – a detta di lorsignori con risultati straordinari – i benefici del sistema CRISPR (in Giappone è già sul mercato il succulento “sicilian rouge high gaba”, un pomodoro che contiene quantità potenziate di gaba, un neurotrasmettitore inibitorio presente nel sistema nervoso centrale dei mammiferi con effetto calmante e sedativo). Questo significa che l’opposizione al siero anticovid tra poco tempo in termini di salute individuale potrebbe diventare del tutto irrilevante, se attraverso l’alimentazione o le proposte terapeutiche (ad esempio quelle per le patologie tumorali) viene introiettato lo stesso tipo di prodotto. D’altro canto, come si leggeva a maggio su www.nature.com: «I vaccini per il covid19 sono stati i primi farmaci approvati basati sull’acido ribonucleico messaggero (mRNA), ma non saranno gli ultimi. La pandemia ha messo sotto i riflettori una tecnologia studiata da oltre un decennio, che ora potrebbe essere applicata a malattie che vanno dalle infezioni virali al cancro e le malattie autoimmuni. Attraverso le biotecnologie vogliono in sintesi realizzare nuovi «vaccini antinfluenzali universali, capaci cioè di garantire protezione una volta per tutte contro virus che mutano». 50 anni fa propagandavano il latte artificiale, da preferire a quello materno; oggi come evoluzione di quella logica il sistema immunitario (il sistema di relazioni interne di un individuo) viene valutato meno efficiente delle istruzioni tecnologiche impartite da scienziati al soldo di capitalisti intenzionati a dare forma ad un nuovo concetto di uomo, in tutto e per tutto assimilabile ad un prodotto difettoso e manipolabile. La portata dell’attacco è titanica e la medicina gioca un ruolo politico cruciale in questo momento e nel futuro prossimo; milioni di persone non hanno potuto “causa Covid” avere accesso alle cure, milioni di persone sono diventate più vulnerabili fisicamente e psicologicamente a causa del vissuto e dell’indotto di quest’ultimo periodo. Se in alcuni ambiti della salute è possibile provare a costruire percorsi di autorganizzazione che però richiedono impegno e tempo per diventare significativi, senza medici e strutture liberi c’è ben poca via di scampo. Una cosa certa è che senza 5G tutto ciò diventa concretamente più arduo da realizzare. E qui la partita è ancora tutta da giocare.


ai lavoratori e lavoratrici del Collettivo Di Fabbrica GKN
Segue un comunicato del movimento di Lotta - Disoccupati "7 Novembre" di Napoli rivolto al collettivo di fabbrica GKN di Firenze che spiega le ragioni della solidarietà che lega questi settori di proletari in lotta e da conto di alcune iniziative tenutesi in questi mesi.

Nonostante la nostra vertenza e lotta ci impegna ogni giorno ed ogni ora, in questi giorni siamo stati a Milano al fianco dei lavoratori della FedEx ed oggi saremo in piazza a Napoli, per una nuova iniziativa di lotta.
Abbiamo pensato di scrivervi un contributo per l'assemblea che si svolge al presidio permanente in fabbrica pur sapendo che avremo altri momenti per il confronto.
Sono state tante altre le occasioni dove già abbiamo chiarito perché un movimento di disoccupati, in quanto lavoratori inoccupati, ha come obiettivo generale quello della ricomposizione di classe e lavora incessantemente alla convergenza di quelle esperienze di lotta dentro e fuori i luoghi di lavoro.
Siamo stati presenti ai vari appuntamenti nazionali convocati dal Collettivo di Fabbrica e per questo vi ringraziamo della significativa vostra delegazione e della vostra partecipazione al corteo del 13 Novembre a Napoli contro la repressione ed in solidarietà ai disoccupati organizzati.
Per i disoccupati tutti è stato molto importante che insieme ai lavoratori e le lavoratrici del SiCobas, le rappresentanze del Movimento NoTav, gli RSU dell'Eletrolux e le tante altre realtà che abbiamo ricordato nel comunicato finale della manifestazione ci fosse anche il vostro spezzone "Insorgiamo". Un indicazione che abbiamo portato avanti nella quotidianità da anni nella nostra città in tutte le iniziative di lotta e fuori ai magazzini a supporto dei picchetti e degli scioperi. Non è un caso che l'oramai famoso "coro" della vostra lotta è diventato anche il nostro come avete potuto vedere fuori la Prefettura di Napoli, intonato per un ora da tutta la piazza.
Dopo lo sblocco deciso dal governo Draghi, non si ferma la catena di licenziamenti collettivi per ragioni “economiche” (Gianetti Ruote, Gkn, Whirpool, e l'elenco non ha fine) per questo l'assemblea di oggi auspichiamo possa rafforzare l'indicazione di un collegamento reale di tutte quelle esperienze che su scala nazionale si stanno contrapponendo alla macelleria sociale voluta dai padroni e dal governo Draghi, nei fatti e non solo a parole, con la lotta e non con sterili proclami sui media.
Un collegamento che deve trasformarsi in forza organizzata, coordinata e unitaria secondo il tracciato del fronte unico di classe contro i padroni e il governo.
Una forza organizzata che non può che concretizzarsi con l'ulteriore costruzione di un altro momento di sciopero unitario generale, in continuità con quello dell'11 Ottobre e che superi i perimetri che fino ad ora ci vedono costretti.
Un percorso da sviluppare su ogni posto di lavoro, città e territorio. Senza questa prospettiva concreta, senza una strategia, un orizzonte ed un programma di lotta che tenga conto del contesto generale dello scontro di classe, le singole spinte di lotta sono destinate all’asfissia ed all'isolamento. Per questo è all'ordine del giorno, non più rinviabile, questa prospettiva. La lotta degli operai Gkn è la nostra lotta per diverse ragioni:
1) Gli esiti di questa vertenza rappresenteranno un importante termometro dei rapporti di forza tra le classi nei mesi a venire.
