CONTRO IL CARCERE, L'ART. 41 BIS, I REATI ASSOCIATIVI

CONTRO L'ATTACCO ALLE LOTTE SOCIALI

A SOSTEGNO DEI PRIGIONIERI RIVOLUZIONARI

E DELLE LOTTE DI TUTTI I DETENUTI

 

Dossier preparatorio, interventi, contributi e saluti all'assemblea del 14 dicembre 2002

presso la sala dell’USI - V.le Bligny, 22 (Mi)

 

A cura

di compagni e compagne contro il carcere e la repressione

 

 

INDICE

 

Presentazione

 

Parte prima: Dossier preparatorio all’assemblea del 14.12.2002

Introduzione

Sugli artt. 41 bis e 4 bis dell’ordinamento penitenziario

I GOM (Gruppo Operativo Mobile)

Le carceri turche e le celle di tipo “F”

La carcerazione speciale in Spagna (i moduli FIES)

Dall’art. 90 alle carceri speciali, al 41 bis

Il carcere come rapporto sociale

Lettera di una compagna detenuta in un braccio morto del carcere speciale in Germania

 

Parte seconda: Interventi, contributi e saluti all’assemblea del 14.12.2002

Avv. Ugo Gianangeli

Un compagno anarchico sui moduli FIES

Una compagna dell’AFAPP

Avv. Sandro Clementi

Lettera del compagno Marcello Ghiringhelli

Un compagno dell’UDAP sui prigionieri arabo-palestinesi

Compagni del Revoluzionärer Aufbau Shweiz

Un compagno della Panetteria Occupata di Milano

Un compagno anarchico promotore di Milano

Una compagna del foglio Rivoluzione

Una compagna degli AFRP

Un saluto dei compagni Pietro Guido felice e Giorgio Colla

Alcuni compagni francesi sulla proposta di azione contro le nuove carceri in Francia

Una compagna del Gruppo di Lavoro Contro la Repressione

Un compagno di Senza Freni

Un compagno del CPO Gramigna di Padova

Un compagno promotore

Un compagno della Nave dei Folli di Rovereto

Lettera inviata ai compagni prigionieri

Elenco dei carceri con sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P.

 

PRESENTAZIONE

Sabato 14 Dicembre 2002 si é svolta a Milano presso i locali dell’USI in via Bligny una assemblea “contro il carcere, l’art. 41bis e i reati associativi, contro l’attacco alle lotte sociali, a sostegno dei prigionieri rivoluzionari e delle lotte di tutti i detenuti”.  Tale iniziativa, in preparazione da alcuni mesi, é stata promossa da compagni con impostazioni, metodologie di lavoro, esperienze differenti, accomunati dalla necessità di far maturare, dentro il panorama di lotte politiche e sociali, un agire collettivo contro il potere e i suoi strumenti di prevenzione, controllo e repressione dello scontro di classe.  Gli incontri settimanali che hanno preceduto questo momento di discussione pubblica e l’attività di ricerca e di elaborazione pregressa, anche e soprattutto frutto dell’impegno dei singoli compagni, hanno portato alla pubblicazione di un dossier in una serie limitata di copie, come occasione di contro-informazione e di socializzazione del lavoro svolto, che preparasse il terreno per un primo tentativo di sensibilizzazione e confronto.  L’interesse riscosso per l’iniziativa, il dibattito formale e informale, gli scambi e gli incontri avvenuti, hanno rafforzato la convinzione di andare sempre più a fondo alle questioni sollevate.

Abbiamo sottolineato il dato positivo della partecipazione, anche se alcuni tra di noi hanno rilevato che la strutturazione dell’assemblea - in particolare le lunghe relazioni per lo più scritte che riprendevano largamente i contenuti del dossier - abbia minato la possibilità di un dibattito più vivace.

Vista la sostanziale novità dell’appuntamento, la particolarità dei temi trattati e i vari orientamenti politici dei partecipanti, si pensa che alcune rigidità dell’incontro non potevano essere smussate più di tanto e che comunque sia servita anche per rompere il ghiaccio.

Non sono mancate proposte differenti e, implicitamente, l’invito a confrontarle e a renderle operative, partendo dalla constatazione comune che il controllo e la repressione sono un fatto quotidiano di ampie fette del proletariato, delle minoranze agenti all’interno della classe, specificamente dei militanti rivoluzionari.  Si é scelto di aprire un confronto fuori da logiche per così dire “emergenzialiste” e “individualiste”, che ci pongono sempre sul terreno della semplice reazione, quando si viene colpiti dalla repressione, e che mobilitano i diretti interessati soltanto nell’impellente necessità di auto-difesa giuridica, si tratti di singoli compagni, gruppi o organizzazioni, come di aree politiche.

Controllo sociale e repressione sono aspetti inerenti allo scontro di classe con cui fare i conti attraverso una progettualità di ampio respiro, che abbia come proprio orizzonte la trasformazione radicale degli attuali rapporti sociali e la distruzione di ogni sistema di dominio e delle sue articolazioni.

Fare contro-informazione, sviluppare iniziativa, lavorare concretamente sulla com-plessità carceraria, cercando di stabilire quel rapporto di interazione reciproca dentro/ fuori dal carcere e quella comunità d’intenti contro le istituzione totali, é una necessità imprescindibile per chi non voglia avere sempre il fiato corto e stupirsi continuamente delle pratiche repressive dello stato.

Solo i più criminali tra i mistificatori democratici vogliono occultare la natura controrivoluzionaria dello stato, mitigando ogni spinta tendente ad oltrepassare la timida reazione di indignazione innocentista, respingendo con forza ogni pratica di azione diretta, bollata, sempre e comunque, come criminale e destabilizzatrice dell’ordine sociale di cui sono i “sinistri” custodi.

Mentre la macchina della detenzione offre ogni giorno prove della sua produttività e la spirale della criminalizzazione e della carcerizzazione aumenta, dovremmo forse rassegnarci ad una posizione di subalterna richiesta di clemenza attraverso il ponte traballante delle forze politiche istituzionali?

Nel delirio feticista della salvaguardia dell’ordine costituito, della difesa dell’esistente e degli spazi d’azione sempre più ridotti in tutti i terreni del conflitto di classe, dovremmo farci complici diretti o indiretti di una pratica che non porta solo alla sconfitta ma al martirio bello e buono e all’abdicazione di ogni ipotesi realmente rivoluzionaria?  Dovremmo infine trattare il carcere con il piglio filantropico e umanitario che ci permetta di lavare la falsa coscienza che questa società cristallizza, auspicando forme alternative di controllo e repressione (lavoro coatto, terapeutici lavaggi del cervello, carceri dal volto più umano, ecc) oppure squarciare la cortina di silenzio che lo circonda, insieme a chi ha lottato e lotta dentro e fuori per la sua distruzione?  La mole e la qualità del nostro sostegno ai rivoluzionari prigionieri non deve semplicemente limitarsi alla contro-informazione e alla raccolta di fondi, né tantomeno nascondersi dietro la difesa umanitario-democratica delle vittime della repressione, magari di “regimi dittatoriali” lontani, secondo una logica opportunistica di proporzionalità tra solidarietà e distanza geografica.

Non bisogna unirsi a questo silenzio ipocrita e censorio che non fa che rafforzare il potere stesso: il sostegno ai rivoluzionari prigionieri deve svilupparsi all’interno di ogni ambito di intervento politico, come elemento qualificante l’attività militante complessiva.  Occorre far conoscere la voce di tutti i compagni che sono e saranno incarcerati per le loro pratiche, la loro scelta risoluta di non collaborare con la Giustizia, che non rinnegano il proprio patrimonio di rivoluzionari, che non si rendono complici delle strategie e delle tattiche che il potere usa per indebolire il conflitto.

La percezione di questa moderna malattia sociale, il carcere, sta cambiando perchè l’evidenza dei fatti, là dove la crisi si manifesta più apertamente (Argentina, Palestina, Algeria, Corea del Sud, ecc.) e il compromesso sociale ha meno capacità di tenuta, rende cosciente a sempre più proletari la natura di classe del carcere e la sua necessaria distruzione.

Abbiamo prodotto questo nuovo dossier che comprende sia i contributi portati in assemblea, sia le relazioni esposte dai compagni, che quelle che sono state inviate per essere lette. Alcuni contributi sono stati modificati personalmente da coloro che sono intervenuti affinché questi fossero più intelligibili dai lettori.  Abbiamo ritenuto importante ripubblicare, insieme alla totalità degli interventi, il documento introduttivo all’assemblea del 14 Dicembre perché ne erano state stampate soltanto un numero limitato di copie, tra l’altro esauritesi in breve tempo.

 

Gli interventi si sono così strutturati:

Avv. Ugo Gianangeli sul 41 bis e dintorni, l’attuale dibattito sulla proposta di legge alternativa e le sue reazioni politiche, la continuità di questa norma nel corso degli ultimi 25 anni.

Un compagno anarchico che ha parlato della lotta contro il FIES in Spagna.  Una compagna dell’AFAP che ha inviato il suo contributo rispetto agli arresti e alla condizione detentiva in Spagna e in Francia di alcuni compagni comunisti del PCE-r e della campagna di criminalizzazione del sostegno ai rivoluzionari prigionieri.  Avv. Sandro Clementi, legale di alcuni compagni detenuti delle BR-PCC, sulla natura borghese del diritto e sulla qualità della nostra iniziativa come rivoluzionari.  Una lettera del compagno Marcello Ghiringhelli detenuto a San Vittore.  Un compagno dell’UDAP sulla condizione carceraria in Palestina e in Israele e sulla condizione di alcuni compagni palestinesi che lo stato Italiano vuole espellere, reclusi nei centri di detenzione temporanea nel più sinistro silenzio e nel parziale disinteresse delle Autorità Palestinesi.

Una lettera di alcuni compagni del Soccorso Rosso del Revoluzionärer Aufbau

Shweiz, impegnati in un presidio in solidarietà con Marco Camenisch, sulle leggi di guerra nel fronte interno europeo e statunitense (liste nere, criminalizzazione delle organizzazioni, ecc).

Le relazioni dei compagni promotori dell’iniziativa, che alleghiamo, tra cui:

Un compagno della Panetteria Occupata di Milano, un compagno anarchico di Milano, una compagna del foglio Rivoluzione e una Compagna degli amici e familiari dei prigionieri rivoluzionari, intervallati da un saluto dei compagni Pietro Guido Felice e Giorgio Colla detenuti nel carcere di Biella e una proposta d’azione contro le nuove carceri e la nuova legislazione del controllo sociale in Francia.

Nel dibattito sono intervenuti una compagna del gruppo di lavoro contro la repressione, ribadendo l’importanza di dotarsi di strumenti di auto-difesa legale militante e di un bagaglio di conoscenze, come pure di una rete di relazioni adeguate; un compagno di Senza Freni sull’esperienza dell’occupazione della comunità terapeutica Primo Maggio a Parma e sul ruolo della cooperazione sociale nel circuito delle istituzioni totali in Emilia; un compagno del CSOA Gramigna di Padova sulla loro esperienza militante di iniziative contro la repressione; un compagno che ha promosso l’iniziativa che ha parlato a titolo personale muovendo alcune critiche all’insufficienza e alla scarsa rilevanza delle iniziative intraprese fino ad ora e sulla incapacità dell’assemblea di esprimersi su alcuni punti e di coinvolgere ex-detenuti “comuni”. Infine un compagno della Nave dei Folli di Rovereto ha ribadito la necessità di una critica radicale del presente che colga tutti gli aspetti del controllo sociale e si appronti a una pratica conseguente, senza che venga data centralità ad un campo od a una questione particolare.

A fine assemblea é stato redatto e letto un breve saluto per i compagni in carcere che qui alleghiamo.

 

per contatti:

Panetteria occupata

Via Conte Rosso 20, 20134 Milano

rossoconte@hotmail.com

Villa occupata

Via Litta Modignani 66, 20161 Milano

villaria@hotmail.com

Rivoluzione

Piazza Toselli 3, 35138 Padova

rivoluz@libero.it

 

Parte prima

Dossier preparatorio all'assemblea del 14.12.2002

 

Quello che segue é un lavoro “a più mani”, espressione di punti di vista e esperienze di lotta differenti.

Pur conservando queste “diversità”, ciò che accomuna i compagni che hanno raccolto e prodotto il materiale di controinformazione é il sentire comune della necessità di far maturare, dentro il panorama di lotte politiche e sociali, un agire collettivo contro il potere e i suoi strumenti di prevenzione, controllo e repressione dello scontro di classe.

 

INTRODUZIONE

In vista, o agli albori, dell’applicazione dell’articolo 41bis in via definitiva, e della sua messa in pratica non solo ai cosiddetti “mafiosi” e a chi “traffica in esseri umani” ma anche ai rivoluzionari prigionieri, riteniamo indispensabile stimolare un dibattito sia tra le diverse realtà del movimento rivoluzionario, sia tra i detenuti e i loro familiari.  Ci rendiamo conto dell’enorme ritardo con cui ci approcciamo a questo dibattito, considerato che l’articolo 41bis é in vigore dal 1991, ma questo ci é di maggiore stimolo per mettere a punto una discussione che sappia socializzare le diverse esperienze di lotta, confrontando le proposte che ne emergeranno per poter meglio affrontare le lotte che questa ennesima manovra repressiva potrà far scaturire all’interno e all’esterno del carcere.  Tale dibattito é indispensabile per non ritrovarsi ancora una volta impreparati di fronte al nascere di una protesta, o rivolta, all’interno delle prigioni e per poter meglio valutare le possibilità esistenti per uno sviluppo ulteriore delle proteste, magari con metodi differenti da quelli fino ad ora usati. Inoltre per riflettere e trovare soluzioni sulle modalità delle possibili lotte fuori dalle galere in sintonia con quanto da dentro si porta avanti.  Le prigioni sono lo specchio del sociale, l’appendice di un ordine imposto da quanti pretendono di dividere per sempre l’umanità in ricchi e poveri, dove i poveri dovrebbero accontentarsi di elemosinare briciole al banchetto dello Stato-Capitale.  Parlare di galera significa parlare di punizione, parlare di punizione significa parlare di trasgressione delle regole, e di conseguenza, delle regole stesse. Chi impone queste ultime conoscerà sempre chi, per desiderio o necessità, cercherà di infrangerle; finché ci saranno ricchezza e povertà, ci sarà il furto; finché ci sarà il danaro, non ce ne sarà mai abbastanza per tutti; finché esisterà il potere, nasceranno i suoi fuorilegge.  E’ proprio nel tentativo di eliminare ogni fermento sociale che possa fomentare rivolte contro l’ordine costituito, che i paesi europei - adeguandosi al modello statunitense - si applicano nel dimostrare di saper tenere in pugno la situazione sociale interna e nell’appianare i contrasti perfezionando il controllo sociale e reprimendo il dissenso (dalle manifestazioni di piazza alle lotte dei lavoratori, dall’occupazione di case ai sabotaggi diffusi contro tutte le nocività).

Ciò avviene anche attraverso un rapido processo d’integrazione, legislativo, giudiziario, militare (coordinamento delle polizie locali e dei servizi segreti, mandato d’arresto europeo e internazionale, “liste nere” delle organizzazioni rivoluzionarie, di liberazione nazionale o islamiche, applicazione del reato di “terrorismo internazionale” a chiunque ne appoggi o ne condivida la prassi o l’ideologia).  Si rende necessario per il potere, Stato per Stato, di rifunzionalizzare gli apparati repressivi adeguando il controllo sociale allo scontro di classe in corso e alle contraddizioni che questa fase apre.

Assistiamo quotidianamente al suo funzionamento con l’aumento del fenomeno d’irruzione nelle case dei compagni, delle perquisizioni nei centri sociali, nella continua applicazione dei reati associativi, nel monitoraggio costante e nel rastrellamento d’interi quartieri popolari per l’”emergenza criminalità”, all’aumento dei posti di blocco, ai fermi arbitrari, alla detenzione nei lager - detti centri di accoglienza temporanea - con conseguente espulsione degli immigrati senza permesso di soggiorno. Lo spettro della carcerazione serve per prolungare il controllo sociale così come ogni forma di repressione serve per prolungare il consenso forzato. Allo stesso modo le carceri “speciali” e la legislazione che le legittima (in passato l’articolo 90 e oggi il 41bis) sono studiate per favorire il massimo controllo e la massima efficienza repressiva e rispondono, per essere legittimate dall’opinione pubblica, ad esigenze considerate “emergenziali” diventando, di fatto, strumenti integranti e di perfezionamento del sistema di coercizione generale.

La lotta contro il carcere comprende molte differenze ed ha bisogno di confronto, esclude però coloro che hanno a che fare con il potere e con ogni sua istituzione, con tutti i suoi fiancheggiatori sociali. Chi dice carcere, infatti, dice giudice, poliziotto, secondino, assistente sociale, giornalista, politico (di governo o all’opposizione), costruttore, impresario, appaltatore, psicologo, prete..... responsabili diretti di tutte le angherie, soprusi, torture, privazioni e sofferenze, di chi si trova ostaggio dello Stato.  Essendo il carcere uno degli strumenti che lo Stato si é dato per esercitare il proprio potere non dobbiamo farci trovare né impreparati, né passivi, né divisi sul terreno dello scontro contro ogni forma di dominio economico e politico del capitale.  Costruiamo una rete di controinformazione e mobilitazione che, a partire dallo “specifico carcerario del 41bis” sostenga la difesa dell’integrità psicofisica dei rivoluzionari prigionieri, la loro identità politica la loro storia, una mobilitazione che sappia indirizzarsi contro l’istituzione-carcere e i suoi sostenitori, per la libertà di tutti.  Ricostruiamo un terreno di solidarietà di classe anticapitalista e antimperialista, con l’intento di individuare i modi più opportuni per riuscire a sostenere concretamente le lotte individuali e collettive dei prigionieri, cioé agire direttamente contro il potere e i suoi aguzzini.

 

SUGLI ARTICOLI 41 BIS E 4 BIS DELL’ORDINAMENTO PENITENZIARIO

L’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario, la cui applicazione é stata recentemente prolungata per tutta la legislatura ed estesa ai cosiddetti reati di “terrorismo” é, insieme all’articolo 4 bis del medesimo ordinamento, il risvolto carcerario dell’apparato repressivo che lo stato ha dispiegato nell’emergenza criminalità organizzata a partire dalla fine degli anni 80.

Il carcere duro, previsto dal 41 bis, ricalca modelli detentivi già sperimentati con le carceri speciali istituite nel 1977 e l’applicazione dell’allora articolo 90 per la madre di tutte le emergenze: la lotta armata. 41 bis e 4 bis si inseriscono storicamente in un contesto penitenziario segnato dalla approvazione della legge Gozzini (1986) e delle leggi sulla dissociazione e il pentitismo.

Il carcere é diventato il luogo del reinserimento premiale. Quale ulteriore elemento di differenziazione, gli articoli 41 bis e 4 bis inseriscono il mancato accesso ai benefici premiali in base alla condanna. L’unico modo per potervi accedere consiste nella collaborazione alle indagini e nell’accertamento di cessato collegamento con l’”organizzazione” esterna. Il 4 bis impedisce l’accesso ai benefici di legge (lavoro all’esterno, permessi, licenze, detenzione domiciliare, semilibertà, affidamento ai servizi sociali o ai programmi terapeutici); il 41 bis, oltre ad escludere i benefici, istituisce il carcere duro in cui sono sospese le normali regole di trattamento penitenziario. Con lo scopo di mantenere un condizionamento premiale anche per le persone sottoposte a 4 bis e 41 bis la liberazione anticipata é condizionata alla buona condotta interna al carcere: essa viene conteggiata sulla base delle relazioni semestrali di buona condotta formulate dal carcere, in maniera analoga alle altre persone detenute.

 

La nascita

Gli articoli 4 bis e 41 bis dell’ordinamento penitenziario sono provvedimenti emergenziali introdotti a partire dall’inizio degli anni é90 (entrano in vigore nella loro forma definitiva nel 1992).

Il decennio precedente era iniziato con le uccisioni di La Torre e Dalla Chiesa, di quell’epoca sono il pool antimafia di Palermo guidato da Falcone, i maxiprocessi e il ricorso al pentitismo. I primi provvedimenti di questa stagione dell’emergenza “mafia” risalgono al 1982, subito dopo i due omicidi, quando é istituito l’alto commissariato antimafia e viene approvata la legge Rognoni - La Torre. Il codice penale contempla la nuova formulazione del reato associativo di tipo mafioso definendo con l’articolo 416 bis l’associazione di tipo mafioso. Insieme all’articolo 416 bis l’altro reato che più riguarda l’applicazione di 4 bis e 41 bis é il sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione definito dall’art. 630 del Codice Penale.

A partire dagli anni é80 in nome della lotta alla “mafia” si estende l’uso arbitrario di arresti e custodia cautelare, pentitismo, certificazione antimafia obbligatoria, militarizzazione del territorio. Nel 1986 viene approvata la legge Gozzini e tre anni dopo entra in vigore il nuovo codice di procedura penale.

La premialità genera una prima differenziazione tra chi accede ai benefici e chi no, oltre a creare circuiti premiali differenziati per il reinserimento lavorativo, terapeutico o frutto della dissociazione e rivelazione di elementi utili alle indagini. Come ulteriore grado di differenziazione e desolidarizzazione il 4 bis e il 41 bis introducono, in base al reato, l’impossibilità di accedere ai benefici a chi non si dissocia e fa i nomi dell’organizzazione criminale ed eversiva. Dal 1992 la loro applicazione, la cui validità é temporanea (semestrale), é stata sempre rinnovata, fino a diventare nei fatti regime penitenziario permanente.

Il 4 bis e il 41 bis sono il risvolto penitenziario di un apparato emergenziale consolidatosi in Italia negli ultimi decenni contro la criminalità organizzata e i reati considerati di “terrorismo”: comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica, procura nazionale antimafia e procure distrettuali, direzione investigativa antimafia, pool giudiziari, maxiprocessi, pentitismo, reparti speciali delle forze armate e di polizia, militarizzazione del territorio.

 

L’utilizzazione

Negli anni il 41 bis, non solo é stato regolarmente rinnovato, ma la sua applicazione si é via via estesa a nuove categorie di reato e forme di criminalità organizzata.  Analogamente l’articolo 4 bis é abbondantemente applicato quale punizione aggiuntiva per le persone detenute nelle sezioni comuni, che in questo modo devono scontare, per intero, in carcere la condanna. Già da qualche anno rientrano nell’applicazione del 41 bis le persone condannate per appartenenza ad organizzazioni criminali straniere, così come la recente disposizione del governo estende l’uso del 41 bis all’emergenza “terrorismo” e ne prolunga la durata per i prossimi quattro anni. Grazie alla loro formulazione gli articoli 4 bis e 41 bis sono utilizzati in maniera diffusa. Essi comprendono qualsiasi tipo di “delitto” teso ad agevolare l’attività delle organizzazioni e qualsiasi persona indicata dalla procura nazionale antimafia.  Nella criminalità organizzata e per i reati considerati di “terrorismo” possono essere inclusi numerosi fenomeni associativi, così come ampio é il ricorso alle condanne per sequestro di persona. La loro introduzione ha avuto una ricaduta negativa sulla concessione complessiva dei benefici, orientando tribunali e magistratura di sorveglianza in senso restrittivo anche al di là dei casi interessati dagli articoli 4 bis e 41 bis.  L’applicazione dell’articolo 41 bis (il regime di carcere duro) é cresciuta negli anni e riguarda circa 650 persone detenute; il 4 bis, che prevede l’esclusione dai benefici e la detenzione in istituti e sezioni carcerarie comuni, é applicato a migliaia di persone detenute.

 

Circuiti differenziati

Come nel 1977 era stato per l’istituzione delle carceri speciali e dell’articolo 90, così con il 41 bis il circuito penitenziario si diversifica con propri regimi detentivi, istituti, sezioni, personale e strutture di riferimento esterne. Le persone detenute in 41 bis sono sorvegliate da agenti di polizia penitenziaria che non entrano in contatto con le sezioni comuni delle carceri. I GOM (gruppo operativo mobile), quei massacratori che “pare” siano stati scoperti per la prima volta durante il G8 di Genova, sono agenti speciali della polizia penitenziaria, alle dirette dipendenze del ministero, incaricati di effettuare ispezioni, trasferimenti e attività di intelligence carceraria relativamente alle persone in 41 bis. Gli articoli 41 bis e 4 bis contengono anche una differenziazione al proprio interno basata sulla creazione di tre fasce di pericolosità dei reati cui corrispondono diversi gradi di possibilità di accesso ai benefici.Reati di prima fascia: 416 bis CP (associazione mafiosa), al fine di agevolare l’attività delle associazioni del 416 bis CP, delitti art 630 CP (sequestro), art 74 decreto del Pres. della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309 (traffico stupefacenti).  Reati di seconda fascia: come la prima fascia con circostanze attenuanti art. 62 numero 6, art. 114 CP, art. 116 secondo comma.

Reati di terza fascia: delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, art. 575, 628 terzo comma, 629 secondo comma, art. 73 nelle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 80 comma 2 del decreto del Pres. della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309. Il procuratore nazionale antimafia e il procuratore distrettuale, su segnalazione del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza, hanno inoltre la facoltà di stabilire l’applicazione degli articoli 4 bis e 41 bis a qualsiasi persona detenuta ritenuta in collegamento con la criminalità organizzata, al di là dei reati per cui essa é condannata.

Per i reati di prima fascia l’unica alternativa al carcere duro é la collaborazione con l’autorità giudiziaria che porti benefici concreti all’azione repressiva. Tale forma di collaborazione sulla base di una propria disciplina specifica dà accesso a benefici e programmi di protezione.

Per i reati di seconda fascia occorre una collaborazione anche senza effetti pratici sulle indagini e l’accertamento dell’esclusione di collegamenti con la criminalità organizzata.  Rispetto ai reati di terza fascia la revoca é condizionata dall’esclusione di qualsiasi collegamento con l’”organizzazione” esterna.

La differenziazione si ripercuote anche nei regimi detentivi di sicurezza del 41 bis.  Un regime iniziale di massima sicurezza estremamente duro, della durata di almeno un anno e un regime ordinario di sicurezza speciale. Il primo viene applicato con lo scopo di creare un isolamento completo e favorire la confessione.

 

Limitazioni della difesa

La discrezionalità che l’articolo 41 bis prevede per gli apparati preposti a verificarne la legittimità rende vano qualsiasi tentativo di ricorso contro la sua applicazione, anche prima della sentenza di condanna definitiva. Per revocare 41 bis e 4 bis, fuori dai casi di collaborazione, si deve escludere qualsiasi collegamento con l’”organizzazione” esterna secondo le informazioni fornite dall’apparato investigativo (sia giudiziario sia di polizia). I collegamenti comprendono qualsivoglia rapporto o relazione con ambienti o persone appartenenti alla criminalità organizzata, anche se non condannate a tal riguardo. Rispetto ai collegamenti con le organizzazioni esterne vige una presunzione di colpevolezza dettata dalla sentenza di condanna che ne stabilisce l’esistenza al momento della commissione del delitto.

Per la revoca del 4 bis e 41 bis occorre una prova negativa che dimostri la scomparsa di tali collegamenti e a fornirla devono essere gli apparati giudiziari e di polizia.  I colloqui con l’avvocato dentro il carcere si svolgono con vetro divisorio e citofono o interfono. Nell’applicazione del 41 bis sono previsti anche i processi in video-conferenza con la lontananza della persona imputata dall’aula del dibattimento e il collegamento telefonico con la difesa.

 

Limitazioni dei contatti esterni

I contatti tra la persona detenuta e l’esterno sono volutamente limitati, anche per quanto riguarda il nucleo familiare che é considerato dall’istituzione un potenziale tramite con l’organizzazione esterna. Le persone sottoposte a 41 bis sono detenute in carceri speciali, o sezioni speciali di istituti, in città distanti da quelle di provenienza; i colloqui sono limitati nel tempo (più di quanto imposto alle altre persone detenute) e nelle forme (vetri divisori e controlli).

Il regime 41 bis di massima sicurezza prevede un unico colloquio al mese, quello di speciale sicurezza ne prevede da due a quattro che si svolgono in un locale molto piccolo, una sorta di acquario col vetro divisorio fino al soffitto, telecamera e citofoni per parlare con i parenti; a volte questi “locali” sono di 1 metro per 1 metro e i familiari devono fare i turni per parlare al citofono.

Le restrizioni riguardano anche i colloqui telefonici che non possono essere effettuati verso le abitazioni di residenza della famiglia né ad apparecchi mobili. I famigliari, su appuntamento, si devono recare presso il carcere cittadino e da lì ricevere le telefonate per una durata inferiore di quella concessa con la detenzione ordinaria. Sono penalizzati anche i pacchi dall’esterno e la posta. C’é il visto di controllo sulla corrispondenza in arrivo e in partenza: le lettere in arrivo vengono aperte e controllate, quelle in partenza devono essere consegnate aperte.

 

Limitazioni della vivibilità interna

Le sezioni del 41bis sono sempre in una palazzina separata dal resto del carcere e 6 di queste hanno una cosiddetta “Area Riservata” per i detenuti definiti “eccellenti”.  Solitamente sono al piano terra della sezione, quella meno areata e illuminata del carcere, con il cesso nella cella posto dietro un muretto.  Il “passeggio” di quei detenuti più “speciali” degli altri é una sorta di gabbia in cemento armato di due, tre metri per cinque e alta tre metri, chiusa in cima da una pesante rete metallica a maglie molto strette, il tutto video sorvegliato.  In queste aree possono finirci anche detenuti che non hanno commesso grossi reati o che sono prossimi al fine pena.

Le sezioni “normali” del 41bis hanno un bagno separato.

