Controrivoluzione e sviluppo del capitalismo in Russia

 

Indice:

Presentazione: Il nostro contributo a un bilancio della rivoluzione e della controrivoluzione

Lo stato dei nostri lavori
Perché parlare di riappropriazione programmatica?
Rivoluzione e controrivoluzione

La concezione socialdemocratica della transizione al socialismo

L’ottica socialdemocratica
Ideologia economicista e politicismo del passaggio al socialismo
Il gestionismo contro la rivoluzione
Il politicismo contro la rivoluzione
Dittatura del proletariato e distruzione dello Stato borghese
Contro l’utopismo
La socialdemocrazia e la questione russa

Contro il mito della transizione socialista: la politica economica e sociale dei bolscevichi

Introduzione
Denaro e comunità
Le debolezze della rivoluzione
La politica economica e sociale dei bolscevichi al potere
Il tentativo di controllare centralmente l’economia capitalistica
La lotta proletaria e le sinistre comuniste contro la direzione dello Stato
La logica d’insieme che ha guidato la politica economica e sociale dei bolscevichi: Lenin e la sua visione apologetica del capitalismo
Continuità capitalista e confusione di Lenin
Dittatura sul Capitale o dittatura del Capitale
Bolscevichi: rivoluzione e controrivoluzione

 

Presentazione: Il nostro contributo a un bilancio della rivoluzione e della controrivoluzione

 

Lo stato dei nostri lavori

 

Nel solco tracciato dall’insieme delle frazioni comuniste nella storia, la nostra formazione [Groupe Communiste Internationaliste] si è posta come compito fondamentale la continuazione del lavoro di bilancio delle espressioni più elevate della contraddizione tra rivoluzione e controrivoluzione.

In questo senso, dopo numerosi anni, abbiamo fissato, come criterio di orientamento della discussione, la necessità di concentrarci sul periodo 1917-’23 durante il quale la rivoluzione e la controrivoluzione internazionale arrivarono alla loro più alta espressione, lasciando infine imporsi quest’ultima. Tutti i grandi problemi del programma comunista trovano in questi anni cruciali la loro più alta affermazione, la loro più decisa chiarezza e brutale conferma: la controrivoluzione stessa permette di riaffermare la previsione comunista e apporta nuovi materiali per meglio comprendere e precisare degli aspetti essenziali che non apparvero che allo stato di abbozzo nel corso delle ondate rivoluzionarie precedenti.

I testi che pubblichiamo in questa rivista fanno parte di quest’ampia discussione attorno al periodo 1917-’23, discussione che continuiamo a condurre all’interno del nostro gruppo La portiamo avanti a livello globale, allo stesso modo lavorando regione per regione La rivoluzione e la controrivoluzione furono internazionali, tanto per la loro estensione che per il loro contenuto, ma la forma e i fatti (così come i materiali di cui disponiamo!) erano terribilmente inquadrati nella struttura stessa dei Paesi. Ciò costituisce senza dubbio un limite (nazionale) del movimento stesso.

Dato che i materiali adeguati a un’analisi direttamente internazionale non esistono, giacché le organizzazioni alle quali dava vita il proletariato si strutturavano Paese per Paese ecc., ci siamo visti costretti, nella discussione e durante la prima fase di esposizione di questo lavoro, a mantenerci negli stretti margini di una comprensione per Paesi, forzatamente ristretta e limitata.

La discussione nel gruppo è ora molto avanti a proposito della Russia e, da qualche tempo, abbiamo intrapreso un lavoro di approfondimento sulla Germania per il quale ci prepariamo a pubblicare alcuni dei testi. Parallelamente a ciò, pianifichiamo una serie di discussioni sulle altre regioni del mondo dove la rivoluzione ha ugualmente raggiunto degli alti livelli.

Per quel che riguarda la Russia, ci siamo concentrati su ciò che ci pare spiegato peggio da parte di tutte le correnti da noi conosciute: la controrivoluzione e lo sviluppo del capitalismo.

I testi che seguono sono da collocare in un lavoro d’insieme sulla Russia.

 

Perché parlare di riappropriazione programmatica?

 

I rapporti sociali capitalistici dettano sempre lo stesso antagonismo di classe tra borghesia e proletariato. In questo antagonismo, il Capitale stesso, nel suo sviluppo, fa della classe sfruttata una classe rivoluzionaria, e ingenera così le condizioni del comunismo. Ma benché queste determinazioni fondamentali siano invarianti e dettino un’altrettanto invariante frontiera di classe tra il programma della rivoluzione e quello della controrivoluzione, il movimento comunista di abolizione dell’ordine sociale esistente non conosce uno sviluppo lineare, progressivo. Sorto dal suolo stesso della società capitalistica, esso tende anche a venir continuamente distrutto da quest’ultima. Il proletariato è contraddizione in atto: totalmente spossessato da ogni mezzo di produzione, spossessato anche dalla propria attività vitale per l’alienazione nel lavoro, il proletariato, nella sua lotta per la vita, nella lotta per la riappropriazione dei suoi mezzi di vita, è determinato a costituirsi in forza di negazione vivente della proprietà privata, e per ciò, di ogni società di classe. Ma, vendendo giorno dopo giorno la propria forza-lavoro, ben oltre la produzione delle cose, ciò che esso fa è produrre e riprodurre il rapporto sociale capitalista, la proprietà privata, la propria situazione di classe sfruttata, la concorrenza, e dunque la propria distruzione. Il proletariato è così negazione, contraddizione vivente della società del Capitale, ma è anche riproduzione dei rapporti sociali esistenti.

Ogni lotta del proletariato si pone dunque in termini contraddittori e in termini di scontro tra i due poli della contraddizione:

- scontro tra la necessità di vendere la propria forza lavoro e la lotta contro il lavoro;

- scontro tra i rapporti di concorrenza che i proletari si fanno individualmente tra loro sul mercato della forza lavoro, – il movimento della democrazia – e l’associazionismo operaio, il movimento di unificazione e di centralizzazione della lotta a livello mondiale.

In questo scontro si determinano, da una parte, tutte le forze che tendono a consolidare i rapporti di concorrenza tra i proletari, affinché essi restino individui, isolati, totalmente subordinati ai bisogni della produzione capitalista (dai preti di sinistra alla repressione militare) – le forze della controrivoluzione – e d’altra parte, nel movimento di opposizione alla società, tutte le forze che vi si distinguono per l’avanzamento di obiettivi di classe, di prospettive internazionaliste… – le forze della rivoluzione.

Ma, quale che sia il rapporto di forze dato in questa contraddizione tra rivoluzione e controrivoluzione, data la permanenza degli antagonismi di classe, le sconfitte più profonde che segnano necessariamente la storia del movimento operaio sono sempre relative, e da queste rinasce sempre la forza della lotta del proletariato, fortificata dalle lezioni delle sconfitte passate. La riappropriazione programmatica non è null’altro che questa riappropriazione pratica delle tradizioni di lotta, dei metodi e obiettivi di classe la cui continuità, in periodo di controrivoluzione dominante, non ha potuto essere garantita che dalle minoranze di militanti dedicantesi allora, più particolarmente, a fare il bilancio dell’ondata di lotta trascorsa.

 

Rivoluzione e controrivoluzione

 

Precisiamo questi dati fondamentali giacché, per poter conoscere correttamente la realtà di un movimento senza cadere né nell’apologia, né nella denigrazione, per darsi i mezzi di trarre gli insegnamenti indispensabili agli sviluppi futuri della lotta, è necessario osservare che ciascun movimento è scontro, contraddizione in atto, processo di rafforzamento generale del Partito della rivoluzione e anche cristallizzazione di debolezze, di mancanza di rotture con l’ordine sociale esistente, le quali saranno immediatamente sfruttate dalla controrivoluzione per organizzare la sconfitta del movimento. Ogni lotta proletaria, momento di scontro più acuto, deve dunque essere analizzata in termini di rotture/non rotture attorno a cui si organizzano rispettivamente la rivoluzione e la controrivoluzione.

L’apologia del movimento parte da una sopravvalutazione della forza del proletariato e cade necessariamente nell’impasse di non poter spiegare perché il movimento è stato sconfitto, se non tramite l’assenza di tale o talaltro partito-guru, al quale spettava dirigere il movimento stesso. Altri tentano, nel medesimo senso, di far passare delle debolezze del movimento e delle espressioni della controrivoluzione per degli avanzamenti del movimento, come le correnti bordighiste e/o trockiste che rivendicano la pace di Brest-Litovsk o l’annientamento di Kronstadt.