2) Il collettivo di fabbrica della Gkn ha rappresentato in quest’anno e mezzo di pandemia una delle poche voci fuori dal coro capace nelle fabbriche metalmeccaniche che è riuscita ad andare oltre le concezioni dei sindacati confederali.
3) Per il tentativo constante di unirsi concretamente alle battaglie portate avanti dai lavoratori della logistica, dei portuali, degli studenti ecc...dando una prospettiva che vada oltre la lotta economica della singola vertenza assumendo carattere politico.
Per tutte queste ragioni, ed altre, riteniamo fondamentale la costruzione di un vero e largo momento di confronto su scala nazionale per definire in tempi brevi un piano d’azione concreto e realmente unitario, fondato su obbiettivi chiari, praticabili e soprattutto condivisi quindi non una lista della spesa delle rivendicazioni.
Ma la nostra esperienza è quella di una lotta che rivendica salario e lavoro per i disoccupati ma sa bene come sia centrale il costante lavoro per legarsi indissolubilmente ad una prospettiva più generale. Una prospettiva che nella pratica si traduce nella pratica dell’obbiettivo: individuare e colpire i punti deboli del nemico di classe, gli spostamenti materiali delle merci, della produzione e, quindi, del ciclo del profitto.
Non sappiamo quali possano essere i tempi, né possiamo minimante indicare noi quali siano i passaggi essendoci altri organismi e momenti che dovranno indicarli.
Ma ribadiamo che ci siamo, ci siamo mettendo a disposizione le forze che abbiamo, parziali e limitate sicuramente, per una mobilitazione nazionale a Roma, ma questa deve porsi l’obbiettivo di saldare in un unica grande lotta i licenziati Gkn con quelli di FedEx, di Texprint, di Alitalia, di Whirlpool, ecc...ed anche la nostra come disoccupati organizzati per la costruzione reale del percorso per un vero sciopero generale insieme alle altre forze sindacali di classe.
Ci siamo per sostenere da subito un percorso per uno sciopero che deve avere sicuramente la capacità di sfidare tutti ed all'incalzare i settori di lavoratori interni anche ai sindacati confederali ma che non può certo aspettare i tempi di chi lo sciopero non lo convocherà mai.
Saremo, come sempre, presenti dove possibile attraversando tutti gli appuntamenti che verranno convocati dalle forze che oggi voglio costruire l'opposizione sociale e politica al Governo Draghi anche quindi all'iniziativa "No Draghi Day" del 4 Dicembre, al netto delle considerazioni sulle modalità di costruzione, sapendo che serve però costruire uno spazio ancora più ampio e chiaro.
Non possiamo più aspettare o rispondere parzialmente con appuntamenti che non sono davvero frutto di una convergenza reale perdendo l'occasione di dare una risposta organizzata e generale così come richiede l'attacco che governi e padroni stanno portando avanti, con tutta la determinazione, al nostro fronte proletario.
Vi abbracciamo, ci vediamo presto. A pugno chiuso! Alla lotta!

21 novembre 2021, Movimento di Lotta - Disoccupati "7 Novembre"


NOTIZIE DALLE CARCERI
Segue una rassegna di notizie e informazioni sulle carceri riportate da diversi giornalinazionali e locali. Chiediamo a tutti i prigionieri di portare contributi diretti sui fatti ripor-tati, in modo tale da liberarci dalla stampa dei sindacati di polizia penitenziaria e deigoverni di turno.

15 ottobre 2021. Vitto e sopravvitto in carcere, quando i detenuti sono un business. Alimenti marci, anomalie e irregolarità nei prezzi, appalti vinti a ribasso. Il regolamento del Dap prevede che i prezzi di vendita non possano eccedere quelli comunemente praticati dagli esercizi della grande distribuzione nelle vicinanze dell'Istituto e che per offrire anche prodotti di basso costo (vista la condizione di totale povertà che vivono quasi tutti i detenuti) il prezzo si fissa in base a quello degli esercizi hard discount più vicini. Per verificare le segnalazioni, ho raccolto decine di liste della spesa ex modello 72 di vari istituti in cui risultavano diverse irregolarità sui prezzi e la qualità del sopravvitto. Un detenuto poi mi ha raccontato che in tanti anni di detenzione non gli era mai stato possibile acquistare, pagandola a prezzo pieno, carne che non fosse maleodorante. Sul vitto ho filmato testimonianze che raccontano di cibo marcio o di menù dannosi per la salute.
In ogni carcere è prevista una "Commissione vitto", composta da tre detenuti scelti a sorte mensilmente per controllare, sotto la supervisione di un incaricato dal direttore, il regolare andamento del servizio, dalla consegna delle derrate alimentari al controllo della qualità e quantità. Spesso capitano persone che non sanno leggere e scrivere o che non sanno parlare italiano o rispetto alle quali si possono nutrire dubbi sulla loro idoneità a denunciare eventuali anomalie del sistema. Per un detenuto è rischioso segnalare irregolarità su vitto e sopravvitto. Ci aveva provato Ismail Latief a denunciare agenti della penitenziaria per furti nelle cucine del carcere di Velletri: ha subito pestaggi e maltrattamenti sia a Velletri, nei giorni successivi alla denuncia, per convincerlo a ritirarla sia a San Vittore, dove era stato trasferito, perché non l'aveva ritirata. Esiste una sorta di consorzio chiamato Associazione nazionale appaltatori degli istituti di pena (Anafip) di cui fanno parte aziende attive nel settore da tempo immemorabile. Come la Arturo Berselli & C. Spa che opera dal 1930! Studiando il bilancio di una di queste, la Saep Spa, società gestita dai fratelli Tarricone, mi sono accorto che l'azienda aveva vinto un appalto facendo un ribasso incredibile a 3,9 euro per colazione, pranzo e cena partendo dalla base d'asta di 5,7 euro per poi contestare che con il prezzo offerto non avrebbero potuto fornire il servizio come previsto dal regolamento, salvo però fare 6 milioni di utili su un fatturato di 24 milioni. Come è possibile? Mi ha aiutato a capire meglio la Corte dei conti del Lazio che il 7 settembre 2021, su esposto della Garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni, è intervenuta in riferimento alla Domenico Ventura Spa, gestita dai fratelli Ventura, proprietari anche del circolo canottieri di Napoli, che gestiscono le mense di Lazio, Campania, Abruzzo e Molise. La Corte ha notato che l'aggiudicatario ha offerto un ribasso di quasi il 58 per cento sulla diaria pro capite di 5,7 euro, impegnandosi a consegnare delle derrate alimentari per il vitto di tre pasti giornalieri a un prezzo di 2,39 euro.