In alcune sezioni (Cuneo, L’Aquila, Viterbo) ci sono fino a tre sbarramenti alle finestre delle celle: il primo di sbarre vere e proprie, il secondo di una rete abbastanza fitta, il terzo fatto da una serie di fasce di ferro o di vetro anti-scasso attaccate una sopra l’altra a formare una specie di tapparella (“gelosia” in gergo penitenziario) leggermente inclinata verso l’esterno, dalla quale filtra poca aria e poca luce, con conseguente abbassamento della vista.  ll 41 bis prevede poche ore d’aria e durante queste limita le possibilità d’incontro tra le persone detenute a piccoli gruppi (da due a otto persone) o in solitudine.  Non si ha accesso alle strutture sportive e ai luoghi di socialità comune. Il passeggio é confinato a vasche di cemento.

La lista di beni alimentari acquistabili con la spesa é limitata, non si possono cucinare le pietanze, né si ha accesso alla commissione di controllo in cucina.  Le numerose restrizioni riguardano gli oggetti consentiti in cella, comprese le fotografie, le musicassette e le bottiglie. Le persone sottoposte a regime 41 bis sono escluse dai programmi didattici e dalla frequentazione di scuole e corsi interni al carcere.  E’ limitato l’accesso alle biblioteche e i contatti con il volontariato, così come la scelta di giornali e riviste. Si può tenere in cella un numero ridotto di libri, fascicoli, quaderni e penne. Sono vietate le pubblicazioni con copertina rigida.

 

E ancora...

Oltre a tutto ciò che il 41 bis prevede per legge e nelle circolari di applicazione, c’é un settore sommerso di diversi comportamenti extra legali che ha luogo nelle diverse carceri e sezioni. Notizie di maltrattamenti, pestaggi, torture, soprusi e vere e proprie esecuzioni sono emerse da dietro le mura. In ogni istituto o sezione 41 bis esistono particolari tipi di vessazione imposti dagli agenti penitenziari, dalla direzione o dalla magistratura e tribunali di sorveglianza.

 

Conclusioni

Sino a qui, ciò che é stato e ciò che é a tutt’oggi.

Con le nuove leggi europee si allargano le possibilità repressive che gli Stati si sono dati per controllare e reprimere il dissenso.

Difatti, in materia di legislazione europea, si arriva a prevedere il fine terrorista anche per i reati di “occupazione abusiva o danneggiamento di infrastrutture statali e pubbliche, mezzi di trasporto pubblico, luoghi e beni pubblici (...) cui potrebbero rientrare gli atti di guerriglia urbana”.

Qualsiasi forma di dissenso politico che travalichi o minacci la legalità é terrorismo, quindi anche qui é possibile che venga applicato l’art. 41bis a chi verrà imputato di tali azioni.

Appare subito evidente che se non iniziamo ad opporci concretamente, presto ci ritroveremo di fronte ad enormi difficoltà di movimento.

La storia ci ha insegnato che é sempre nei momenti di abbassamento del livello di scontro che il potere trova il tempo e i modi per razionalizzarsi e approntare i propri mezzi di difesa e attacco contro gli sfruttati e chi si ribella.  E non credano, coloro che sono abituati a dialogare con le Autorità, o che pensano (ragionando in termini di slogan) che “fare la tal cosa non é reato”, di essere esenti dalle attenzioni repressive.

Le ultime incriminazioni per il reato di associazione sovversiva sono state costruite partendo dalla contestazione di reati di entità notevolmente differente, come l’attentato, la rapina, il danneggiamento, la propaganda, il furto di un auto e, da ultimo - per le nuove disposizioni europee - anche gli incidenti durante le manifestazioni e l’interruzione di pubblico servizio.

Qualsiasi reato potrà essere contestato con l’aggravante “terrorismo”, di conseguenza chiunque potrà finire nei circuiti del 41bis.

E’ una cosa che riguarda tutti, ladri, ribelli, rivoluzionari e antagonisti, chiunque violi, per scelta o necessità, il Codice Penale.

CARCERI CON SEZIONI DEL 41bis

CUNEO

L’AQUILA

MARINO DEL TRONTO (AP)

NOVARA

PARMA

PISA (centro diagnostico terapeutico)

REBIBBIA (femminile e maschile)

SECONDIGLIANO (NA)

SPOLETO

TERNI

TOLMEZZO (UD)

VITERBO

DETENUTI IN 41bis AL 27.07.02

645 di cui 17 nell’area riservata

POSIZIONE GIURIDICA

421 definitivi

55 ricorrenti

81 appellanti

79 in attesa di primo giudizio

9 non classificati

 

I GOM (GRUPPO OPERATIVO MOBILE)

E’ un gruppo scelto di agenti di Polizia Penitenziaria che opera alle dipendenze dirette del Direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria presso il Ministero di Giustizia. Questo corpo speciale nasce da un decreto interno al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nel 1997, sulla base di indicazioni già contenute in un decreto del 1994, dopo che era scoppiato lo scandalo dei pestaggi nel carcere di Napoli Secondigliano - vedi il dossier del Comitato Liberiamoci dal carcere di Napoli “Da Sassari a Poggioreale” del 2000 (http://www.ecn.org/ska/carcer/dossier.html).  Tra le finalità ufficiali di questa struttura vengono indicate il mantenimento dell’ordine e della disciplina negli istituti penitenziari, con priorità a interventi in occasione di “gravi situazioni di turbamento”; inoltre i Gom sono impegnati nel garantire la sicurezza delle traduzioni e piantonamento relativi a detenuti ed internati definiti ad altissimo indice di pericolosità e con particolare posizione processuale (collaboratori di giustizia e altri), che possono essere effettuati, per motivi di sicurezza e riservatezza, in deroga alle vigenti disposizioni amministrative in materia, con particolari modalità operative.  Il GOM ha inoltre provveduto, sia in via esclusiva che di concorso, secondo specifiche disposizioni impartite dal Direttore Generale, al servizio di custodia dei detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario (carcere duro), laddove esista l’opportunità di ulteriori misure di sicurezza, e dei “collaboratori di giustizia” in stato di detenzione, ritenuti maggiormente esposti al rischio di aggressioni Infine al GOM competono i servizi di tutela e scorta del personale in servizio presso l’Amministrazione penitenziaria esposto a particolari situazioni di rischio personale (effettuati dal Nucleo Tutela e Scorte costituito da circa 50 unità), la traduzione di tutti i detenuti “collaboratori di giustizia”, ad altissimo rischio, la gestione del servizio di multivideocomunicazione (processi in videoconferenza) e gli interventi disposti dal Direttore Generale nei casi di emergenza previsti dall’art.  41 bis (irruzioni nelle celle, intercettazioni).

Il GOM, diretto dal Generale Alfonso Mattiello, é costituito da circa 600 uomini alle dirette dipendenze della Direzione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

Ufficialmente ha compiti di sorveglianza e protezione dei detenuti di massima pericolosità.

Come già scritto, il GOM nasce nel 1997, dalle ceneri dello Scop (Servizio coordinamento operativo), un corpo composto da 500 uomini sparsi in tutta Italia e pronti a correre da un carcere all’altro in caso di rivolte o di particolari necessità.. Lo Scop infatti, oltre a sedare le proteste ha avuto la funzione, poi ereditata dal Gom, di acquisire informazioni. Il corpo speciale del GOM é il fiore all’occhiello del corpo di Polizia Penitenziaria - si veda il sito http://www.poliziapenitenziaria.it - e gode di cospicui finanziamenti. In realtà l’operato degli agenti GOM si contraddistingue dalla particolare brutalità nelle ispezioni che regolarmente si trasformano in devastazioni delle celle, degli oggetti personali delle persone recluse, nonché maltrattamenti e soprusi nei loro confronti. Proprio per questo si era pensato a un coinvolgimento dei GOM nel pestaggio del carcere di Sassari dell’aprile 2000, sebbene sia poi emerso che la presenza di agenti GOM fosse limitata a poche unità. I GOM sono coperti dalla più totale impunità in quanto non rispondono delle loro azioni né alla Direzione né al Comando delle guardie dell’Istituto penitenziario in cui intervengono e godono dell’autorizzazione a intervenire direttamente dal Ministero. Vengono anche utilizzati in modo mirato per colpire i traffici che vedono il coinvolgimento di agenti penitenziari locali.  Durante gli anni é90 furono aperte due grandi inchieste per maltrattamenti avvenuti nelle carceri di Secondigliano e Pianosa. Vennero rinviati a giudizio 65 agenti dello Scop diretti dal generale Enrico Ragosa, poi passato al Sisde e adesso alla direzione dell’UGAP (Ufficio Garanzie Penitenziarie) che dirige l’attività dei GOM (http://www.giustizia.  it/guidagiustizia/dap_ugap.htm). Il carcere di Pianosa venne in seguito chiuso per intervento dell’ex direttore del Dap, Alessandro Margara, all’epoca magistrato di sorveglianza a Firenze. Oggi il ministro della Giustizia Castelli chiede la riapertura del carcere di Pianosa,insieme a quella di altri istituti dismessi.  Lo Scop fu poi disciolto ma il suo posto fu preso dal GOM, dove confluirono gli stessi agenti. Nel 1998, 15 agenti GOM entrano nel carcere milanese di Opera per effettuare una perquisizione straordinaria. Anche in quell’occasione si utilizzò il paragone cileno: “Detenuti spogliati, qualcuno anche tre volte, costretti a ripetuti piegamenti, pure i cardiopatici e gli anziani; quindi raggruppati nel cortile, al freddo dalle 9.30 alle 13.30, chi in accappatoio, chi scalzo, mentre le celle venivano perquisite”. “Alcuni agenti di Opera erano sconcertati, ed hanno raccontato di aver rischiato di arrivare alle mani con i loro colleghi del Gom”. Le richieste di scioglimento dei GOM in quell’occasione non portarono a nessun risultato, anche se, come in passato per gli scandali riguardanti lo Scop, nacque l’esigenza di cambiare la sigla del corpo, o confonderla in quella di un ufficio di coordinamento. Nel 1999 Diliberto, ministro della Giustizia del governo D’Alema, dopo aver posto ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria Giancarlo Caselli in sostituzione di Margara, fa nascere l’UGAP (Ufficio Garanzie Penitenziarie) che attualmente dirige l’attività dei GOM. A capo dell’UGAP viene messo il generale Enrico Ragosa, già degli Scop e del SISDE, che guiderà anche la spedizione di funzionari del ministero di giustizia italiano in Kossovo per procedere alla ricostruzione e riorganizzazione post-bellica del sistema penitenziario Kosovaro. Nel febbraio del 2000 il GOM ottiene un distintivo di appartenenza, nel marzo 2000 agenti dei GOM intercettano, in palese violazione della legislazione vigente, le comunicazioni tra un imputato e il suo avvocato durante un processo per associazione camorristica. Il Gruppo Operativo Mobile dispone di automezzi e autovetture, anche protette. Il perfetto stato di efficienza dei mezzi, per l’immediato impiego, é garantito dal Centro Servizi, ove opera personale di polizia penitenziaria con specifica esperienza nel settore (circa 15 unità), per il quale l’aumento delle esigenze operative, unitamente al potenziamento della dotazione di veicoli, ha comportato un incremento notevole delle attività. Il GOM ha operato ed opera presso le Case Circondariali di Roma “Rebibbia Nuovo Complesso”, Roma “Regina Coeli”, Velletri, Viterbo, L’Aquila, Ascoli Piceno, Pisa, Cuneo, Napoli “Secondigliano”, Catanzaro, Agrigento, Palermo “Ucciardone”, Palermo “Pagliarelli”, Trapani, Novara, Tolmezzo, Alessandria, nonché presso le Case di Reclusione di Spoleto, Sulmona e Parma.

 

LE CARCERI TURCHE E LE CELLE TIPO “F”

La carcerazione speciale in Turchia necessita un discorso differente dal resto dei regimi di detenzione europei. Essa deve la sua metamorfosi ad un percorso d’integrazione al modello occidentale dei sistemi di contro rivoluzione preventiva intrapreso dallo Stato turco.

La Turchia, dal punto di vista strategico militare, riveste un ruolo particolarmente importante tra occidente e medio oriente, é quindi una base strategica fondamentale per il guerrafondismo capitalista americano/occidentale - vedi Iraq e Afghanistan.  Lo Stato turco, come membro della Nato, fedele alleato con le forze statunitensi nella nuova “guerra infinita al terrorismo” e prossimo all’ingresso nell’Unione Europea, deve adeguare la propria immagine di Paese dalle maniere repressive “primitive” ad una più consona di Stato democratico, questo anche a riguardo alle patrie galere.  Esso deve rimodellare le sue carceri introducendo l’isolamento, prendendo a modello le celle come quelle americane e spagnole, pur non disdegnando la vecchia ma sempre praticata tortura e guadagnandosi il rispetto a suon d’asservimento agli U.S.A., i quali contraccambiano regalando al regime di Ankara armi ed elicotteri di propria fabbricazione.

Nel 1996 viene introdotta la prima cella di tipo “F” (F type). Questa “innovazione” in campo carcerario persegue l’obiettivo d’isolare i prigionieri politici dai detenuti comuni.  L’applicazione dell’isolamento nelle attuali condizioni delle carceri turche, peraltro, é di difficile attuazione dato l’ammassamento dei prigionieri nelle celle comuni.  Questa prima cella tipo “F” fu accolta dai detenuti con uno sciopero della fame che vide coinvolte 69 persone, tra le quali aderirono prigionieri comuni islamici. Morirono 12 persone, riuscendo col loro gesto a far chiudere il carcere in questione, non rendendo vana la loro lotta.

L’obiettivo delle celle di tipo “F” oltre che a voler dividere i detenuti, é anche quello di distruggere l’identità rivoluzionaria dei prigionieri politici, oltre che spingere al pentitismo, alla delazione o alla dissociazione.

Numerose furono le rivolte, represse brutalmente dai secondini congiunti alla Cevik Kuvvetleri (forze di azione rapida) e squadre anti-sommossa che usarono largamente armi da fuoco e liquidi infiammabili. Clamorosi furono i casi delle sanguinose sommosse negli anni ‘95, ‘96 e ‘99, costate la vita a molti detenuti, e il ferimento di altre centinaia, che furono mutilati, stuprati, torturati, resi irriconoscibili. I prigionieri di fronte a simili barbarie, hanno sempre fronteggiato dignitosamente le istituzioni carcerarie e la mafia interna (utilizzata per vere e proprie esecuzioni specialmente per i detenuti in sciopero della fame) resistendo anche fino alla morte.  Strumento importante, per le lotte contro il carcere, utilizzato dai detenuti in Turchia é lo sciopero della fame. Tra gli ultimi nell’Ottobre del 2000, 819 prigionieri politici in 18 carceri differenti iniziano uno sciopero della fame ad oltranza. In seguito, in 13 carceri, 203 prigionieri politici trasformarono la loro resistenza in uno sciopero della fame sino alla morte: 50 donne, 153 uomini.

Nel Dicembre 2000 questa lotta fu repressa brutalmente dallo Stato col fuoco e le pallottole.

Ci sono state manifestazioni di protesta di massa in Turchia, con la partecipazione di decine di organizzazioni, sindacati ed associazioni per i diritti umani: tutti quelli che hanno protestato sono stati colpiti dalla repressione, con diversi arresti e la chiusura di varie associazioni (tra cui quella delle famiglie dei prigionieri, TAYAD), giornali censurati, avvocati minacciati. Lo Stato non é comunque riuscito, attraverso i massacri, a fermare la campagna di scioperi della fame, nemmeno minacciando i dottori e continuando la tortura attraverso l’alimentazione forzata e l’incatenamento dei prigionieri ai letti.

Il 28 maggio 2002 i detenuti sanciscono la cessazione dello sciopero della fame ad oltranza, ma questo non segnerà la fine delle lotte contro le celle di tipo “F” promosse e appoggiate dai militanti rivoluzionari e da molti detenuti comuni. La lotta cambierà le modalità ma non perderà la sua forza nonostante la repressione tuttora in atto.

I prigionieri, quindi, continueranno a rivendicare: l’abolizione delle celle di tipo “F”; la fine delle torture, sia fisiche sia psicologiche, e dell’isolamento; l’introduzione periodica di controlli alle prigioni da parte di avvocati addetti a questo compito, medici selezionati dai prigionieri, delegati di organizzazioni che appoggiano i detenuti, O.N.G. per i diritti umani e il sindacato della Magistratura; controlli non arbitrari e tutelati dalla legge; l’abolizione della legge antiterrorismo n° 3713; la cancellazione del protocollo tripartito (del Ministero della Giustizia, degli Affari Interni e della Salute) che abolisce la difesa e legittima il trattamento coatto dei malati e la tortura; l’abolizione del DGM (Corti di Sicurezza Statali) risalenti al periodo della giunta; che siano processati i responsabili delle morti e dei feriti causati dagli attacchi a diversi carceri; il rilascio dei malati e dei feriti.

TRATTO DA “SOLIDARIDAD, POR UN SOCORRO ROJO INTERNATIONAL”

N.5 OTTOBRE 2002

Lo sciopero della fame più lungo di tutta la storia continua a verificarsi nelle carceri turche di sterminio. I dati affermano che i nostri prigionieri, quelli del TKEP/L, continuano la protesta ad oltranza.  In maggio molte organizzazioni decisero di porre fine allo sciopero ad oltranza fino alla morte, per ragioni che non condividiamo fino in fondo, ma che sono da rispettare, soprattutto quando continuano a dimostrare che la loro resistenza continua nelle carceri di sterminio.  Gli scioperi della fame, comunque, continuano e fino ad oggi i morti rivoluzionari arrivano a 92.

Anche le azioni di solidarietà, gli incontri, le proiezioni di video e le iniziative contro la situazione turca nel resto d’Europa stanno continuando apportando un grosso contributo d’appoggio ai prigionieri in lotta. In risposta a queste rivolte ed espressioni di resistenza e lotta, il DHKP/C é stato incluso nella lista delle organizzazioni terroriste.

 

LA CARCERAZIONE SPECIALE IN SPAGNA (I MODULI FIES)

Durante gli anni ‘70 e ‘80 in molte carceri della Spagna vi furono diverse sommosse caratterizzate da vere e proprie rivolte, scioperi della fame e dei laboratori di lavoro e parecchi morti e feriti tra i prigionieri e tra i carcerieri.  Alla fine di Gennaio del 1977 esce pubblicamente il “Manifesto dei prigionieri sociali di Carabanchel”, che ò il risultato dello studio delle cause della loro situazione e la sua possibile soluzione.

Si forma il coordinamento dei prigionieri in lotta (COPEL) che rivendica miglioramenti concreti nelle carceri, un’amnistia totale, e l’abbattimento delle leggi e delle strutture ereditate dal franchismo. A questa situazione lo Stato rispose con una forte repressione, che comportò l’indebolimento e la successiva scomparsa del COPEL.  Nel 1991, mentre in Italia veniva istituito il 41bis, in Spagna vengono instaurati i regimi speciali per i prigionieri F.I.E.S. (archivio di interni in speciale osservazione), su richiesta dell’esponente del partito socialista spagnolo (P.S.O.E.), Antoni Ansuncion.

Nel 1994 il Tribunale Costituzionale accordò di sospendere questo regime FIES fino a quando si trasmise a questo Tribunale il ricorso di tutela di diritti presentato da alcuni detenuti.

Dopo la promulgazione del nuovo regolamento penitenziario, la filosofia della circolare del 2/8/91 che regola il regime al quale sono sottoposti i prigionieri FIES, continua ad esistere.

Questo regime, la cui durata é a tempo indeterminato, prevede un isolamento pressoché totale; i piccoli cortili per l’ora d’aria sono coperti da reti metalliche; vengono effettuate perquisizioni integrali; esposizioni arbitrarie ai raggi X; torture fisiche; trattamenti farmacologici con psicofarmaci e letti di contenzione.

I moduli sono progettati e suddivisi in cinque sezioni e vi sono rinchiusi individui catalogati in base alla loro pericolosità sociale:

FIES I - rinchiude individui protagonisti di rivolte, azioni contro il sistema e le autorità, tentativi di evasione.

FIES II - racchiude indiziati per traffico di droga e riciclaggio.

FIES III - racchiude presunti appartenenti ad organizzazioni rivoluzionarie.  FIES IV - raggruppa appartenenti alle forze di sicurezza dello Stato per proteggerne l’integrità.

FIES V - vi sono collocati gli antimilitaristi e coloro che destano allarme sociale.  Dal ‘94 in poi le lotte contro le condizioni carcerarie e il carcere stesso continuarono dentro e fuori, nonostante l’istituzione del regime speciale.  Di particolare rilievo fu un episodio del 1977, quando diverse persone e collettivi si rinchiusero nella cattedrale dell’Almudena per protestare ed esigere la chiusura dei moduli FIES.

Dal 1999 ad oggi I prigionieri FIES continuano la lotta che si manifesta con continui scioperi della fame, rifiuto dell’ora d’aria, di effettuare le pulizie, spesso si scontrano con le guardie, devastano le celle e rendono inagibili le sezioni. All’esterno vi sono state varie manifestazioni di solidarietà che sono spaziate dai cortei ai presidi sotto le carceri, dalla controinformazione alle azioni dirette contro strutture legate all’istituzione

carcere, contro giornalisti e banche. Solidarietà che si é espressa sia in Spagna sia in altri paesi europei, Italia compresa.

Attualmente i prigionieri nei moduli F.I.E.S. esigono:

la scarcerazione dei detenuti con malattie terminali;

la cessazione della dispersione dei detenuti;

la cessazione dell’isolamento e l’abolizione dell’archivio F.I.E.S.

TESTIMONIANZA TRATTA DA UNA LETTERA DI CLAUDIO LAVAZZA,

ARRESTATO NEL ‘96 E DA ALLORA RINCHIUSO IN UN MODULO F.I.E.S.

(...) “La proposta seria di lotta l’abbiamo pure lanciata ai quattro venti ed é pubblicata nella rivista Senza Censura n°5 (giugno 2001, pag.47) che, riassumendo, diceva: ése ci costringete a vivere nella merda, che nella merda ci vivano anche quelli che ci sorvegliano’.

Si trattava di otturare i cessi per far si che la tubatura scoppiasse in tutto il modulo FIES, ed é quello che successe nel carcere di Picassent, a Valencia.  Dopo una settimana impiegata ad otturare I W.C. con stracci, borse di plastica, ecc ...le tubature saltarono inondando di merda anche i locali normalmente frequentati (per il loro lavoro) dai secondini, obbligandoli a chiudere immediatamente l’intero modulo per il grave pericolo di infezioni, e anche perché non avevano il coraggio di lavorare con mezzo metro di merda nel pavimento.

A me, noi non ce ne frega niente di rimanere mesi con la merda nelle

celle...però ai secondini sì che gli dà fastidio... eccome!  Quante volte abbiamo chiesto la chiusura dei Bracci FIES con i nostri scioperi della fame? Però é bastato riempirli di merda per chiuderli momentaneamente... Vi immaginate se tutti i Bracci FIES fossero riempiti di escrementi?  Al potere gli interessa solo l’economia, e l’esistenza sicura dei suoi servi, a questi non basta un buon salario, chiedono anche buone condizioni nel posto di lavoro...e con la merda non si scherza. Nessuno ci vuole avere a che fare.

Questa grande proposta l’abbiamo fatta circolare un po’ dappertutto, assieme ad altre di sabotaggi continui e ripetuti alle strutture di vigilanza e controllo, camere, metal detector ecc, però non c’é stata risposta, se non in poche situazioni. Il trucco, se così lo possiamo chiamare, é di rompere e sabotare senza essere visti, senza che i cani possano accusarti di aver fatto... Anche perché, per un vetro rotto ti possono aumentare la condanna di due anni.  (...) C’é chi si lamenta che le cose non sono più come erano anni fa quando c’erano i compagni/e.

Tenete presente che quando circa 400 prigionieri hanno iniziato lo sciopero della fame solo il 10% sarebbe stato d’accordo ad una lotta di bassa intensità (sabotaggi); quella ad alta intensità (senza armi) non possiamo dichiararla, anche perché queste strutture sono concepite in modo che la custodia ti possa bloccare da solo con 15 o 20 secondini armati di tutto punto (anti-sommossa).  Però una cosa é chiara e deve esserlo per tutti quelli che soffrono le torture e le ingiustizie, e cioé che niente deve essere dimenticato e alla prima occasione, quando tu lo decidi e non loro, abbiamo il dovere di vendicarci del torturatore.  Ad es., a Jaen, nel carcere dove stavo prima, se un compagno veniva torturato o insultato, quel giorno stesso e quella notte si picchiavano le porte (non dormiva nessuno perché il rumore si poteva sentire fino a parecchi Km di distanza), e poi insulti al direttore dalle finestre, senza poi dimenticare la guerra di bassa intensità. Ci costava, però quasi sempre ottenevamo quanto richiesto, vale a dire l’allontanamento dei secondini torturatori, e ciò era sempre festeggiato da noi come una vittoria.

Di idee ce ne sono un mucchio, tanto scritte quanto dette, noi le abbiamo anche messe in pratica e hanno funzionato. Se non si fa é perché non si vuole o perché c’é molto da perdere. Chiaramente se ci fosse un buon appoggio dal movimento esterno forse sarebbe diverso.  (...) A Cordoba si sente come maltrattano un prigioniero, però nessuno protestava, cosa del tutto impensabile in un Modulo dove ci sono solo i più ribelli con o senza preparazione politica. Questa mancanza di solidarietà é dovuta alle differenze che creano i benefici penitenziari. Come nella società libera chi ha di più é meno interessato alla situazione di chi ha nulla.  Un prigioniero FIES ha niente, per lui il carcere é un inferno; uno in 2° grado ha quasi tutto, questo fa la differenza e, credetemi, la distanza tra una realtà e l’altra la si può calcolare in anni luce. (...)”.

Maggio 2002

 

DALL’ART. 90 ALLE CARCERI SPECIALI AL 41 BIS

Il carcere imperialista e il suo funzionamento sono una delle più alte espressioni del domino coercitivo imposto nella società divisa in classi come quella in cui viviamo.  Proprio per questo esso può rappresentare un’illuminante chiave di lettura per comprendere i codici che regolano la società attuale, la lotta di classe e i rapporti di forza in campo. Non a caso si sente spesso ripetere: “Il carcere é lo specchio della società”.  Analizzando le trasformazioni avvenute nel suo ordinamento negli ultimi decenni ci accorgiamo infatti che esse portano con sé parte importante della lotta di classe e della lotta rivoluzionaria nel nostro paese e indicano le idee guida che ha seguito la borghesia non solo per rimodellare il sistema carcerario ma anche per imporre il suo sistema di dominio in tutta la società. Ci accorgiamo anche che ogni trasformazione non é transitoria e atta a far fronte a qualche emergenza ma é già inscritta nella natura stessa del carcere e del dominio di classe che esso tutela. Si tratta di modifiche che registrano lo stato del rapporto di forza tra le classi e mettono in luce la funzione non solo repressiva (del castigo) ma anche quella preventiva (di deterrenza) sia per i comportamenti sociali che escono dalle regole prestabilite della cosiddetta “convivenza civile” sia per i comportamenti politici rivoluzionari che coscientemente mettono in discussione il potere.  Il carcere é quindi uno degli strumenti della controrivoluzione preventiva, attività costante e strutturata di ogni stato “democratico” imperialista che fonda il suo potere sull’oppressione di una classe sull’altra.

Queste riflessioni trovano verifica se andiamo a vedere il percorso che porta dall’art.  90 all’art.41 bis. Ripercorrendo questo itinerario siamo in un’ottima posizione per studiare la realtà perché la guardiamo da uno dei punti più alti dell’apparato repressivo: il carcere nel suo primo girone, quello di massima sicurezza. Questa istituzione totale é infatti organizzata come i gironi dell’inferno dantesco regolati dal codice della premialità, questi gironi trasbordano fin fuori dalle mura attraverso le misure alternative alla detenzione. Proviamo ora a vedere i passaggi della modifica del sistema detentivo negli ultimi decenni.

L’art. 90 fa parte della legge sull’ordinamento penitenziario del luglio ‘75, comunemente conosciuta come riforma carceraria, ma esso non viene immediatamente applicato.  Esso dice: “Quando ricorrono gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza, il Ministro per la Grazia e Giustizia ha facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione in uno o più stabilimenti penitenziari, per un periodo determinato, strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza”. Con questo fatto lo stato si arroga la possibilità che il suo esecutivo possa, a suo piacimento, sospendere una legge e definire che a una parte di cittadini vengano sospesi dei diritti.

La riforma carceraria, di cui fa parte questo articolo, é stata la risposta a un grosso

ciclo di lotte dei detenuti e il codice che la informa é la premialità e la pena a seconda

del comportamento dei prigionieri. Si fa strada il tentativo borghese, sperimentato nel

carcere ma applicato a tutta la società, di costruire un enorme setaccio con cui dividere,

a secondo delle compatibilità con il sistema capitalistico, i buoni dai cattivi, quelli che

si possono “recuperare” e quelli che si devono annientare. Anche nella fabbrica, nel

mondo del lavoro e nel territorio viene applicato lo stesso sistema attraverso una modulazione di interventi e misure repressive con la logica dell’integrazione o dell’esclusione.Il fine é quello di far fronte e fermare le lotte operaie e proletarie e la ribellione sociale espressione delle contraddizioni di un sistema che, dall’inizio del decennio, é entrato in una crisi che poi si verificherà come strutturale. Ed é anche quello di assestare un colpo alle organizzazioni combattenti che hanno visto, lungo tutto il decennio precedente, un rigoglioso sviluppo.

Ma anche dopo l’approvazione della legge, le lotte dei prigionieri non si fermano e si collegano con il movimento rivoluzionario all’esterno, per lo stato le carceri diventano ingovernabili. Si verificano rivolte e proteste di massa con la particolarità italiana dell’unione nella lotta fra detenuti politici e comuni. Per questa unità le basi erano state gettate dai Nuclei Armati Proletari (NAP) che avevano teorizzato e praticato l’unione tra i proletari prigionieri, i prigionieri politici e il proletariato extralegale. Le Organizzazioni Combattenti promuovono nelle carceri organismi di massa, i Comitati di Lotta in dialettica con la loro iniziativa esterna sul fronte delle carceri.