All’altro polo, vi è la stesso atteggiamento che consiste nel partire dalle debolezze del movimento, dalle sue espressioni più colpite dalla mancanza di rotture, e di concluderne che non si avevano che dei giochi borghesi, come fanno le correnti che a partire dalla constatazione, dopo il 1917, della perpetuazione dello Stato capitalista in Russia, arrivano a negare il carattere proletario del movimento insurrezionale dell’Ottobre 1917.

Questi due punti di vista hanno in comune la loro visione idealista della lotta di classe. Sono incapaci di afferrare la realtà contraddittoria, il movimento stesso, e concludono necessariamente con la mancanza di rivoluzionarietà del proletariato. Perciò si vedono costretti a fare appello a degli apporti di coscienza e di volontà da iniettare nel movimento dall’esterno, poiché quest’ultimo non ne secerne sufficientemente, reintroducendo in tal maniera le vecchie separazioni tra partito e classe, lotte immediate e lotte storiche.

Per evitare di cadere in queste deviazioni idealiste che ci castrano in tutta la capacità di riappropriazione programmatica militante, pratica, reale, insistiamo sul fatto che rivendicare l’appartenenza a un movimento di classe, significa mettere sempre più in luce l’essenza di questi movimenti liberando, mediante la critica, le manifestazioni/espressioni della nostra classe, di quelle delle forze della controrivoluzione, discernendo ogni volta più chiaramente in questi movimenti, le rotture dalle non rotture, distinguendo le tendenze all’associazionismo operaio dal riassorbimento/distruzione di queste tendenze tramite la concorrenza ecc., in breve distinguendo in modo sempre più netto, la rivoluzione dalla controrivoluzione.

 

La concezione socialdemocratica della transizione al socialismo

 

L’ottica socialdemocratica

 

La socialdemocrazia non ha mai compreso cosa sia il Capitalismo, ossia un sistema sociale le cui leggi inglobano tutto il pianeta. La metodologia analitica, descrittivista, positivista…, legata al mito del progresso e della scienza (le vere divinità della socialdemocrazia, come di tutti i materialisti volgari) e il suo sviluppo come rappresentante della conciliazione delle classi, le impedisce totalmente di comprendere l’essenza del Capitalismo.

La socialdemocrazia non considera il Capitalismo se non come una parte di questo sistema, basandosi sull’immagine idilliaca che il Capitalismo ha di se stesso. Per essa, il Capitalismo non è sviluppo e distruzione delle forze produttive ma soltanto sviluppo delle forze produttive (la distruzione è extra-capitalistica); il Capitalismo non è la grande industria urbana e la miseria nelle campagne ma unicamente lo sviluppo della grande industria, essendo la miseria nelle campagne un residuo pre-capitalistico (!!).

A fortiori, essa non può comprendere ciò che sono il socialismo e il comunismo. Schematicamente, diremo che il socialismo è per la socialdemocrazia lo sviluppo delle forze produttive (del Capitale) gestito dagli operai e (o) dal partito socialdemocratico (o comunista), ai quali si aggiunga, secondo le versioni, una certa dose di epurazione delle tare più evidenti del Capitalismo (ciò che è, evidentemente, un’utopia reazionaria).

E questo perché il programma generale della socialdemocrazia consiste nell’appoggiare i lati progressisti del Capitalismo (industrializzazione, aspetti «operai» del Capitale…). Si tratta di sostenere la lotta per l’estensione di questo sistema, la lotta per i «fini democratico-borghesi», i «fini nazionali»…, contro i «modi di produzione anteriori»; ciò significa in pratica la difesa (vista l’unicità contraddittoria del Capitale) del Capitalismo tout court, nella sua totalità.

Detto altrimenti, la socialdemocrazia non è nient’altro che la lotta storica del Capitalismo[1] per giustificarsi di fronte alla società intera, per darsi un’apparenza progressista, e soprattutto, per inquadrare i proletari sul terreno della classe che li sfrutta.

La concezione socialdemocratica della transizione al socialismo si riassume nel passaggio dall’amministrazione della società dalle mani dei borghesi a quelle degli operai e/o dei loro rappresentanti. Per arrivarvi, essa concepisce diverse tattiche che vanno dalla presa del potere (cfr. il paragrafo sul politicismo) alla gestione decentralizzata delle unità di produzione (gestionismo) e la realizzazione di un insieme di misure atte a socializzare la democrazia distribuendo la produzione in maniera egualitaria, e affidando la proprietà dei mezzi di produzione ai produttori (o allo Stato «che li rappresenta»)…

Sarebbe assurdo credere che esista una rottura fondamentale tra coloro che considerano che l’evoluzione del Capitalismo porti al socialismo e coloro che pretendono di differenziarsi dai primi per il solo fatto di auspicare una «rivoluzione violenta», poiché la concezione di base è identica, riformista in entrambi i casi.

Dato che la socialdemocrazia considera il modo immediato di produzione nel quale il lavoro è sussunto «realmente» al Capitale, come progressista, la politica socialdemocratica non attacca mai la base del Capitale: ciò che è prodotto, come si produce, l’obiettivo e la forma di produzione… Essa non dichiara mai la guerra al motore di questo modo di produzione (il valore, il profitto, la dittatura sul valore d’uso), non lotta contro i rapporti reali di produzione che considera come naturali, umani, invece auspica, – tutte le frazioni indistintamente –, un insieme di misure che, lungi dall’attaccare la sfera della produzione, non attacca che la distribuzione, la sua espressione giuridica: il diritto «reale».

 

Ideologia economicista e politicismo del passaggio al socialismo

 

Il socialismo rivoluzionario, il comunismo, attraverso le sue riaffermazioni storiche successive, si è delimitato programmaticamente come la necessaria imposizione dispotica delle pratiche degli interessi proletari contro tutti i criteri di valorizzazione del Capitale, contro il valore stesso, ciò che non può concretizzarsi che come dittatura organicamente centralizzata delle necessità dei produttori contro la totalità della società mercantile[2].

Di fronte a questa realtà forzatamente totalizzatrice e in accordo con la concezione generale che abbiamo descritta, la socialdemocrazia sceglie come ricetta di «trasformazione socialista» due grandi schemi che appaiono come formalmente opposti e che qui chiameremo gestionismo e politicismo.

Il gestionismo, l’economicismo che partono da un rifiuto romantico del centralismo, del Partito unico, dello Stato, si pronunciano per l’autonomia, per la libertà, non dell’individuo, ma di ogni fabbrica, di ogni cooperativa, sindacato, assemblea, consiglio operaio. Secondo i partigiani di questa ideologia, si troverebbe una garanzia nella partecipazione della base, nella democrazia diretta, «operaia», nelle assemblee, nel fatto che gli operai sono la maggioranza e vogliono il socialismo.

Il politicismo, quanto a esso, parte da un’ammirazione imbecille per la «rivoluzione francese» e riduce la rivoluzione alla presa del potere politico (presa del potere violenta o pacifica, secondo le varianti) e alla realizzazione di un insieme di riforme: nazionalizzazioni, sviluppo delle forze produttive, distribuzione più equa del prodotto sociale, gratuità degli articoli di prima necessità. Per i sostenitori di questa ideologia, tutto si riduce al «partito» che detiene il potere politico ed essi assimilano la «rivoluzione socialista» al potere controllato da un partito proletario più lo sviluppo delle forze produttive, in maniera succinta: l’elettrificazione più il potere dei «soviet».

Nella comprensione della controrivoluzione (una teoria non può essere rivoluzionaria se non capta le leggi invarianti della controrivoluzione), le due concezioni sono fondamentali. In tutti i tentativi storici di rivoluzione, le due concezioni socialdemocratiche si combinano, e agiscono obiettivamente contro la rivoluzione, anche indipendentemente dalla volontà dei loro sostenitori.

Concettualmente, le due deviazioni hanno come denominatore comune la considerazione che il socialismo è il prolungamento del capitalismo sotto amministrazione operaia, altrimenti detto che il socialismo è l’estensione epurata del capitalismo purgato dai suoi elementi nefasti (i padroni, la miseria, la mancanza di sviluppo delle forze produttive, le ineguaglianze…). In realtà, il socialismo proprio a queste concezioni non è altro che il Capitalismo senza contraddizione, senza l’insieme dei problemi inerenti il suo sistema, non è altro che il Capitalismo come ideale di uguaglianza, di libertà, di fraternità,… di democrazia. Da ciò, la rivendicazione di «democrazia sociale», di «democrazia vera», in opposizione alla democrazia «politica» (in realtà, la sola democrazia possibile è quella che esiste storicamente come espressione dell’uguaglianza e della libertà… del mondo mercantile!), ivi compresa l’origine del termine socialdemocrazia.

Di conseguenza, queste due concezioni sono riformiste, e questo ruolo le porta sempre al primo posto della controrivoluzione.