E ha concluso rilevando l'apparente insostenibilità economica del servizio di vitto ove svincolato dai ricavi del sopravvitto. La Corte ha fatto notare anche come si metta a gara il vitto, lasciando poi alla amministrazione decidere se gestire direttamente gli spacci del sopravvitto o esternalizzare il servizio. Siccome accade sempre che la ditta che vince la gara del vitto poi si aggiudica di fatto anche la gestione del sopravvitto, la Corte ha detto che i due tipi di servizi - vitto e sopravvitto - presentano caratteristiche diverse e ha invitato a diversificare le procedure di gara per garantire la partecipazione del maggior numero di ditte con evidente beneficio della qualità e della economicità del servizio. "Stranamente", tutte le società che si occupano di forniture di derrate alimentari in carcere hanno un rapporto utile/fatturato altissimo se comparato a una qualunque azienda di mense. Almeno per queste società i detenuti hanno un valore enorme. Sono una fonte inesauribile di guadagno perché sono clienti sicuri, in costante crescita e non si possono neanche lamentare. Oltre il danno la beffa: a fine "soggiorno", sono tenuti anche a pagare le "spese di mantenimento in carcere".
28 ottobre 2021. Vitto e sopravvitto: finalmente gli appalti saranno separati
Dopo la pronuncia della Corte dei conti e, ancora prima, dalle tante sollecitazioni a partire da quella della Garante del comune di Roma Gabriella Stramaccioni e del Garante nazionale, è stato indetto un nuovo bando per il vitto (colazione, pranzo e cena per i detenuti), ma questa volta separato dal sopravvitto. Le imprese vincitrici non potranno guadagnarci, scongiurando la conseguenza nefasta del vertiginoso ribasso sul prezzo del vitto. Rilevando che la questione dei bandi del vitto e del sopravvitto ha dimensione nazionale, il Garante ha richiesto da subito, per le regioni interessate dalla pronuncia della Corte dei conti, e in prospettiva, per tutto il territorio italiano, la predisposizione di procedure di aggiudicazione distinte tra vitto e sopravvitto e tali da garantire la somministrazione di una diaria credibilmente adeguata ai bisogni nutritivi di persone adulte, all'occorrenza prevedendo il parere obbligatorio e vincolante di un tecnologo alimentare indipendente. Inoltre il Garante ha indicato la necessità di configurare il bando per il sopravvitto contemplando la partecipazione della grande distribuzione che, più delle imprese locali, può assicurare varietà dell'offerta e contenimento dei prezzi.
28 ottobre 2021. Busto Arsizio. Nessun autobus per il carcere: il cappellano organizza un flash mob. Don David Maria Riboldi ha organizzato per sabato 30 ottobre un'iniziativa attorno al carcere (390 detenuti e circa 250 operatori) a cui ha invitato società civile e associazioni per chiedere l'attivazione del servizio di trasporto pubblico. Il carcere si trova in una zona periferica, molto vicina all'autostrada e dove risulta abbastanza comodo arrivarci in auto. Ma per chi è sprovvisto di un mezzo autonomo raggiungere la casa circondariale è faticoso: la prima fermata utile, infatti, è a oltre un chilometro di distanza dalla casa circondariale, al quartiere Sant'Anna. "Ci troveremo il 30 ottobre alle 11.30 in via Collodi, nei pressi della prima fermata utile arrivare alla casa circondariale che raggiungeremo a piedi dimostrando le mille difficoltà da affrontare non solo per i detenuti, ma anche per famiglie e lavoratori sprovvisti di un mezzo proprio.
24 ottobre. “Non a fianco di Frontex”. Chi si dissocia dall’accordo del Politecnico di Torino. Con un’inchiesta pubblicata il 20 ottobre 2021 Altreconomia dava notizia della collaborazione tra il Politecnico di Torino e Frontex. Un bando da quattro milioni di euro per la produzione di mappe e infografiche necessarie “per supportare le attività” dell’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee. Iniziative che, spesso, si traducono nella violazione sistematica del diritto d’asilo.
“L’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera è stata accusata a più riprese -da Ong, attivisti e agenzie internazionali- di essere direttamente coinvolta nei violenti respingimenti di migranti alle frontiere europee. Il più noto è il caso greco, ora discusso presso la Corte europea di giustizia, dove non solo si ha la certezza dell’illegalità dei respingimenti forzati operati dell’Agenzia, ma anche del ruolo della stessa nel distruggere documenti che evidenziano l’uso illegale della forza per respingere i rifugiati verso la Turchia. Questo episodio è solo l’apice di una strategia operata dell’Unione europea, attraverso Frontex, per la gestione dei confini comunitari attraverso principi espulsivi, razzializzanti e letali per coloro che si spostano per cercare protezione nel continente. […] I ricercatori coinvolti nel progetto dicono che si tratti di dati open source, innocui. Posto che nessun dato è mai innocuo, la questione sta nel prestare il proprio nome -individuale e istituzionale- alla legittimazione dell’operato di una agenzia come Frontex. Perché quello si fa, quando si collabora: si aiuta l’apparato violento e espulsivo dell’Unione europea a legittimarsi, a rivestirsi di oggettività scientifica, a ridurre tutto a una questione tecnica che riproduce il suo male riducendolo a un passaggio di carte tra mani”.