La risposta dello Stato é, nel 1977, l’istituzione delle carceri speciali sorvegliate dai carabinieri. L’art. 90 viene applicato a partire dal 1980. Questo passo avviene gradualmente con l’istituzione dei cosiddetti “braccetti” cioé sezioni di massimo isolamento con la riduzione o l’interruzione dei contatti con l’esterno. L’attuazione di questi passaggi nelle carceri é contemporanea alla modifica del codice penale con l’approvazione del 270 bis (associazione sovversiva con finalità di terrorismo) e quella delle leggi su pentitismo e dissociazione (la famigerata legge Cossiga).

Contro l’art. 90, dalle carceri all’esterno, prende corpo un vasto movimento. L’art. 90

non viene più rinnovato dall’ottobre del 1984 ma viene di fatto incorporato nella istituzionalizzazione

del regime differenziato dove i carceri speciali sono disciplinati per legge attraverso la proposta degli art. 14 bis, ter e quater che stabiliscono le norme che regolano il raggruppamento, l’assegnazione e le categorie dei detenuti nelle sezioni di massima sicurezza. Viene applicato anche l’art. 4 che esclude alcune categorie di detenuti dall’ammissione a forme alternative di detenzione. Si arriva quindi a rendere permanente l’art. 90 anche se sotto altro nome.

Tutte queste norme trovano vita e vengono applicate lungo tutti gli anni 80 parallelamente alla campagna orchestrata dal potere sulla fine del comunismo e sulla sconfitta del “terrorismo”. Questa campagna é la premessa e l’altra faccia di quello che sarà l’inizio dispiegato dell’attacco alle conquiste della classe operaia e delle masse popolari.  Essa verrà attuata cercando di isolare e annientare ogni identità politica rivoluzionaria attraverso la dissociazione e la differenziazione, con la vessazione dei prigionieri politici sottoposti alla tortura dell’isolamento e alla tortura vera e propria. Il fine é quello di diffondere la cultura della desolidarizzazione e di dichiarare sconfitta e fuori dal tempo ogni prospettiva di cambiamento radicale della società. E anche quella di sotterrare la memoria storica del proletariato e del movimento comunista. Ma, l’illusione del potere di mettere una pietra sopra definitivamente alla formidabile forza che il movimento rivoluzionario aveva espresso in Italia si scontra con la realtà della crisi del suo sistema che produce incessantemente contraddizioni sempre più acute che fanno rigenerare la lotta di classe. Esso deve continuamente mettere mano all’ordinamento penitenziario per perfezionare le norme che regolano la differenziazione dei regimi detentivi.

Nei primi anni 90 vengono approvati gli art. 41 bis e 4 bis che, come ulteriore elemento di differenziazione dentro al carcere, inseriscono il mancato accesso ai benefici premiali

(previsti dalla legge Gozzini del 1986) in base alla condanna. Il 41 bis inoltre prevede il “carcere duro” in cui vengono sospesi i normali diritti dei detenuti. Il trattamento duro non riguarda più solo intere aree di prigionieri che vengono per questo raggruppati nelle sezioni speciali ma diventa “ad personam”. Questo trattamento attraversa la struttura carceraria sia verticalmente (nelle strutture) che orizzontalmente (nelle persone), é l’asse portante del funzionamento della deterrenza e della premialità. Si tratta in pratica di una riedizione allargata del vecchio art. 90.

Questi articoli vengono resi esecutivi dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino, hanno natura transitoria e devono essere rinnovati individualmente in base a criteri di “pericolosità”. Già dalla loro approvazione prevedevano una divisione in fasce per la loro applicazione, la prima e la seconda riguardante delitti di mafia, la terza i reati commessi per finalità di “terrorismo” o di eversione dell’ordinamento costituzionale. La revoca dell’applicazione del trattamento duro é subordinata alla collaborazione con la giustizia e, in particolare, per la terza fascia, cioé per i prigionieri politici, all’esclusione di ogni collegamento con organizzazioni esterne. Di fatto viene richiesta la dissociazione.  Arriviamo ai giorni nostri perché venga richiesta l’estensione dell’applicazione del 41 bis ai rivoluzionari prigionieri e ne venga chiesta la validità permanente.  Così il cerchio si chiude, la differenziazione e il carcere duro vengono definitivamente istituzionalizzati. Lo stato democratico prevede che la sospensione dei “diritti” é legale, che la tortura dell’isolamento e ogni procedura che può avvenire in assenza di “diritti” sono praticabili. Queste misure che lo stato prende fanno parte della necessità che la classe dominate ha di salvaguardare il suo potere e vanno analizzate e fatte conoscere non solo per denunciare la natura fascista del suo dominio ma soprattutto perché mostrano la sua debolezza e la paura che il suo potere venga messo in discussione.  L’approfondimento e l’allargamento della detenzione accentuata sono in stretta dialettica con la crisi e con lo sviluppo delle contraddizioni sociali. Non é infatti un caso che i momenti in cui le misure sono state promosse sono principalmente quello a ridosso dell’avanzata del movimento rivoluzionario (fine anni é70, primi anni é80) e, oggi, quello del possibile riaffacciarsi di prospettive di cambiamento. Oggi, a fronte della crisi e della tendenza alla guerra, al rinvigorirsi della lotta di classe e antimperialista, al ribollire del malcontento delle masse e al manifestarsi di comportamenti di ribellione vengono attuate nel nostro paese queste misure preventive.

Vengono attuate all’interno di una situazione internazionale incandescente seguendo i dettami dell’imperialismo USA e delle legislazioni di guerra che ha varato. A questo proposito é un fatto rilevante che in Italia esistano oltre un centinaio di prigionieri islamici sulle cui condizioni vige il più assoluto silenzio.

Le attua anche nei confronti dei rivoluzionari prigionieri che hanno mantenuto la loro identità politica perché essi, pur non rappresentando un pericolo emergente come quantità, turbano ancora il sonno del potere. Lo Stato, nel corso di più di due decenni, dopo averle tentate tutte per annientarli ha ancora paura di loro, della prospettiva politica rivoluzionaria che incarnano e si pone il problema di limitarne l’influenza e la capacità d’azione.

 

IL CARCERE COME RAPPORTO SOCIALE

Introduzione

Le carceri sono una polveriera che accumula le contraddizioni prodotte dalla crisi economica e sociale. I movimenti sociali fuori hanno scosso e scuotono in profondità le galere, compenetrandosi e saldandosi con le istanze e le lotte portate avanti dentro le istituzioni totali stesse.

Questo é avvenuto, e tuttora avviene, per la natura di classe di queste istituzioni.

Nelle carceri:

- possono avvenire rivolte spontanee: bambule, come le chiamavano le ragazze degli istituti di rieducazione femminili in Germania;

- possono verificarsi timidi tentativi di denuncia della propria condizione e lotte per parziali miglioramenti;

- può prendere piede un movimento in grado di comunicare con i soggetti e le esperienze politiche fuori dal carcere, e viceversa, grazie alla sedimentazione di precedenti esperienze di lotta e alla specifica struttura e composizione sociale delle carceri, nonché alla presenza all’interno di militanti rivoluzionari o di ribelli sociali permeabili ad una sensibilità antagonista.

Oggi risentono del clima di rinnovato fermento sociale e di mobilitazioni, anche se, tranne alcuni casi isolati, non é emersa una reazione soggettiva dentro, in grado di far precipitare le sue contraddizioni e di confrontarsi, almeno parzialmente, con lo scontro in atto.

Il carcere é un sismografo che registra i cambiamenti più profondi della società nel suo complesso, si riorganizza continuamente in funzione del ciclo di lotte precedenti, e del ruolo affidatogli di volta in volta dal potere. Si differenzia la durata e la condizione detentiva, come il suo affidamento e la sua amministrazione, sia a seconda delle esigenze pragmatiche del potere politico, sia rispetto alle necessità dovute al governo interno dell’istituzione: se da un lato si può arrogare il diritto di concedere, dall’altro si riserva la possibilità di reprimere; se da un lato cerca di “rieducare”, dall’altra reprime e basta.  Essendo parte integrante dell’organizzazione sociale, ha ispirato e ispira, con il suo modello, ogni serio paradigma del controllo ed ogni codificazione comportamentale; rimane un ganglio vitale del sistema di riproduzione dei rapporti sociali, e insieme alle articolazioni militari e poliziesche rappresenta il baluardo delle ragioni di stato e della loro volontà di potenza.

Rimane così una palestra di disciplina, di introiezione dei valori capitalistici magari assunti per il tramite dei vari racket, della cultura, della sopravvivenza individuale e dell’affiliazione ad un gruppo, della subordinazione all’arbitrio di un beneficio concesso o negato, dell’autolesionismo suicida.

La prassi detentiva incorpora e sperimenta le tecniche di controllo più avanzate come le più arcaiche; utilizza sia le millenarie discipline e dottrine del controllo sociale come le religioni, sia le più attuali come la psichiatria, la medicina, la farmacologia, la psicologia sociale; usa sia la forma più estrema di alienazione dalla comunità umana come l’isolamento tout-court - istituzionalizzata dal carcere speciale -, sia la più moderna forma di ri-socializzazione correttiva e trattamentale attraverso il lavoro esterno e la premialità della regolare condotta, giudicata da quella specie di tribunale permanente costituito dagli organi della Magistratura di Sorveglianza e dalle varie figure addette al giudizio-recupero del detenuto.In sintesi, il carcere come rapporto sociale é l’esempio, insieme alla guerra, del pressoché assoluto monopolio della violenza da parte dello stato. Che entrambi questi fenomeni riguardino fasce sempre più ampie di proletari, non fa che rinvigorire la necessità della distruzione di questo edificio sociale, che passa anche attraverso l’abbattimento di tutte le istituzioni totali.

 

Col sangue agli occhi: il movimento dei comuni contro il carcere (‘60-’70)

Nel secondo dopoguerra, terminato il periodo cosiddetto della “Ricostruzione”, la necessità di manodopera, per lo sviluppo dell’economia italiana nel triangolo industriale, fece affluire braccia dalla campagna delle zone contigue alle aree metropolitane e poi dall’esercito industriale di riserva del meridione, delle isole e delle zone settentrionali di tradizionale emigrazione, come il Veneto e il Friuli.

Questo fiume di persone che si riversò nelle città si barcamenava tra occupazioni dell’economia informale, una situazione abitativa precaria, senza trovare una comunità e un canale, che non fosse quello della parentela e del paese d’origine. Negli anni sessanta la composizione sociale delle carceri mutava e faceva il suo ingresso nelle galere quel proletariato marginale, di cui la provenienza geografica, la condizione di precarietà lavorativa, la collocazione urbana, la sensibilità sociale, erano proprie del proletariato metropolitano in formazione e della moderne classe pericolose per l’ordine capitalista.  Furono proprio le carceri delle realtà urbane più significative, soprattutto del nord, che incominciarono a ribollire e in cui cominciarono a formarsi le prime avanguardie di lotta forma e a sedimentarsi livelli di organizzazione.

Venne messa in discussione la gerarchia e i Kapò che servivano da strumento di governo interno al carcere. Per esempio, con i pestaggi dei fascisti, vennero messi in discussione gli atteggiamenti di implicita collaborazione con i secondini e il qualunquismo opportunista teso ad accattivarsi le simpatie dei propri carcerieri; soprattutto, prese forma una critica della propria condizione da un punto di vista classista, e non “innocentista”, che venne collocata all’interno di un meccanismo sociale, che bisognava contribuire a distruggere.

Tra questi, i rapinatori saranno l’avanguardia del movimento carcerario di fine anni sessanta e di inizio anni settanta; il grado di cooperazione sociale maturata, le capacità organizzative, la cultura antistatuale, la lontananza dalle tradizionali organizzazioni aventi la funzione di pacificatori sociali, erano tutte caratteristiche acquisite in conseguenza della propria attività, che li accomunavano ai proletari più combattivi formatisi nelle lotte di fabbrica e di quartiere.

Si crea una struttura di solidarietà con il proletariato in lotta, anche nelle carceri, in cui alcune figure professionali tradizionalmente legate alla classe dominante - come avvocati, medici, e altri profili di intellettuali della classe media - fanno propria la prospettiva dell’emancipazione del proletariato, con una precisa e organica scelta di campo.  Questa presa di posizione che si sostanzierà con l’impegno continuo di questi compagni, li renderà non solo soggetti alla delegittimazione professionale, ma anche all’azione repressiva vera e propria.

Il Soccorso Rosso che si formerà in quegli anni, sarà una sponda importante del proletariato prigioniero, gli avvocati che ne fecero parte ruppero quel legame di connivenza con le strutture del potere giudiziario, citando un documento del Soccorso Rosso di Milano del settembre del ‘71: ´tutto ciò comporta, per gli intellettuali che devono fornire questi servizi secondo le esigenze della classe operaia, un nuovo stile di lavoro ben diverso dalla professionalità tradizionale. » anche necessaria una mentalità completamente nuova e una disponibilità generosa che niente ha da spartire con la diligenza mercenaria del professionista. I concetti di legalità, diritto, salute, funzionalità, produttività devono essere capovolti da coloro che si pongono dal punto di vista del proletariatoª.  Formazioni politiche della sinistra extra-parlamentare, come Lotta Continua, costituirono una ´Commissione Carcereª apposita, ospitando nel giornale, dalla primavera del ‘71, lettere di detenuti e notizie sulle rivolte carcerarie in Italia e nel mondo: ´A noi i detenuti interessano non perché “fanno pena”, ma per il contributo che possono dare alla lotta di classe e alla rivoluzione» per questo motivo che ci interessano le caserme e magari i manicomi, come i proletari in divisa e i cosiddetti “malati mentali”ª, scrivevano i Dannati della Terra in Liberare tutti di LC.

Altre formazioni della sinistra radicale, provenienti dal marxismo e dall’anarchismo, dando una carica eversiva ai comportamenti del proletariato metropolitano che si muoveva ai margini della legalità, interpretavano la lotta criminale come la fonte più genuina di carica eversiva per il sovvertimento della società e, nella prassi illegale, il terreno prioritario della pratica rivoluzionaria, approccio che si tradurre nello slogan: contro lo stato e il capitale, lotta criminale.

L’influenza delle rivolte urbane che dalla metà degli anni sessanta costellarono l’universo metropolitano statunitense e le lotte dei prigionieri afro-americani dal carcere, che trovarono la loro sponda politica nelle Black Panthers, diventarono patrimonio comune di una generazione di proletari prigionieri, che col sangue agli occhi, ribaltarono il ruolo in cui la società li aveva relegati.

L’influenza degli scritti di Franz Fanon sul ruolo del sotto-proletariato metropolitano nel processo di liberazione coloniale, - filtrata attraverso l’utilizzo che ne fecero le punte più avanzate del movimento afro-americano, come dell’esperienza algerina -, darà una spallata alla vetusta interpretazione del marxismo tradizionale che vedeva nel Lumpen solo una massa di sradicati, da cui l’apparato repressivo poteva sempre attingere per reclutare i suoi sgherri.

Nel secondo numero di ´Nuova Resistenzaª, del maggio ‘71, le BR in un articolo dal titolo perentorio Bruciare le carceri é giusto, spiegarono la posizione del giornale sulla criminalità e sulla funzione rivoluzionaria del sottoproletariato: ´La rivoluzione moderna non é più la rivoluzione pulita [...] accumula i suoi elementi pescando nel torbido, avanza per vie traverse e si trova degli alleati in tutti coloro che non hanno nessun potere sulla propria vita e lo sanno [...]. In attesa della festa rivoluzionaria in cui tutti gli espropriatori saranno espropriati, il gesto “criminale” isolato, il furto, l’espropriazione individuale, il saccheggio di un supermercato non sono che un assaggio e un accenno del futuro assalto della ricchezza sociale, il criminale rompe la monotonia a la sicurezza quotidiana, banale della vita borghese (K. Marx). Per il fatto stesso di esistere egli pone in crisi l’ideologia della società capitalistica: si appropria realmente di ciò che la borghesia gli mostra come astrattamente disponibileª.

I Nuclei Armati Proletari raccolgono l’eredità politica del lavoro svolto da LC, che imboccò

ben presto la lunga marcia verso le istituzioni in una deriva riformista che coinvolgerà anche la sua impostazione sulle lotte dei prigionieri, compiendo il suo distacco dall’azione

politica armata, già dalle prime azioni significative delle BR, criticando più l’immagine distorta fornita dai media che la strategia d’azione maturata da questi compagni.  Le avanguardie delle lotte dei comuni danno vita ad un organizzazione e ad una pratica in grado di raccogliere le aspettative del proletariato prigioniero e di reggere il livello di scontro di quegli anni, che avrà come punto di svolta la strage di Alessandria.  Nel Maggio del ‘74 in seguito a una rivolta nel carcere di Alessandria, in cui tre detenuti avevano sequestrato 21 persone, barricandosi in infermeria, il comandante dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, futuro responsabile dei reparti speciali anti-terrorismo, e il procuratore generale di Torino Reviglio della Venaria, decidono per un’azione di forza che si concluse con un bagno di sangue.

I NAP nell’ottobre del ‘74, davanti ai cancelli delle carceri di Napoli, Milano e Roma, trasmettono un messaggio rivolto a tutti i detenuti che annuncia la loro piattaforma sul carcere.

Questa piattaforma ha come referenti sia le avanguardie detenute, alle quali si lancia lo slogan: ´rivolta generale nelle carceri e lotta armata dei nuclei all’esternoª, sia la massa dei detenuti, non ancora pervenuta alla coscienza critica del proprio ruolo, a cui i NAP indicano gli obiettivi immediati della lotta contro i codici fascisti, per la democratizzazione delle carceri, per l’abolizione dei manicomi carcerari, ecc.

Ad un anno circa dai fatti di Alessandria, i NAP rapiscono Giuseppe di Gennaro, direttore dell’Ufficio studi del Ministero, in appoggio a un’azione nata nel carcere di Viterbo a opera di tre detenuti che hanno tentato un’evasione. Anche se l’azione, concertata tra il nucleo interno e quello esterno, anche se non raggiunge l’obbiettivo di liberare i tre rivoltosi ottiene, comunque, una risoluzione positiva: nessun intervento delle forze di polizia esterne, nessuna rappresaglia sui tre protagonisti della tentata evasione e il loro trasferimento in carceri non punitive. In cambio, i compagni, liberano il Giudice De Gennaro.

Con la riforma del sistema penitenziario e l’incarcerazione di massa di militanti politici, la struttura, l’organizzazione e la composizione del carcere muta nuovamente.

I detenuti comuni, la Riforma carceraria del ‘75 e la Legge Gozzini del ‘86

Vennero istituiti ufficialmente tre circuiti penitenziari differenziali, in cui la vasta area della criminalità comune é soggetta a nuove forme di controllo premiale: territorializzazione dell’esecuzione, non più esclusivamente tra le mura carcerarie; scambio penacomportamento, con l’istituzione di una micro-magistratura che ha il compito di giudicare in continuazione, in combutta con tutta una serie di nuove figure del disciplinamento democratico, la buona condotta del detenuto e di decidere le forme e i tempi in cui deve scontare la propria pena.

Senza dilungarci sul trapasso da un modello segregativo ad un modello correzionale, attraverso un approccio trattamentale e non più solamente punitivo, che si sostanzia con l’uso di disposizioni disciplinari in un regime di premialità, ci interessa sottolineare come il detenuto comune viene e venga tuttora individualizzato.

Se qualcuno può decidere i tempi e i modi della pena, se qualcuno detiene l’arbitrio

assoluto per soddisfare ogni qualsiasi richiesta inoltrata, attraverso la pratica della Domandina, allora il potere di ricatto delle gerarchie carcerarie aumenta e diminuisce

la possibilità dei “comuni” di riconoscere in coloro che decidono di un beneficio nient’altro che le articolazioni terminali dell’organizzazione del potere contro cui combattere.  Lo stato interviene modificando la configurazione dei rapporti di forza all’interno delle carceri, attraverso questa ristrutturazione, per isolare dal resto della popolazione carceraria, i compagni più combattivi. I meno risoluti ad iniziare una qualsiasi mediazione con il potere si differenziano da quelli che, a seconda della loro pericolosità sociale, possono incominciare a vedere schiudersi la possibilità della semi-libertà, di uno sconto di pena, disposti a sottoporsi ad un approccio trattamentale che verifica la costante volontà di piegarsi ai dettami, la reale volontà di riscatto attraverso il lavoro, la famiglia e la fede.

Con la riforma del ‘75 rimangono esclusi dai benefici sopraindicati i detenuti a medio indice di pericolosità, sospesi tra il circuito del carcere riformato e l’inferno degli speciali.  Coloro che sono accusati o condannati per reati di rapina, sequestro di persona, estorsione e dall’82, anche per associazione mafiosa, vengono esclusi.  Erano state figure chiave, come quella del rapinatore, nella crescita del movimento carcerario del passato e allora, a metà anni settanta, erano le fasce della nuova criminalità metropolitana più permeabili al progetto politico di movimento, nonché quelle ritenute responsabili del nuovo allarme sociale: bisogna quindi impedirne la politicizzazione, mostrando quale condizione sarebbe riservata a loro nel caso volessero fare una precisa scelta di campo e, allo stesso tempo, dare all’opinione pubblica l’immagine di una rinnovata sensibilità per la questione dell’ordine pubblico, usando il polso duro e facendo scontare il dovuto alla delinquenza sociale che più preoccupava il belpaese.  In questo modo alla tradizionale prassi coercitiva si univa il rinnovato potere di deterrenza degli speciali, anche nel senso opposto: passare da uno speciale ad una sezione di questo circuito significava rompere l’isolamento dagli altri reclusi, attraversare i vetri divisori, incontrare più spesso la famiglia, poter telefonare e ricevere giornali e libri, entrare, cioé, in un regime disciplinare quasi ordinario.

Più di dieci anni dopo, con la Legge Gozzini, vengono liberalizzati gli accessi ai benefici, universalizzando il modello del governo premiale e viene introdotta la possibilità per i condannati, che hanno tenuto regolare condotta e che non risultano di particolare pericolosità sociale, di poter godere di permessi premio di 15 giorni.

La Carcerazione sociale oggi

Partiamo da una fotografia della realtà.

La popolazione carceraria sfiora le 56.000 unità, di cui più del 40% detenuta in attesa di giudizio, di questa particolare condizione di imputato - specialità Italica nel campo del diritto penale - ne fanno le spese quasi il 60% degli immigrati nelle prigioni.  Circa un quarto dei detenuti viene accusato, o é stato condannato, per reati che violano le norme contro il patrimonio, circa un quinto per la violazione delle norme del testo unico sulle sostanze stupefacenti, circa un sesto per norme a tutela dell’ordine pubblico, poco di meno per reati contro la persona, tra cui alcuni reati micro-criminali che poco tempo prima erano considerati contro il patrimonio e che ora, bontà del centrosinistra, sono da considerarsi atti criminosi contro la persona.

Ricordiamo che nella penultima categoria vanno collocati anche i detenuti per “reati di immigrazione”, quali il non avere osservato un ordine di espulsione o l’aver dato generalità false, reati che a metà degli anni ‘90 riguardavano il 43% di quelli attribuiti dalla polizia agli immigrati, reati per cui una legge del é93 ha introdotto una condanna dai 6 mesi ai due anni!

Se pensiamo che la nuova ondata di carcerazioni nel corso degli anni novanta é diretta conseguenza di un inasprimento legislativo e di una maggiore produttività del sistema repressivo, che colpisce sistematicamente il sotto-proletariato metropolitano giovanile, non ci può sorprendere che la stragrande maggioranza dei detenuti non ha assolto l’obbligo formativo o é in possesso solo della licenza media-inferiore e quasi i 4/5 di coloro che svolgevano una qualsiasi professione, prima di essere sbattuti in cella, facevano l’operaio.

Il tasso di detenzione e il numero di coloro che sono sottoposti ad una qualsiasi misura di restrizione della libertà aumentano, nonostante non vi sia un aumento dei crimini commessi, perché si aumenta la fascia di comportamenti ritenuti criminali, o meglio dei profili sociali giudicati come tali. Le varie guerre combattute dallo Stato contro le fasce più basse del proletariato, mascherate contemporaneamente da guerra alla droga, guerra all’immigrazione, guerra alle organizzazioni mafiose e guerre contro la micro-criminalità, hanno cambiato la composizione sociale dei detenuti degli ultimi vent’anni.  Fanno parte dell’arcipelago carcerario le comunità terapeutiche istituite nella seconda metà degli anni ottanta, i centri di detenzione temporanea istituiti a fine anni novanta, le varie articolazioni del controllo sociale per coloro che possono godere di un regime premiale, di cui beneficiano, si fa per dire, circa 20.000 persone, oltre ai rinascenti “vecchi” manicomi e ai sempre verdi istituti minorili. Andiamo con ordine:

Poco meno di un terzo dei detenuti é costituita da immigrati di origine extra-Unione Europea, prevalentemente concentrati al centro-nord e nelle aree metropolitane, dove costituiscono talvolta circa la metà della popolazione carceraria, mentre quasi la metà delle donne detenute é di origine extra-UE.

Su di loro pesa un inasprimento della custodia cautelare, più alta in percentuale rispetto agli italiani, oggettive difficoltà di difesa legale, una minore possibilità di accesso alle misure alternative alla detenzione, difficoltà maggiori per i colloqui con le proprie famiglie, tra cui l’impossibilità di avere colloqui telefonici fuori dall’Italia.  Il processo di criminalizzazione della condizione di immigrato, particolarmente accelerato e intenso in Italia, rispetto alle nazioni dell’UE, é dovuto a due specificità, una storica e l’altra geografica, del sistema-paese: il tramutarsi dell’Italia da paese di emigrazione estera e immigrazione interna a paese di immigrazione interna ed estera, e dalla sua posizione di confine e di transito di differenti flussi immigratori verso l’area della Unione Europea dei paesi firmatari del Patto di Schengen.  La Legge Martelli a inizio anni novanta, la Legge Turco-Napolitano del marzo ‘98, fino alla recente Legge Bossi-Fini, insieme agli altri provvedimenti legislativi, hanno progressivamente criminalizzato la condizione di immigrato, facilitando progressivamente la possibilità di espulsione, istituendo i centri di detenzione temporanea con il governo di centro-sinistra, rendendo la vita di questi proletari un vero e proprio inferno, in cui le varie sanatorie che si sono susseguite sono state più uno strumento di cristallizzazione della precarietà della propria condizione, che altro.  I centri di detenzione temporanea vennero allestiti in gran silenzio in Puglia, in Sicilia e a Trieste e in altre località ritenute “critiche”. Il grande pubblico scopre la loro esistenza, e la loro natura tutt’altro che assistenziale, nell’estate del ‘98, quando ad Agrigento e a Caltanisetta alcune decine di immigrati si ribellano alle condizioni inumane in cui sono costretti, incendiando questi lager. Senza aver commesso nessun reato, sono tenuti a pane e acqua per diverse settimane in edifici fatiscenti sorvegliati a vista dalla polizia che interviene con violenza al minimo segno di protesta.  L’altra componente che dalla metà degli anni ottanta e soprattutto dopo la Legge n.161 del 1990 ha subito un’accentuata criminalizzazione, é quella che ha il profilo, nella stigmatizzazione socio-mediatica, del tossicodipendente consumatore e spacciatore.  L’articolo 47bis della Legge Gozzini prevede la possibilità di affidamento ai servizi sociali per tossicodipendenti, cioé più prosaicamente l’auto-reclusione volontaria in una comunità terapeutica per chi deve scontare una pena detentiva inferiore ai tre anni.  Questo micro-cosmo carcerario su cui non é dato indagare, da cui nessuna notizia sulle regole che lo governano può trapelare, e a cui é stata delegata una funzione terapeutica normalizzante, applica tutti i mezzi che ritiene necessari per ottenere i fini sublimi della introiezione della colpa e della sua espiazione attraverso la vita comunitaria incentrata sul lavoro gratuito.

Queste oasi del sequestro dal sociale sono proliferate, aumentando in numero e in capacità di accoglienza, e hanno catalizzato su di sé le aspettative illusorie di chi pensa che la permanenza in uno di questi lager sia garanzia di un certificato di guarigione almeno dall’infame marchio sociale di tossicomane, di soggetto a rischio, di micro-delinquente, ecc. Hanno spostato il discorso del disagio sociale, non sulle cause di questo, ma sulle conseguenze e sono stati uno dei primi esperimenti di privatizzazione del welfare con operazioni mirate alla cattura di consenso e benestare della pubblica opinione. Un buon trampolino di lancio per santoni nostrani, pretazzi con la vocazione del sociale, uomini forti che offrivano l’immagine dell’impresa famigliare vincente, cooperative e tutto il carrozzone variopinto dell’impresa sociale.  Il carcere cura poi la tossicodipendenza con gli psicofarmaci, che costituiscono i farmaci maggiormente somministrati negli istituti di pena, provocando una dipendenza di ancora più difficile rimozione!

L’ultima fascia protagonista suo malgrado del grande internamento degli anni novanta riguarda la manovalanza della criminalità organizzata, in parte compresa nelle componenti precedenti e delle fasce della micro-criminalità che non ha bisogno di grandi mezzi per svolgere la propria attività illegale: ladri di macchine, topi d’appartamento, scippatori, ecc.

Gli appartenenti al crimine organizzato in carcere sono circa settemila. L’operato dello stato ha prodotto un notevole numero di collaboratori di giustizia. Questo lo si deve sia alla costante instabilità delle gerarchie dei gruppi criminali e il ricambio continuo delle elités, sia al trattamento differenziato riservato ai collaboratori di giustizia, comprese le garanzie di protezione assicurate ai familiari.

 

LETTERA DI UNA COMPAGNA

DETENUTA IN UN BRACCIO MORTO DEL CARCERE SPECIALE IN GERMANIA

(Dal 16 giugno 1972 al 9 febbraio 1973)

... La sensazione che ti esploda la testa (la sensazione che il cranio possa esserti esportato via, esplodendo),

la sensazione che il midollo spinale ti si comprima tutto nel cervello,

la sensazione che il cervello ti si raggrinzisca,

la sensazione di trovarsi sotto una corrente, continua, impercettibile che ti trascina lontano

la sensazione che ti si spappolino le capacità sociative

la sensazione che l’anima ti pisci via dal corpo, come quando non si riesce a trattenere l’urina

la sensazione che la cella si muova. Ci si sveglia, si aprono gli occhi, la cella viaggia;

al pomeriggio quando entra la luce del sole, la cella, di colpo, si immobilizza.