Esse sono il prodotto storico della controrivoluzione e della liquidazione del proletariato come classe sociale fondata sulla separazione dell’«azione economica» e dell’«azione politica», il sindacato e il partito parlamentare. Queste concezioni teorizzano la separazione che il Capitale impone al proletariato (soprattutto attraverso la sua frazione socialdemocratica) tra economico e politico. Ciò facendo, esse innalzano a livello di progetto di società ciò che non è altro che una debolezza degli operai: il fatto che anche in epoche di emergenza rivoluzionaria esistano dei residui di divisione tra organizzazioni «politiche» («partiti») ed «economiche» (sindacati, consigli, cooperative…), divisione che trova la sua espressione massima nella controrivoluzione, non soltanto come fase specifica di negazione del proletariato ma anche come soggetto, come insieme di forze sociali che compiono la funzione di separare i proletari e i loro interessi totalizzanti per liquidarli come classe.

In questo senso, l’opposizione economia/politica, organizzazioni economiche/organizzazioni politiche, gestionismo/riformismo statale hanno una funzione sociale generale e decisiva nella riproduzione del Capitale. Da ciò, i legami pratici tra teorie apparentemente così opposte, cosa che talvolta sorprende i giovani militanti senza esperienza. Ad esempio, questi sono tutti d’accordo a liquidare le discussioni operaie, in nome dell’unità immediata del proletariato e in nome del principio che tali compiti devono venire assunti e realizzati all’interno del partito (così, nelle associazioni operaie, è abbastanza comune constatare la convergenza verso l’anti-partitismo… dei «partitisti» più convinti).

Viste tutte queste convergenze reali che, in ultima istanza, derivano da una sola e identica concezione, non è sorprendente trovare la coesistenza di due deviazioni nella stessa corrente ideologica, compreso all’interno di una stessa organizzazione. Troviamo questa coesistenza in Lassalle (va ricordato che la socialdemocrazia è l’erede storica e organica del partito di Lassalle e non di quello di Marx) in Kautsky, in Luxemburg, nel trockismo attuale ecc.

Al di là di ciò, se analizziamo una teoria qualunque della transizione uscita dall’ottica socialdemocratica, possiamo percepire la necessaria coesistenza tra riforma politica e gestionismo economico. Così, lo stesso Lenin, generalmente considerato come qualcuno che ha sempre fatto ruotare tutto intorno presa del potere politico (concezione inseparabilmente legata a un’ottica riformista della transizione), lasciava trasparire, per tutta una serie di scappatoie in questi schemi, la concezione gestionista del controllo operaio della produzione capitalista. Si può dire la stessa cosa di Bordiga.

Qui giunto il lettore si chiederà perché mantenere, per la nostra critica, una separazione tra ideologia economicista e politicista, dato che sono esattamente la stessa cosa. Rispondiamo che malgrado questa identità di fondo, è pertinente realizzare la critica a questo doppio livello: da una parte contro ogni concezione, dall’altra, sulla convergenza verso la stessa visione del mondo.

Così, l’economia politica diviene, essa stessa, volgare, allorché deve amministrare il mondo o quando priva del loro carattere storico le categorie che la critica di Marx ha elaborato per ciascuna delle grandi concezioni, differenziandole da un lato, e nello stesso tempo, dimostrando il carattere ogni volta più volgare di tutta l’economia politica.

Il materialismo meccanicista, il materialismo fisiologico…, è, al fondo, idealista, ma nonostante il fatto che Marx ha messo in evidenza questa identità, egli ha comunque considerato indispensabile la realizzazione di una critica specifica, tanto della filosofia speculativa, idealista, che del materialismo.

D’altra parte, la forza delle ideologie è propriamente di presentare queste false opposizioni come delle verità universali. Il marxismo volgare (per esempio, sotto la sua forma staliniana) è sistematicamente caduto nell’idealizzazione di queste opposizioni e nell’adozione «consacrata» di uno di questi due poli. Così, s’è fatto partigiano del monismo materialista, fisiologica (senza realizzare quanto questa antitesi volgare dell’idealismo è idealista), liquidando lati interi della dialettica; così esso ha trasformato in religione di Stato l’economia politica (senza valutare a qual punto i cantori dell’economia politica siano gli eredi degli economisti volgari); infine, è così che esso si sia definito, per esempio, per il politicismo, l’occupazione dello Stato e le riforme, come cammino verso il socialismo.

Inoltre, queste false opposizioni, precisamente per il fatto di essere ideologie della controrivoluzione, sono state e sono profondamente radicate nelle masse, soprattutto tra gli operai che credono di essere socialisti o comunisti per il fatto di aderire a tali idee. E la loro forza è precisamente d’esistere in pratica, nella vita sociale dei proletari come opposizioni differenti, socialismo democratico o socialismo autoritario, consiliarismo o partitismo,… con il conseguente disorientamento, divisione e occultamento dei veri obiettivi di classe.

Storicamente, queste concezioni, che chiamiamo qui «economiciste» e «politiciste», si sono presentate sotto innumerevoli forme e combinazioni, ed esse trascendono le forme di ogni struttura organizzata (come ogni ideologia importante). Così se ci limitiamo alla struttura formale della socialdemocrazia, si constata che queste due ideologie preesistono a questa organizzazione e che durante la sua esistenza, il gestionismo e il politicismo l’hanno debordata e, talvolta sono anche la principale caratteristica di frazioni che si autoproclamano, tuttavia, in opposizione a questa organizzazione. È il caso, ad esempio, di Proudhon e dei suoi continuatori, i sindacalisti rivoluzionari sotto la sua espressione soreliana (da Sorel), che dobbiamo classificare, senza timori, tra i precursori del gestionismo.

Allo stesso modo che il partito della rivoluzione trascende le sue forme (ad esempio il Partito Comunista del 1848, come realtà internazionale vivente trascende la «Lega dei Comunisti», così come, in generale, tutte le altre sette rivoluzionarie), il partito della socialdemocrazia come liquidazione storica del partito della rivoluzione sociale nelle ragnatele della democrazia, supera la socialdemocrazia formale.

«Economicismo» e «politicismo» saranno, in seguito, criticati nelle loro espressioni più radicali, più sottili, comprese le forme nelle quali la contraddizione rivoluzione/controrivoluzione non si è duramente concretizzata. Anche Marx, nella critica a Proudhon, è spesso stato condotto a posizionarsi nell’insieme delle imbecilli costruzioni di costui, per mettere in evidenza il fatto che anche così, la società capitalistica si riprodurrebbe. Crediamo che il fatto di chiarire e spiegare le espressioni più sottili e sviluppate di queste due concezioni sia più utile al nostro sviluppo politico (e a quello dei nostri simpatizzanti e lettori) dell’accontentarsi di criticarne le forme più grossolane. Ma non si deve perdere di vista che anche le caricature esistono, che l’esempio di gestionismo che piace di più alla borghesia internazionale, è quello di Tito, o che possiamo trovare la migliore caricatura del riformismo di Stato capitalista – sotto la copertura di transizione verso il socialismo – nel modello di socialismo alla Fidel Castro.

Prendendo in considerazione dunque le forme più radicali, vedremo come il gestionismo e il politicismo hanno agito e agiscono contro la rivoluzione, nei momenti decisivi. In questa critica, tenteremo di andare fino ai fondamenti e alle espressioni più estreme di queste due ideologie, ciò che non è importante solo per circoscrivere i limiti dell’ondata rivoluzionaria del 1917-1923, e della rivoluzione «russa», ma ancora per trovare gli elementi chiave della concezione rivoluzionaria di transizione verso il socialismo.

 

Il gestionismo contro la rivoluzione

 

L’azione del gestionismo contro la rivoluzione, come freno essenziale dell’insurrezione, si è chiaramente verificata in numerosi esempi storici; l’Italia nel 1920, la Spagna nel 1936-37,…

Le correnti più radicali della socialdemocrazia: l’anarchismo gestionista, lo pseudo-marxismo «ordinovista», sono state precisamente quelle che hanno procurato la copertura ideologica più efficace e il miglior inquadramento politico dei proletari, per imporre la controrivoluzione.

Nei momenti in cui l’attacco contro lo Stato borghese è decisivo: destituzione del governo, del parlamento, del potere giudiziario, repressione di tutti i corpi di shock della controrivoluzione (fascisti e antifascisti), della polizia, dell’esercito…, infine il dispotismo operaio generalizzato, il terrore rosso, queste correnti trattengono gli operai nella produzione, nella gestione, nei diecimila problemi amministrativi di distribuzione e di democratico-burocratismo.

Esse danno allo Stato tutte le possibilità per ricostruirsi, per riarmare i suoi corpi, per preparare il suo attacco, per ricreare la polarizzazione all’interno della borghesia (fascismo/antifascismo). È quello che è sempre successo nella storia, ed è ciò che si ripeterà sempre, finché la direzione delle masse proletarie non coinciderà con la sua direzione rivoluzionaria, comunista, e finché esse si lasceranno prendere dalla democrazia di base, dalla gestione operaia, dai consigli di fabbrica, dai soviet.