Queste le parole di Michele Lancione, professore Ordinario di Geografia politico-economica al Politecnico di Torino che con alcuni colleghi si è mobilitato dal 14 luglio.
20 ottobre 2021. Carcere e porno. Una recente sentenza della Corte di Cassazione può valere quanto le immagini delle violenze all'interno dell'Istituto di Santa Maria Capua Vetere: "Anche a volerlo considerare un aspetto della sessualità, nella sua accezione più lata, l'autoerotismo non è impedito - di per sé - dallo stato detentivo. La fruizione di materiale pornografico costituisce uno dei mezzi possibili per la sua migliore soddisfazione, ma non ne costituisce presupposto ineludibile" (Sentenza Sez. 1 della Corte di Cassazione, 8 giugno 2021). Tutto nasce dalla richiesta, avanzata da un detenuto sottoposto al regime del 41 bis, di poter acquistare una rivista pornografica. Un primo divieto viene dalla direzione del carcere e, a confermarlo, interviene un'ordinanza del Magistrato di Sorveglianza. Quello di acquistare la rivista in questione - scrive il giudice - non corrisponderebbe a un diritto, ma a "un mero interesse alla visione delle immagini". Il ricorso davanti al Tribunale di Sorveglianza dà ragione al detenuto, in quanto la sua richiesta rientra "nell'ambito della libertà di manifestazione del pensiero riconosciuto dall'art. 21 Cost. in particolare, "nella tutela dell'affettività in carcere, all'interno del diritto al rispetto della vita privata e familiare, sancito dall'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani". Secondo il Tribunale di Sorveglianza il rifiuto opposto dalla direzione non è congruo, né proporzionato, in quanto non si intende quale sia il nesso tra le "finalità di tutela dell'ordine interno" e il "contenimento del diritto alla sessualità del detenuto da esercitarsi acquistando e trattenendo la stampa (pubblicazione o rivista) di genere". Ma il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria non se ne fa una ragione e ricorre in Cassazione. Quest'ultima, infine, accoglie il ricorso del DAP, evidenziando due punti. Il divieto di ingresso di giornali e riviste dall'esterno risulta legittimo in quanto "la pluriennale esperienza" ha dimostrato che "libri, giornali e stampa in genere [sono] molto spesso usati dai ristretti quali veicoli per comunicare illecitamente con l'esterno, ricevendo o inviando messaggi in codice". Allo stesso tempo, la Cassazione entra nel merito della correlazione tra immagini pornografiche e autoerotismo, affermando che le prime non sono condizione "ineludibile" ai fini della masturbazione. Tuttavia, in apparenza, la ragione del divieto risiederebbe solo in motivazioni relative alla sicurezza e all'ordine pubblico. Ma è molto difficile non intravedere, dietro la sentenza, qualcosa di altro e di più inquietante. Ciò che maggiormente colpisce è l'idea di un'autorità - l'amministrazione penitenziaria - che si ritiene legittimata a interferire con la sfera più intima della persona umana (quella sessuale, cioè), a giudicarla, a vigilare sul suo equilibrio, a sindacare sulle qualità delle sue espressioni, a inibire e selezionare le sue pulsioni. Il carcere, così, diventa né più né meno che un dispositivo di mortificazione della soggettività umana.
Settembre 2021. Anche in 41 bis si ha diritto all'accesso al sopravvitto, lo ha detto la Cassazione. Un articolo di un giornale locale abruzzese riporta che la Cassazione ha così deciso rispondendo al reclamo fatto dal DAP nei confronti dell'accoglimento, da parte del tribunale di sorveglianza de L'Aquila, della richiesta di una detenuta al 41 bis dell'Aquila, di poter acquistare al sopravvitto gli stessi generi alimentari previsti per i detenuti comuni e di cucinarli al di fuori delle fasce orarie previste. Cioè "non si possono disporre misure che, a causa del loro contenuto, non siano ricondubili a quelle concrete esigenze (ordine e sicurezza) poiché si tratterebbe in tal caso di misure palesemente incongrue o inidonee rispetto alle finalità del provvedimento che assegna il detenuto al circuito differenziato. Se ciò accade, non solo le misure in questione non risponderebbero più al fine in vista del quale la legge consente siano adottate, ma acquisterebbero un significato diverso, divenendo ingiustificate deroghe all'ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva [...]".
La Cassazione ha anche invitato il tribunale di sorveglianza "a chiarire se la previsione di fasce orarie, stabilita nell'istituto stesso, sussista solo per i detenuti assoggettati al regime differenziato".