Non riesce a respirare la sensazione di movimento, di viaggio.

Non si riesce a capire perché si tremi, si geli.

Riuscire a parlare con un tono di voce normale, fatica come se si dovesse parlare forte, come se si dovesse urlare.

La sensazione di diventare muti.

Non si può identificare il significato delle parole, si riesce solo ad indovinare.

L’uso delle sibilanti - come s, sch, tz, z - é assolutamente insopportabile. Secondini, visite, cortile, sembrano un film

Mal di testa

Flashes

Incontrollabile la costruzione delle frasi, la grammatica, la sintassi. Si scrive: due righe.

Alla fine della seconda riga non si ricorda più l’inizio della prima.

La sensazione di andare in cenere dentro.

La sensazione che se tu riuscissi a dire cosa sta accadendo, tutto ti verrebbe fuori come un getto di acqua bollente, che bolle per tutta la vita.

Furiosa aggressività che non trova sfogo.

Questa é la prova peggiore.

La chiara coscienza di non avere più alcuna possibilità di sopravvivenza. Totale senso di impotenza nel tentativo di opporsi a questa convinzione: le visite lasciano dietro di se il vuoto.

Un ora dopo una visita riesci solo a ricostruire meccanicamente se la visita é stata oggi o la settimana scorsa.

Una volta la settimana invece il bagno a questo significato: di scioglierti un attimo, di riprenderti - questo anche per un paio d’ore.

La sensazione che il tempo e lo spazio si incastrino l’uno nell’altro.

La sensazione di trovarsi nello spazio di uno specchio deformato - vacillamento -, Poi; spaventosa euforia quando si sente qualcosa - la differenza sonora tra il giorno e la notte.

La sensazione che ora il tempo scorra, che il cervello nuovamente si rilassi, che il midollo torni al suo posto, per settimane.

La sensazione che ti abbiano strappato la pelle.

 

SECONDA VOLTA

(dal 21 dicembre al 3 gennaio 1974)

Turbinio nelle orecchie. Risveglio, come se si stesse per essere picchiati.

La sensazione di muoversi a rallentatore.

La sensazione di trovarsi sospesi nel vuoto, come se si fosse fatti di piombo.

Poi: shock. Come se ti fosse caduta in testa una lastra di acciaio.

Confronti e concetti che ti vengono in mente: sbranamento - lacerazioni fisiche – il lupo mannaro - la colonia penale di Kafka - l’uomo sul letto di chiodi – ottovolante che non ferma mai.

La radio: si creano tensioni minime come se il ritmo calasse da 240 a 190.

Che tutto ciò accada in una cella che esteriormente non si differenzia dalle altre - radio, mobili, giornali, libri - significa un inasprimento della situazione: impossibilità di comunicazioni, tra persone che non sanno cosa significhi l’isolamento acustico e il prigioniero.

Disorienta anche il prigioniero. (Sia chiaro si tratta di celle da lazzaretto, il terrore viene acuito dal silenzio, chi ne é cosciente dipinge, dipinge i muri). E’ chiaro che là dentro si preferirebbe essere morti.

Peter Milberg, che si é trovato in questa situazione nel Preungesheim di Francoforte (“Sezione malati da rieducare”) ha accusato il suo giudice di averlo voluto sopprimere ed é vero, poiché si tratta in realtà di una “esecuzione”.

Cioé ha luogo un processo di disfacimento - come di sostanze che vengono corrose dall’acido, il processo lo si può ritardare, concentrandosi, ma non si può eliminarlo.

Perfida é pure la personalizzazione totale. Nessuno, se non tu stesso, si trova in questa situazione totalmente abnorme. Come mezzo/metodo simile a quelli usati con i tupamaros, inchiodati in situazioni di esasperazione e di strazio totale, uso del pentotal - conseguenza: improvviso rilassamento, poi euforia. Il prigioniero, così ci si attende, perde il suo autocontrollo. Balle!...

Apparsa su “Solidarietà militante” ed in “Contro-informazione” n. 3-4, 1974

 

Parte seconda

Interventi, contributi e saluti all'assemblea del 14.12.2002

 

AVV. UGO GIANANGELI

A me é stato assegnato l’ingrato compito di un intervento tecnico sul 41 bis, con tutti i limiti tipici degli interventi tecnici; vedrò di ridurre il più possibile questo limite.  Vorrei ricordare innanzi tutto il recente 9° congresso dell’Unione delle Camere Penali che si é svolto a Sirmione.

L’Unione delle Camere Penali é un organismo che raggruppa tutti i penalisti italiani; in questo congresso ha prevalso la lista per il rinnovo del direttivo che ha fatto dell’abolizione del 41 bis il proprio cavallo di battaglia elettorale; ciò é di rilevante importanza.  La Camera Penale di Milano, che raggruppa i penalisti di questa città, ha appoggiato questa lista; possiamo quindi dire che é passata la nostra mozione a favore dell’abolizione del 41 bis.

La nostra Camera Penale si é espressa, al termine dell’incontro che abbiamo avuto a Milano in vista del congresso di Sirmione, in modo molto chiaro sul 41 bis; queste alcune righe del nostro documento approvato all’unanimità: “Si tratta di un regime di detenzione intollerabile, caratterizzato da un inaccettabile grado d’afflizione privo di qualsiasi utilità circa l’effettivo distacco del detenuto dall’organizzazione criminale d’appartenenza, applicato anche nei confronti di chi si trova detenuto in regime di custodia cautelare fuori da un effettivo controllo giurisdizionale, affidato com’é ad organi ministeriali; l’impegno incondizionato dell’Unione non può che essere rivolta all’abrogazione di tale regime. Impegno uguale dovrà essere profuso allo scopo di abrogare la pena dell’ergastolo”.

Questo era parte del nostro programma che é stato fatto proprio dal nuovo direttivo.  Possono essere, le nostre, considerazioni scontate; so che qui sono riunite realtà che toccano con mano, tramite parenti e amici di compagni detenuti, situazioni assimilabili al 41 bis, però detto da organismi di avvocati non é un fatto così pacifico.  Nei confronti dei penalisti c’é sempre il sospetto che parlino più per interesse di corporazione, se non addirittura per collusione con ambiti criminali, che per reale adesione a valori e a principi di civiltà non solo giuridica.

Non solo noi corriamo questo rischio; ricorderete probabilmente anni fa quando ci fu quella polemica con Sciascia, accusato addirittura, per alcuni suoi articoli sul Corriere della Sera, di connivenza con la mafia, solamente perché aveva ribadito in varie occasioni la necessità di non abdicare mai ai principi dello stato di diritto.  A meno che qualcuno, più acuto di me, non voglia vedere dietro a certe prese di posizione alcune possibili spiegazioni, forse con uno sforzo di dietrologia eccessivo, credo che si stiano creando contraddizioni all’interno di settori che potremmo definire borghesi e liberali illuminati.

Mi ha colpito leggere nei giorni scorsi la risposta di Paolo Mieli ad un lettore (stiamo quindi parlando del Corriere della Sera) contenente alcune affermazioni sul 41 bis che credo meritino di essere lette.

Dice Mieli: “Ho letto il libro bianco preparato dai penalisti di Roma per denunciare le conseguenze di quella norma éBarriere di vetro’; mi sono sentito male, non ho trovato un solo docente di diritto, tranne quelli coinvolti nell’operazione, che a quattr’occhi non mi abbia spiegato che questo nuovo 41 bis é incostituzionale. Sono giunto alla conclusione che rendere permanente una norma del genere equivale a istituzionalizzare un sistema di tortura, si, di tortura”.

E va avanti con altre considerazioni, anche sulla scarsa efficacia di questo strumento rispetto al fine, non dichiarato, di favorire la collaborazione processuale.  Dallo stesso articolo ricavo alcuni dati provenienti dall’associazione Antigone; si parla di 11 collaborazioni processuali ottenute nel 1992 a fronte di 498 detenuti sottoposti a 41 bis, e di 7 collaborazioni avviate nel 2002 a fronte di 678 detenuti in 41 bis.  L’errore in cui incorre Mieli, come anche poco fa chi ha introdotto il tema dell’assemblea, é frequente, “Un domani sarà previsto anche per i reati di terrorismo”.  La possibilità di applicare il 41 bis anche ai detenuti politici in realtà c’é sempre stata, sin da quando é entrata in vigore questa norma.

E’ un errore in cui sono caduti in molti, anche tra noi addetti ai lavori; ma partiamo dal principio: il 41 bis 2° comma é entrato in vigore nel 1992 con il decreto Scotti-Martelli, in coincidenza con alcuni particolari eventi, ossia gli assassini di Falcone e Borsellino.  Il 1° comma del 41 bis altro non é che una riproposizione dell’articolo 90, di antica memoria, che formalmente é stato abolito nel 1986 con l’entrata in vigore della legge Gozzini, ma che il 1° comma dell’attuale 41 bis non fa altro che riprodurre testualmente.  Il 2° comma del 41 bis prevede le restrizioni e il trattamento carcerario che ben conosciamo e sui quali non ci soffermiamo per tutti i reati di cui all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario.

L’articolo 4 bis é stato introdotto nel 1991, un anno prima del 41 bis e la sua applicazione é prevista sia per il reato di associazione mafiosa e il sequestro di persona a scopo di estorsione ma anche altri reati come rapina, spaccio, estorsione ed anche delitti con finalità di terrorismo o eversione.

Poiché l’articolo 41 bis fa espresso riferimento all’articolo 4 bis, é evidente che anche i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione sono suscettibili di applicazione delle restrizioni del 41 bis; questo sin dall’entrata in vigore della normativa e quindi sin dal 1992.

E’ vero che non é stato applicato, salva una applicazione “di fatto” del 41 bis in determinati carceri o in determinate sezioni di carcere, con restrizioni di spazi di libertà e di diritti, ma questo é un altro discorso; adesso parliamo dell’applicazione istituzionale e formale del 41bis.

E allora, la differenza tra il reato associativo di mafia (associazione mafiosa) e il sequestro a scopo di estorsione da tutti gli altri reati, tra cui quelli che ci interessano maggiormente cioé quelli cosiddetti commessi per finalità di terrorismo o di eversione, sta solamente in questo: che per beneficiare di determinati benefici della legge penitenziaria per i primi reati (quindi associazione mafiosa e sequestro a scopo di estorsione) occorre la collaborazione processuale; per gli altri reati, invece, é sufficiente che non vi siano collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva.  Il dato importante, lo vedremo tra poco, é che proprio su questo aspetto é intervenuta la nuova formulazione del 41 bis nel disegno di legge che é attualmente in discussione alla commissione, alla Camera.

L’errore in cui tantissimi sono incorsi (anch’io fino a non molto tempo fa, lo confesso) deriva probabilmente dal fatto che l’articolo di cui stiamo discutendo é stato introdotto con il decreto contro la criminalità mafiosa e quindi questo può aver agevolato l’errore per cui si é ritenuto correntemente che effettivamente fosse applicabile solamente a quelle categorie di reati.

Quali novità ha portato il disegno di legge che é in discussione e in corso di approvazione in tempi particolarmente rapidi, visto che entro la fine di questo anno deve essere approvato altrimenti decade?

Intanto, non c’é la proroga, sappiamo che non si parla più di proroga ma ormai di approvazione con caratteristiche di permanenza.

Il disegno di legge originario prevedeva una proroga del 41bis per quattro anni; su pressioni in particolare della commissione Antimafia e dell’Ulivo in Senato é stato abolito il termine; ora il 41 bis diventa una misura permanente.  Ricorderò tra poco vari interventi della Corte Costituzionale che hanno cercato di salvare la costituzionalità della norma, facendo spesso riferimento anche al suo carattere di eccezionalità; evidentemente ora viene meno questo tipo di argomentazione.

Poi il disegno di legge in discussione ha modificato il 41 bis sotto due aspetti, sostanzialmente: é stato introdotto il “terrorismo internazionale” e si é previsto che per i detenuti politici (loro usano normalmente il termine “autori di reati commessi con finalità di terrorismo ed eversione”) necessita il requisito della collaborazione: é richiesta ora la collaborazione per potere accedere ai benefici penitenziari e questo é il dato nuovo particolarmente grave.

L’altro non é un dato nuovo: la possibilità di applicare il 41 bis, l’abbiamo chiarito, preesisteva.

Questo disegno prevede anche che, per i detenuti in attesa di giudizio, é ammesso il ricorso al Tribunale della Libertà e non al Tribunale di Sorveglianza che é riservato solamente ai definitivi; é questo un aspetto processuale che però é significativo perché in pratica l’Esecutivo, cioé il Ministro che applica con il proprio decreto il trattamento deteriore, uscirà (in una sorta di corsa, una sorta di inseguimento) sempre primo rispetto all’autorità giurisdizionale; sia che sia, come é attualmente il Tribunale di Sorveglianza a decidere sul ricorso, sia, come si prospetta in questo disegno di legge, che sia il Tribunale della Libertà.Si accellerano solo un po’ i tempi, perché dinanzi al Tribunale della Libertà é possibile accedere con un rito più veloce, ma poi comunque ci si scontra sempre con i tempi lunghi della Corte di Cassazione, perché le proroghe del 41 bis sono previste di sei mesi in sei mesi; é altamente probabile, se non anche certo, che nei sei mesi sicuramente non si farà in tempo a giungere innanzi la Corte di Cassazione.  In ogni caso, quando sarà intervenuto il provvedimento giurisdizionale - é estremamente improbabile che sia favorevole, ma ipotizziamo anche che lo sia - sarà anche intervenuto il nuovo decreto che rinnova il 41 bis e quindi resterà priva di qualsiasi efficacia pratica l’eventuale vittoria a livello giurisdizionale.  Questo il disegno di legge; i punti essenziali sono questi; é passato, ricordava prima il compagno, praticamente all’unanimità; c’é stata solo qualche posizione dissidente a livello personale.

Adesso alla Camera, sia nell’ambito della Commissione sia poi nel dibattito che dovrebbe seguire in aula, si prevede una minore uniformità di opinione.  I tempi, ricordavo prima, sono strettissimi, e quindi io personalmente ho grande perplessità che sia consentito un reale dibattito, ma sono anche pessimista sul fatto che un dibattito potrebbe portare a qualcosa di utile.

A questo punto sono tornati di attualità i penalisti, che una volta tanto fanno una figura decorosa in questa vicenda perché, coerentemente con quello che é stato il documento che ricordavo prima dell’Unione delle Camere Penali, hanno elaborato un proprio disegno di legge che sta circolando (é cosa di questi giorni) presso la Commissione Giustizia e sembra che debba essere fatto proprio da Rifondazione e dai Verdi.

Questo disegno lo cito semplicemente per evidenziare, cito i punti essenziali molto velocemente, che se veramente gli intenti del 41bis, e comunque di un trattamento carcerario deteriore, fossero quelli di combattere le associazioni mafiose attraverso l’ostacolo ai rapporti, eccetera, ci sarebbero gli strumenti senza andare a ledere esigenze e diritti minimali dei detenuti; noi invece sappiamo che altre sono le ragioni che inducono a questo tipo di normativa e quindi, diciamo così, sveliamo apertamente quello che c’é dietro.

L’articolo 1 di questo disegno proposto dai penalisti é molto semplice, dice: “E’ abrogato l’articolo 41 bis”.

L’articolo 2 non fa altro che modificare l’articolo 4 bis, che é quello che stabilisce il campo di applicazione del 41 bis, e prevede, questo nuovo disegno, limitazioni ai benefici solo per il reato di associazione mafiosa.

Si tende a tutelare anche coloro che sono inquisiti, perché ricordiamoci, ed anche questo é spesso dimenticato, che possono essere sottoposti a 41 bis non solamente i detenuti definitivi ma anche coloro che sono ancora sottoposti a giudizio.

L’articolo 2 vuol tutelare in modo particolare coloro che sono ancora sottoposti a giudizio: applicando la presunzione di non colpevolezza.

Si può applicare a quei soggetti scelti individualmente e non per categoria di reato, e cioé solo perché indagati per 416 bis, in caso di comprovata permanenza di rapporti con l’esterno.

Sono esclusi tutti gli altri reati ed é esclusa quella vergognosa figura, che conosciamo da tantissimi anni nel nostro ordinamento, della collaborazione che scompare completamente.

L’articolo 3 di questo disegno modifica l’articolo 14 bis, che é quello del regime di sorveglianza particolare, che prende in buona sostanza il posto del 41 bis; qualcosa evidentemente bisogna concedere a coloro che sono allarmati dalla criminalità organizzata, però é prevista una serie di garanzie sicuramente considerevole perché dice l’articolo: “I presupposti di applicazione del regime differenziato devono essere validamente provati”, non come adesso che si va per presunzione, basandosi esclusivamente sul tipo di reato; inoltre, questo é interessante, la sorveglianza particolare é applicata dal Magistrato di Sorveglianza: per lo meno si cerca di uscire dalle maglie dell’applicazione ministeriale, si cerca di tornare nelle mani della magistratura.  Sarebbe un discorso lungo ma forse qualche garanzia in più rispetto agli organi amministrativi e esecutivi la magistratura dovrebbe offrire.  L’articolo 4 prevede il ricorso al Tribunale di Sorveglianza e il ricorso in Cassazione ma con un’interessantissima novità: sono previsti tempi strettissimi; la Cassazione deve pronunciarsi entro trenta giorni, se non lo fa il decreto decade; quindi, automaticamente, con la non decisione della cassazione nel termine previsto e qualificato espressamente come perentorio, il decreto decade.

Ultimo articolo, e concludo questa parte, l’articolo 5.

Limita un grande numero di restrizioni nell’applicazione del 41 bis, in particolare espressamente esclude che possa essere effettuata una restrizione sul vitto, sul vestiario, sui colloqui, su tutto ciò che, all’evidenza di tutti, non ha nessuna attinenza con le esigenze di tutela della collettività; e questo é detto espressamente.  E’ sicuramente un ottimo testo, non c’é nessuna speranza che passi, ma minimamente serve quantomeno per tentare di conquistare qualcosa in quei compromessi che sicuramente saranno realizzati all’interno della discussione.  Tenete presente che mi é giunta voce, proprio qualche giorno fa, da uno degli estensori materiali di questo disegno di legge, che la commissione Affari Costituzionali, proprio ai primi di questo mese, ha denunciato l’incostituzionalità del disegno di legge in discussione.

In pratica ha detto anticipatamente: state attenti ad approvarlo così com’é, é pacificamente anticostituzionale, quindi sicuramente dovete intervenire in qualche modo, in qualche misura, per cercare di correggere la rotta.

Gli aspetti tecnici sono questi, o almeno questi sono più importanti.

Qualche considerazione finale, magari non proprio tecnica.  Il 41 bis può essere applicato, questo lo abbiamo appurato, ai detenuti politici attuali e ai detenuti politici futuri; é prevista la collaborazione per accedere a determinati benefici penitenziari e questo, lo ricordavo prima, é forse il dato di maggior rilievo, la novità assoluta.

Le due norme sono complementari tra loro: intanto si applica il 41 bis, il carcere duro, una serie di restrizioni che per quelli in attesa di giudizio comportano anche una restrizione degli spazi del diritto alla difesa, in quanto, comunque, si vuole ottenere un determinato atteggiamento, un atteggiamento collaborativo.  C’é da chiedersi, e qui le mie opinioni valgono per quel che sono, cioé opinioni del tutto personali, cosa può aver spinto a questo tipo di modifica?  E’ facile pensare al vuoto investigativo dopo l’omicidio D’Antona e dopo l’omicidio Biagi, all’incapacità manifesta di giungere a qualche conclusione sul piano investigativo attraverso gli abituali strumenti investigativi senza passare attraverso la collaborazione di qualche collaborante di turno.

E’ stata quindi avvertita la necessità di spingere alla collaborazione i vecchi detenuti, nell’ipotesi di un coinvolgimento dei detenuti di vecchia data in questi fatti relativamente recenti, perché ormai il primo é di oltre tre anni fa; non a caso, sapete bene, sono state fatte perquisizioni nel carcere di Trani; rispetto ai nuovi, coloro che esprimono oggi antagonismo nelle varie forme, sappiano - é questo il messaggio che viene lanciato - che li aspetta un carcere duro.

Fin quando saranno sottoposti a giudizio questo carcere andrà anche a limitare il diritto alla difesa; sicuramente si troveranno di fronte un carcere con un livello di afflittività estremamente alto.

Se un giorno dovessero essere interessati a benefici penitenziari, sappiano che potranno ottenere questi benefici solo ed esclusivamente attraverso la collaborazione; quindi, come dire, é un chiaro messaggio, ben preciso, lanciato in via preventiva.  E questo é un aspetto, una possibile chiave di lettura, una possibile spiegazione.  L’altro é la ripresa delle lotte, dei conflitti sociali, delle manifestazioni grandi di base; si sta di pari passo, come sapete tutti, sviluppando la creatività di molti magistrati.  Vediamo quelli di Cosenza, che sono andati a rispolverare articoli di codice assolutamente desueti, salvo poi essere ben aggiornati nella collocazione carceraria: sapete che i compagni arrestati sono stati ristretti in carceri significativi per la presenza di determinati soggetti e per una lunga tradizione, Trani e Latina.  Non stiamo a ricordare il vecchio articolo 90, penso ne siate al corrente tutti di quello che fu la funzione dell’articolo 90.

Fu creato, lo ricordate, un circuito speciale differenziato da cui sono transitati circa seicento detenuti politici.

Ricordate quello che é successo all’Asinara nel 1977; ricordate bene quel fenomeno, che é tuttora attuale, delle truppe speciali preposte al controllo nelle sezioni speciali e nelle carceri speciali.

Adesso si chiamano GOM, Gruppi Operativi Mobili, e sono gli agenti di polizia penitenziaria, preposti proprio al 41 bis e che notoriamente si sono resi responsabili in molte occasioni di pestaggi e, almeno in un’esperienza professionale diretta del sottoscritto a Reggio Calabria, anche di omicidio.

Quindi si ripristinano antichi strumenti per le finalità di sempre.  Un ultimo argomento di riflessione che vi sottopongo, e poi concludo, perché mi é stato detto “aspetti di un intervento tecnico e dintorni”: ecco questi sono alcuni dintorni.  E’ l’atteggiamento della sinistra, di una parte della sinistra e di alcuni giuristi su cui é opportuno riflettere.

Ho letto questa mattina un intervento che mi ha colpito perché é di un giurista che scrive su Liberazione, Albero Burgio: “41bis la vera ratio della riforma”.  » di pochi giorni fa l’articolo, l’ho letto stamattina in vista dell’incontro di oggi e ho trovato una parte, che non vi leggo perché sarebbe troppo lunga, duramente critica nei confronti della presa di posizione dell’Unione della Camere Penali, quella che vi ho ricordato poco fa.

Evidentemente qualcuno crede realmente, io voglio attribuire buona fede a questo giurista, che il 41 bis possa svolgere una funzione utile nella lotta alla mafia; se non ché dopo, lo stesso giurista, entra in contraddizione con se stesso perché si rende conto che appare per lo meno strano che un governo come l’attuale, la cui collusione con ambiti mafiosi, partendo dal vertice e scendendo mano a mano nei suoi collaboratori, é sotto gli occhi di tutti, anche prima delle recenti dichiarazioni del signor Giuffré, sta promuovendo, addirittura con carattere di permanenza, il 41 bis.  Si fanno delle interessanti ipotesi, come quella che ci sia in atto una lotta all’interno delle mafie per cui si voglia seppellire una certa realtà troppo compromessa con le stragi per favorire una realtà mafiosa nuova, meno compromessa con questo passato.  » un’ipotesi possibile, altre se ne potrebbero fare, ma tutti protési a discutere di questi argomenti, sicuramente importanti, si dimentica l’altro aspetto molto importante che é quello dell’utilizzabilità del 41 bis per reprimere dissenso e lotte sociali.

 

UN COMPAGNO ANARCHICO SUI MODULI FIES

Ringrazio i compagni e le compagne che hanno dato la disponibilità per questa sala e per questa iniziativa.

Ni FIES ni dispersion, ni enferm@s en prision.

Esiste un fronte di lotta estremamente minoritario e marginale rispetto alla situazione totale, generale, nelle carceri spagnole che, da moltissimi anni, stanno portando avanti una lotta per la libertà e la dignità. Questa lotta negli ultimi tre anni quattro anni ha focalizzato l’attenzione su quattro punti fondamentali.

Il primo punto rivendicativo che queste persone stanno portando avanti é l’abolizione del FIES e di tutti i tipi di isolamento. Il secondo punto rivendicativo é la fine della dispersione, ovvero trasferimenti coatti, allontanamento dai familiari e dal contesto sociale in cui si trovavano a vivere, eccetera eccetera.

Il terzo punto rivendicativo é la scarcerazione dei malati, libertà immediata per i malati gravi e/o terminali.

Il quarto punto rivendicativo, questa é una cosa un po’ più tecnica, c’é una legge, pare, in Spagna dove le persone non devono scontare più di 20 anni di carcere, non c’é l’ergastolo in Spagna anche se esiste, di fatto, e questo é il quarto punto rivendicativo. [Per la verità per i reati più gravi la pena massima é oggi di 30 anni, grazie al Codice Penale del é95 legiferato dal governo PSOE, adesso il governo Aznar per i reati di banda armata vuole portare il limite massimo a 40 anni, con l’appoggio del PSOE ovviamente] Ci sono stati degli scioperi individuali, degli scioperi collettivi, non di tante persone si parla di un centinaio di persone, quasi tutti rinchiusi nel primo grado FIES - Controllo Diretto - e poi di varie iniziative individuali, alcune tra l’altro fatte in solidarietà ai prigionieri politici turchi che sono in sciopero della fame a tomba aperta, oppure rispetto a vari attacchi repressivi che ci sono stati in Spagna contro il movimento anarchico e libertario (ultima la montatura di Valencia dove tre giovani anarchici sono in carcere nel FIES 3 [banda armata] accusati di associazione illecita a fini di “terrorismo”) Questo é quanto. Che cos’é il FIES? E’ un archivio, creato nel é91, dove sono schedati i detenuti “più pericolosi”. Praticamente una sezione speciale all’interno delle quattro carceri spagnole, dove vengono rinchiuse le persone, dove vengono suddivise, c’é tutto un lavoro di psicologi, medici, che poi sono dei boia - quello di Puerto I (Cadiz) lo chiamano Mengele per darvi un’idea della sua concezione del giuramento d’Ippocrate. Il FIES é la reazione alla combattività dei detenuti, alle rivolte, alle evasioni alle rivendicazioni, all’autorganizzazione che in Spagna ha contraddistinto la vita carceraria negli anni 70-80. Questa lotta ogni tanto riesce a varcare il velo del silenzio, della complicità rispetto a questi fatti, rispetto a tutto quello che succede dentro le carceri e così torna all’attenzione per poi ripiombare subito nel silenzio generale.  Adesso é tutto da verificare quale percorso possano fare queste persone, verificare con chi con quali persone, con quali soggetti cooperare, pianificare quello che si può fare in futuro, sia rispetto ai detenuti che sono rinchiusi dentro i moduli FIES, sia chi ne é al di fuori perché comunque siamo solidali anche coi detenuti comuni, che anche se magari non partecipano alle lotte, ci sono comunque delle sensibilità all’interno delle sezioni comuni rispetto a queste tematiche specifiche, particolari. Non lo so é tutto da vedere.  Io concluderei qua, oggi preferisco più ascoltare che parlare.

 

UNA COMPAGNA DELL’ASSOCIAZIONE FAMIGLIARI E AMICI DEI PRIGIONIERI POLITICI

Ancora una volta, cause di forza maggiore mi costringono mio malgrado a non partecipare a eventi come questo... Voglio però far giungere a tutti i presenti e agli organizzatori di questa giornata il saluto solidale dei compagni spagnoli incarcerati in Francia e in Spagna. Non si tratta di un saluto formale e vorrei veramente essere in mezzo a voi, per abbracciarvi ad uno ad uno, per dirvi, per ripetervi, quanto é importante la vostra solidarietà e quanto vi si senta vicini: i muri, le sbarre, l’isolamento, non impediscono alle vostre voci solidali di giungere a ciascuno dei compagni...

Il 25 novembre 2002, giusto due settimane fa, su ordine del giudice Garzón sono stati arrestati altri 8 compagni spagnoli; cinque di loro, erano già stati in carcere, chi per 14, chi per 16, chi durante 20 anni... Il loro “reato” attuale é quello di essere stati in galera per tanto tempo senza pentirsi... A tutt’oggi nulla si sa di questi compagni, né degli altri tre giovani membri delle Afapp-per un Socorro Rojo Internacional, che sono stati arrestati nello stesso pomeriggio con l’accusa di appartenenza a banda armata... Da sempre, é vero, diciamo che “la solidarietà é un’arma”... ma proprio non immaginavamo che Garzón ci avrebbe preso in parola...