Esiste anche una variante molto più radicale delle altre che ammette la necessità di farla finita con lo Stato borghese e di imporre la dittatura del proletariato, ma che continua a lasciare la gestione della società alle associazioni di produttori, ai comitati di fabbrica e/o ai consigli operai (vale a dire che non comprende perché non si possa avere distruzione del capitalismo senza direzione unica del proletariato e senza il suo Stato centralizzato in partito comunista); questa variante è altrettanto contro-rivoluzionaria e giocherà un ruolo importante in futuro.

Se non se ne ha esperienza diretta, è soltanto perché, per il momento, le organizzazioni che nei momenti cruciali della lotta operaia hanno avuto la direzione formale dei proletari più combattivi, erano ancora al di qua di queste concezioni; e perché l’ideologia del gestionismo più radicale, non può applicarsi che dopo l’insurrezione. Ora, ciò che ha predominato fino ad oggi nell’unica insurrezione proletaria che ha trionfato è stato il suo fraterno nemico: «il politicismo radicalizzato».

Se si può dubitare che sopprimere il capitalismo senza attaccare lo Stato, non può che essere un’utopia reazionaria, pretendere di eliminare il capitalismo per mezzo dell’autonomia e della libertà delle associazioni proletarie, costituisce altrettanto indubbiamente un’utopia reazionaria. Infatti, supponendo (il che è un’utopia) che si sia effettivamente distrutta nel mondo ogni forza politico-militare organizzata della controrivoluzione aperta, e che si sia cominciata ad organizzare la società non sulla base di un centro e di una direzione unica, ma sulla base di decisioni democratiche di un’infinità di associazioni, avremo nuovamente, poco tempo dopo, il capitalismo in piena funzione. Vediamo perché.

Queste associazioni, consigli operai, soviet ecc. non sono uniti organicamente all’insieme; non esiste centralismo organico; non esiste dittatura del comunismo organizzato in partito, contro il valore. Da questo fatto deriva che la produzione non può essere direttamente sociale, ma particolare (e perciò privata, di fronte al resto della società). Ma, dato che la produzione privata deve necessariamente socializzarsi, così come necessariamente deve compiersi la centralizzazione delle decisioni, lo scambio e il centralismo democratico sono altrettanto necessari.

Al di là di tutti i discorsi che si possono fare contro la democrazia borghese, per la democrazia contro il valore di scambio, ecc., … senza il dispotismo organicamente centralizzato dal partito contro il valore, i prodotti di ogni associazione, di ogni gruppo di associazioni, di ogni comitato di fabbrica, di ogni congresso dei soviet, … di ogni regione, … in tali circostanze, non sono soltanto dei prodotti, ma ancora dei valori di scambio e questo anche se si sopprimono le forme materiali del denaro, in quanto denaro. Il denaro continuerà a regnare!

Se non vi è un trasferimento dei prodotti centralmente diretto dal partito, a partire dalla dittatura contro il valore di scambio, c’è uno scambio dei prodotti in cui predomina la decisione democratica delle unità di produzione, e dunque le merci e la tendenza allo scambio sulla base di valori equivalenti. Il lavoro astratto continua a guidare la società.

Se i prodotti non perdono il loro carattere di merce, se il valore di scambio continua a regnare, tutte le atrocità del capitalismo continueranno a riprodursi, e questa nuova sottigliezza del gestionismo si rivelerà per ciò che essa è: un’arma della controrivoluzione, della ricostituzione del capitalismo, e questo non direttamente contro l’insurrezione, ma dopo il suo avvento.

Osservando come le decisioni si centralizzino, si socializzino (se si continua nel parallelo con la maniera in cui la produzione privata, particolare, si socializza) si arriva al medesimo risultato.

La democrazia degli operai (incompatibilità di fatto poiché se il popolo governa, il proletario è schiavo!), dei soviet, dei consigli, dei comuni o comitati, porta esattamente alla stessa cosa, o detto altrimenti, è l’altra faccia di uno stesso processo di predominio del valore di scambio: democrazia e società mercantile sono indissociabilmente unite.

E ciò, non soltanto perché, come si è già verificato storicamente, compreso nei soviet, la maggioranza sia dominata dall’ideologia borghese (cfr. la Germania, ma anche la Russia, ove i soviet approvarono, e cauzionarono nei congressi democratici, la politica contro-rivoluzionaria dei bolscevichi!), ma ancora perché il centralismo democratico (negazione dell’organicità, dell’unità di decisione e d’azione,…) corrisponde precisamente all’indipendenza dei produttori e delle sue associazioni, alla necessità di mediare, di costruire una totalità sulla base di ciò che è separato, sulla base della conciliazione di decisioni indipendenti dei produttori.

Con la democrazia operaia così realizzata, la società mercantile e di sfruttamento dell’uomo sull’uomo continuerà ad esistere.. sotto una copertura socialista!

Aggiungere alla parola democrazia il qualificativo di operaia, non cambia nulla; è esattamente lo stesso che eliminare per decreto la carta moneta e credere che si abbia eliminato il denaro. In questo caso, non importa quale altra merce assumerà il ruolo di equivalente generale e si trasformerà in «nuova» comunità del denaro. Per ciò che riguarda la democrazia, gli «operai» democratici finiranno anche con l’eleggere per voto i nuovi gestori del capitale.

In realtà, si tratta ancora della stessa incomprensione di base della socialdemocrazia che, per quanto si radicalizzi, non ha potuto comprendere il capitalismo stesso, e cerca, senza che ciò le sia chiaro, di renderlo più operaio, più democratico, cioè di conservarlo epurato, di epurarlo per meglio conservarlo.

I teorici di questa corrente si oppongono ai capi, senza rendersi conto che la stessa democrazia operaia produrrà dei capi. Dei capi, se ne avranno in tutte le fasi rivoluzionarie, e se è ben evidente che i capi del proletariato possono rappresentare i suoi interessi storici (partito comunista), essi possono anche rappresentare la controrivoluzione.

Cosa garantiscono le assemblee, le libere elezioni, la volontà della maggioranza degli operai?

Una sola cosa: tanto le idee dominanti quanto i capi sono quelli della controrivoluzione e questo per diverse ragioni:

1. perché durante tutta la fase rivoluzionaria, le idee dominanti continueranno a essere quelle della borghesia.

2. perché ciò che predomina in questo tipo di organizzazione operaista, è precisamente il popolo e non il comunismo, sono precisamente l’opinione pubblica, il «più logico», i «dirigenti popolari» che fanno dei «bei discorsi» alle assemblee…

3. (e il punto più importante che comprende gli altri due), perché il Capitale (che questi socialdemocratici radicali continuano a non capire) appare non soltanto come relazione sociale od oggetto, ma come soggetto che continua a vivere nella merce grazie alla propria mediazione, la democrazia, è che è capace di continuare a cooptare come dirigenti della società, gli elementi più adatti a gestirlo.

In sintesi, la democrazia, modo di vita del Capitale, non può produrre che dei dirigenti cooptati dal Capitale e degli indirizzi che portano alla ricostituzione di esso.

Il Capitale, in quanto soggetto, è per così dire occultato: gli uomini credono di dirigerlo ma, nei fatti, esso finisce sempre per dirigere gli uomini.

La democrazia è sempre stata considerata come un semplice meccanismo che potrebbe servire la classe che lo adoperi (democrazia borghese-democrazia operaia). In realtà, essa è indissociabilmente legata alla dissoluzione del proletariato come classe, alla sua negazione (includente evidentemente il terrorismo di Stato, le prigioni e la conciliazione dei cittadini indipendenti, individui).

E infine, essa si conferma sempre (il fatto che siano gli operai che l’adottino non cambia nulla!) come l’affermazione della società mercantile, del valore di scambio, come meccanismo del capitale per popolarizzarsi e meglio cooptare i propri gestori, in particolare se essi sono operai.

Questa critica delle varianti più radicali del gestionismo deve essere fatta presente in tutte le discussioni concernenti il periodo di transizione e specialmente nell’analisi della controrivoluzione in Russia.

Vedremo che di fronte alla politica bolscevica, che non costituisce per sé un’alternativa rivoluzionaria, tutta la borghesia si raccoglierà per fare una critica gestionistica, secondo la quale bisogna garantire la «democrazia operaia»,…

Questa nostra critica è dunque la condizione indispensabile per distinguersi da una critica di destra.