8 ottobre 2021. Torino (carcere “Lorusso Cotugno”). Ecco tutte le torture in carcere: "Così ci umiliavano tra le risate". Dal rito di iniziazione per i detenuti alle punizioni supplementari, nelle carte dell'inchiesta dettagli choc. Dicevano: da qui non uscirai vivo". C’è un lungo elenco di vittime di violenti pestaggi nel carcere di Torino. Le vittime agli atti sono undici. A Diego sono entrati in cella di notte: gli hanno staccato le mensoline sul muro, gettato detersivo da piatti sulle lenzuola. Poi lo hanno portato in una saletta "tra la quinta e la sesta sezione". "Sentivamo le urla di dolore, i carcerati gridavano, chiedevano aiuto". Diego aveva presentato una denuncia, l'ha ritirata. Poi la storia è venuta fuori lo stesso. Botte, umiliazioni, pugni, pestaggi nella casa circondariale Lorusso e Cutugno tra il 2017 e il 2019. "Trattamenti degradanti dell'umanità" scrive la procura nell'atto d'accusa. Un giovane difeso dal legale Domenico Peila racconterà altro: "La notte del 30 aprile 2019 mi sono sentito male, mi sono accasciato dentro la cella. Sono arrivati gli agenti, quella che noi conosciamo come la squadra dei picchiatori. Dicevano: devi morire qui pezzo di merda. Il giorno dopo, alle 14,30 mi hanno convocato in una stanzetta. Uno mi ha assestato un calcio alle gambe. Sono caduto, gli altri mi colpivano con gli stivali allo sterno". Alle "perquisizioni punitive" si aggiunge il cosiddetto "battesimo per i nuovi giunti". Una pratica macabra: "Quando sono arrivato mi hanno portato ammanettato al casellario. Mi hanno chiesto di spogliarmi, ho tolto tutto tranne le mutande. In 4 allora hanno indossato dei guanti, mi hanno sbattuto per terra e mi hanno strappato gli slip di dosso". Altri carcerati hanno raccontato di essere "stati feriti in fronte con il ferro usato per la battitura delle sbarre". Altri ancora costretti a ripetere davanti a tutti: "Sono un pedofilo di merda". Ancora: "A un compagno di sezione - ha raccontato un detenuto - lo hanno ammanettato e bloccato a terra. Era in attesa di fare il Tso. Lo hanno colpito con calci allo sterno e mentre lo facevano, ridevano". La versione è stata confermata dalla vittima convocata in procura. Il comune denominatore dei bersagli di questa "squadretta" composta da 6-7 persone "avvezze a comportamenti di questo tenore violento", alle quali a rimorchio si univano altri agenti, è quella di prendere di mira i detenuti per reati a sfondo sessuale. Quello che colpisce all'esito dell'esame degli elementi probatori emersi nel presente procedimento è come queste spedizioni punitive non siano state opera di altri detenuti bensì di agenti di Polizia Penitenziaria e cioè di quelle persone che all'interno del carcere rappresentano lo Stato. Due di loro erano già finiti nei guai: condannati a marzo 2017 in Cassazione per abuso di autorità nei confronti di altri detenuti nel carcere di Palermo. Ma erano ancora in servizio. E non avevano perso "la riprovevole abitudine", si legge agli atti. Si vantavano al telefono con le fidanzate: "Oggi ci siamo divertiti, tipo Israele anni Quaranta"; "Il comandante ci aveva detto di stare tranquilli, che era tutto a posto...". L'ex comandante della Polizia penitenziaria è indagato in questa inchiesta. Anche per l'ex direttore è stato chiesto il rinvio a giudizio: favoreggiamento e omissione di denuncia. Poche ore dopo la scoperta degli atti il capo del Dap Bernardo Petralia li ha rimossi entrambi.
15 novembre 2021. L'assegno di disoccupazione spetta anche al detenuto che lavora in carcere. La sentenza è firmata da un giudice del lavoro di Milano e viene definita dal Garante dei detenuti "molto importante perché sancisce il principio che il lavoro dei reclusi è equiparato sotto tutti i punti di vista a quello dei cittadini liberi". AGI La ‘disoccupazione’ spetta anche ai detenuti che lavorano dentro al carcere. Lo ha stabilito una sentenza del Tribunale del Lavoro di Milano che ha condannato l’Inps a corrispondere la Naspi, il sussidio dell’ente previdenziale per chi ha perso un impiego, a un ex carcerato che aveva svolto per quasi due anni la funzione di addetto alla consegna e alla gestione della spesa e come cuoco. 
26 settembre 2021. Dopo mesi di silenzio da parte dei media mainstream successivi all’archiviazione dell’inchiesta relativa agli omicidi e ai pestaggi avvenuti all’interno del carcere di Modena dopo la rivolta di Marzo 2020, tra settembre e ottobre è stata data nuova attenzione alla vicenda. Poco per volta la coltre nebbiosa si sta diradando e spuntano nuove testimonianze che ribadiscono ciò che i prigionieri cercano di raccontare da un anno e mezzo. Alle voci dei primi cinque coraggiosi prigionieri che quasi un anno fa hanno fatto l’esposto relativo ai fatti, se ne aggiungono altre che raccontano la carneficina.
Il 29 settembre esce sull’Espresso un editoriale che riporta le seguenti testimonianze:
“Quando sono uscito vedevo davanti a me una fila a destra e una a sinistra di agenti della penitenziaria. Sono uscito tenendo le mani in alto e dicendo che non avevo fatto nulla. Nonostante ciò, alcuni agenti mi bloccavano, mi ammanettavano e mi misero a testa in giù. Venivo poi portato in sorveglianza dove venivo sdraiato per terra e picchiato violentemente con calci e pugni, anche con l’uso del manganello. Provavo a dire che non avevo fatto nulla, ma proprio per averlo detto mi buttavano nuovamente a terra e mi picchiavano ancora. Ho capito che era morto. Tornati gli agenti richiamavo la loro attenzione urlando e questi vedevano il ragazzo a terra e cominciavano a prenderlo a botte per svegliarlo. Lo prendevano come un animale e lo trascinavano fuori”.