E questa del novembre scorso é la terza ondata repressiva che colpisce il PCE(r) - Partito Comunista di Spagna (ricostituito), il movimento di solidarietà (Afapp-per un SRI) e i Grapo Ggruppi di Resistenza Antifascista Primo di Ottobre) negli ultimi due anni.  L’11 novembre del 2000 sono stati arrestati a Parigi 5 militanti del PCE(r), tra cui il Segretario Generale del Partito, e due militanti dei Grapo. Si é trattato di un’operazione congiunta, realizzata dallo Stato fascista spagnolo e dallo Stato francese. I 7 continuano in isolamento e a tutt’oggi non sono ancora stati processati.  Tra il 18 e il 22 luglio del 2002 si é avuta una nuova ondata repressiva, che si é scatenata contemporaneamente in Francia, in Spagna e in Italia. In Francia la DNAT (polizia politica francese) ha fatto irruzione negli appartamenti accompagnata da membri della Guardia Civile spagnola. Otto compagni sono stati arrestati a Parigi ed altri 8 in Spagna. Tra gli arrestati di Parigi, un compagno che certamente qualcuno di voi ricorderà perché viveva in Italia: si era fatto oltre 20 anni di galera in Spagna e, a fine pena, aveva raggiunto la sua famiglia in Italia. Era in Francia per organizzare la solidarietà nei confronti dei sette arrestati nel novembre 2000. Altri, magari, li avete “conosciuti” di nome, forse, chissà, avrete scritto a qualcuno di loro quando era in galera... eh già... degli 8 arrestati di luglio, quattro avevano già scontato lunghe pene nel loro paese. Quanto agli altri, si tratta di giovanissimi (tra i 20 e i 33 anni).  Il giudice Garzón e il governo spagnolo cercano di condannare, attraverso queste persone, il Partito Comunista di Spagna (ricostituito) perché l’esistenza di questo Partito é un pericolo per il regime spagnolo. Per raggiungere i loro obiettivi, il Governo spagnolo e i suoi burattini cercano di dimostrare che il PCE(r) e i Grapo sono la stessa cosa, quando sanno perfettamente che si tratta di due organizzazioni distinte.  Il PCE(r), infatti, é un partito di classe, il partito del proletariato spagnolo; un partito marxista-leninista, il cui funzionamento si basa sul centralismo democratico. L’attività dei militanti del PCE(r) é un lavoro esclusivamente politico che si attua attraverso l’agitazione, la propaganda e l’organizzazione politica. Il PCE(r) certamente - e come dovrebbe fare chiunque si dica realmente democratico - appoggia politicamente e moralmente la lotta di resistenza antifascista in atto in Spagna dagli anni é40.  Il giudice Garzón ed il suo omologo francese Brugiére si stanno adoperando per condannare il PCE(r) con l’accusa di essere “la stessa cosa” che il movimento di guerriglia.  Sulla situazione nelle carceri in Spagna sono anni che parliamo: in Spagna si muore di carcere, in Spagna esiste ancora la tortura...

Nessuno immaginava che la situazione nelle galere francesi fosse così pesantemente tragica... I compagni spagnoli stanno tutti in isolamento, tanto quelli arrestati nel novembre 2000 che quelli arrestati nel luglio 2002. Non possono avere rapporti tra loro, neppure epistolari; nessun rapporto con gli altri prigionieri; 22 ore di cella e due ore d’aria al giorno, da soli. I mezzi di comunicazione sono, in pratica, proibiti:

“affittare” la televisione costa infatti 10 euro a settimana. Nessuna telefonata, neppure al proprio avvocato. Nessun pacco, ad eccezione che in questi giorni, perché, bontà di lor signori, si avvicina il Natale. Nelle carceri francesi si deve acquistare tutto e tutto costa il triplo rispetto a “fuori”. La corrispondenza subisce due censure: arriva in carcere e da qui viene trasmessa al giudice istruttore che, dopo aver fatto tradurre, legge e poi rimanda in carcere le lettere, che però devono passare attraverso una ulteriore censura, quella del carc ere. Questo significa ch e una lettera può tardare anche mesi. Nei confronti del Segretario Generale del PCE(r) bisogna dire che le guardie si accaniscono in particolar modo...

Potrei continuare per ore, raccontandovi ciò che accade, i soprusi di cui ciascuno dei compagni é vittima... Ma non voglio occupare troppo tempo...  Prima di concludere, tuttavia, voglio porvi una domanda: perché proprio ora tanta repressione contro i comunisti spagnoli? E’ necessario chiederselo perché il fascismo spagnolo é, oggi come ieri, l’avanguardia dell’ascesa del fascismo in Europa.

Come nel 1939, in Spagna i fascisti stanno mettendo a tacere ogni forma di dissidenza politica, sociale o sindacale, ma non vogliono farlo da soli e, esattamente come allora, cercano di coinvolgere un altro Stato sovrano, la Francia, che di fatto potrà diventare una sorta di colonia spagnola. E usano questi collaborazionisti che, come ai tempi di Vichy, tengono in galera ai comunisti spagnoli, senza prove e con accuse false. Ora tocca ai comunisti spagnoli...

E in Italia cosa sta accadendo, compagni? E in Germania, in Gran Bretagna...?  La situazione, ovunque, é drammatica... neppure ai tempi dell’Impero romano, neppure un Caligola che pure ha vestito il suo cavallo da senatore, si sono mostrate in modo così chiaro le rovine di un sistema totalmente putrefatto...! Ma nessuno come loro stessi sta mostrando ai popoli della Terra cosa é veramente l’imperialismo, cosa sono il fascismo, la tirannia, l’oppressione, la miseria e la schiavitù...  E prima o poi, più prima che poi, i lavoratori, i contadini, i disoccupati, gli studenti, le casalinghe, i giardinieri e chissà persino le suore di clausura ne avranno sin sopra i capelli e diranno basta... In Europa, evidentemente, confidano nel fatto che, per mancanza di organizzazione e di direzione politica, il movimento finisca per auto distruggersi nella propria impotenza...

E’ quindi più necessario che mai unirsi e non rinunciare alla pratica rivoluzionaria... questo, compagni, é il messaggio dei compagni spagnoli in carcere in Spagna e in Francia.

 

AVV. SANDRO CLEMENTI

Sono l’avvocato di alcuni prigionieri delle Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente.

Vi ruberò pochissimi minuti unicamente per esprimere il saluto dei compagni che assisto e per invitarvi ad una semplice riflessione.

Sul 41 bis OP abbiamo ascoltato un’esposizione che ovviamente, oltre a condividere, ritengo articolato e scrupolosa.

Non vorrei, tuttavia, che determinasse un equivoco in chi ascolta.Ovvero l’equivoco che l’approvazione della modificazione, in via permanente, dell’art. 41 bis determini una differenza sostanziale delle condizioni di prigionia alle quali sono sottoposti i prigionieri rivoluzionari in Italia e che una mancata approvazione della stessa norma, ossia dell’art. 41 bis e quindi la conferma delle attuali condizioni carcerarie, siano la conferma di condizioni carcerarie accettabili.

I prigionieri rivoluzionari, che resistono da decenni nelle carceri italiane, subiscono un trattamento carcerario che non può certo definirsi morbido, in contrapposizione con la durezza del 41 bis OP.

Lo Stato ed il Governo, in alcune sue articolazioni, hanno sempre avuto ed hanno tutt’oggi, e avranno comunque, gli strumenti di intervento repressivo e oppressivo sui prigionieri rivoluzionari. Strumenti che sfuggono a norme legislative più o meno efficaci e pressanti.

L’Elevato Indice di Vigilanza che viene riservato, da decenni, ai compagni rivoluzionari in carcere, é un cugino molto stretto del 41 bis op, questo va detto. E’ un pò un sacco vuoto che viene riempito a seconda delle occasioni dal DAP, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, con formule di repressione e di restrizione dei normali diritti dei detenuti a seconda delle esigenze politiche del momento.  I compagni che assisto, i compagni detenuti a Biella, vivono questa condizione da sempre attraverso la censura della corrispondenza, la negazione dei colloqui, le perquisizioni nelle celle. Prima il collega, il compagno che mi ha preceduto, faceva riferimento alle perquisizioni intervenute nel carcere di Trani, altrettante ne sono state realizzate in quel periodo, mi riferisco a quello dell’uccisione di D’Antona e successivamente del collega Biagi (collega di D’Antona ovviamente) nel carcere di Biella.

Questi episodi hanno determinato perquisizioni e pestaggi e non solo nelle carceri soggette ad Elevato Indice di Vigilanza ma anche ad Opera rispetto a Compagni ivi detenuti e che si riconoscono comunque nel Movimento Rivoluzionario.  Un trattamento, quello attualmente riservato ai prigionieri Rivoluzionari, che può essere peggiorato dall’approvazione del 41 bis e dalla sua estensione anche ai prigionieri rivoluzionari con l’effetto di registrare unicamente un indurimento della repressione già esistente a carico dei prigionieri.

Altro aspetto, in materia di approvazione del 41 bis, come diceva giustamente il collega é quella di una estensione quasi a livello sociale di un trattamento repressivo nelle carceri sottoposte al 41 bis. La riforma in atto in materia di trattamento carcerario pone le basi per una restrizione delle residue libertà dei detenuti senza limite anche per i soggetti detenuti e diversi dai prigionieri rivoluzionari.  Le restrizioni saranno, ovviamente, calibrate dalle scelte politiche e sociali del momento, dal conflitto, dalla resistenza rispetto ai percorsi della borghesia.  Quell’equivoco che dicevo all’inizio del mio discorso dovrebbe essere evitato comprendendo che il diritto, italiano ed internazionale, non consente di operare “miglioramenti” per i prigionieri rivoluzionari.Il diritto borghese esprime una funzione anti-rivoluzionaria.

Ringrazio chi ci ha ospitato, chi ci ha consentito di tenere questo incontro, chi é intervenuto pur leggendo questo momento come un’occasione perché si riprenda il dibattito e soprattutto le iniziative di solidarietà con i prigionieri rivoluzionari secondo il sentire di ciascuno di noi. Ci sarà chi ritiene di fare azioni dirette a modificare, in qualche misura, l’ordinamento giuridico vigente o di combattere in ogni forma il 41 bis; questo é del tutto legittimo.VI sarà anche chi ritiene che la solidarietà con i prigionieri rivoluzionari vada ben oltre ad una modificazione legislativa che, di fatto, nulla potrebbe cambiare rispetto alla condizione della detenzione politica.  Vi saluto e vi ringrazio tutti.

 

UN SALUTO DEL COMPAGNO MARCELLO GHIRINGHELLI

Carissimi compagni/e, ciao.

Ho ricevuto con molto piacere il vostro opuscolo a sostegno delle lotte sociali e nelle galere.

Mi complimento per la serietà dell’impegno che svolgete in favore dei meno garantiti.

Purtroppo mala tempora currunt!

Credo che se siamo arrivati a questi livelli, non é tanto perché il capitale sia forte e invincibile, ma piuttosto perché noi, i proletari con i rivoluzionari, non si abbia sufficiente memoria.

Nel contempo siamo troppo frammentati e divisi da centomila parrocchie, già proprio così!

Nella storia ogni qualvolta il capitale si é sentito attaccato, nonostante la sua indole caotica, ha fatto quadrato contro gli attaccanti cioé la classe e/o i rivoluzionari.  Mentre per contro quando veniamo attaccati dal capitale, noi ci frantumiamo di fronte alle minacce e/o lusinghe, dando così spazio all’opposizione di renderci malleabili come crea....

In una delle ultime lettere che mi aveva scritto la compagna della RAF Ulrike Meinhof, avevamo già riscontrato questo dilemma molto serio, ma le sue critiche in tal senso sono state soppresse nel carcere speciale di Stammhaim. E le mie si sono perse nel magma ribollente degli anni 70/80. Ed oggi, la situazione non é molto rosea.  Tuttavia non dobbiamo mai dimenticare che noi i proletari e rivoluzionari abbiamo la forza della ragione !

La dobbiamo usare per batterci contro chi oggi inalbera la ragione della forza. Il capitale con tutti i suoi clichés!

Non arrendetevi, ma imparate a combattere.

Io ho fatto 20 anni il 1.12.2002 di cui 18 in carcere speciale a Novara, senza mai arrendermi.

Anche se oggi non nego che mi sento stanco. Ma ho fatto 34 anni di carcere, quindi vi abbraccio tutte/i con affetto.

Buon lavoro, un caloroso saluto comunista.

Marcello Ghiringhelli

carcere di San Vittore

Milano, 9 dicembre 2002

 

UN COMPAGNO DELL'UDAP SUI PRIGIONIERI ARABO-PALESTINESI

E' doveroso oggi esprimere solidarietà con tutti i prigionieri rivoluzionari in tutto il mondo, ribadendo la loro totale internità ai processi rivoluzionari nelle aree di cui fanno parte.

Cari compagni, in Palestina, da anni si parla di movimento dei prigionieri semplicemente per il fatto che sono numerosi. Allo stato attuale il numero dei prigionieri ammonta a 8.300, di tutte le età , dai 14 anni in su.  I nostri prigionieri versano in condizioni disumane da tutti i punti di vista: cibo, visite dei familiari, salute ed accesso alle informazioni esterne.  Dal 1967 in poi, abbiamo registrato 122 decessi a causa delle torture in carcere, numerosissimi sono i detenuti malati che non ricevono cure adeguate.  Nelle carceri sioniste sono passati 450.000 palestinesi nell'arco di trent'anni, potete immaginare per una popolazione di 3.500.000 di persone, quanto sia alta la percentuale.  L'entità sionista ha inventato forme di accuse e di detenzione diversificate per giustificare la propria azione nazi-fascista.

Oggi, in Palestina, la detenzione si divide in tre parti fondamentali:

1. Campi di concentramento collettivi, inclusa la chiusura completa di villaggi e centri urbani con coprifuoco che può durare delle settimane

2. Detenzione amministrativa: senza alcuna accusa si arrestano le persone e il fermo viene prolungato di sei mesi in sei mesi e può durare degli anni.

3. Detenzione ordinaria con accuse specifiche con condanne che a volte arrivano a quattrocentocinquant'anni.

In Palestina c'é da aggiungere alla repressione dell'occupante anche quella dell'Autorità nazionale Palestinese dalle cui carceri sono passati tanti compagni e combattenti palestinesi.

Vi ricordiamo che la forma carceraria imperialista nuova di Guantanamo é stata introdotta anche in Palestina. Oggi nel carcere ANP di Gerico ci sono quattro compagni (quelli che hanno giustiziato il ministro fascista Zevi) ed il segretario del fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Questi compagni sono controllati a vista da carcerieri americani e inglesi.

In quest'occasione vogliamo ribadire la nostra piena solidarietà con tutti i compagni prigionieri e rivendicare il loro impegno a non cedere al nemico di qualsiasi natura esso sia, forze d'occupazione o nemico di classe.

Noi pensiamo che la migliore solidarietà con i compagni detenuti sia il proseguimento della lotta, motivo per il quale subiscono la prigionia.

Viva la lotta dei prigionieri rivoluzionari

A fianco della lotta dei popoli repressi

Per un mondo giusto e umano

 

COMPAGNI DEL SOCCORSO ROSSO DEL REVOLUTIONÄRER AUFBAU SCHWEIZ

Care compagne, cari compagni, in primo luogo, grazie per l’invito alla vostra iniziativa del 14.12. Anche noi oggi siamo impegnati in una iniziativa di solidarietà con i prigionieri politici: una manifestazione davanti al carcere dì massima sicurezza dove, nel braccio speciale, é in isolamento Marco Camenisch, il compagno anarchico che ha passato più di dieci anni nelle galere italiane. Per questo vi mandiamo queste righe in segno di solidarietà e di internazionalismo proletario.

“La guerra contro il terrorismo é una lotta contro un male invisibile che agisce ovunque”.  Queste le parole di Bush che ricordiamo tutti. La borghesia imperialista cerca di uscire dalla profonda crisi capitalistica portando la guerra imperialista all’ordine del giorno della loro politica. Nessuno allora si meraviglia che questo famoso “male” si trovi soprattutto nelle regioni che hanno un’importanza strategica o ricche di materie prime. Ed é là che, con le bombe, prendono il potere o il controllo sulla distribuzione delle materie prime. Una repressione feroce si scaglia contro tutte le forze che si oppongono o alla loro presa di potere o al modo di produzione capitalista e al suo ordine sociale. I movimenti di liberazione, le organizzazioni rivoluzionarie e combattenti finiscono nelle famigerate liste nere, le cosiddette “liste antiterroristiche” e con questo diventano perseguibili in tutto il mondo.

La controrivoluzione dello stato spagnolo é, per il momento, in Europa, il punto più alto della controrivoluzione che non attacca soltanto le organizzazioni rivoluzionarie e combattenti (come PCE-r, GRAPO o ETA) in Spagna, Paesi Baschi o in Francia.  No, vengono messi nella famigerata lista, quasi giornalmente, nuovi nomi di compagni, collettivi giovanili rivoluzionari (come Haika o Segi) o organismi di massa, sindacali o quelli in sostegno e in solidarietà con i compagni prigionieri (Gestorias).  Divieti, blocchi di conti bancari, arresti di massa e torture fino ad oggi non sono riusciti a schiacciare i movimenti di liberazione, la lotta di classe, la militanza rivoluzionaria.  La controrivoluzione spagnola non agisce soltanto in Europa, ma si ricorda del suo ruolo storico, come potere coloniale, e appoggia la controrivoluzione colombiana nella loro lotta contro le FARC.

Apoggiando Sharon nella sua sporca guerra contro il popolo palestinese e il suo movimento di resistenza, gli usa e gli europei, allungano la lista nera mettendoci anche il FPLP, un’organizzazione socialista con una tradizione di lotta rivoluzionaria molto ricca e importante. Con ciò si apre la caccia ai suoi dirigenti come “terroristi” in tutto il mondo. Questi attacchi mirano, tra l’altro, anche ad eliminare le basi e le rappresentanze estere e, con questo, i legami internazionali. Proprio l’altro giorno due compagni del DHKP-C sono stati arrestati a Londra, la loro sede perquisita. La “lista antiterroristica” é alla base di questa operazione sbirresca. Era ovvio che la Turchia approfittasse di questo strumento della controrivoluzione internazionale, per mettere a tacere tutto ciò che si oppone in modo radicale al loro regime.  Anche la Germania si é attrezzata con un nuovo articolo del codice penale, il 129b, che permetterà di perseguire i compagni di organizzazioni straniere come se fossero militanti di organizzazioni rivoluzionarie tedesche.

Il ruolo della controrivoluzione in Italia lo conoscete voi meglio di noi e siamo interessati a conoscere le vostre analisi, valutazioni e proposte di lavoro anche a livello internazionale. Siamo profondamente convinti che, in questa fase dell’imperialismo, non solo la parola d’ordine “o socialismo o barbarie” ma anche l’internazionalismo proletario, sia più attuale che mai.

La borghesia imperialista fa bene a temere la rabbia dei popoli oppressi, la lotta di classe, la resistenza rivoluzionaria e le lotte di liberazione. Un’occhiata nelle varie regioni colpite, come ad esempio la Palestina o i Paesi Baschi, fa vedere che né la guerra né la repressione intensificata, raggiunge il loro obiettivo.  Non meraviglia affatto che, “creare fiducia”, sia la parola d’ordine del World Economic Forum di Davos quest’anno. A gennaio, come tutti gli anni, la créme de la créme della borghesia imperialista, governatori, specialisti economici, intellettuali, scienziati e naturalmente un mare di specialisti antiterrorismo, servizi segreti, per citarne soltanto un paio, si riuniscono sulla montagna bianca con aria pulita. Gli strateghi delle guerre, dello sfruttamento e dell’oppressione, vorrebbero sviluppare in “santa pace”, strategie e tattiche da intraprendere contro la grave crisi capitalistica.  Per lo stato svizzero é di fondamentale importanza, così come ha dichiarato il capo dell’esercito, che questo “avvenimento più importante per la piazza della finanza svizzera” si svolga senza “immagini di guerra”.

Ogni lotta di classe, resistenza rivoluzionaria o lotta di liberazione, a livello nazionale o internazionale trova lassù in montagna i “suoi” nemici di classe, gli imperialisti e potenti della politica, cultura e scienza. “Creare fiducia” nelle nostre possibilità di mobilitarci contro un nemico comune, essere visibili e ovunque portando con noi anche la lotta dei prigionieri politici, é il nostro invito a voi tutti, affinché si riesca a salire, insieme, lassù in montagna.

Buon lavoro, compagne e compagni

Soccorso Rosso del Revolutionärer Aufbau Schweiz

membro della commissione per un soccorso rosso internazionale

Zurigo, il 13.12.02

 

UN COMPAGNO DELLA PANETTERIA OCCUPATA DI MILANO

Un saluto a tutti, crediamo sia importante oggi fare questa iniziativa come momento di informazione sulla strategia repressiva che lo stato sta portando avanti a partire da una riflessione sull’attualità dell’applicazione del regime di detenzione speciale che rientra nelle norme contenute nell’articolo 41bis dell’Ordinamento Penitenziario. Vuole anche essere un primo momento di crescita, come necessità di comprendere la situazione carceraria e repressiva che esiste oggi collegandola ed inserendola in un piano generale, piano di attacco alle condizioni del proletariato metropolitano in genere e di conseguenza anche di quello prigioniero. Una riflessione sul carcere rientra così necessariamente su quelli che sono oggi i rapporti fra le classi, i rapporti di forza, e su quello che é oggi il livello di espansione raggiunto dal modo di produzione e riproduzione capitalistico.

Avviare un dibattito a 360 gradi, iniziando un lavoro di informazione, sviluppando rapporti e reti di collegamento, costruendo un terreno di solidarietà attiva.

Gli elementi su cui si é fermata la nostra attenzione sono:

- la comprensione di una strategia che vive all’interno delle prigioni di annientamento e di differenziazione del proletariato prigioniero e in particolare dei prigionieri rivoluzionari;

- la solidarietà ai prigionieri rivoluzionari, solidarietà totale sia attorno a bisogni concreti, alle esigenze dei compagni prigionieri, che al riconoscimento del loro ruolo storico e della loro partecipazione allo scontro di classe in atto, non solo come testimonianza ma in perfetta dialettica con il dibattito e con l’azione del movimento rivoluzionario;

- la necessità di ricostruire un rapporto organico con il proletariato prigioniero che sappia raccogliere i segnali di insofferenza che esprime e le sue tensioni di “fuga”, un proletariato prigioniero che é il medesimo specchio dell’attuale composizione di classe, in cui si ritrova in sempre maggior numero la presenza di una popolazione migrante ed in particolar modo di soggetti frutto del processo di precarizzazione e di estromissione dai processi produttivi di grosse fascie sociali.

- Il ruolo della controrivoluzione preventiva come strumento permanente ed in perfetta continuità con il passato di controllo e gestione della crisi e come strategia mirata all’impedimento dello sviluppo di forme di organizzazione e lotta rivoluzionaria indipendente del proletariato.

Se possiamo schematizzare si tratta di valorizzare un piano di informazione, di apporto di contributi utili e necessari allo sviluppo di un dibattito e confronto come base per una critica radicale al sistema di dominio imperialista di cui il carcere ne é parte.

Se a livello internazionale siamo in una fase segnata da processi di radicale ridefinizione dei ruoli egemonici e del controllo economico e politico del mondo da parte delle forze imperialiste che trova come soluzione la guerra sia essa “umanitaria” o “preventiva” nei singoli paesi si inaspriscono ovunque gli attacchi alle condizioni di vita del proletariato attraverso l’espulsione dal mercato del lavoro, l’approfondimento delle condizioni di sfruttamento e l’aumento della miseria sociale. Il rilancio del processo di accumulazione a livello globale non deve incontrare resistenze e deve spegnere con ogni mezzo necessario i focolai di resistenza ancora accesi e che si oppongono alla penetrazione imperialista (citiamo a proposito i Paesi Baschi - da Batasuna a ETA; la Colombia - Farc; il medio oriente ed in particolar modo la Palestina e le sue Organizzazioni). Un attacco che viene portato non solo alle esperienze rivoluzionarie ma anche alle borghesie locali che esprimono interessi differenti. Ciò avviene anche attraverso un processo di integrazione legislativo, giudiziario e militare sempre più transnazionale.  Rientrano in questo ambito il coordinamento delle polizie locali e dei servizi segreti; il mandato di arresto europeo e internazionale; le liste “nere” delle organizzazioni rivoluzionarie, di liberazione nazionale o islamiche; l’applicazione del reato di “terrorismo internazionale” a chiunque ne appoggi o ne condivida la prassi o l’ideologia.  Si rende necessario per il potere borghese, Stato per Stato, rifunzionalizzare gli apparati repressivi, implementando una maggiore integrazione e identità di comando nella macchina incaricata al controllo sociale, in relazione allo scontro di classe in corso e alle contraddizioni che questa fase apre. Giorno dopo giorno assistiamo al suo funzionamento con l’aumento del fenomeno di irruzione nelle case dei compagni, delle perquisizioni indiscriminate nelle sedi politiche e nei centri sociali, nel monitoraggio costante e nel rastrellamento di interi quartieri popolari, all’aumento dei posti di blocco, ai fermi arbitrari, alla detenzione nei lager (Centri di permanenza temporanea) con conseguente espulsione degli immigrati senza permesso di soggiorno.  E’ in questo quadro che si inserisce la volontà di applicazione dell’art.41bis ai prigionieri rivoluzionari: un ulteriore e illusorio tentativo per renderli sempre più estranei alla lotta di classe, per annientarli nella loro identità politica, per sottoporli ad ogni arbitrio e ricatto nel tentativo di portarli all’abiura della pratica rivoluzionaria. Questa riedizione della “segregazione” dei compagni rivoluzionari nelle carceri o nei bracci di “massima sicurezza” vuole essere un monito e il deterrente per impedire che la loro scelta rivoluzionaria, sostenuta e rivendicata nel corso di questi anni, si leghi e dialoghi con l’insieme delle pratiche di classe.

Obiettivo del 41bis sono oggi quei compagni che perlopiù hanno già scontato 20 anni e oltre nelle “carceri speciali”, sottoposti a forme di censura e controllo e ai quali viene già ostacolato ogni elemento di contatto e relazione con l’esterno. Con l’applicazione del nuovo disegno di legge che modifica l’art. 41bis dell’Ordinamento Penitenziario l’isolamento diventa pressoché totale, con drastica limitazione della socialità anche attraverso la contrazione dei colloqui con familiari e amici, la riduzione delle ore d’aria, le telecamere fisse per la sorveglianza, i vetri divisori ed i citofoni durante i colloqui, la limitazione nella corrispondenza con l’esterno, le video-conferenze a sostituzione della presenza ai processi: tutto un armamentario “collaudato” che vorrebbe portare alla distruzione fisica e psicologica dei prigionieri rivoluzionari. Un regime speciale che sarà applicato a chi appartiene ad organizzazioni rivoluzionarie ma potrà essere utilizzato contro chiunque si organizza su un terreno antagonista e questo sin da subito avrà un funzione deterrente e da monito.

Le carceri “speciali” e la legislazione che le legittima (in passato é stato l’art.90 e oggi il 41bis) sono studiate per favorire il massimo controllo e la massima efficienza repressiva e rispondono per essere legittimate dall’opinione pubblica ad esigenze considerate “emergenziali”, diventando di fatto poi strumenti integranti e di perfezionamento del sistema di coercizione generale. Questo collaudato sistema di ricatto, pressione e violenza istituzionale si articola in forma calibrata a seconda del soggetto prigioniero avendo come elementi costituenti la differenziazione e l’individualizzazione del trattamento penitenziario. Una ruota nella quale il “trattamento differenziato” del 41bis rappresenta l’ingranaggio principale e lo strumento massimo di repressione contro chi si ribella, si organizza e lotta. Applicato ormai da 10 anni dapprima ai cosidetti “reati di mafia” viene ora esteso ai compagni delle organizzazioni combattenti ed ai sospetti di appartenenza alle organizzazioni islamiche, costituendo di fatto un ulteriore elemento di persuasione, nella dialettica pacificazione-distruzione, sull’intera popolazione prigioniera che già vive in condizioni accentuate di degradazione e prevaricazione (mancanza di cure sanitarie in generale ed in particolare assenza pressoché totale di assistenza ai malati di Aids, aumento del numero dei suicidi, pestaggi e vessazioni di ogni tipo). E contro queste condizione si sono sviluppate negli ultimi anni un ondata di lotte del proletariato prigioniero, da Sassari a San Sebastiano (dove lo stato ha risposto con un massacro dei detenuti), alle rivolte a Marassi, sino all’ultimo ciclo di proteste in tutte le carceri italiane.  Ma la prevenzione e la distruzione di ogni elemento di coscienza e di lotta contro il capitale non si ferma al recinto dei lager di stato, siano essi “normali” o “speciali”, ma vive principalmente all’esterno, applicata senza distinguo a tutte le tensioni, anche parziali, e ad ogni momento di rifiuto che la classe oppone ai meccanismi di sfruttamento.  Mentre si aprono contraddizioni dentro il blocco dominante in merito alla gestione della crisi (patto sociale, legge finanziaria, partecipazione alla guerra, opzioni divergenti sulla ristrutturazione del sistema industriale italiano) e le lotte sembrano riprendere corpo e sostanza, lo stesso schieramento borghese si ricompatta, unito come non mai, nel cercare di dividere e isolare la classe.

Dove non arriva la burocrazia sindacale per prevenire la radicalizzazione dello scontro si “criminalizzano” le lotte che si sviluppano in modo autonomo e differenziato e le avanguardie che le dirigono: si passa dalla schedatura di massa degli attivisti sindacali alle 130 denunce ai lavoratori delle pulizie Trenitalia per aver occupato i binari come strumento di lotta a difesa del posto di lavoro. Per meglio controllare i gruppi politici del movimento antagonista si allargano le maglie dei reati associativi e dei provvedimenti che colpiscono i singoli compagni (divieto di partecipare alle manifestazioni, 270 e 271 bis/ter/quater, inchieste su Genova e Napoli, arresto di militanti del movimento prima a Cosenza ed ora in tutta Italia).

Soluzioni adeguate alle circostanze per imbottigliare e differenziare le diverse componenti della classe una dalle altre, per mantenere come realtà “separate” le pratiche e le opzioni del movimento antagonista e dei lavoratori dalla prospettiva rivoluzionaria, per rendere ancor più “invisibili” i prigionieri rivoluzionari alla classe e farli separare dalle istanze di liberazione dallo sfruttamento e per la rivoluzione sociale.  Se il carcere é uno degli strumenti che la borghesia si é dato per esercitare il suo potere non dobbiamo farci trovare né impreparati, né passivi, né divisi sul terreno dello scontro contro ogni forma di dominio economico e politico del capitale.  Costruiamo una rete di controinformazione e mobilitazione che, a partire dallo “specifico carcerario del 41bis”, sostenga la difesa dell’integrità psicofisica dei rivoluzionari prigionieri, la loro identità politica, la loro storia. Sosteniamo e stabiliamo relazioni con le lotte dei proletari detenuti come percorso di ricomposizione politica del proletariato metropolitano.