 

Il politicismo contro la rivoluzione

 

Nella sua espressione più radicale (il leninismo), l’ottica politicista adotta alcuni elementi di critica rivoluzionaria del riformismo, del pacifismo, del gestionismo, dell’immediatismo,… Mettendo in primo piano la violenza rivoluzionaria, la presa del potere politico, la necessità dell’insurrezione, del terrorismo rivoluzionario, della dittatura del proletariato,…

Ma questa variante più radicale non si pone comunque nel progetto sociale di distruzione del capitale, dell’abolizione del lavoro salariato e del denaro.

Si limita a ripetere, con Lenin, che ciò che distingue la rivoluzione dal riformismo è il fatto di estendere il riconoscimento della lotta di classe e del suo sviluppo fino alla rivoluzione violenta e alla dittatura del proletariato.

Detto altrimenti, la difesa della rivoluzione in rottura con il riformismo resta esclusivamente confinata all’aspetto politico e tutto quello che attiene alla rivoluzione sociale è evacuato (malgrado la terminologia utilizzata, ad esempio, da Kautsky). Di fatto questa corrente continua ad essere profondamente riformista, cioè partigiana di un insieme di riforme economiche come le nazionalizzazioni, la distribuzione dei redditi, ecc…

Il concetto di dittatura del proletariato non è assunto nella sua totalità come dittatura sociale di una classe che si organizza contro i criteri di valorizzazione e sviluppo delle forze produttive proprî al capitale, ma bensì come dittatura di tale o talaltro «partito politico» auto-definitosi come quello del proletariato.

In realtà, non si tratta soltanto di liquidare gli «altri aspetti» della rivoluzione focalizzandosi sulla «politica». Ma posto il punto di vista politicista, nel quale la rivoluzione si limita al politico e la rottura tra riforma e rivoluzione si riduce alla necessità della dittatura e del terrorismo operaio, si perde tutto il senso della totalità della dittatura del Capitale e della necessità totalizzatrice della dittatura del comunismo organicamente centralizzato.

Ne consegue che si giunge alla vecchia ottica parcellizzante della borghesia e si accetta l’indipendenza delle sue differenti sfere negando l’abc dell’opera di Marx[3].

Kautsky, Lenin e i loro epigoni sono incapaci di comprendere che la rivoluzione proletaria è una rivoluzione sociale, cioè totale, essenzialmente differente da tutte quelle che sono esistite.

In base al modello della «rivoluzione» francese (supponente l’istituzionalizzazione politica di una frazione borghese che controlli già la società, a detrimento di un’altra, ma in nessuna maniera la distruzione rivoluzionaria di un modo di produzione anteriore), essi limitano la rivoluzione proletaria al cambiamento nella sfera «politica».

È senza dubbio per questo che le frazioni borghesi più diverse, nelle lotte che esse si fanno (guerre imperialiste), hanno proclamato Lenin, Stalin, Trockij, «come i proprî teorici» Da una parte lo schema di base del leninismo è totalmente compatibile con una riforma «rivoluzionaria» (che il leninismo limita a un cambiamento politico violento, seguìto dal terrorismo conseguente), da un altro lato si può agghindarlo della colorazione «operaia» così indispensabile per mobilitare gli operai nella «rivoluzione» e in seguito farli lavorare della grossa alla ricostruzione nazionale. Perciò i grandi leader di queste forze capitalistiche (da Mao Tse-tung a Hô-Chi-Min, da Fidel Castro a Enver Hoxha) non hanno dovuto cambiare una iota allo schema di base del riformismo politicista. Essi furono ben sicuri dei «rivoluzionari» poiché come Robespierre, Lenin, Stalin o Trockij tagliarono delle teste e incitarono a lavorare molto per sviluppare le forze produttive!!

Per i «politicisti», «l’economia» è realmente un affare a parte e ciò malgrado essi siano così «rivoluzionari» in «politica». Non soltanto sono riformisti (controrivoluzionari) nella «socio-economia» (nessun attacco al capitale ma sua centralizzazione giuridico-statalista), ma soprattutto essi finiscono sempre per lasciare rientrare dalla porta ciò che dicono di espellere dalla finestra: il gestionismo.

Tutti i leninisti sono partigiani del controllo operaio (in quanto controllo contabile, amministrativo) della produzione capitalista.

L’incomprensione della totalità (o piuttosto della totale opposizione tra dittatura del capitale e dittatura contro il capitale) attinge il suo apogeo quando si afferma di aver realizzato la rivoluzione proletaria dal punto di vista politico, quando si afferma che esiste la dittatura del proletariato, allorché socialmente non si è rimesso in questione il lavoro salariato e il tasso di profitto continua ad esercitare il comando reale di tutta l’economia (vale a dire che la dittatura effettiva del valore di scambio contro il valore d’uso si mantiene in tutti i suoi termini)[4].

È importante sottolineare che questa concezione già esistente in Marx, era stata completamente rigettata da costui. Per Marx, la dittatura del proletariato non comincia a partire da un cambiamento governativo, politico, ma ben dalla dittatura sociale, quando ogni produttore riceve una parte del prodotto che corrisponde all’apporto del proprio lavoro (cfr. Critica del programma di Gotha, il programma più importante della socialdemocrazia tedesca). Noi non siamo d’accordo con quest’ultimo punto, giacché dal punto di vista comunista, non vi è nulla che giustifichi una fase nella quale il criterio di distribuzione sia il lavoro. Ma ciò che è essenziale nella posizione di Marx rispetto a quella di Lenin e consorti, è il contenuto sociale della dittatura e della rivoluzione.

Perciò non ha senso, per Marx come per noi, parlare di dittatura del proletariato se la produzione continua a essere diretta dalla legge del valore. La dittatura del proletariato comincia giustamente con il dispotismo contro il valore, quando la società è effettivamente diretta non per il capitale, ma contro di esso.

Dunque la proposizione che consiste nell’affermare che ciò che differenzia la rivoluzione dal riformismo è la rivoluzione violenta, il terrorismo rivoluzionario, ecc… è totalmente errata.

È una condizione necessaria, ma in alcuni modo sufficiente. Il Capitale può essere, e d’altra parte lo è stato, riformato sulla base della violenza e del terrorismo «rivoluzionario».

È chiaro che parlare di rivoluzione proletaria senza violenza rivoluzionaria, senza dittatura del proletariato organizzato in partito comunista, senza terrorismo rivoluzionario contro tutta la controrivoluzione organizzata, è sia un sintomo di stupidità che di cinismo.

Occorrerà sottolinearlo sempre, tanto più oggi dopo la gigantesca controrivoluzione che ancora subiamo, in quanto l’ideologia dominante spinge a una critica di destra, anti-rivoluzionaria del leninismo: rifiuto della necessità dell’insurrezione proletaria, rifiuto della necessità del terrore rosso, rifiuto della necessità della dittatura del Partito,…

Ma per differenziare chiaramente la rivoluzione dal riformismo, è necessario, come fece Marx, porre al centro della questione la rivoluzione sociale, cioè la distruzione totale della società del capitale, l’abolizione del lavoro salariato, della proprietà privata…

Ecco ciò che differenzia realmente la rivoluzione dalla controrivoluzione.

L’insurrezione, la dittatura, la violenza, il terrorismo, … sono soltanto dei mezzi (che il proletariato è costretto a impiegare) e come tali, non contengono alcuna determinazione sociale specifica. Sono rivoluzionari o controrivoluzionari in funzione del progetto sociale che oggettivamente sostengono (indipendentemente dalla volontà o dalle dichiarazioni dei suoi agenti).

È dunque altrettanto stupido attribuire alla violenza, al terrorismo, alla dittatura, una virtù intrinseca (come in sé rivoluzionari) che considerarli per natura non rivoluzionari.

Malauguratamente, si può constatare che fino a oggi è questa la classica polarizzazione che la borghesia è riuscita a mantenere in seno al proletariato per dividerlo.

 

Dittatura del proletariato e distruzione dello Stato borghese

 

Il proletariato non può accontentarsi di prendere il potere, di appropriarsi dello Stato borghese e di metterlo al proprio servizio (cosa in realtà impossibile).

Il proletariato non potrà realizzare il proprio progetto sociale rivoluzionario che alla condizione di distruggere da cima a fondo lo Stato borghese. Dittatura del proletariato non significa occupazione dello Stato borghese, sia attraverso gli operai che con un partito operaio, bensì la negazione effettiva dello Stato borghese.

Come ogni aspetto centrale del programma della rivoluzione, la socialdemocrazia lo doveva adulterare. Così come tratterà da utopisti i partigiani dell’attacco al Capitale e al lavoro salariato, e da blanquisti agli adepti della cospirazione rivoluzionaria, così essa tratterà i proletari rivoluzionari che sostengono la distruzione dello Stato borghese, da anarchici.