L’articolo si conclude dicendo che la procura inseguito al nuovo esposto ha aperto una nuova indagine ipotizzando il reato di tortura contro ignoti, sempre l’Espresso dice di essere in grado di dimostrare l’esistenza di documentazione in cui si fa esplicito riferimento alla presenza di filmati delle videocamere interne. Dice inoltre in un’informativa del 21 luglio 2020, il Comandante di reparto dirigente aggiunto della polizia penitenziaria, M.P, ha rimesso alla procura di Modena una nota preliminare riassuntiva dei risultati investigativi sino ad allora espletati sui reati commessi dai prigionieri, in aggiunta ad allegati su supporto dvd.
La versione ufficiale è che la rivolta e il successivo balckout abbiano bloccato le riprese e che i filmati siano andati perduti. Le contraddizioni sono evidenti, vedremo se nei prossimi mesi ci sarà un’evoluzione di questa nuova inchiesta.
Per ciò che riguarda invece la mattanza avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere a settembre abbiamo appreso da Repubblica della chiusura indagine a carico di 120 esponenti delle forze dell’ordine “i reati contestati a varo titolo sono quelli di tortura ai danni di numerosi detenuti, maltrattamenti aggravati, lesioni personali aggravate, abuso di autorità contro detenuti, perquisizioni personali arbitrarie, falso in atto pubblico anche per induzione, calunnia, frode processuale, depistaggio, favoreggiamento personale, rivelazioni di segreti d'ufficio, omessa denuncia, e cooperazione nell'omicidio colposo ai danni di un detenuto di nazionalità algerina Hakimi Lamine, deceduto in carcere 4 maggio dello scorso anno”.
Tramite i giornali la Procura fa sapere che risulta complessa l’identificazione delle guardie che hanno commesso i soprusi a causa dei caschi e delle mascherine. Dopo quasi due anni dai fatti noi non abbiamo bisogno di filmati o verità tribunalizie che ci raccontino la verità, noi l’abbiamo appresa da tempo tramite le lettere e le testimonianze coraggiose dei prigionieri che hanno vissuto quell’inferno. Ci auguriamo che le loro voci raggiungano quante più persone possibile e se qualcuno desidera aggiungere un pezzetto di verità noi siamo pronti ad ascoltare e nel caso tramite il nostro opuscolo a diffondere.
11 luglio 2021. Comunicato in seguito al processo di Jennifer. Questo comunicato fa seguito al processo di Jennifer che si è tenuto al Tribunal de Grande Instance di Tolosa il 10 giugno 2021. Per coloro che non conoscono la sua situazione: Jennifer è una donna trans che è incarcerata nella prigione di Seysses dal giugno 2020. Per 9 mesi è rimasta in isolamento nella prigione maschile, per il solo motivo della sua identità trans. Finora, come gruppo di supporto, avevamo scelto di comunicare solo riguardo alle sue condizioni di detenzione. L'accesso alle sale di visita era molto complicato per i suoi parenti, così come l'accesso ai prodotti della prigione, e sta ancora aspettando un lettore DVD ordinato in ottobre. La nostra priorità è stata quindi - per evitare ripercussioni durante la sua incarcerazione o il processo - di mantenere il legame con lei e di attivare tutte le leve possibili per rendere la sua vita quotidiana più dignitosa. In seguito al suo cambiamento di stato civile, è stata trasferita nel carcere femminile, e noi continuiamo a mobilitarci per sostenerla a livello materiale ed emotivo. Oggi, vogliamo rendere pubblica la nostra posizione sulla sostanza del caso e sul suo trattamento giuridico. Jennifer è stata imprigionata dopo aver accoltellato il suo stupratore per strada. È stata condannata a 5 anni di reclusione, di cui 3 in carcere, e condannata a pagare quasi 10.000 euro di risarcimento. Il messaggio della corte è chiaro: non è così grave se vieni violentata, l'importante è che tu non reagisca.
Nel giugno 2020, un uomo stupra Jennifer. Lei fa lavoro sessuale, lui le chiede una prestazione, lei rifiuta. Lui la picchia, la minaccia, la stupra. Le ruba le sue cose, i suoi soldi, il suo telefono. Qualche giorno dopo, lei lo riconosce per strada. Lei grida "è lui che mi ha violentato" e ne segue una lotta a colpi di coltello, alla fine della quale l'uomo esce ferito e a rischio di vita. Mentre l'aggressore sostiene che Jennifer lo ha attaccato per soldi, i testimoni confermano la versione di Jennifer. Infatti, sia il telefono di Jennifer che quello dell'aggressore sono stati geolocalizzati nella stessa posizione: l'indirizzo dell'aggressore. "Inquietante", ha detto il presidente. I magistrati erano d'accordo: non siamo qui per discutere dello stupro. Eppure, questo è stato il punto di partenza di ciò che l'ha portata in tribunale quel giorno. I magistrati non erano lì per discutere dello stupro, ma ne sappiamo tutto fino alle ragioni del vestito che Jennifer indossava quella sera. Il giudice ha sottolineato che Jennifer non si è presentata a fare denuncia alla stazione di polizia. Cosa poteva aspettarsi da una denuncia, tra l’altro? I suoi avvocati hanno spiegato che Jennifer aveva cercato di presentare denunce diverse volte nel corso degli anni. Citano un amico: "Ci sono stati almeno dieci attacchi all'anno nel corso di 15 anni. Alla stazione di polizia ci insultano, ci dicono che "i trans sono fuori". Jennifer non ha mai avuto accesso alla giustizia e al riconoscimento. Inutile dire che nessuna denuncia è mai stata presa in carico. Jennifer è una lavoratrice del sesso trans che non è mai stata presa sul serio dalla polizia o dai tribunali per le violenze che subisce. Ma i magistrati hanno convenuto che non era quello il luogo per parlare di stupro, durante il processo di una donna che ha attaccato il suo stupratore. Come non fare il collegamento con i casi di Kessy, una giovane donna condannata a 12 anni di prigione per aver colpito uno stalker, causandone involontariamente la morte, e Valerie, condannata