Costruiamo un terreno di solidarietà di classe, per il comunismo.

 

UN COMPAGNO ANARCHICO PROMOTORE DELL’ASSEMBLEA

Innanzi tutto vogliamo salutare i familiari dei detenuti comuni incontrati durante i volantinaggi davanti ad alcune carceri, e che forse sono presenti oggi.

Che cosa ci aspettiamo da questa assemblea e cosa non vorremmo.

Non vorremmo che l’assemblea si trasformasse in un’autocelebrazione, con degli interventi, orali o scritti, che “pubblicizzino” la propria organizzazione o gruppo. Gli interventi che seguiranno - o che ci hanno preceduto - riguardanti particolari situazioni estere, sono per noi un bagaglio importante e ci sono di stimolo per affrontare meglio una discussione che, a nostro parere, dovrebbe però indirizzarsi oggi sullo specifico nazionale.

Ciò’ che ci aspettiamo, é un confronto di analisi, di metodologie basate sull’esperienza, un confronto su proposte di lotta concreta per poter meglio affrontare - come dicevamo nell’introduzione dell’opuscolo - le lotte che potrebbero svilupparsi all’interno e all’esterno del carcere.

Lotte che potranno essere determinate da detenuti comuni, o da sottoposti a 41bis (e qui vorrei aprire una parentesi per sgombrare il campo da facili prese di distanza riguardo i cosiddetti “mafiosi”. Innanzi tutto il termine “mafioso” é un appellativo che dà lo Stato a chi é imputato di appartenere ad una grossa associazione criminale.  Allo stesso modo in cui pone l’appellativo “terrorista” a chi lotta contro l’esistente. Poi c’é da dire che non tutti i detenuti che soffrono il 41bis sono appartenenti ad organizzazioni criminali. A regime 41bis c’é stato anche un compagno per 10 anni, Matteo Boe; ci sono passati proletari che, pur non avendo una coscienza di classe, non hanno mai ceduto alle lusinghe dei Magistrati e che hanno vissuto, o vivono, la loro carcerazione in modo dignitoso, scontrandosi con i carcerieri e la Magistratura di Sorveglianza. In ogni modo, é senz’altro un falso problema per un rivoluzionario che si pone come obiettivo la distruzione della società divisa in classi e di tutte le istituzioni totali), lotte quindi - dicevamo - che oltre a poter essere determinate da detenuti comuni o sottoposti a 41bis, possono vedere coinvolti anche i prigionieri rivoluzionari, é una possibilità.

Ovviamente, non é che ci si possa aspettare che dall’interno del carcere la lotta possa nascere subito in modo conflittuale.

Una lotta dall’interno, generalmente inizia come lotta intermedia (cioé che non si pone immediatamente obiettivi rivoluzionari, ma si presenta come lotta rivendicativa, in carcere così come in qualsiasi settore della vita sociale), non dimentichiamoci che ogni individuo detenuto é un ostaggio nelle mani dello Stato e che, quindi, deve muoversi con cautela avendo anche a disposizione quanta più documentazione possibile, in modo particolare su quello che accade in altre carceri: dalle condizioni estreme di repressione alle iniziative di resistenza, di contrapposizione vera e propria.  Una lotta intermedia può andare dal rifiuto dell’aria al rifiuto dei colloqui, dei pacchi familiari, della socialità e di tutte le altre attività. Si possono anche sviluppare forme più complesse come il rifiuto del vitto dell’Amministrazione, del lavoro in carcere, lo sciopero della fame, la fermata all’aria con rifiuto di rientrare nelle celle, il sequestro di una guardia.

Nessuno può prevedere come possa evolversi una lotta che parta da una rivendicazione di migliorie, ma tutti quanti possiamo dare ampio risalto all’esterno di ciò che accade dentro quelle mura, ed adeguare alla lotta i nostri metodi e strumenti d’intervento.  Tuttavia una lotta contro il carcere potremmo determinarla anche noi altri, dall’esterno, insieme ad amici e familiari dei detenuti, perché é anche con chi si vive in prima persona le conseguenze di una carcerazione che bisogna confrontarsi e creare dei punti di contatto da cui far partire delle mobilitazioni, auto-organizzate, che sappiano tenere a distanza gli avvoltoi della Politica.

Nonostante riteniamo che la migliore soluzione possibile per quel che riguarda il carcere é la sua completa distruzione, spesso abbiamo solidarizzato con le proteste dei detenuti, tenendo ben presente che non é con il rivendicare “diritti” a coloro che sono i diretti responsabili della barbaria-carcere che ci si possa avvicinare alla liberazione ma, a nostro avviso, con una lotta autogestita in prima persona che sappia mettere in crisi i meccanismi dell’Amministrazione Penitenziaria ed indurla ad accogliere le istanze di lotta. Perché é vero che negli ultimi anni le lotte dei detenuti sono state a carattere rivendicativo (e non totali contro l’esistente), generalmente pacifiche e di dialogo con le istituzioni, ma é altrettanto vero che non hanno portato ad una miglioria concreta, relegate ad un attendismo di volta in volta suggerito da un politico, un ex-carcerato famoso, un Ministro, un Papa.

Secondo noi la lotta, per avere maggior incisività, deve svolgersi su due fronti.  Quello interno, composto dai prigionieri, e quello esterno composto da tutte quelle realtà, singoli individui, amici e familiari che intendono essere vicini ai detenuti in lotta, in modo non strumentale e non solo assistenzialista.

Una lotta che ponga delle discriminanti nel metodo d’intervento: l’attacco, cioé nessuna mediazione con il potere; l’azione diretta, cioé mettere in pratica ciò che dichiariamo di fare, senza delegare ad alcuno, o aspettare che altri lo facciano al nostro posto; l’autonomia totale della lotta, cioé il rifiuto di intermediari, strumentalizzatori, partiti, ecc.  Denunciare, sbugiardare, attaccare, boicottare, presidiare le strutture che compongono il sistema repressivo, i sindacati che hanno tra i loro iscritti delle guardie carcerarie, le ditte fornitrici e costruttrici di carceri, le aziende che sfruttano il lavoro dei detenuti (significativa la proposta della Lega che intende dimezzare la pena ai detenuti che lavoreranno gratis), organizzazioni e associazioni complici e sfruttatrici.  Il potere mira a clandestinizzarci, espellerci dai contesti sociali, separarci dagli esclusi del sistema, perché tra essi rappresentiamo lo stimolo perenne alla insurrezione generalizzata, alla possibilità di riprenderci la vita.

La proposta che lanciamo a questa assemblea é un progetto di lotta, un intervento continuativo che in prospettiva coinvolga chi soffre la galera, ma anche chi la sente estendersi sempre più al complesso della propria vita, nelle proprie case, nel proprio tempo, pur non trovandosi dietro le sbarre di un penitenziario.  Un progetto, quindi, che si fa forza del nostro agire rivoluzionario del passato e che si pone in continuità operativa col nostro agire quotidiano, nella interdipendenza tra analisi ed azione, in modo coerente e dignitoso. Senza secondi fini, se non la lotta stessa.

Gli anarchici promotori

 

UNA COMPAGNA DELLA DEL FOGLIO RIVOLUZIONE

Innanzitutto un caloroso saluto a tutti coloro che partecipano a questa assemblea che “Rivoluzione” ha contribuito a promuovere e costruire come un momento di dibattito per il rilancio della cultura e della pratica della solidarietà di classe. E’ questo un momento importante perché, accomunando in un unico fronte contro la repressione borghese diverse realtà, dà un segnale nuovo dopo il lungo silenzio in questo campo, silenzio frutto della cultura della desolidarizzazione e della dissociazione che per mano della borghesia ha contaminato il movimento di classe e il movimento rivoluzionario nel nostro paese al fine di distoglierlo dalla via rivoluzionaria.  Silenzio rotto solo dal lavoro minoritario di pochi collettivi di compagni che hanno resistito in questi anni e hanno continuato a portare avanti la battaglia a fianco dei Rivoluzionari Prigionieri (RP).

Un saluto e un ringraziamento in particolare agli organismi di solidarietà e di lotta contro la repressione che oggi sono presenti e che con la loro lotta e la loro esperienza possono portare in questa assemblea un contributo positivo, carico di insegnamenti.  Con questo intervento non vogliamo entrare nel merito dell’analisi della situazione carceraria oggi, delle modifiche nell’ordinamento penitenziario e in quello penale frutto dell’attuale situazione di crisi del sistema capitalistico, della tendenza alla guerra e del conseguente acuirsi della lotta di classe nei paesi imperialisti e delle lotte di liberazione e guerre popolari dei popoli oppressi. Molti interventi, e i materiali proposti per questa assemblea affronteranno questi temi. Vogliamo invece rispondere per punti a delle domande che secondo noi servono a dare un orientamento collettivo al lavoro e alla militanza concreta sul terreno della repressione e della controrivoluzione.

Innanzitutto: “Perché é fondamentale lottare sempre contro la controrivoluzione?” Molti compagni, “aree” di movimento, “gruppi politici” hanno sostenuto e sostengono che questo terreno di lavoro non é centrale, distoglie dal legame con le masse, provoca isolamento, va considerato solo quando si viene colpiti direttamente o nei momenti in cui la repressione diventa visibile, per forza ed estensione, a livello di massa. A queste affermazioni dobbiamo contrapporre con la forza dell’analisi scientifica delle leggi che regolano il mondo e con la tenacia della pratica che, per chi si pone onestamente e senza opportunismo sulla strada del cambiamento rivoluzionario della società, la lotta contro la controrivoluzione e la repressione non é un settore particolare da considerare quando comoda e a seconda dei periodi ma, essa é parte integrante e indissolubile del lavoro per far avanzare la classe operaia e il proletariato verso la propria emancipazione. Rivoluzione e controrivoluzione é una contraddizione, essa é un’unità di opposti: é la contraddizione che nel suo sviluppo porta o a un avanzamento di un polo o a quello dell’altro. Un polo non esiste senza il suo opposto, nella politica rivoluzionaria questi due aspetti vanno trattati sempre e sono l’uno il complemento dell’altro. La controrivoluzione preventiva, strumento della borghesia, é nata e si é sviluppata solo dopo l’affermazione della prima rivoluzione proletaria e da allora avanza e si perfeziona per contrastare ogni possibile avanzata di processi rivoluzionari, in tutto il mondo. Per Marx ed Engels fin dall’inizio e, per i partiti comunisti maoisti di oggi, qualsiasi processo rivoluzionario potrà avanzare solo se si eleva sulla controrivoluzione, cioé solo se la rivoluzione riesce a divenire polo principale della contraddizione. Questo significa, nella pratica, che questo terreno di lavoro é fondamentale in ogni momento e va studiata sempre la situazione concreta per trovare il modo corretto per affrontarlo.

Una seconda domanda: “Perché quando si affronta la questione carcere bisogna partire dal punto più alto di segregazione, in questo caso dal circuito di Massima Sicurezza? E perché quando si parla di prigionieri partire dai R.P.?”

Molti compagni pensano che devono analizzare la situazione a partire dai soggetti più numerosi che vengono incarcerati e che il loro lavoro deve partire da li, oppure che la realtà di controllo e coercizione va vista a partire dall’estensione delle misure applicate in tutta la società. Noi pensiamo, al contrario, che per comprendere bene qualsiasi cosa essa vada guardata dall’alto perché così si vede per intero e si capisce il posto che occupano i singoli aspetti di quella cosa. Quindi, per capire come funziona il sistema carcerario é fondamentale partire dal suo livello più alto raggiunto perché esprime la sintesi della capacità repressiva del potere borghese e racchiude i codici che regolano tutta l’istituzione totale che traboccano e informano l’intera società.  E, quando parliamo di prigionieri, parliamo in primo luogo dei RP perché noi guardiamo il carcere dal punto di vista del proletariato e della lotta di classe e, in questa concezione, la loro condizione rappresenta uno dei punti più alti della lotta dello stato contro chi ha osato organizzarsi per mettere in discussione il suo potere. Se andiamo a ritroso e guardiamo la storia del carcere negli ultimi decenni a partire dalla condizione dei RP vediamo che essa porta con se un importante spaccato della lotta di classe e rivoluzionaria nel nostro paese. Questo aspetto é affrontato nell’opuscolo preparato per l’assemblea nel pezzo intitolato “dall’art 90 al 41 bis”. Con questa impostazione guardiamo alla costruzione di un legame e di un’unità nella lotta con tutto il corpo prigioniero.

“Che tipo di solidarietà vogliamo promuovere e raccogliere?” La solidarietà che vogliamo promuovere e raccogliere non é umanitaria e nemmeno un piagnisteo sulle carenze della “democrazia” borghese indirizzato al suo possibile miglioramento. Non é una solidarietà rivolta solo ai prigionieri che in altre parti del mondo lottano all’interno delle carceri imperialiste. E’ prima di tutto solidarietà qui, alla lotta che i RP hanno sostenuto e non hanno svenduto: la loro resistenza rafforza la nostra lotta e la nostra solidarietà concreta rafforza la loro resistenza.  I RP sono la testimonianza del percorso rivoluzionario nel nostro paese e dei passi avanti fatti contro il revisionismo. Nonostante non siano più le migliaia di fine anni ‘70 continuano a essere estremamente scomodi e vengono continuamente presi di mira come ora con il 41 bis. Questo perché essi sono un esempio di coerenza e mostrano con la loro esistenza che oggi vive una prospettiva rivoluzionaria. E’ di questo che lo stato ha paura. La solidarietà che vogliamo promuovere deve servire a sviluppare questa prospettiva con la consapevolezza che essa é un contenuto indispensabile per raggiungere l’obiettivo della ricostruzione del partito comunista nel nostro paese. “Che metodo di lavoro dobbiamo applicare per dare impulso e sviluppare la solidarietà?”

Contro il gruppismo, la solidarietà di parrocchia, la differenziazione, dobbiamo costruire un fronte ampio contro il carcere, la controrivoluzione preventiva, la repressione

e a sostegno dei RP che abbia come discriminante il riconoscimento del nemico comune e la scelta di campo rivoluzionaria. Dobbiamo intervenire a partire dal particolare della situazione della lotta di classe attuale. Guardare le cose da un punto elevato non significa non analizzare sempre tutti i singoli aspetti delle cose e la situazione concreta in cui si manifestano. Possiamo staccarci a guardare la realtà per elaborare dei criteri generali di comprensione che siano utili ad intervenire su di essa solo se prima siamo pienamente immersi in essa e ne conosciamo i nessi interni.  Dobbiamo applicare la linea di massa, saper vedere e valorizzare in ogni occasione gli aspetti positivi della lotta di classe per contrastare quelli negativi. Per fare questo é necessario unirsi nella lotta attuale contro il carcere, non snobbare quello che avviene in risposta a ogni episodio di repressione solo perché é manipolato o diretto dai revisionisti. E’ importante anche saper vedere e utilizzare le contraddizioni, che oggi sono acute, in campo nemico. Lo stato non é un mostro onnipresente, cattivo per natura e con strumentazione repressiva imbattibile, come, più in generale non lo é l’imperialismo. Se attua misure sempre più fasciste questo non é certo un segno della sua forza ma della sua debolezza.

Concludiamo con l’augurio che questo incontro sia proficuo nel dare elementi e strumenti per capire la realtà della repressione e della controrivoluzione che possano dare impulso e guidare un rilancio della pratica della solidarietà di classe. Siamo convinti che nella situazione attuale in cui la lotta di classe coinvolge ampi strati di operai, lavoratori, giovani e donne, lo spazio politico per il nostro lavoro diventa sempre più ampio. Quindi, con entusiasmo rivoluzionario, diamoci dentro!

Un saluto a tutti i compagni prigionieri e a tutti i detenuti che lottano, in Italia e nel mondo.

A fianco della mobilitazione dei compagni contro gli arresti di Genova.

Redazione di “Rivoluzione”

 

UNA COMPAGNA DEGLI AMICI E FAMILIARI DEI RIVOLUZIONARI PRIGIONIERI

Le carceri speciali, in Italia, nascono nel '77 dalla necessità dello stato di isolare i prigionieri politici. Questo perché, con l’arrivo nelle carceri dei compagni, dal '68 in poi, la situazione diventa sempre più esplosiva: crescono le rivolte, si pretendono condizioni di vita dignitose ma soprattutto, i detenuti per cause comuni, prendono coscienza dell’origine sociale e politica della loro condizione, si sentono parte del proletariato, si crea un forte legame tra proletariato fuori dalle carceri e proletariato detenuto.  In seguito, con la nascita delle organizzazioni combattenti, anche il proletariato extra-legale si organizza nei N.A.P. (Nuclei Armati Proletari).  Lo stato deve tentare di arginare la situazione, vara quindi la riforma carceraria, che entrerà in vigore nel '76. Questa si muove in due direzioni che, da quel momento in poi, saranno sempre presenti negli schemi delle leggi successive sul carcere: da una parte, la concessione di benefici, condizioni carcerarie migliori, permessi subordinati alla buona condotta e, dall’altra, il trattamento speciale per i prigionieri politici e per quei detenuti che si espongono nelle lotte.

Ad occuparsi del circuito delle carceri speciali, sono chiamati i carabinieri, il cui comandante é il Generale C. A. Dalla Chiesa.

All’inizio si creano sezioni speciali all’interno delle carceri normali, contemporaneamente sono costruite nuove carceri, concepite già come speciali, con caratteristiche, anche architettoniche, tali da permettere il massimo controllo. Queste, nel corso degli anni, si andranno sempre più perfezionando con il corollario di congegni elettronici e tecnologici.

Le carceri speciali non se le sono inventate qui, l’Italia ha un modello da seguire, la Germania occidentale.

L’Italia e la Germania occidentale, in quegli anni, sono paesi centrali per la strategia USA, sia come paesi di frontiera con l’area dell’Urss, sia nella strategia americana contro le lotte di liberazione del Terzo Mondo.

In Germania, in particolare nelle basi militari, esistono centri d’intelligence da dove sono gestite le operazioni, più o meno segrete, di propaganda, d’informazione e anche militari, americane. A differenza dell’Italia, dove esisteva un forte partito comunista, seppure revisionista, la Germania del dopoguerra, ha cercato di estirpare, nel modo più radicale, ogni tipo d’opposizione politica, infatti il partito comunista era fuorilegge, dichiarato anticostituzionale fin dal ‘56. Dopo l’esplosione del movimento del é68, lo stato tedesco reagisce varando, immediatamente, leggi speciali d’emergenza.  All’inizio degli anni ‘70 emergono due organizzazioni di guerriglia: gli anarchici del “2 giugno”, che nascono dall’esperienza delle comuni, in particolare nel quartiere di Kreuzberg, a Berlino e la R.A.F. che, analizzando il ruolo strategico della Germania ovest nei piani dell’ imperialismo USA, si pone principalmente su un piano di lotta anti-imperialista. Una delle loro prime azioni, sarà proprio l’attacco, nel ‘72, al quartier generale USA di Heidelberg da dove erano coordinate le campagne di sterminio in Vietnam. Questa e altre azioni contro le istituzioni americane, hanno rappresentato un aiuto concreto al popolo vietnamita in lotta, tanto che, ad Hanoi erano affissi manifesti con la notizia degli attentati e, dopo la liberazione di Saigon sarà intitolata una strada ad Ulrike Meinhof per ricordare i compagni tedeschi. Un altro punto importante é la solidarietà (come vedremo ricambiata), con la lotta del popolo palestinese.  Dopo il massacro, ricordato come “Settembre nero”, in Giordania, i compagni palestinesi decidono di portare la lotta qui, nel cuore dell’Europa. Nel ‘72, con il sequestro della squadra israeliana che partecipa alle Olimpiadi di Monaco e le azioni successive, la lotta di liberazione palestinese esce dall’ambito regionale in cui era confinata e viene conosciuta in tutto il mondo. Si prende coscienza del ruolo che Israele svolge in quella regione, che va ben al di là di quello che appare, e che la lotta palestinese non é solo la lotta di liberazione di un popolo ma un nodo centrale della lotta antimperialista mondiale, ruolo che conserva ancora oggi.

Per stroncare la guerriglia lo stato tedesco attuerà, contro i compagni, una repressione durissima. Saranno rinchiusi, per anni, in carceri super tecnologiche dove vige l’isolamento in celle singole insonorizzate, dove i compagni verranno sottoposti a torture di tipo psicologico e farmacologico, secondo tecniche, studiate fin dagli anni ‘50 in America, capaci di provocare gravi problemi fisici e psichici, con lo scopo di annullarne la resistenza e annientarli. Lo stato tedesco non riuscirà a piegare i compagni: resisteranno e lotteranno strenuamente con scioperi della fame che porteranno alla morte del compagno Holger Meins nel ‘74. E non ci riuscirà nemmeno con l’assassinio in carcere, nel ‘76, di Ulrike Meinhof.

Non ci riuscirà nel ‘77, quando la R.A.F. rapirà il presidente della Confindustria Schleyer, che era stato attivo nazista nelle SS, e chiederà la liberazione di 11 compagni.  Un commando palestinese appoggerà le richieste della R.A.F. sequestrando un Boeing 737 della Lufthansa che atterrerà a Mogadiscio. Un commando dei corpi speciali tedeschi darà l’assalto all’aereo della Lufthansa liberando i passeggeri e uccidendo i componenti del commando palestinese. Questo é il primo intervento della Repubblica Federale Tedesca su suolo straniero dal ‘45. Infine, verranno assassinati, nelle loro celle, i compagni Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe. La versione ufficiale del governo sarà, ed é ancora oggi, “suicidio”, come già era avvenuto per Ulrike Meinhof. L’uccisione dei compagni susciterà un’ondata di proteste e ci saranno azioni contro obiettivi tedeschi in tutto il mondo. Le B.R. la definiranno “la prima offensiva unitaria sul terreno della guerra di classe”.  Il tentativo di fermare la guerriglia assassinando i compagni andrà a vuoto.  La guerriglia continuerà a combattere fino agli anni '90. Le tecniche d’ annientamento nelle carceri speciali tedesche, saranno il modello che verrà esportato un pò ovunque, dall’Italia all’Irlanda, alla Spagna. Non é un caso che la Turchia, che chiede di entrare in Europa, si adegui a questo modello con la costruzione dei blocchi, detti di tipo “F”, a cui i compagni turchi stanno resistendo con uno sciopero della fame che ha già prodotto più di cento morti.

Questo il modello dunque, ma le cose, nell’Italia di quegli anni, che come abbiamo visto non rappresenta un caso isolato, sono rese difficili dall’alto numero dei prigionieri e dal livello delle lotte che si sono sviluppate ovunque, nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri e intorno al problema del carcere.

I compagni prigionieri vengono trasferiti continuamente per impedire che una situazione stabile possa permettere di organizzarsi e per rendere più difficoltoso il contatto con l’esterno, essenzialmente con i familiari (se non si é in qualche modo familiari, non vengono dati colloqui), i quali sono costretti ad attraversare tutta l’Italia senza mai sapere se il loro compagno é ancora lì.

Ma nonostante “gli speciali”, la lotta non si ferma e raggiunge il suo culmine con la rivolta dell’Asinara nel ‘79.

I detenuti chiedono la chiusura del carcere per le condizioni di vita impossibili. Le B.R., fuori, rafforzano la richiesta dei prigionieri con il rapimento del direttore generale delle carceri, il magistrato D’Urso. Alla fine, il carcere dell’Asinara, semidistrutto dalla rivolta, viene chiuso e D’Urso liberato.

Siamo alla fine degli anni ‘70... la borghesia ha bisogno di portare avanti una ristrutturazione sia a livello politico che a livello produttivo; ristrutturazione che é già in atto negli altri paesi, ma che in Italia é bloccata da più di dieci anni di durissima lotta di classe e dalla presenza di avanguardie armate. » necessario, per lo stato borghese, usare ogni mezzo per stroncare queste lotte. Attacca quindi su tutti i fronti, innanzitutto le fabbriche: emblematica la sconfitta della Fiat con migliaia di cassaintegrati e i 61 arrestati per “terrorismo”; il movimento, con teoremi come quello del 7 aprile, che porteranno centinaia di compagni in carcere e/o all’estero; cerca di fare terra bruciata intorno ai prigionieri con arresti e intimidazioni a familiari ed amici e a tutti quei settori di movimento che si occupano di carcerario; arriva anche ad arrestare gli stessi avvocati difensori, accusandoli di favoreggiamento nei confronti dei loro clienti (già successo, anni prima in Germania).

Per fermare a tutti i costi la guerriglia, verrà poi applicata la tortura a chi viene arrestato, non la tortura psicologica, ma quella più spiccia, la corrente nei coglioni per intenderci. Viene applicato anche l’art. 90, che é, in pratica, l’attuale 41 bis: colloqui con i vetri, isolamento, riduzione delle ore d’aria, ecc.

Ma a questo inferno c’é una via di uscita ed é la delazione, il pentimento, il tradimento che porterà centinaia di compagni in carcere. Ma non basta, Peci, l’infame tra gli infami, consegnerà le chiavi di un appartamento, in Via Fracchia, a Genova: quattro compagni verranno uccisi. La situazione é durissima per tutti, ma ancora c’é la volontà di lottare contro l’art. 90 e le torture.

Il movimento si mobilita e manifestazioni e scontri si svolgono davanti alle carceri speciali come Cuneo e Voghera. L’art. 90 verrà infine abolito. Seguirà poi la stagione delle abiure, la legge sulla dissociazione, i convegni, i dibattiti e, alla fine, come si conviene alla società dello spettacolo, tutto finisce in tv, ex-fascisti ed excomunisti, le stesse facce contrite in un cono di luce, ci spiegano che tutto é finito.  Ma la repressione continua. Vengono, di nuovo, arrestati decine e decine di anarchici; Laudi, nota avanguardia dell’anti-terrorismo monta a Torino il caso “squatter” contro i compagni che lottano contro il T.A.V. che porterà al suicidio-assassinio di due compagni, Sole e Baleno. Intanto, i compagni che non accettano compromessi, che continuano a resistere, restano nelle carceri speciali rigorosamente isolati.  Ed é principalmente a questi compagni che oggi vogliono applicare l’art. 41 bis.  E allora ci chiediamo: perché proprio adesso? Perché questo rigore verso dei compagni che sono già nelle carceri speciali da moltissimi anni, alcuni 20, addirittura 28?  Accanimento gratuito? Non lo crediamo.

E allora guardiamoci intorno. La classe sta subendo, ancora una volta, un attacco durissimo; gli stabilimenti chiudono, migliaia di operai perdono il posto di lavoro, nel contempo lo stato sociale viene smantellato, si susseguono gli attacchi in tutte le direzioni (scuola, pensioni, sanità, ecc) la crisi economica porta il capitale alla dislocazione produttiva, in paesi dove lo sfruttamento e quindi il profitto sono maggiori; cresce il capitale finanziario. Tutto questo fa sì che non ci sia più spazio per ipotesi riformiste. Lo stato perde quindi, sempre di più, il ruolo di mediatore dei conflitti, poiché c’é sempre meno da mediare, per assumere la veste repressiva e di controllo.  Le emergenze si susseguono. All’emergenza permanente, lo stato da risposte che assomigliano, sempre di più, al carcere vero e proprio: aumentano i contenitori per merce umana, i centri di detenzione per gli immigrati con il corollario della legge Bossi-Fini, le comunità di recupero; si parla di abolire la 180 e di riaprire i manicomi, fino alle casette chiuse per regolarizzare la schiavitù della merce donna.  Lo stato non ha dimenticato gli anni '70. La classe certo é sotto pressione, costretta sulla difensiva, sempre più smembrata dal nuovo, anche se in realtà vecchio, modo di produzione con i lavori atipici, a termine, part-time, a chiamata, chi più ne ha più ne metta! A quale livello dunque, può, in questo contesto, avvenire la ricomposizione di classe se non su un terreno politico?

Fermare le avanguardie che potrebbero operare questa ricomposizione é essenziale: questa é la vera emergenza.

Per questo lo Stato attua una contro-rivoluzione preventiva contro tutti: i lavoratori, che si mobilitano contro il Libro Bianco e l’art.18 (da notare la rapida riconversione della CGIL a interprete-incanalatore delle lotte); il movimento (i fatti di Napoli e di Genova che porteranno alla morte di Carlo Giuliani, non sono casuali); la ripresa dell’attività combattente, preparando gli strumenti di cui, l’art.41 bis é uno di questi. Ma la repressione, per essere efficace, deve essere generalizzata. Ogni compagno deve sapere di essere a rischio carcere.

Lo Stato, per questo, non si limita mai a colpire solo “i responsabili”, ma deve creare un clima di intimidazione, arrestando e inquisendo: i 20 arrestati a Caserta lo dimostrano, non c’é bisogno di prove per il 270 bis.

La repressione e l’inasprimento del carcere servono, da un lato, a ri-punire chi non si é arreso e rivendica la propria identità politica dando una continuità storica alle lotte e, dall’altro, a desolidarizzare, a spingere alla resa. Il solito vecchio gioco.  Tutto questo nulla ha a che vedere con il governo di centro-destra, anzi, basti dire che, di fronte alla proposta di applicare l’art.41 bis per la durata della legislatura, il centro-sinistra ha chiesto, e naturalmente ottenuto, che l’applicazione del 41 bis sia a tempo indeterminato!

L’intensità della repressione e del controllo sociale non dipendono dal tipo di governo, é lo stato borghese, nel suo insieme, che non può permettersi un ‘intensificazione della lotta di classe, che ha bisogno del controllo sociale all’interno, per svolgere al meglio le sue funzioni di Stato imperialista, per poter affrontare al meglio l’intensificazione della contesa internazionale. Uno scontro che é vitale per l’imperialismo; uno scontro, sempre più complesso, che si svolge a tutti i livelli: commerciale, politico e sempre di più militare, che vede coinvolti tutti, dagli Usa all’Europa in via di costruzione, alla Russia, alla Cina. Uno scontro che, in prospettiva, sarà guerra aperta.  Lo stato imperialista deve, dunque, tenere sotto controllo la situazione interna per massacrare, in pace, i popoli oppressi.