Tuttavia, la lotta invariante del proletariato per la distruzione del Capitale e dello Stato continua a svilupparsi e a esprimersi contro la socialdemocrazia, malgrado il fatto che in molti casi questa rottura non porti a una formalizzazione (in numerose regioni del mondo, le espressioni più chiare del comunismo non fecero mai parte formalmente della socialdemocrazia).

Nonostante che per tutto il corso della sua vita militante, Lenin non ruppe mai con i fondamenti metodologici della socialdemocrazia, obiettivamente, a diverse riprese, egli si pose alla testa del proletariato, e si situò anche in quanto parte dell’espressione teorica d’avanguardia della rottura del proletariato con la socialdemocrazia.

Così, nella continuità con Marx e con molti altri rivoluzionari e in particolare (tra coloro che cominciarono a rompere con la socialdemocrazia dopo averne fatto parte) con Pannekoek, Lenin, in un momento cruciale della rivoluzione mondiale (1917), ribadisce la necessità della distruzione dello Stato borghese.

Sicuramente ciò gli valse la qualifica di anarchico. Come allora gli stalinisti, i socialisti, i trockisti, … oggi, la socialdemocrazia centrale considererebbe come anarchico chi inquadrasse questo aspetto centrale del programma comunista: la distruzione dello Stato borghese. Secondo costoro, bisognava occupare lo Stato, utilizzarlo al servizio della socialdemocrazia ed è così che progressivamente esso sarebbe andato estinguendosi.

Lenin riafferma la posizione invariante dei comunisti in Stato e Rivoluzione (essendo anche più esplicito di Marx ed Engels): lo Stato borghese non si estingue, bisogna distruggerlo; lo Stato che non si estinguerà sarà quello della dittatura del proletariato.

Durante l’ondata rivoluzionaria del 1917-’23 l’affermazione «senza distruzione dello Stato borghese, niente rivoluzione» fu cruciale (e lo sarà tanto più nel futuro).

Questa riaffermazione programmatica fu decisiva per l’autonomizzazione del proletariato di quest’epoca e costituisce un apporto fondamentale di Lenin. Ma, come vedremo nell’insieme del nostro lavoro sulla «Questione Russa», Lenin non fu conseguente (in particolare a partire dall’ottobre del ’17) con questa posizione fondamentale, e tutti i suoi epigoni si affrettarono a dimenticare che lo Stato borghese deve essere necessariamente distrutto.

Nella critica del leninismo, della concezione socialdemocratica, sarebbe stato parziale non sottolineare questo tentativo di rottura di Lenin con la propria ottica politicista e socialdemocratica. Tuttavia, sarebbe altrettanto parziale omettere di dire che anche in quest’opera (Stato e Rivoluzione), senza dubbio la più radicale, Lenin resta segnato dal pensiero socialdemocratico.

Infatti, anche se egli proclama la distruzione dello Stato borghese, questo continua a essere concepito come uno strumento al servizio di una classe, e non in quanto espressione organica dei rapporti di produzione, di vita, che una classe comporta (come organizzazione di una classe in classe dominante).

Detto altrimenti, la rottura è ridotta al «politico» giacché non soltanto la dittatura del proletariato non è concepita come dittatura diretta contro la legge del valore e il lavoro salariato, ma come semplice dittatura politica; ma in più è mantenuta la concezione dello Stato come strumento, ciò che implica la possibilità di cambiare la sua direzione per servire una politica differente.

Se lo Stato fosse uno strumento così come un fucile o un martello, non importa chi potrebbe prenderlo e utilizzarlo per servire i proprî interessi[5]. Questa posizione dello Stato-strumento, con la quale Lenin non rompe mai totalmente, anche in Stato e Rivoluzione, sarà apertamente sostenuta dai bolscevichi al loro arrivo al Cremlino e sarà decisiva affinché il capitale li trasformi nei suoi agenti prediletti.

Lo Stato non è un semplice strumento, bensì la strutturazione in forza organizzata della riproduzione della società. Lo Stato del capitale non è altro che il capitale organizzato in Stato: nessuna dittatura politica può distruggerlo.

Non si distrugge lo Stato borghese politicamente. Anche se la dittatura fosse realmente una dittatura totale contro tutte le vecchie istituzioni gestionarie del capitale (cosa che i bolscevichi non ebbero il coraggio né la prospettiva di realizzare), lo Stato (finché non sarà distrutta la legge del valore che regge la società) continuerà a esistere come Stato riproduttore del capitale, indipendentemente da quelli che pretendono dirigerlo.

Per distruggere lo Stato del Capitale, occorre distruggere il Capitale, vale a dire, la base dalla quale esso è uscito. Quest’abc del marxismo non venne compreso da nessun socialdemocratico (nessun bolscevico!). Parlare di dittatura del proletariato, di distruzione dello Stato borghese senza una dittatura contro la legge del valore è un non senso.

Senza l’esercizio sociale della dittatura del proletariato, senza dittatura contro il Capitale, lo Stato capitalista non cesserà di riprodursi, indipendentemente dalle intenzioni e dagli uomini che ne sarebbero alla testa (com’è il caso dei bolscevichi a partire dal ’17).

 

Contro l’utopismo

 

Non mancheranno coloro che, in seguito alla nostra critica della concezione socialdemocratica di transizione al socialismo, sperano di trovare una ricetta magica, positiva, di trasformazione socialista e perché no, una descrizione di come ci immaginiamo la società futura.

L’autodifesa socialdemocratica non esiterà a trattarci da utopisti, da idealisti, perché non abbaiamo nulla di «concreto da proporre».

È propriamente perché rigettiamo l’idealismo, l’utopismo (oggi ancora controcorrente, ma di fronte alla decomposizione della società presente, l’utopismo ritorna di moda!), che non abbiamo ricette, né alcuno stampo prestabilito in cui vorremmo modellare la società futura.

Ma oggi, come più di un secolo fa, sappiamo perfettamente come non sarà la società futura. Sappiamo perfettamente che dobbiamo negare in maniera rivoluzionaria tutta la società presente sopprimendo la proprietà privata, il lavoro salariato, il Capitale, lo Stato, la famiglia, la religione, … cosa che implica, oggi come ieri, d’agire in opposizione reale, pratica (vale a dire anche teorica) a tutte le forme di perpetuazione e di riforma della società attuale (ciò include l’opposizione a tutte le false concezioni della transizione).

Chi pretende che questa non sia una prospettiva chiara per il futuro, che non rappresenti la definizione di un progetto sociale, non ha compreso nulla del materialismo dialettico e storico. La negazione è una definizione, la sola definizione materialista già esistente in quanto negazione inevitabile della società presente.

La differenza tra utopismo e comunismo rivoluzionario non è che il primo definisce e il secondo no; bensì che mentre il primo definisce a partire da un insieme di desideri e da una concezione morale, il comunismo, definisce a partire dall’abolizione in atto della società presente.

La concezione comunista della transizione sorge dalla critica (teorico-pratica) che il proletariato, costituito in Partito, realizza di tutta la società presente, così come di tutte le false concezioni della transizione. La transizione storico-reale tra il capitalismo e il comunismo sarà innanzi tutto una negazione attiva, organizzata e ogni volta più cosciente del capitale e di tutti i suoi adattamenti per tentare di perpetuarsi (riforme).

Per questo, nelle battaglie storiche del passato, il programma rivoluzionario si è affermato sempre in quanto insieme coerente di negazioni (dittatura del proletariato per l’abolizione del lavoro salariato, del denaro, della democrazia…), in quanto critica delle false concezioni della transizione (vere barriere contro la rivoluzione, per riarmare il capitale) di Proudhon, di Lassalle, Bernstein, Kautsky, …Lenin, Trockij, Stalin, … Mao Tse-tung, Hô-Chi-Min, Fidel Castro…

È questo il posto che occupa, nel nostro lavoro globale sulla «questione russa» (o più in generale sul periodo di scontro più alto tra rivoluzione e controrivoluzione registrato fino ad oggi nel mondo), la sintesi critica fatta a proposito della concezione socialdemocratica di transizione al socialismo.

Come tale, esso è patrimonio del proletariato e del suo Partito, della sua lotta per costituirsi e affermarsi per abolire dal basso all’alto tutta la società borghese.

 

La socialdemocrazia e la questione russa

 

Mai, in nessuna parte del mondo, la concezione socialdemocratica di transizione al socialismo ebbe tanto peso quanto in Russia a partire dal ’17. Era la prima volta che un partito formato a questa scuola controllava, decideva e imponeva (quasi da solo, malgrado i rapporti di forza e le contraddizioni sociali) la politica economica e sociale di tutto un Paese. In tutti i testi che seguono osserveremo l’importanza di queste decisioni centrali sorrette dalla concezione di cui abbiamo criticato i fondamenti.