per aver ucciso il suocero/marito dopo anni di violenza sessuale. La posizione della magistratura è chiara: criminalizzare le donne che si difendono, quando la loro protezione e il risarcimento del danno subito non sono mai stati assicurati; la loro rabbia non è accettabile, la loro violenza non è accettabile, la loro autodifesa non è accettabile, la loro vendetta non è accettabile. Lo stupro di Jennifer non era il problema. Eppure lo stupro è un crimine, se c'è bisogno di ricordarlo. Secondo il rapporto psichiatrico di Jennifer, lei è socialmente pericolosa e incapace di gestire la propria rabbia senza agire. Questa perizia psichiatrica è in linea con la classica retorica transmisogina: le donne trans sono in realtà uomini travestiti da donne, e come tali sono impostori pericolosi e violenti. Durante tutto il processo, i magistrati non hanno perso una sola occasione per ricondurre Jennifer al suo sesso assegnato alla nascita, per farne la colpevole ideale, pericolosa e incontrollabile. Poco importa che il punto di partenza di questa storia sia uno stupro, non è il suo stupratore ad essere pericoloso, né tutti gli autori delle numerose aggressioni sessuali che ha subito prima di questa. Secondo la perizia psichiatrica e il tribunale, è Jennifer ad essere pericolosa. Eppure, nelle sole quattro ore del processo, non ha reagito al disprezzo, alla violenza e alla disumanizzazione che le sono state inflitte. Queste includevano la volgare transfobia di menzionare il suo nome assegnato alla nascita, di usare un vocabolario più che inappropriato, di ricordare che "all'epoca dei fatti [era] un uomo", di sbagliare i pronomi in maniera ripetuta, e di riportarla costantemente al fatto che non sarebbe una vera donna. Infatti, quando un testimone ha raccontato di aver visto una donna a terra, il presidente della sessione ha riformulato aggiungendo: "pensavi che fosse una donna". Il testimone ha ripetuto: "Ho visto una donna a terra”. Dov'è la considerazione di tutta questa violenza nel suo giudizio? E dov'è la considerazione di tutte le violenze che ha subito nella sua vita? Quale considerazione viene data all'estrema violenza subita da donne come Jennifer, Kessy, Valerie durante la loro vita? Quale considerazione viene data all'estrema violenza subita dalle lavoratrici del sesso trans? Non si è parlato di stupro quel giorno, eppure se Jennifer fosse stata ascoltata, sostenuta e protetta, saremmo qui? È stata quindi condannata a 5 anni, di cui 3 in carcere. Facciamo appello alla vostra solidarietà. Raccontiamo la sua storia. Trasmettiamo questo testo. Scriviamole.

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Operazione “Sibilla”. Alle 4 del mattino dell'11/11/2021, i ROS, agli ordini della PM Comodi, all'interno di un'indagine partita dai soliti Nobili e Basilone, hanno perquisito le case di decine di compagni e compagne in tutta Italia. [Con il collegamento investigativo delle Procure della Repubblica di Milano e Perugia e la supervisione della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, gli inquirenti hanno documentato l'operatività di un gruppo di anarco-insurrezionalisti avente base al “Circolaccio Anarchico” di Spoleto. Questo punto di ritrovo - secondo gli investigatori - era il luogo di aggregazione dove veniva discussa e approfondita la dottrina "federativista anarchica" e successivamente diffusa. Nota dai media]
Ad Alfredo Cospito, in carcere per aver sparato ad Adinolfi, AD di Ansaldo Nucleare, e per l'operazione Scripta Manent, è stata notificata l'ennesima custodia cautelare; un altro compagno è ai domiciliari, altri quattro sono stati sottoposti all'obbligo di dimora e firme. L'accusa principale è quella di aver costituito e promosso un'associazione con finalità di terrorismo, accusa che ruota in particolare intorno al giornale "Vetriolo" e agli articoli lì pubblicati. Legata a questa operazione, la stessa notte è stata notificata un'indagine a uno dei redattori di Roundrobin: le accuse (minacce, istigazione a delinquere, associazione con finalità di terrorismo) sono legate alla pubblicazione di alcuni scritti che gli sbirri ritengono firmati da alcuni dei compagni e delle compagne indagati. Come Roundrobin, abbiamo sempre voluto dare spazio al dibattito e a tutte le idee anarchiche, e siamo fieri e contenti di aver pubblicato gli scritti dei compagni e delle compagne che sono sotto accusa.
Operazione “Prometeo”. In carcere dal 21 maggio 2019 per l’operazione Prometeo, il compagno anarchico Beppe è stato assolto il 4 ottobre in primo grado, insieme a Natascia e Robert per “insufficienza di prove”. L’accusa principale era quella di “attentato con finalità di terrorismo” per i plichi esplosivi che nel 2017 sono stati inviati ai pm Rinaudo, Sparagna e all’allora capo del DAP Consolo. Il sostituto procuratore della DDA genovese aveva chiesto condanne a 17anni (Natascia e Robert) e 18 anni e 4 mesi (Beppe).
Beppe, nonostante l’assoluzione, è rimasto in carcere, poiché condannato in primo grado a 5 anni con l’accusa di aver posizionato nel 2016 una tanica di benzina a un postamat di Genova. Dal gennaio 2021, dopo vari trasferimenti dal sapore punitivo (sia per lui che per Natascia e Robert), Beppe è stato trasferito nel carcere di Bologna, nella sezione AS3. In seguito all’assoluzione per l’op. Prometeo è stato “declassificato” e trasferito, sempre alla Dozza, nella sezione universitaria. Da lì ha fatto subito istanza per i domiciliari, velocemente rigettata dalla corte d’appello di Genova
A seguito del suo trasferimento dall’AS al polo universitario, dopo due anni e mezzo di rimbalzi burocratici tra carcere e istituzioni sanitarie – nonostante le condizioni critiche che gravavano sulla sua salute – ha finalmente ricevuto l’operazione per la quale ha portato avanti scioperi della fame e dell’aria.