I due piani, interno e internazionale, sono le due facce dello stesso problema. La stessa parola d’ordine: annientare chi resiste.

Chi non é con noi é contro di noi. Inutile cercare qualche eco di Voltaire in questa frase. Il dominio borghese, nel procedere del suo cammino storico, ha perso quei valori che, per secoli, ci ha propinato per camuffare la sua vera essenza, ha perso ogni volontà di mediazione, ogni progetto di sviluppo, quello che vediamo oggi é l’imperialismo ridotto all’osso, quello che i popoli coloniali conoscevano già.  Chi non é con noi é contro di noi. Non ci sono diritti, nemmeno la farsa dei diritti umani, pensiamo a Guantanamo, alla Palestina, all’auto colpita da un missile nello Yemen. Israele ha aperto la strada alle esecuzioni mirate, adesso ci provano gli Usa:

silenzio assoluto, diventerà la norma. Compilano liste dove si trovano le più svariate organizzazioni di lotta, non ci sono ragioni legittime per opporsi, non c’é diritto alla resistenza.

Chi non é con noi é contro di noi. La guerra non é più episodica per uscire da uno stato di crisi irrisolvibile altrimenti. La crisi é permanente, la guerra diventa strutturale, infinita, duratura. Guerra preventiva, non più missioni di peacekeeping o guerra umanitaria, é la guerra e basta.

Chi non é con noi é contro di noi, estrema sintesi, il nocciolo duro del dominio borghese.

Un livello di scontro altissimo. Non siamo nel ‘17, oggi l’imperialismo é giunto a un tale livello di compenetrazione tra le varie aree del pianeta che non sopravvivrebbe a una rivoluzione russa, il suo bisogno di risorse é tale che non può permettersi di perdere nessuna area del pianeta. Deve controllare tutto. Controllare, non governare.  Non si piega nemmeno, e non potrebbe, alle richieste legittime di borghesie nazionali che non vogliono certo cambiare il sistema ma, più semplicemente, ritagliarsi un piccolo spazio, gestire in proprio le loro risorse. Non é più tollerabile questo.  Pensiamo al tentato golpe in Venezuela, l’attacco all’Irak, quello che c’é stato e quello che ci sarà, la Somalia, la Jugoslavia, l’Afganistan e poi l’Islam, il male assoluto che si annida ovunque, lo cercano anche qui.

L’art. 41 bis sarà applicato anche ai prigionieri islamici che si trovano nelle carceri italiane (sono più di un centinaio); si susseguono, infatti, gli arresti di presunti “terroristi” islamici, spesso é palese che si tratta, semplicemente, di lavoratori di origini arabe arrestati a scopo propagandistico. Pensiamo alla fantomatica nave carica di uranio radioattivo o all’arresto di tre pescatori egiziani nella cui casa, alla seconda perquisizione (non alla prima), avvenuta una settimana dopo l’arresto, sarebbe stata trovata una cintura esplosiva, fino a rasentare il ridicolo, con gli arresti nella chiesa di S. Petronio a Bologna. Spesso, per questi arrestati, la situazione risulta particolarmente dura, specie se difesi soltanto da avvocati d’ufficio, che non si occupano certo delle condizioni di detenzione.

Sia che siano vittime della propaganda che tende a dipingere gli arabi come “terroristi”, sia che appartengano effettivamente ad organizzazioni islamiche, li consideriamo detenuti politici. Naturalmente, é ovvio che non siamo interessati al fine politico della loro lotta, il nostro fine é inconciliabile con la Sharia; ma ci siamo interrogati sulle ragioni che spingono, in alcune situazioni, i popoli arabi a cercare un punto di riferimento nell’Islam.  Sicuramente, la caduta dell’Urss non permette più, ai paesi del Terzo mondo, di trovare una via per uscire dal sottosviluppo entrando a far parte della sfera sovietica; il neoliberismo ha aggravato la situazione di questi paesi come del resto in tutte le altre parti del mondo, dall’Europa dell’Est, all’ America Latina, all’Africa, lasciandoli senza vie d’uscita, sempre più poveri e sempre più legati e sottomessi al volere imperialista.  Le contraddizioni sono diventate enormi. In questo contesto si inserisce l’ Islam che, pur non essendo un fenomeno unitario, in alcune situazioni, può esprimere un forte carattere anti-imperialista. L’esempio forse più esplicativo di questa parabola lo vediamo in Palestina dove, in un popolo sostanzialmente laico che ha avuto per anni la sinistra all’avanguardia nella lotta di liberazione, cresce il fenomeno islamico.  Davvero c’é un risveglio religioso? Non crediamo sia questo il punto. Piuttosto, la sinistra é in crisi e non solo lì. Le rappresentanze borghesi si sono messe o, per meglio dire, hanno provato a mettersi, sulla via delle trattative, mentre gli islamici, favoriti all’inizio proprio in funzione anti-sinistra, sono sfuggiti al controllo, hanno continuato la lotta (questo conta, in un paese sotto un’occupazione durissima come quella israeliana ), hanno utilizzato i fondi che venivano dai paesi islamici per sviluppare servizi sociali, asili, scuole, presidi sanitari, ecc, tutte cose che contano per chi vive in un campo profughi. Stessa politica portata avanti, nel sud del Libano, dagli Hezbollah, occupando, quindi, uno spazio lasciato vuoto dalle forze laiche e di sinistra.

Non si tratta, dunque, di arretramento culturale ma, piuttosto, la manifestazione del bisogno che hanno i popoli arabi di opporsi all’occidente imperialista e al sionismo, comunque.  Da comunisti, sappiamo che anche in una fase di debolezza, possiamo interagire con la realtà, pena l’isolamento. E allora, così come i compagni in Palestina, in nome dell’unità nazionale, lottano insieme agli islamici contro Israele pur portando avanti una lotta specifica, così noi qui, in un altro contesto, non possiamo ignorare che l’Islam é un collante culturale importante per gli immigrati arabi nel nostro paese e non possiamo non confrontarci con loro, che sono poi con noi, nelle fabbriche e anche nelle carceri, con i nostri stessi problemi.

Non uniamoci alla campagna contro il cosiddetto “terrorismo islamico” e alla guerra scatenata dall’imperialismo. Proprio perché sappiamo che non c’é scontro di civiltà, ma uno scontro di classe, tutto dipenderà dalla nostra capacità, come sinistra internazionale, di costruire delle alternative credibili, una prospettiva storica e di farlo non solo a parole, ma lottando concretamente a fianco dei popoli arabi. L’Islam o Saddam, non sono il nostro nemico principale oggi.

Abbiamo cercato di inserire il discorso carcere in un ambito più generale perché, al di là della nostra condizione soggettiva, molti di noi seguono da anni compagni in carcere, non vogliamo specializzarci nel carcerario, non avrebbe senso. Vogliamo, piuttosto, cercare di fare in modo che la lotta contro il carcere e l’art. 41 bis, entrino a far parte delle altre lotte. Non possiamo fare un discorso separato dal contesto generale perché i compagni prigionieri sono parte integrante di una lotta internazionale.  I compagni prigionieri rivoluzionari rappresentano un percorso storico che é impossibile ignorare se vogliamo andare avanti e, se vogliamo andare avanti, i nostri compagni ce li dobbiamo rivendicare, questo non significa necessariamente condividere la loro proposta strategica di lotta, ma fare in modo che la loro resistenza diventi anche la nostra.

 

UN SALUTO DEI COMPAGNI PIETRO GUIDO FELICE E GIORGIO COLLA

Cari compagni, ho ricevuto l’opuscolo che mi avete spedito.  A fronte dell’attacco e repressione che stanno portando avanti governo e capitale contro la classe operaia e movimenti proletari, iniziative come queste sono necessarie.  Contro il rincoglionimento da tubo catodico che ci vorrebbe gregge demente e remissivo, 10 100 1000 iniziative che fanno vivere e veicolano la memoria rivoluzionaria.

Saluti comunisti

Biella, 09.12.2002

 

ALCUNI COMPAGNI FRANCESI

SULLA PROPOSTA DI AZIONE CONTRO LE NUOVE CARCERI IN FRANCIA

Contro le nuove carceri, occupiamo i cantieri.

Appello per una riunione di preparazione.

Dopo la libera circolazione delle merci e la moneta unica, il processo di costruzione della potenza economica e militare europea si avvia alla tappa dell’unificazione giudiziaria e poliziesca. La manifesta volontà di giungere a un codice penale europeo é legata al fiorire in ciascuno dei paesi dell’Unione europea di una moltitudine di nuove leggi e misure ultra repressive, che sono il frutto del comune lavoro dei ministri dell’interno e della Giustizia incontratisi durante i vertici dell’Unione europea a Tempere (Finlandia), Nizza, Barcellona. Questi vertici hanno prodotto una comune politica contro i lavoratori precari immigrati, una nuova definizione del concetto di “terrorismo” inglobante tutti i movimenti sociali radicali, la costituzione dell’EuroPol (una polizia europea allo stato embrionale) e del sistema di informazione di Schengen (SIS, un sistema informatico che raggruppa tutte le schedature effettuate dagli apparati polizieschi dei vari paesi membri). Ma, nei fatti, l’instaurarsi di un vero spazio giudiziario europeo si avrà il primo gennaio del 2004 quando entrerà in vigore il mandato di arresto europeo. A partire da questa data, su richiesta di giudice o di un procuratore, le leggi in vigore in ciascuno dei paesi dell’ Unione saranno applicate a tutti coloro che vivono in uno dei 24 paesi membri. Tale volontà si manifesta chiaramente in un atteggiamento ultra repressivo verso i movimenti “sovversivi” (uso delle armi a Goteborg e Genova, messa al bando delle organizzazioni di esiliati turchi, colombiani, iraniani e kurdi, messa fuori legge di Batasuna in Spagna, incarcerazione di alcuni sindacalisti in Francia e retate contro gli anarchici piuttosto che contro i no-global in Italia), e tende ad andare oltre giacché mira ad una politica di terrore contro tutta la società civile. Tale situazione é particolarmente evidente in Francia dove lo stato ha lanciato un programma per la costruzione di 13.200 nuovi posti in carcere a coronamento di una politica ultra repressiva trasversale (propria della destra come della sinistra di governo) che ha designato quale nemico da abbattere la gioventù delle periferie:

- delle vere e proprie retate sono organizzate dalla polizia nei quartieri popolari dove la polizia si comporta come una forza di occupazione;

- l’età minima di responsabilità penale é stata abbassata a 10 anni e ormai si può incarcerare a 13 anni;

- é vietato riunirsi negli androni delle case;

- nei quartieri sono stati costituiti dei tribunali locali per applicare una giustizia più sbrigativa;

- si impone la schedatura penale nella scuola dell’obbligo richiedendo agli insegnanti di collaborare come assistenti sociali.

Tra le altre categorie prese esplicitamente di mira figurano in particolare gli zingari, gli squatters, i ravers, i senza fissa dimora, le prostitute, sebbene ciò a cui si tenda é l’instaurarsi di un terrore generalizzato.

- d’ora in avanti chi non paga i biglietti dei mezzi pubblici può essere rinchiuso in galera;

- le guardie sono dotati di armi da guerra e pistole con pallottole di gomma;

- guardie e vigili hanno ormai il diritto di perquisire chi gli aggrada;

- il piano Vigipirate ha instaurato la suddivisione a scacchiera dei luoghi pubblici per scopi polizieschi e l’entrata in vigore di leggi speciali permanenti.  Non si tratta di misure specifiche atte a “rimediare” ad un problema specifico, bensì di una politica di gestione sociale di stampo autoritario applicata dal governo francese nel contesto europeo.

Ognuna di queste misure ha suscitato una reazione non trascurabile, ma mancando di uno spazio comune non si é ancora giunti alla realizzazione di un vasto movimento.  A tal fine diversi collettivi francesi e svizzeri, impegnati nella lotta contro carcere e repressione, si sono uniti in un unico coordinamento. Abbiamo lanciato una campagna tesa a impedire la costruzione delle nuove prigioni per ostacolare concretamente la logica della sicurezza totale, giacché l’aumento delle strutture penitenziarie é la misura che contiene tutte le altre. Infatti, 13.200 celle supplementari rappresentano la possibilità di incarcerare 25.000 persone in più (attualmente il tasso di sovrappopolazione carceraria é del 200%), ma ciò significa che, allo stesso modo, altri 75.000 saranno sottoposti a misure restrittive della libertà individuale: braccialetti elettronici, libertà vigilata, libertà condizionale, trattamenti terapeutici o psichiatrici con la minaccia diretta della carcerazione al minimo passo falso (da 15 anni, in Francia come in numerosi paesi “moderni” la proporzione é costante: 3 persone sotto indagine per ogni detenuto). La prigione, ultimo anello della catena repressiva, é la minaccia che permette tutte le altre, é la spada di Damocle sospesa sulla testa di ciascuno.  Proponiamo di occupare in massa il cantiere di una prigione in costruzione (ne sono in programma 28) alla fine dell’estate 2003, questa occupazione, le cui modalità dovranno essere decise collettivamente, durerà almeno una settimana.  Riappropriandoci di uno spazio di lotta e di discussione faremo avanzare concretamente la realizzazione di una rete di coordinamento delle lotte in Europa contro l’elaborazione di una macchina repressiva su scala europea. Le riunioni preparatorie che si svolgeranno per circa due mesi saranno certamente delle importanti occasioni d’incontro, per condividere le nostre riflessioni e le nostre esperienze e per costruire insieme questo progetto. Il primo incontro preparatorio si svolgerà a Parigi nei giorni 18 e 19 Gennaio 2003.

 

UNA COMPAGNA DEL GRUPPO DI LAVORO CONTRO LA REPRESSIONE

Sono una compagna del Gruppo di Lavoro Contro la Repressione, un organismo che raccoglie compagni e compagne di varie città e che da anni sta lavorando concretamente sul terreno della repressione con la coscienza di doverlo fare sempre, non solo quando essa si esprime nella sua forma più evidente.

Siamo felici di partecipare a questa assemblea oggi; avevamo promosso la partecipazione 3 anni fa a un presidio sotto il carcere speciale di Trani, avevamo riproposto la mobilitazione in sostegno ai Rivoluzionari Prigionieri (RP) davanti al carcere di Biella per due anni consecutivi, sempre in occasione della Giornata Internazionale del Rivoluzionario Prigioniero. Questo ha sortito una partecipazione abbastanza numerosa dei compagni/e che avevano capito che la solidarietà nei confronti dei R.P. e il lavoro contro la repressione deve avere una caratteristica militante, che bisogna esporsi, partecipare in prima persona davanti alle carceri e urlare in mille modi diversi la nostra solidarietà.

Parto da una domanda: qual é il motivo principale per cui la repressione, nei suoi vari livelli, sta assumendo dei connotati sempre più forti e pesanti?  Non certo perché i padroni e la magistratura serva dei loro interessi siano più “cattivi” del solito, ma perché, come hanno sottolineato altri compagni, c’é una crisi irreversibile del sistema di produzione capitalistico e, contemporaneamente, a fianco delle lotte di liberazione dei popoli oppressi, c’é una ripresa e un’avanzare della lotta di classe nei paesi imperialisti.

L’imperialismo ha bisogno di fare delle guerre sempre più ravvicinate per tentare di uscire dalla sua crisi. Questo produce morte e distruzione sul fronte esterno e delle contraddizioni sempre più feroci sul fronte interno.

L’appesantirsi della repressione, in questo senso, non é un esempio di forza della borghesia, ma un esempio della sua debolezza, cioé della sua incapacità di risolvere pacificamente le contraddizioni che il suo sistema produce con la classe operaia, il proletariato e le masse popolari.

In Italia, l’attuale uso massiccio dei reati associativi, che non sono certo riapparsi con l’ultima inchiesta della procura di Cosenza, ma che vengono utilizzati da anni contro i comunisti e gli anarchici, é uno strumento di lotta preventiva contro chi si organizza autonomamente dalla borghesia e che vuole indirizzare le energie positive che la lotta di classe nel nostro paese sta esprimendo verso la via rivoluzionaria.  In questo senso abbiamo portato la nostra solidarietà nei confronti di tutti coloro che sono stati colpiti dai reati associativi, ma nello stesso tempo abbiamo rimarcato delle questioni importanti, con l’obiettivo di denunciare da una parte la natura fascista di questo stato che non é riformabile, ma che si può solo distruggere e, dall’altra, chi continua ad illudere le masse popolari dicendo che si può migliorare.  Quindi unità con chi viene colpito dalla repressione, ma contemporaneamente lotta ideologica contro le idee sbagliate che imperversano nel movimento.  Prima due compagni sottolineavano giustamente che il livello, il confine di legalità non lo definiamo noi, ma la borghesia: tutti coloro che gestiscono ad es. quello che é avvenuto alla questura di Genova qualche giorno fa come un complotto contro il movimento, come un atto compiuto da servizi deviati o come, peggio ancora, fatto da provocatori, assassini ecc, di fatto negano nel nostro paese qualsiasi ipotesi di esperienza rivoluzionaria, di organizzazioni che si pongono l’obiettivo della rottura rivoluzionaria. In questo senso é pericolosa quest’idea che l’arco revisionista, dal PRC ai Disobbedenti, sta seminando nel movimento.

Un’altra cosa importante che abbiamo cercato di denunciare é la linea di difesa sbagliata, su cui abbiamo anche scritto un allegato all’opuscolo “Reati associativi.  Imparare a difendersi” intitolato “Non un passo indietro”, in merito alle varie inchieste aperte in questi mesi. Essa rigetta i reati associativi, ma ammette che la magistratura lavori sui reati specifici, non capendo che i primi vengono costruiti proprio sull’esistenza dei secondi, che i secondi avallano l’esistenza dei primi.  Questa gestione crea non solo confusione e una linea difensiva debole, oltre che dare fiducia a magistrati servi dei padroni, ma anche una divisione nel movimento tra chi viene inquisito per gli uni o per gli altri. Forse, ai signori revisionisti, i compagni incarcerati a Genova per “devastazione, saccheggio e resistenza a pubblico ufficiale” sono indagati meritatamente!!!

Il compagno Ghiringhelli prima diceva nel suo saluto che noi dobbiamo uscire dalle nostre parrocchie.

Dobbiamo avere la capacità di comunicare, soprattutto ai giovani e ai giovanissimi, quella che é l’esperienza del carcere, della repressione, ribadendo che sotto i suoi colpi ci si può rafforzare, facendolo in tutti i luoghi e i momenti utili; non solo nelle nostre iniziative, ma anche in quelle dirette da altri, anche dai revisionisti.  Dobbiamo avere il coraggio, la forza e la determinazione di portare i nostri contenuti ovunque, così come ci insegnano le AFAPP, le TAYAD e tutte le associazioni di solidarietà internazionale che stanno portando avanti la loro lotta nonostante tutti gli attacchi cui sono sottoposte.

Finisco dicendo che la solidarietà é una cosa molto concreta e dobbiamo portarla in mille forme, attraverso mostre, presidi in piazza e davanti alle carceri, la partecipazione ai processi che avvengono in altri paesi, come quello di un mese fa a Parigi per l’estradizione di otto compagni spagnoli. Anche questi sono momenti importanti per aprire e consolidare rapporti con altri organismi di solidarietà, con l’obiettivo di partecipare all’importante progetto di un Soccorso Rosso Internazionale che sarà uno degli strumenti di difesa politica e pratica di cui i compagni si dovranno dotare, per il rilancio della solidarietà di classe e per la difesa di tutti i Rivoluzionari Prigionieri, delle loro idee e delle loro condizioni di vita.

 

UN COMPAGNO DI SENZA FRENI

Con questo articolo vorremmo mettere in evidenza alcune probabili tendenze della politica penitenziaria in Emilia Romagna, non per fornire un quadro “localistico” ma piuttosto per analizzare un aspetto, quello della repressione, in un’area che presenta caratteristiche omogenee rispetto al sistema produttivo, alla gestione e all’organizzazione del lavoro e della vita sociale. Più che ad una regione geografica, facciamo riferimento ad un’area metropolitana che si snoda lungo la via Emilia tra nuclei abitativi e grandi aree industriali.

Storicamente, l’Emilia Romagna é caratterizzata dall’esistenza di tessuti produttivi diffusi, una notevole sinergia tra grandi e piccole/medie imprese che ne costituiscono l’indotto, da un rapporto molto stretto sia tra industria e artigianato che tra industria e agricoltura. Data la struttura produttiva, quest’area é sempre stata suscettibile a facili ristrutturazioni e mutamenti, senza però pesanti ricadute sul livello occupazionale ed anzi potendo contare su un “certo” benessere dei lavoratori (il tasso di disoccupazione in Emilia Romagna é stato del 4,6% nel 1999, del 4% nel 2000 e del 3,7% nel 2001, a fronte di una media italiana del 10-12%).

Tuttavia, é necessario anche un elevato livello di pace sociale per la riuscita di ristrutturazioni che comunque incidono pesantemente sulle condizioni di vita dei proletari e sulla composizione di classe (aumento della flessibilità e della precarietà, presenza crescente di forza-lavoro extraeuropea). Le giunte rosse emiliane, per anni hanno garantito poche resistenze alle iniziative di uscita/ripresa dai periodi di crisi, non tanto a causa di un reale consenso, quanto per il fatto che la borghesia, attraverso il PCI, poi DS, é riuscita a mantenere una vasta rete di rapporti di controllo e direzione all’interno della classe, egemonizzando pesantemente sia le organizzazioni sindacali, sia le svariate forme culturali, di movimento e di aggregazione esterne ai partiti. In sintesi, la particolare elasticità della struttura produttiva rende possibile il mantenimento in Emilia Romagna di una certa stabilità sociale che può avvalersi della possibilità del riassorbimento della forza-lavoro espulsa nel circuito produttivo e/o del recupero delle avanguardie di classe all’interno del mastodontico apparato burocratico-sindacale della CGIL o del PCI-DS.

Anche sul piano repressivo, una struttura produttiva e politica di questo tipo, ha condotto alla formazione di tendenze riformistiche, finalizzate formalmente alla progressiva riduzione del ricorso alla pena detentiva e, comunque, al miglioramento delle condizioni di esecuzione della pena.

E’ nostro preciso obiettivo fare piazza pulita della favoletta del carcere più umano, della riabilitazione e del recupero attraverso il lavoro, mostrando come tale ipotesi riformista sia possibile solo in ristretti contesti produttivi, capaci di assorbire la forzalavoro eccedente ma, soprattutto, come sia perfettamente funzionale al sistema repressivo nel suo complesso. Credere di poter sostituire progressivamente il carcere con forme di custodia attenuata, alternative alla reclusione e fondate sul lavoro, significa non voler fare i conti con le contraddizioni più macroscopiche di questo sistema sociale. Il capitalismo porta porzioni di proletariato a entrare a far parte dell’esercito industriale di riserva (disoccupati). Questo meccanismo si acuisce nei momenti di crisi economica. Queste porzioni sociali vivono grazie ad attività extra-legali. L’illusione di poter umanizzare il carcere sembra così nascere in contrapposizione e in alternativa ad una visione autoritaria di “destra” ma, nei fatti, ne costituisce un elemento indispensabile e complementare. Le cosiddette misure alternative alla reclusione carceraria tramite affidamento in prova, semilibertà, lavoro esterno, comunità di recupero ecc, costituiscono un essenziale strumento materiale delle moderne politiche repressive poiché é soltanto attraverso un percorso premiale che il singolo detenuto può accedere ai benefici concessi dallo Stato. La differenziazione della pena applicata mediante il trattamento individualizzato, le meschine privazioni e il ricatto del “premio” per chi dimostra arrendevolezza collaborando, operano nella direzione di una sistematica desolidarizzazione del proletariato imprigionato e della frammentazione preventiva della sua forza potenziale come classe.  L’”alternativa” si concretizza praticamente nello sviluppo, dove possibile, di sinergie tra istituzioni statali, datori privati di lavoro sottopagato, cooperative sociali (a Parma, il Consorzio di Solidarietà Sociale, la Sirio, la Cabiria) e associazioni di volontariato nel ruolo di intermediari di forza-lavoro. E’ così che a Parma, ad esempio, c’é una ricchezza di progetti per la formazione e il reinserimento dei detenuti e si sprecano gli appelli accorati per creare e promuovere “ponti tra fuori e dentro”, come le strutture di accoglienza e gli stages lavorativi finanziati dalla regione nei penitenziari di Parma, Forlì e Piacenza. Così pure si sprecano le tavole rotonde di esperti, mirate a sviluppare risorse e opportunità per detenuti ed ex-detenuti durante il reinserimento e a facilitare il rapporto tra luoghi di esecuzione della pena e territorio.  Di fronte alla miseria dei risultati raggiunti dall’enorme apparato riformista in Emilia Romagna sul versante della de-carcerizzazione, stanno gli alti livelli di repressione e di controllo sociale diffuso garantiti dalla sua funzione “umanitaria”. Allora, per sgomberare il campo dalle illusioni riformiste di un’alternativa capitalistica al carcere e alla reclusione, sarà meglio far coincidere le ipotesi di umanizzazione del carcere - queste si, realmente utopiche poiché implicitamente paventano un capitalismo dal volto umano - con le politiche di diffusione e differenziazione del controllo sociale, cui sottendono le attuali “politiche della sicurezza”.

In questi ultimi anni stiamo assistendo al rapido decentramento e alla diffusione territoriale del carcere, attraverso meccanismi alternativi di internamento e di controllo e la creazione di nuove strutture para-carcerarie. Una sorta di carcere metropolitano, differenziato sia in orizzontale, in relazione alla collocazione sociale del soggetto “criminale” (Centri di Permanenza Temporanea per il proletariato extraeuropeo, comunità per tossicodipendenti, manicomi per i “malati” psichici) e sia in verticale, in relazione al grado di controllo connesso alla “pericolosità sociale”. In quest’ottica, l’applicazione in forma estesa del 41bis, la detenzione nelle carceri dure, l’isolamento protratto, l’annientamento psico-fisico non sono che l’altra faccia dell’accesso individualizzato e premiale alle forme di custodia attenuata; una riedizione in chiave in moderna della logica del bastone e della carota.

Dinamiche simili possono ravvisarsi per quanto riguarda le politiche di gestione dei flussi migratori dal Sud e dai paesi più poveri dell’area mediterranea. L’alto grado di sfruttamento e l’elevata ricattabilità costringono milioni di proletari in una situazione di illegalità permanente, determinante il sovraffollamento e la nuova composizione sociale nelle carceri: al 31 maggio 2001 si hanno 1.930 detenuti italiani e 1.400 stranieri rinchiusi nelle carceri emiliane; dai dati nazionali risulta che sono solo 670 i detenuti nati in Emilia Romagna. La critica ai C.P.T., sul piano antirazzista e umanitario, non fa che rafforzare l’opzione riformista di una gestione alternativa di queste nuove strutture carcerarie e, con essa, le “politiche della sicurezza” nella loro totalità e, nello specifico, il decongestionamento delle carceri mediante la diffusione di nuove strutture di reclusione. Gli appelli all’integrazione del proletariato extraeuropeo nascondono le caratteristiche generali di queste nuove trasformazioni sociali in cui si fa sempre più labile il confine fra proletariato e sottoproletariato.  Anche nella repressione dei comportamenti cosiddetti “devianti”, assistiamo all’estensione dell’uso della reclusione; anche quando suddetti comportamenti non costituirebbero un danno immediato per la società, vengono comunque considerati “pericolosi” o una minaccia per la tranquillità sociale. E’ il caso, tra i tanti, di tutti coloro che vengono definiti “malati psichici”.

La recente occupazione del centro psichiatrico “1° Maggio” di Colorno, in provincia di Parma, ha costituito il riemergere vivo di queste tematiche; non ci soffermiamo adesso sulla cronaca o i particolari di questa lotta che saranno ripresi a margine. Ci interessa evidenziare come alcuni settori della sinistra istituzionale parmigiana si siano prodigati nel tacciare questa lotta, che é stata portata avanti insieme ai “malati” e ai loro familiari, come lotta conservatrice, difensiva della logica manicomiale.  Come per il carcere, sembra che l’intera questione possa essere risolta attraverso una psichiatria innovativa e democratica, che sostituisce ai manicomi gli appartamenti, agli infermieri professionali gli operatori sociali, all’elettroshock e ai letti di contenzione, bombe di psicofarmaci. Il “manicomio che si libera” , come venne definito in un libro di F. O. Basaglia (“Manicomio, perché?” - 1982), fa parte ed é il capostipite di tutta quella “cultura alternativa” alla cosiddetta devianza, male curabile frazionando il grande cubo, brutto, logoro e vistoso, in tanti piccoli cubetti più accettabili moralmente, ed esteriormente più discreti.

Su queste tematiche, il dibattito é stato spesso ridotto alla contrapposizione tra sostenitori del privato e sostenitori del pubblico, tra liberisti e statalisti. Ma c’é anche chi ha pensato di poter fare di necessità virtù, proponendo il modello del privatosociale, del sociale che si fa impresa. Questa scelta si colloca a metà strada tra pubblico e privato, poiché associa ad una gestione privatistica dei servizi, il ricorso ai finanziamenti statali, regionali, europei (pubblici), oltre all’accettazione del principio aziendale, in primis, quello della competitività. Le motivazioni ideologiche che vengono portate a sostegno del privato-sociale, coincidono con una visione della società molto superficiale: si critica il servizio pubblico ma senza mettere in discussione la logica aziendale/mercantile riprodotta nelle cooperative, anzi in esse accentuata dal carattere mistificante del “lavorare senza un padrone”. Oltretutto, il passaggio della psichiatria, della sanità in genere, dal pubblico al privato, se pur in forma ibrida (appalti e finanziamenti nel pubblico, investimenti e sgravi fiscali nel privato), garantisce notevoli fette di torta da accaparrare all’universo delle associazioni, cooperative sociali, enti ed imprenditori di questa promettente new-economy della sofferenza. Con questo, non vogliamo certo ergerci a strenui difensori del pubblico poiché, oltre a non aver mai rappresentato una risposta agli interessi proletari, é servito e serve tuttora come strumento di controllo e repressione di quegli stessi interessi.  La tendenza a livello nazionale, tramite la proposta di legge Burani-Procaccini, é quella di inasprire ulteriormente le condizioni già precarie dei “malati psichici”, attraverso ad esempio la riesumazione della pericolosità sociale e l’estensione del ricovero coatto, tendendo a far diventare l’intero circuito dell’assistenza psichiatrica, un diffuso Ospedale Psichiatrico Giudiziario governato da operatori, cui é attribuita la responsabilità piena, anche legale, del comportamento e delle scelte di un individuo ridotto a malato.