Ma se, come vedremo, i bolscevichi applicheranno strettamente una politica di sviluppo capitalistico nazionale, questa non fu soltanto una conseguenza implicita e inevitabile della concezione socialdemocratica, ma soprattutto nel caso russo, la socialdemocrazia internazionale difendeva esplicitamente tale progetto di difesa e di sviluppo del capitale come la sola alternativa!

Infatti, l’idealizzazione del capitalismo realizzata dalla socialdemocrazia internazionale, propria alla sua ottica generale (cfr. l’inizio di questo testo) le impediva di riconoscere il capitalismo reale in Russia, specialmente quando questo capitalismo si manteneva sotto la sua forma più barbara e «non civilizzata»: miseria assoluta, estrema nella maggior parte del territorio, dispotismo generalizzata dello Stato zarista…

Nella miseria del proletariato russo, la socialdemocrazia vedeva soltanto la miseria, i poveri, l’enorme massa di «contadini» e non la sovversione rivoluzionaria proletaria in gestazione.

Né il progetto sociale internazionale della rivoluzione, i cui segni annunciatori in Russia erano visibili dall’inizio del secolo, né il soggetto di questi, erano compresi dalla socialdemocrazia internazionale (inclusa quella russa). Per la socialdemocrazia, non aveva senso porre la rivoluzione proletaria e il socialismo in Russia (lasciamo da parte il fatto che «il socialismo» socialdemocratico sia borghese, cioè una semplice riforma ed estensione del capitale): ciò che era posto all’ordine del giorno era una rivoluzione borghese, erano i compiti democratico-borghesi.

Peggio ancora, la Russia era considerata come il Paese barbaro per eccellenza, il nemico numero uno del progresso e della civilizzazione. Perciò, nelle contraddizioni inter-capitalistiche, la socialdemocrazia si collocava senza esitazioni dalla parte delle potenze capitalistiche europee. Questo costituisce un elemento di interpretazione fondamentale della controrivoluzione, totalmente occultato dal mito del tradimento del ’14[6].

Perciò tutta la socialdemocrazia internazionale e russa adottò con tanta facilità la posizione disfattista sul fronte russo (lo zarismo era considerato da tutti, compresi i bolscevichi e i menscevichi, come un ostacolo al capitalismo che essi auspicavano), così come aveva giustificato (salvo casi marginali come Luxemburg, Jochiches…) ogni lotta nazionale capitalista contro lo zarismo in nome del diritto all’autodeterminazione (basandosi su testi di Marx ed Engels)[7].

Questa tesi della barbarie russa opposta al progressismo del capitale tedesco, fu costante dall’inizio del secolo fino al ’17, e a partire da questa data continua a giocare un ruolo fondamentale nella politica nazionale (il modello dei bolscevichi era il capitalismo tedesco) e internazionale (accordi di Brest-Litovsk, di Rapallo, …) auspicata e applicata dai bolscevichi.

Al di là di tutto, la socialdemocrazia aveva spinto la propria ottica nazionale (e non mondiale!) dello sviluppo del capitalismo fino all’estremo limite logico. Per un verso la rivoluzione del proletariato doveva realizzarsi Paese per Paese, per un altro, posto che essa dipendeva dalle contraddizioni delle relazioni di produzione con le forze produttive, era dunque logico che non si potesse aspirare alla rivoluzione proletaria là ove le forze produttive erano «meno sviluppate» e che meccanicamente, lo schema della rivoluzione proletaria fosse la conseguenza di un tale sviluppo. Così, dunque, Paese per Paese, dalla Germania avanzata fino alla Russia sottosviluppata, si potrà realizzare la rivoluzione proletaria.

Se in Germania e in Inghilterra la rivoluzione proletaria non si era realizzata, non aveva senso supporla in Russia, e farlo equivaleva ad avventurismo, ad anarchismo… Fino a che punto questa concezione fosse dominante in seno alla socialdemocrazia russa è provato dalla sua soddisfazione per la pseudo «rivoluzione» del febbraio ’17[8], dal suo appoggio al governo provvisorio e dalla sua politica imperialista di «pace» (fino all’arrivo di Lenin e alle Tesi di aprile). Più chiaramente ancora, il fatto che sulla base di questo ideale e di questa argomentazione (dobbiamo aspettare la rivoluzione in Germania), una frazione importante del Partito bolscevico si sia opposta all’insurrezione (i «vecchi bolscevichi» che sostenevano le posizioni di sempre dei bolscevichi, diretti principalmente da Kamenev e da Zinov’ev), l’abbia tradita, denunciata e sabotata. I giorni seguenti la vittoria insurrezionale, la suddetta frazione proponeva di abbandonare questa «impresa avventurosa» e tentare di ricostruire un governo con l’unità di tutti i partiti.

L’importanza reale del movimento proletario in Russia, più d’una volta rimette in questione questa teoria reazionaria e spinge ugualmente, dall’inizio del secolo, alcuni militanti della socialdemocrazia russa, direttamente implicati in questa realtà, a riconoscere la possibilità della rivoluzione proletaria senza passare per una tappa di «democrazia borghese», condizione imprescindibile per l’ideologia socialdemocratica internazionale.

Così, innanzitutto Parvus, poi principalmente Trockij, sostenerono controcorrente, che non aveva senso né il fatto di concepire nazionalmente, Paese per Paese, le contraddizioni che spingono alla rivoluzione, né il fatto di far dipendere in maniera lineare, dallo sviluppo economico di un Paese, le possibilità del proletariato di detto Paese di posizionarsi al centro della lotta. Secondo costoro, queste possibilità dipendevano da altri fattori, «soggettivi», come l’esperienza della lotta, l’organizzazione, la coscienza…

Essi ne concludevano che il proletariato in Russia era una forza rivoluzionaria decisiva.

Questa teoria influenzò fortemente il movimento rivoluzionario internazionale, dall’inizio del secolo (1903) fino ai nostri giorni, ivi compresa la frazione dei bolscevichi che sostenne la necessità della rivoluzione proletaria e che dirigeva l’Insurrezione. Malgrado il suo radicalismo apparente, tuttavia questa teoria non costituisce una rottura fondamentale.

Essa rimane prigioniera del mito religioso per cui il capitalismo «deve» svilupparsi Paese per Paese. Questo compito spetterebbe alla borghesia nazionale, ma questa, essendone incapace per debolezza, lascia al proletariato (con l’aiuto dei contadini o meno, secondo le varianti) il compito di realizzarne i progetti: si tratta di un’idealizzazione apologetica e profondamente religiosa del Capitale.

Questa teoria comporta un cambiamento quanto al soggetto della rivoluzione a venire (si riconosce il proletariato come soggetto[9]), così come un cambiamento di tattica in seno al partito socialdemocratico, ma nessuna differenza quanto al contenuto sociale della rivoluzione futura: occorre portare a termine i compiti democratico-borghesi.

Peggio ancora, queste concezioni in apparenza «rivoluzionarie» in rapporto alle tesi ufficiali della socialdemocrazia, servono nei fatti a giustificare meglio, in nome del proletariato, lo sviluppo nazionale borghese. Ma se il proletariato ha la forza di imporsi di fronte alla borghesia, non applica il suo programma sociale bensì quello del suo nemico storico[10].

Era l’anello mancante per l’apologia esplicita del capitalismo di Stato e del capitalismo in nome del proletariato. In Russia, ciò si traduceva nei fatti nella liquidazione di ogni opposizione ai progetti borghesi d’aumento del tasso di sfruttamento, in vista di una nuova fase di industrializzazione, la quale raggiungerà il suo apogeo durante lo stalinismo.

Per terminare questa critica generale della concezione socialdemocratica, decisiva per comprendere la questione russa, dobbiamo mostrare che la scissione nella socialdemocrazia russa tra menscevichi e bolscevichi non si riferiva alla concezione di fondo, vale a dire al progetto sociale da imprimere nella rivoluzione a venire.

Sostenere che tra bolscevichi e menscevichi si produce una scissione tra la rivoluzione e il riformismo, è restare prigionieri dell’ottica riformista, politicista della socialdemocrazia. Nei fatti, le frazioni bolsceviche e mensceviche difesero lo stesso progetto per la Russia: la concretizzazione dei compiti della borghesia.

L’insieme dei testi (fondamentalmente Che fare?) e l’atteggiamento organizzativo dei bolscevichi che condussero alla «rottura» in seno al partito socialdemocratico, non misero in questione questo riformismo generale di principio (anche se i bolscevichi avevano una visione più violenta, più «rivoluzionaria» di come arrivare a questo riformismo) ma si limitarono agli aspetti concernenti la struttura organizzativa.