Mercoledì 10 novembre si è tenuta l’udienza d’appello ed è stata presentata una nuova istanza di domiciliari, questa volta accolta. Oggi, 13 novembre, Beppe uscirà dal carcere per essere trasferito agli arresti domiciliari con tutte le restrizioni in Sicilia.


TE LO RICORDI L'8 MARZO AL CARCERE?
8 marzo 2020. Primo giorno di lockdown, scoppiano rivolte nelle carceri su tutto il territorio nazionale. Perdono la vita tredici persone denute, di cui nove della Casa circondariale Sant'Anna di Modena.
Nonostante la Procura di Modena si sia affrettata ad archiviare il più velocemente possibile, a che punto siamo con le ricostruzioni e le testimonianze sulla strage del carcere di Sant'Anna dell'8 marzo 2020?
Cosa comporterà il ricorso alla Cedu (Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali)? Come se la stanno passando i firmatari dell'esposto per la morte di Salvatore Sasà Piscitelli? Come procedere per fare sì che una strage di queste dimensioni non venga dimenticata dopo essere stata frettolosamente archiviata?
Per riaprire le indagini, per sostenere chi ha il coraggio di denunciare, per rompere il muro di silenzio: convochiamo un’assemblea nazionale. Sabato 4 dicembre 2021 al circolo ARCI Arcobaleno, via E. Gilberti 1 (Santa Croce di Carpi Modena)

24 novembre 2021
Comitato Verità e Giustizia per i morti del Sant'Anna, Ass. Bianca Guidetti Serra

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Dopo mesi di silenzio da parte dei media mainstream successivi all’archiviazione dell’inchiesta relativa agli omicidi e ai pestaggi avvenuti all’interno del carcere di Modena dopo la rivolta di Marzo 2020, tra settembre e ottobre è stata data nuova attenzione alla vicenda. Poco per volta la coltre nebbiosa si sta diradando e spuntano nuove testimonianze che ribadiscono ciò che i prigionieri cercano di raccontare da un anno e mezzo.
Alle voci dei primi cinque coraggiosi prigionieri che quasi un anno fa hanno fatto l’esposto relativo ai fatti, se ne aggiungono altre che raccontano la carneficina.
Il 29 settembre esce sull’Espresso un editoriale che riporta le seguenti testimonianze:
“Quando sono uscito vedevo davanti a me una fila a destra e una a sinistra di agenti della penitenziaria. Sono uscito tenendo le mani in alto e dicendo che non avevo fatto nulla. Nonostante ciò, alcuni agenti mi bloccavano, mi ammanettavano e mi misero a testa in giù. Venivo poi portato in sorveglianza dove venivo sdraiato per terra e picchiato violentemente con calci e pugni, anche con l’uso del manganello. Provavo a dire che non avevo fatto nulla, ma proprio per averlo detto mi buttavano nuovamente a terra e mi picchiavano ancora”.
“Ho capito che era morto. Tornati gli agenti richiamavo la loro attenzione urlando e questi vedevano il ragazzo a terra e cominciavano a prenderlo a botte per svegliarlo. Lo prendevano come un animale e lo trascinavano fuori”.
L’articolo si conclude dicendo che la procura inseguito al nuovo esposto ha aperto una nuova indagine ipotizzando il reato di tortura contro ignoti, sempre l’Espresso dice di essere in grado di dimostrare l’esistenza di documentazione in cui si fa esplicito riferimento alla presenza di filmati delle videocamere interne. Dice inoltre in un’informativa del 21 luglio 2020, il Comandante di reparto dirigente aggiunto della polizia penitenziaria, M.P, ha rimesso alla procura di Modena una nota preliminare riassuntiva dei risultati investigativi sino ad allora espletati sui reati commessi dai prigionieri, in aggiunta ad allegati su supporto dvd. La versione ufficiale è che la rivolta e il successivo blackout abbiano bloccato le riprese e che i filmati siano andati perduti.
Le contraddizioni sono evidenti, vedremo se nei prossimi mesi ci sarà un’evoluzione di questa nuova inchiesta.
Per ciò che riguarda invece la mattanza avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere a settembre abbiamo appreso da Repubblica della chiusura indagine a carico di 120 esponenti delle forze dell’ordine “i reati contestati a varo titolo sono quelli di tortura ai danni di numerosi detenuti, maltrattamenti aggravati, lesioni personali aggravate, abuso di autorità contro detenuti, perquisizioni personali arbitrarie, falso in atto pubblico anche per induzione, calunnia, frode processuale, depistaggio, favoreggiamento personale, rivelazioni di segreti d'ufficio, omessa denuncia, e cooperazione nell'omicidio colposo ai danni di un detenuto di nazionalità algerina Hakimi Lamine, deceduto in carcere 4 maggio dello scorso anno”.
Tramite i giornali la Procura fa sapere che risulta complessa l’identificazione delle guardie che hanno commesso i soprusi a causa dei caschi e delle mascherine.
Dopo quasi due anni dai fatti noi non abbiamo bisogno di filmati o verità tribunalizie che ci raccontino la verità, noi l’abbiamo appresa da tempo tramite le lettere e le testimonianze coraggiose dei prigionieri che hanno vissuto quell’inferno. Ci auguriamo che le loro voci raggiungano quante più persone possibile e se qualcuno desidera aggiungere un pezzetto di verità noi siamo pronti ad ascoltare e nel caso tramite il nostro opuscolo a diffondere.