La psichiatria non é professata solo dagli psichiatri, ma di fatto, da tutti quelli che pensano che certi comportamenti siano automaticamente sintomi di pazzia, psicosi, schizofrenia, delirio paranoide, ecc. La classificazione tra normale e anormale, tra sano e malato di mente, é uno degli schemi più usati nel linguaggio comune e nel giudizio verso gli altri. L’intervento del controllo sociale della devianza, della malattia psichica, del comportamento anomalo, che nella pratica riveste forme di sovvenzione, assistenzialismo, soluzione dei bisogni, ha nella realtà il fine, appunto, di controllare, prevenire, annientare o recuperare alla norma del dominio e del modo di produzione capitalistico.

In generale, é il business il motore che permette in Emilia Romagna buone prospettive di razionalizzare al meglio il sistema repressivo. A fronte di un 33% di detenuti tossicodipendenti e 30% di stranieri, le soluzioni per il sovraffollamento, sono strutture detentive differenziate per i tossicodipendenti e il rimpatrio, previo soggiorno nei già citati C.P.T., per gli immigrati.

La detenzione dei tossicodipendenti, si traduce di fatto in una vera e propria privatizzazione delle carceri, già paventata negli scorsi anni, oggi diventata realtà. E’ il caso di Castelfranco, in provincia di Bologna, che potrebbe rappresentare l’apripista alla penetrazione dell’interesse privato nel settore dell’esecuzione penale. Il modello é quello anglosassone.

L’ex casa di lavoro di Castelfranco in Emilia (per la cui ristrutturazione, lo stato ha speso 15 miliardi di lire), affidata in gestione alla comunità dei Muccioli (San Patrignano), sarà il primo esperimento di carcere privato in Italia. Questa struttura é costituita da un’azienda agricola di 23 ettari con stalle, frutteti, vigne, serre, alveari e macchine agricole e, in attivazione di un protocollo d’intesa tra ministero della giustizia e regione Emilia Romagna, sarà destinata a casa di lavoro a custodia “attenuata” (un carcere “soft”) per i tossicodipendenti e potrà “ospitare” fino a 150 persone.  L’operazione é iniziata a metà luglio del 2001, in ballo c’é l’assegnazione di un finanziamento della comunità europea (progetto Equal). Il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia Romagna, firma un’intesa di partnership con la comunità di Muccioli. Il 26 agosto, data di scadenza del bando europeo, viene presentato un progetto che appalta al privato l’esecuzione della pena e nel contempo impedisce il controllo da parte dell’amministrazione penitenziaria.  E’ chiaro che con l’intervento dei capitali privati, il giro d’affari crescerà non solo intorno alle mere strutture (aree di costruzione, edificazione, forniture di vario genere), ma anche intorno alla gestione stessa dell’esercizio della penalità: insomma, più gente andrà in carcere, più ci si potrà guadagnare. Alle società private può essere data in gestione la sorveglianza interna (o parte della sorveglianza) dei detenuti o l’esecuzione della pena.

E’ ormai appurato che un sistema produttivo in fase recessiva abbia la necessità di “ottimizzare i costi”, contraendo il più possibile gli investimenti improduttivi, ma senza per questo prescindere dal potenziamento delle strutture repressive e di controllo che, proprio in relazione alla fase recessiva in atto, tendono ad essere sempre più diffuse ed affollate.

Di fronte alla necessità inderogabile di ridurre la spesa pubblica - che ha già portato a drastici tagli alla sanità, alla scuola, all’assistenza e alle pensioni, e a processi di privatizzazione - anche quella parte di spesa destinata alle “politiche della sicurezza” e, in particolare, al mantenimento del sistema penitenziario, deve essere razionalizzata.

L’esperimento di Castelfranco in Emilia si colloca in questo scenario e non é un caso, infatti, che sulla questione l’ex direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Alessandro Margara, parla di “espropriazione dei ruoli” e di “violazione delle regole”, facendosi interprete degli interessi corporativi di tutto l’apparato penitenziario. La riduzione di questa parte della spesa pubblica non potrà che passare per l’esternalizzazione/privatizzazione di parte delle funzioni di custodia e di reinserimento, quantomeno per quei detenuti che esprimono un basso grado di “pericolosità sociale”.

E’ chiaro che una simile tendenza entra immediatamente in rotta di collisione con gli interessi materiali dell’apparato penitenziario che in questo modo vedrebbe ridimensionato il proprio ruolo sia in termini economici che politici.

Negli ultimi anni l’apparato politico-militare penitenziario ha rafforzato ulteriormente il proprio potere. Gli svariati benefici ottenuti dalla Polizia Penitenziaria, per il “difficile compito che svolge”, svelano come dietro al pestaggio nel carcere di San Sebastiano (SS) nell’aprile del 2000, premessa delle successive manifestazioni sindacali della PP solidali con i “colleghi” colpiti da ordine di custodia cautelare, vi siano in realtà forti interessi e tendenze corporative. Il potenziamento e l’autonomia ottenuti attraverso i provvedimenti legislativi degli ultimi 10 anni, pongono il corpo di Polizia Penitenziaria come l’unico soggetto a cui delegare la gestione del carcere e il controllo sui detenuti e le detenute. Rispetto alle lotte dei detenuti il messaggio é stato chiaro: far temere che la situazione nelle carceri precipitasse per poi presentarsi come gli unici in grado di gestire la situazione militarmente.

L’occupazione della comunità psichiatrica 1°Maggio a Colorno (PR) cronologia

1999: con un repentino trasferimento dei pazienti, a seguito della chiusura dell’ospedale psichiatrico “Monti” di Colorno, nasce la comunità riabilitativa 1°Maggio; la struttura, situata all’interno del parco del palazzo Ducale, al centro della città, é composta da due corpi separati, una residenza e alcuni appartamentini. I pazienti possono uscire liberamente durante il giorno e raggiungere facilmente il centro cittadino. Per molti anni la ristrutturazione e la cura dell’edificio viene abbandonata, non vengono fatti lavori di manutenzione, viene diminuito il personale.

2002 giugno: data la necessaria ristrutturazione della struttura, il direttore dell’AUSL di Parma,

Marino Pinelli, decide la chiusura della comunità e il trasferimento “provvisorio” dei pazienti nel Centro anziani San Mauro Abate di Colorno, situato in prossimità della strada provinciale Asolana (i cui costi di gestione sono aumentati e l’amministrazione non riesce ad ammortizzarli). Luogo che, tra l’altro, dato l’elevato traffico, non consentirebbe il passeggio quotidiano a cui sono abituati i “malati”. La direzione dell’AUSL si avvale della sperimentazione di una delibera, la 713, che si propone di chiudere tutti i servizi residenziali psichiatrici territoriali, di trasferire gli “ammalati” in appartamenti gestiti dalle cooperative sociali e dopo 2 anni di riabilitazione, dichiararne guariti-riabilitati il 70%, mentre il restante 30% viene dichiarato guarito dopo un massimo di altri 2 anni: entro 4 anni il 100% degli ammalati, residente negli appartamenti, verrà espulso dalla sanità e affidato a quella che la delibera chiama “welfare municipale” e “welfare familiare”, cioé i malati vengono dichiarati guariti per via meramente burocratica e scaricati dalla sanità alla assistenza sociale e sulle famiglie. In pratica ciò costituisce un risparmio nel bilancio dell’AUSL. E visto che come in tutti i processi di privatizzazione non si tratta che di un freddo calcolo economico, é chiaro che la “riabilitazione” verrebbe effettuata in appartamenti con turni soppressi, personale insufficiente e non qualificato dal punto di vista sanitario, aumento dei ritmi di lavoro e, conseguentemente, l’abbassamento della qualità del servizio.

6 novembre: i familiari effettuano un picchettaggio ad oltranza per impedire il trasferimento coatto dei pazienti. L’unica psichiatra presente nella struttura, contraria al trasferimento, viene trasferita e sostituita pochi giorni dopo.

10 novembre: i familiari occupano il 1°Maggio; sospendono l’occupazione in attesa di un incontro con il direttore dell’AUSL.

19 novembre: falliti gli incontri con il megadirettore, viene nuovamente occupato il centro psichiatrico

22 novembre: vengono occupati per due giorni gli uffici della Direzione Generale dell’AUSL e l” indetta un’assemblea cittadina; nella notte viene redatto dagli occupanti un opuscolo di critica alla psichiatria.

Continua l’occupazione al centro 1°Maggio e viene fatto girare un foglio anonimo e intimidatorio di

raccolta firme tra gli operatori contro l’occupazione. Inizia una serie di incontri tra i familiari e il direttore dell’AUSL, Pinelli, in cui si cerca di trovare un accordo per modificare l’attuazione della delibera 713.

3 dicembre: rottura delle trattative con la direzione generale dell’AUSL, che propone l’attuazione di una delibera (la 614) per risolvere la vertenza ma tale delibera é stata abrogata in passato e dunque inapplicabile; una presa in giro.

7 dicembre: al risveglio, Pinelli, nota con stupore che proprio sotto casa sua, in un paesino in culo ai lupi, sono comparsi manifesti recanti la sua faccia e scritte di solidarietà con l’occupazione del 1° Maggio a firma del Comitato Spontaneo per la Liberazione del Proletariato dal Business Psichiatrico (C.S.L.P.B.P.)

10 dicembre: la direzione minaccia di sospendere pasti e servizi alla comunità 1°Maggio, con l’obiettivo di intralciare l’occupazione e di attuare il trasferimento. Nel pomeriggio, viene contestata una tavola rotonda che si tiene proprio nel Palazzo Ducale a Colorno (che vede la presenza di Pinelli, del sindaco di Colorno, il segretario provinciale CGIL, della CISL, l’assessore alla sanità e servizi sociali amministrazione provinciale di Parma e dirigenti delle cooperative sociali e del dipartimento salute mentale), al seguito della quale la direzione farà molti passi indietro, sospendendo l’attuazione del trasferimento.

21 dicembre: dopo 33 giorni di occupazione, viene pubblicamente sconfessata la delibera 713, viene concordata coi familiari la ricerca di una sede definitiva e più idonea per il trasferimento, in cui i pazienti verranno seguiti dallo stesso personale che li segue da anni, e viene creato un osservatorio per la valutazione della “qualità” dei servizi sia pubblici che privati che potrà essere effettuata dai familiari.

 

UN COMPAGNO DEL C.P.O. GRAMIGNA DI PADOVA

Sono un compagno del Centro Popolare Occupato Gramigna di Padova che, da quando é nato nel 1989, ha sempre fatto i conti con la repressione, fatta di continui sgomberi, processi, intimidazioni di ogni tipo per chiudere una realtà politica a Padova scomoda a tutte le giunte di destra o di “sinistra”. In questo percorso di resistenza ci siamo rafforzati e il lavoro contro la repressione é stato veicolo di aggregazione di nuovi giovani che ora sono l’anima del centro.

L’estate scorsa, in occasione della GIRP 2002, siamo riusciti a coinvolgere un buon numero di persone sia nelle iniziative di preparazione che nella trasferta a Biella per far sentire ai compagni prigionieri il nostro appoggio.  Anche qualche settimana fa, a Padova, durante un presidio in solidarietà agli arrestati di Cosenza, molti giovani si sono avvicinati e hanno partecipato alla nostra iniziativa.

Fatti come questi dimostrano che in un momento come questo, in cui la repressione colpisce non più solo le avanguardie ma anche le persone più giovani e meno “esperte” politicamente, parlare di repressione, di carcere, ma soprattutto di solidarietà nei confronti di chi viene colpito e incarcerato per la sua identità politica, avvicina i giovani che hanno ideali di libertà e che, in modi diversi, vogliono manifestare la loro rabbia e opposizione a questa schifosa società.

 

UN COMPAGNO PROMOTORE

Visto che non ci sono altri interventi vorrei dire qualche cosa che mi sembra necessaria e mi scuso a priori se non sono percepibile nelle cose che dirò ma ho una limitazione rispetto alla lingua allora secondo me a questa assemblea c’erano diversi punti di vista e credo siano presenti compagni dei quali io non ho sentito la loro posizione perché se noi riteniamo che é importante avere una lotta di massa nel discorso del carcere che rappresenta una fonte fondamentale nel nostro malessere bisogna cogliere tutti questi diversi punti di vista e trasformarli in un comune momento di lotta. Parlo come un compagno che appartiene ad uno dei gruppi promotori di questa assemblea ma che parla in questo caso per conto suo senza avere un atteggiamento ostile ma un atteggiamento critico. Vorrei dire che bisogna rivalutare alcune cose se vogliamo andare avanti con questo discorso. In questo caso la compagna che ha parlato all’inizio si é espressa rispetto ad alcune cose, però io ho individuato una cosa specifica rispetto alla quale non sono d’accordo. Lei parlando rispetto ai presidi davanti ai carceri ha detto che avevano un alta partecipazione e avendo conoscenza del presidio a Biella la scorsa estate direi che cento persone per me non é un grande numero di partecipazione quindi individuerei in questo caso un problema di sincerità da discutere prima di tutto con noi stessi e cercare di trovare modi per risolvelo. Dopo c’é il fatto che non é uscita una proposta di intervento a livello pubblico e a livello pubblico intendo intervento a livello di tessuto sociale cioé oltre ai soliti gruppi e strutture di compagni. Questo é un problema perché sembra che l’assemblea e le persone che sono presenti qui delegano a noi e a chiunque altro che si occupi del discorso del carcere e della repressione i modi in cui lotteremo per il suo abbattimento e comunque che ne so di cos’altro. Ritengo che sia problematico anche il fatto che nessun detenuto comune, e comune é generale perché spesso sono di una certa appartenenza e per appartenenza intendo della classe proletaria, non é intervenuto raccontando dei suoi momenti di lotta contro il carcere o di come lui percepisce il carcere e il meccanismo che lo porta al carcere che io ritengo molto importante. Questo perché se noi pensiamo alla rivoluzione come una società senza carcere penso che una rivoluzione deve essere fatta con la presenza dei proletari o anche dei proletari e visto che i proletari sono un pezzo significativo della popolazione carceraria devono avere una parola un punto di vista rispetto a questo discorso qui e io oggi non l’ho visto e non so per quale motivo non é successo.  Dopo di che non ho altre cose da dire o meglio ho altro da dire ma ritengo che non sono importanti per questo momento perché comunque ritengo che ci saranno altri momenti nel futuro che potremmo continuare il dibattito. Per finire penso che sarà molto importante per la prossima volta che ci sarà una prossima assemblea di pensare ad un altro modo di portare avanti l’assemblea cioé di intervenire e di esprimere la propria idea perché non debba esistere e dobbiamo abbattere un meccanismo di delegazione di intervento e di azione rispetto non solo al carcere ma rispetto al da farsi per il futuro.

 

UN COMPAGNO DELLA NAVE DEI FOLLI DI ROVERETO

Con questo mio intervento vorrei sollevare un paio di questioni legate alla lotta contro il carcere e più in generale contro la repressione. Visto che si tratta di un concetto che ritorna continuamente, comincio con qualche considerazione preliminare a proposito della solidarietà. Per comodità prendo come esempio gli arresti per le giornate contro il G8 a Genova. Senza enfatizzare troppo, si può dire che quei giorni e il loro seguito hanno rappresentato e rappresentano un buon laboratorio da entrambi i lati della barricata sociale. All'esperimento poliziesco di blindatura di un'intera città per misurare il tasso di sopportazione dei suoi abitanti, alla repressione di piazza, si aggiunge una grande rappresentazione mediatica. Alla contestazione negoziata, all'opera costante di mediazione e di controllo, spinta fino alla delazione, da parte delle forze riformiste, si aggiunge un massiccio investimento statale sull'ideologia pacifista della collaborazione, sempre più funzionale alla guerra interna e internazionale contro il "terrorismo". Cosa significa, in tale contesto, solidarietà?  Non basta ricordare la repressione brutale, i pestaggi, le torture e la loro deliberata pianificazione. Nell'esprimere solidarietà nei confronti dei compagni arrestati, contro questa ennesima mossa repressiva, va soprattutto affermato il senso di quei giorni.  Quella che é avvenuta a Genova é stata una frattura fra la protesta concordata con governo e polizia e l'opposizione reale, fuori da ogni mediazione istituzionale. Una frattura tra chi chiede sovvenzioni allo Stato, cerca la rappresentazione mediatica, si allea con partiti e sindacati, e chi invece fa dell'autorganizzazione il fine e il mezzo del proprio agire.

In troppi hanno cercato di ricucire quella frattura, con le posizioni più ambigue e l'opportunismo più sfacciato. Ora é quanto mai necessario essere chiari. Se la repressione va attaccata, indipendentemente dagli individui o dai gruppi su cui s'abbatte, per farlo fino in fondo bisogna affermare la propria prospettiva. Al di là delle accuse contro i singoli compagni, al di là delle loro posizioni, al di là di quello che possono fare sul piano difensivo, é il senso dell'azione diretta esplosa in quei giorni che va rivendicato forte e chiaro. L'attacco generalizzato alle strutture del capitalismo (banche, sedi di multinazionali, concessionarie, agenzie interinali), lo scontro con gli assassini in divisa, la fine di ogni contestazione concordata. E soprattutto i rapporti che simili pratiche, sia pure in modo embrionale, hanno liberato, in un uso diverso dello spazio urbano, in una festosa sospensione del tempo storico, in una rinata socialità.

Fuori da tutto questo, privata di ogni passione progettuale, la solidarietà diventa un impotente lamento, oppure la difesa personalizzata del singolo compagno (con i relativi dolori di pancia quando qualcosa, tra chi é dentro e chi é fuori, s'incrina).  Non bisogna allora confondere la solidarietà contro la repressione con una solidarietà più generale nelle lotte, qualcosa che si potrebbe definire complicità. Diffido degli appelli all'unità delle forze contro la repressione, che spesso nascondono richieste di cauzione rispetto a determinati progetti politici. Non si tratta semplicemente di coordinare le forze attuali, quanto di trasformare qualitativamente i dibattiti e i metodi di lotta, perché i dispositivi repressivi si rafforzano e si moltiplicano ben al di là dell'ambito rivoluzionario, colpendo sempre più fasce di sfruttati. In tal senso, penso che sarebbe un errore porre l'accento esclusivamente sulle forme speciali di carcerazione, col rischio di trascurare quelle ordinarie, sempre più esplosive. Trovo pericolosa la mentalità di chi é alla ricerca dei presunti punti deboli del sistema statale e capitalista (secondo la logica: dove c'é più repressione, la contraddizione é più acuta). Mi sembra che ne escano spesso letture semplificatrici e d'uno strano trionfalismo al contrario (più ci reprimono, più siamo pericolosi). Bisogna imparare a leggere la repressione, soprattutto nei suoi legami con la normalizzazione sociale, con la diffusa collaborazione e con l'isolamento delle pratiche di rivolta. D'altronde, quelle letture sono il risultato di una visione determinista continuamente smentita. Le situazioni insurrezionali che si sono prodotte negli ultimi anni a livello internazionale (dall'Albania all'Argentina, dall'Algeria alla Corea del sud) dovrebbero rendere più cauti sui nessi causali di necessità fra un certo sviluppo del capitale e crisi sociale. I rivoluzionari sono non di rado gli ultimi a rendersi conto che le condizioni sono gonfie di rivolta, salvo poi teorizzare post festum. E lo stesso ragionamento si può fare per contesti più piccoli. Che legame c'é, ad esempio, fra un semplice sciopero del carrello da parte dei detenuti e una situazione di rivolta più aperta contro il carcere?  Molto spesso la banalità delle loro cause immediate, diceva Marx, é il biglietto da visita delle rivolte nella storia. Se non si sa seguire, anche criticamente, ma con attenzione, quello sciopero del carrello - guardando più ai rapporti reali di solidarietà che al formalismo delle rivendicazioni -, ben difficilmente si riuscirà a dare il proprio contributo a quella successiva rivolta. I detenuti hanno un certo fiuto per i ritardatari del recupero politico. Si tratta, ripeto, di distinguere la solidarietà nella propria prospettiva dallo sposare acriticamente le cause altrui.  Ora, si possono tracciare le proprie prospettive senza costruirvi - tanto meno con pretese scientifiche - delle certezze su dove avverrà la crisi, su quale é il punto di tensione massima delle contraddizioni del capitale, ecc., giacché l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno é alimentare di nuovo le funeste illusioni deterministe. Sia detto di sfuggita che il concetto stesso di crisi avrebbe bisogno di un approfondimento perché non va affatto da sé. Ma, lasciando perdere questi che sono problemi piuttosto ampi, scendiamo nel concreto delle lotte contro il carcere oggi. Vorrei sottoporre alcuni interrogativi all'attenzione dei compagni.

Se da una parte é importante e necessario che ci sia un'attività continuativa sulla questione del carcere, delle lotte dei detenuti in generale, e nel sostegno dei compagni, dei rivoluzionari prigionieri in particolare, é altrettanto importante, a mio avviso, comprendere che quello che conta, soprattutto nei momenti in cui lo scontro non é particolarmente generalizzato e i rapporti di forza non sono per così dire entusiasmanti, é soprattutto riuscire a portare il problema del carcere (che é anche il problema della repressione, che é anche il problema del controllo sociale, dell'organizzazione capitalistica delle città, dell'urbanistica, dei ghetti, della sorveglianza, degli sbirri nei quartieri) all'interno delle lotte in cui noi siamo già direttamente attivi o di cui dovremmo essere partecipi e promotori in futuro. Spesso, infatti, le iniziative specifiche contro il carcere - che sono, ripeto, importanti e necessarie - si limitano (salvo nei periodi di protesta dentro) ad un ambito che a grandi linee potrei definire militante e che riescono poco a legarsi con le altre lotte in corso. Faccio un esempio: ho trovato interessante che in un volantino che ho letto in questi giorni proprio rispetto a questa iniziativa si legasse il 41bis alle lotte attuali degli operai della Fiat e ad altre forme di autorganizzazione di classe che stanno maturando. Non si tratta, ben inteso, di limitarsi a giustapporre problemi e contesti diversi, ma di vedere quali sono i nessi reali, senza autorappresentazione né retorica. Se é importantissimo porre il problema del carcere in modo diretto, é altrettanto importante porlo in modo indiretto, portandolo ovunque é possibile lottare in modo autonomo, lontano da partiti e sindacati, contro ogni collaborazione di classe e ogni mediazione con lo Stato. Si tratta di un problema ampio che ovviamente sto semplificando: tutto questo per dire che molto spesso la nostra capacità di attaccare la repressione é limitata perché la repressione non riusciamo a leggerla in tutti i suoi aspetti, che non sono soltanto quelli più concentrati e visibili - in cui qualcuno immagina di vedere la massima espressione della crisi della borghesia o che so io - ma anche quelli più diffusi, penetranti e capillari.

Altra questione che butto sul tappeto: c'é un rapporto sempre più stretto fra l'attività della magistratura, quale corpo armato dello Stato insieme a carabinieri, polizia ed esercito, e l'emergenza creata di volta in volta dai mass-media. Questo rapporto é talmente stretto che molto spesso determinati provvedimenti di tipo legislativo o anche immediatamente poliziesco sono realizzati proprio per dover dare risposte ad un'emergenza mediatica precedentemente e preventivamente costruita. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che, quando si parla di repressione, quando si parla di controllo sociale e di carcere, se é importante vedere come strutture da attaccare la polizia, la magistratura, i carabinieri ecc., é altrettanto importante porre la questione dell'attacco antirepressivo nel senso dell'attacco ai mass-media. Può sembrare una banalità, ma l'aspetto repressivo e quello del controllo sociale, anche nella forma della collaborazione di classe, passano attraverso costruzioni mediatiche non apparentemente repressive, nel senso che a volte fa più danni, per dirla con una battuta, una trasmissione come il Grande Fratello (e la realtà di cui é una degna rappresentazione) che non la polizia nei quartieri. Il vero problema é vedere in che modo la polizia e il Grande Fratello sono legati. La questione dei mass-media é fondamentale non solo in una prospettiva sovversiva generale, ma anche in termini immediatamente pratici. Mantenere un'aperta ostilità nei confronti dei mass-media, infatti, significa non farsi parlare dalle parole del nemico, non accettare la rappresentazione e la spettacolarizzazione che il nemico ci impone, e allo stesso tempo sottrarre da sotto i piedi il terreno a tutti gli aspiranti dirigenti e a tutti gli aspiranti collaboratori di Stato. Pensiamo alla situazione italiana, a tutti i Casarini, gli Agnoletto e gli altri poliziotti sociali più o meno in tuta bianca: senza i mass-media, che sono in tal senso delle fabbriche di leader, costoro non sarebbero nessuno. Movimenti di lotta realmente autorganizzati e orizzontali, lontani dalla merda politica e sindacale, devono rifiutare in modo metodologico - quindi non occasionale, magari in seguito ad una campagna mediatica particolarmente infame - la presenza dei mass-media e il dialogo con i giornalisti. Si tratta di alcune armi per non riprodurre al proprio interno i rapporti di dominio che si rifiutano. In senso più ambizioso, si può sottolineare l'importanza dell'attacco a questo aspetto fondamentale del capitale e dello Stato, in genere trascurato. La nozione di spettacolo andrebbe intesa anche in senso stretto, non solo in senso generale (cioé come rapporto sociale mediato dalle immagini).  Avevano visto bene quei rivoluzionari che in epoca non sospetta (fine anni Sessanta, inizio anni Settanta) distruggevano furgoni e stazioni della televisione come parte integrante della guerra sociale.

Quindi: solidarietà contro la repressione, indipendentemente dai gruppi o dagli individui su cui questa si abbatte, ma nella chiarezza della propria prospettiva, al di là di opportunismi e tentativi di ricucire fratture che sono sia di pratica rivoluzionaria sia sociali e di classe. La complicità - di idee, di progetti, di metodi - é altra cosa. Essa si crea e si scopre nelle lotte, nei tentativi, anche parziali, anche contraddittori (perché la ricetta scientifica non ce l'ha nessuno) per distruggere l'esistente con tutte le sue carceri.

Distruggere le galere per non costruirne mai più: ecco la prospettiva da cui emergeranno le complicità. Mi sembra, ad esempio, quanto meno curioso - ma forse ho capito male - che quando il compagno parlava della situazione in Israele, fra tutte le carcere nominate non siano state menzionate quelle di Arafat, dove quotidianamente vengono torturati i ribelli palestinesi.

Per la distruzione di tutte le carceri, quale che sia il loro colore o la bandiera che vi sventola sopra. Anche nelle lotte più piccole, quello che facciamo deve essere all'altezza di questa splendida utopia.

 

LETTERA INVIATA AI RIVOLUZIONARI PRIGIONIERI

L’assemblea tenutasi a Milano

Contro il carcere, il 41bis

Contro l’attacco alle lotte sociali

A sostegno dei prigionieri rivoluzionari

E delle lotte di tutti i detenuti

Ha visto una numerosa presenza di compagni e una importante partecipazione di organismi di lotta contro il carcere e la repressione e di solidarietà e appoggio ai prigionieri rivoluzionari.

Invia un abbraccio solidale e un sostegno politico ai prigionieri politici rivoluzionari e a tutti i proletari detenuti in lotta rinchiusi nelle carceri imperialiste.  Rilancia con forza l’appello per la mobilitazione contro il carcere a partire da quella contro il 41 bis e per l’unità nella lotta a fianco dei detenuti politici e di tutti i prigionieri.  Questa lotta é parte integrante di quella di tutti coloro che oggi insorgono contro il sistema di dominio e di sfruttamento della società divisa in classi.

Elenco dei carceri con sezione sottoposta ad art. 41 bis O.P.

 

Ascoli Piceno Marino del Tronto

Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P., sezione Alta Sorveglianza

via dei Meli 218 63100

 

Belluno

Casa circondariale + Casa di reclusione, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P., sezione femminile, sezione Alta Sorveglianza

via Baldenich 11 32100

0437/930800-10-20-300437/930451-87

cc.belluno@giustizia.it

 

Cuneo

Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P., sezione Alta Sorveglianza

via Roncata 75 12100

0171/4499110171/449913

cc.cuneo@giustizia.it

 

L'Aquila

Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P.

via Amiternina 3 località Costarelle di Preturo 67100

0862/4520200862/452030

cc.laquila@giustizia.it

 

Napoli Secondigliano

Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P., sezione Alta Sorveglianza

via Roma verso Scampia 350 80144

081/7021414 7022410-701

 

Novara

Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P., sezione femminile, sezione Alta

Sorveglianza

via Sforzesca 49 28100

0321/402801 407200-10321/40280

cc.novara@giustizia.it

 

Parma

Casa circondariale + Casa di reclusione, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P., sezione Alta Sorveglianza

via Burla 59 43100

0521/271106 2072850521/27124

cc.parma@giustizia.it

 

Pisa

Casa circondariale + Casa di reclusione, sezione del Centro diagnostico terapeutico riservata ai detenuti sottoposti ad articolo 41bis O.P., sezione femminile

via Don Bosco 43 56127

050/574102

 

Roma Rebibbia

Casa circondariale femminile + Casa di reclusione femminile, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P.

via Bartolo Longo 92 00156

06/ 41594357-358-20506/4100711

ccf.rebibbia.roma@giustizia.it

 

Spoleto (PG)

Casa di reclusione + Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P.

via Maiano 10 06049

0743/263110743/263239

cr.spoleto@giustizia.it

 

Terni

Casa circondariale,

sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P., sezione Alta Sorveglianza

via delle Campore 32 05100

0744/800100-016-2190744/800262

cc.terni@giustizia.it

 

Viterbo

Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P.

strada SS. Salvatore 14/b 01100

0761/244010761/353472

cc.viterbo@giustizia.it