L’ottica menscevica dell’organizzazione dei rivoluzionari si situa senza dubbio nelle prospettive di un partito socialdemocratico classico, sindacalista e parlamentare. Quella dei bolscevichi, al contrario, (anche se la rottura con il parlamentarismo e il sindacalismo non è presente affatto), corrisponde più a una strategia insurrezionale, cospirativa, intransigente e poco desiderosa di perdere in popolarità, strategia propria a tutti i gruppi rivoluzionari del passato e del futuro.

È per questo che dopo una crisi organizzativa profonda nel 1917, poteva emergere dal gruppo bolscevico una frazione capace di servire e dirigere il proletariato durante l’insurrezione, compito che i menscevichi non avrebbero mai potuto assumere[11].

Siamo di fronte allo stesso problema già criticato per l’ottica politicista radicale e per la sua sedicente rottura col riformismo. Una tale rottura di base non esiste affatto! Una struttura organizzativa appropriata alla difesa di certe posizioni controcorrente, all’organizzazione e alla centralizzazione delle lotte del proletariato, alla direzione dell’insurrezione…, costituisce una condizione necessaria e indispensabile per servire il proletariato e dirigere la sua vittoria insurrezionale, ma essa non è sufficiente per condurre una vera rivoluzione comunista e costituire l’avanguardia della centralizzazione internazionale del proletariato.

Il limite essenziale del movimento proletario (della sua costituzione in forza internazionale e in partito), nel momento più alto dell’ondata rivoluzionaria del 1917-1923, è di non aver prodotto un’avanguardia costituitasi sulla base di una rottura generale con tutta la socialdemocrazia, con la conseguenza che un’organizzazione come quella dei bolscevichi, totalmente dominata dalla concezione socialdemocratica del mondo e della sua trasformazione[12] assunse la direzione formale del proletariato non soltanto in Russia, ma nel mondo intero.

I risultati furono i seguenti:

— In Russia i bolscevichi si fecero gestori del capitale nazionale, dirigenti dello Stato borghese, e capi sanguinari di tutte la repressione contro la lotta proletaria e comunista;

— Sul terreno internazionale i bolscevichi formalizzarono la necessità, per il proletariato, di organizzarsi in forma mondiale costituendo una struttura (la Terza Internazionale) che fin dall’inizio si affrettarono a porre al servizio del capitale e dei bisogni dello Stato nazionale russo, operazione che si concretizzerà con la liquidazione delle frazioni internazionaliste e che raggiungerà il suo apogeo con il Fronte popolare, il «socialismo in un solo Paese», le purghe, la guerra imperialista…

 

Contro il mito della transizione socialista: la politica economica e sociale dei bolscevichi

Introduzione

 

«Il denaro, essendo la comunità, non può tollerarne altre al suo cospetto» [K. Marx, Grundrisse]

Noi rivoluzionari sottovalutiamo sempre l’enorme potere dei grandi miti sociali, e continuiamo a restare sorpresi di fronte al peso che hanno ancora oggi le grandi religioni, i miti più grossolani e al modo con cui essi riescono a mantenere il proletariato in schiavitù.

Senza dubbio, non ripeteremo mai abbastanza che l’ideologia dominante è quella della classe dominante, e che se la rivoluzione proletaria sarà per forza una rivoluzione cosciente, non lo sarà nel senso della coscienza maggioritaria (così come se la immaginano tutti i democratico-populisti), più di quanto lo sia nel senso che le grandi masse parteciperanno alla rivoluzione perché non hanno altra scelta.

Questa rivoluzione sarà cosciente nel senso di un rovesciamento della prassi effettuato dall’organizzazione dei militanti rivoluzionari, dei comunisti internazionalisti, costituenti la direzione storica del proletariato internazionale organizzato in partito mondiale.

Nessun altro mito oltre quello dell’esistenza dei «Paesi socialisti», e in particolare della «Russia socialista», non ha avuto un potere così decisivo sulla divisione del proletariato e sull’indebolimento delle sue prospettive generali e mondiali.

Questo mito, che serve particolarmente bene gli interessi della borghesia internazionale, dimostra, ancora oggi, tanto in Russia che in Occidente, la propria efficacia di fronte alla crisi di accumulazione capitalista di questo Paese e ai tentativi di riemersione del proletariato nei Paesi detti «socialisti» (principalmente in Polonia, in Ungheria, in Germania dell’Est, in Romania).

È così che questi proletari restano costretti in rivendicazioni di democrazia all’occidentale, impedendo al resto del proletariato mondiale di vedere che questa lotta gli appartiene e che ha gli stessi obiettivi contro lo stesso nemico (come è accaduto nei cinque continenti all’inizio del secolo).

La forza di questo mito si evidenzia anche nel punto di vista più elaborato, teorizzato a fronte della riemergenza, ogni volta più violenta, delle contraddizioni proprie al capitale in Russia e la cui origine è perlopiù attribuita alla burocrazia, allo stalinismo, alla «dittatura». Si arriva anche a porsi delle domande come: «Quand’è che il processo di trasformazione socialista si è paralizzato? Come è successo che la Russia non sia più socialista? Da quando? Qual è il processo che ha portato alla liquidazione del socialismo?»

In tutti i casi, ciò si origina dal volgare pregiudizio accettato da tutti come un dogma: che la trasformazione socialista in Russia sia cominciata ad un certo punto.

In questo testo analizzeremo e criticheremo un tale punto di vista che ha come momento di partenza una serie di identificazioni (insurrezione proletaria vittoriosa e vittoria del socialismo, nazionalizzazione e socialismo, industrializzazione statale e socialismo, collettivizzazione forzata e socialismo ecc…). Queste identificazioni servono a recuperare le lotte del proletariato su un terreno borghese, togliendone il contenuto sovversivo e cambiandone la loro natura di classe; questo punto di vista non potrà essere spazzato via che grazie alla riemergenza generalizzata e mondiale del movimento comunista.

Al posto di discutere tali questioni che hanno tutte per fondamento il volgare pregiudizio che la trasformazione socialista in Russia in un certo momento sia stata bloccata, e che in seguito questo processo è stato liquidato, porremo la vera questione: dal 1917 a oggi, la trasformazione socialista in Russia è stata colpita?

In questo paragrafo (a completamento della Critica della concezione socialdemocratica della trasformazione socialista), cominceremo col sottolineare ciò che, secondo gli autori classici, costituisce il fondamento della trasformazione rivoluzionaria; in seguito, vedremo quali erano le reali possibilità per questa trasformazione in Russia, e la politica effettivamente applicata dal governo bolscevico e i suoi risultati, cosa che ci consentirà di rispondere negativamente alla suddetta domanda. Vedremo anche, molto brevemente, le critiche effettuate dalle sinistre comuniste che condussero la direzione dello Stato (Lenin) a confessare che la politica portata avanti aveva per scopo di sviluppare il capitalismo e di realizzarne l’apologia. La critica dell’ottica leninista, ci dà la possibilità di mettere in evidenza che, non soltanto non si è avuta una trasformazione socialista, né, allo stesso modo, un inizio di questa, ma che anche socialmente non ha senso parlare di dittatura del proletariato in Russia giacché in nessun momento questa classe sociale ha diretto la società: il Capitale non ha mai smesso di esercitare la propria dittatura, e malgrado la volontà e il tentativo dei bolscevichi, essi furono i suoi migliori agenti.

 

Denaro e comunità

 

Molto schematicamente, potremmo riassumere il programma dei comunisti (risultato pratico delle affermazioni storiche successive) come essente la costituzione del proletariato in classe dominante per l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, e dunque del lavoro salariato[13], della merce, del denaro ecc., e per la costruzione di una società non mercantile, senza classi, senza Stato, senza nazione, per una vera comunità umana.

Qui non svilupperemo questo programma, ma vi faremo riferimento (in opposizione al programma dei bolscevichi) nella misura in cui ciò è indispensabile per collocare l’azione della direzione dello Stato e di comprenderne la sua prospettiva socio-economica.

Ma non possiamo non sottolineare uno degli aspetti centrali della concezione rivoluzionaria della critica dell’economia, il quale ci permetterà di meglio comprendere ciò che segue: il denaro, in quanto comunità, esclude ogni altra comunità.

Il denaro[14], così come l’individuo o la merce, o lo Stato, non è l’esito di una convenzione, bensì il prodotto sociale dello scambio. Attraverso il suo sviluppo, esso si afferma a partire da un insieme di determinazioni storiche, fino alla sua trasformazione in capitale.

È a partire dal momento in cui i prodotti cominciano a determinarsi socialmente come valori di scambio, e in cui la merce si costituisce come unità di valore d’uso e di valore di scambio, che il valore di scambio comincia ad avere un valore separato da quello del prodotto.

«Il denaro è il valore di scambio separato delle merci ed esistente al loro fianco. Tutte le caratteristiche della merce, in quanto valore di scambio appaiono nel denaro, come in un oggetto da esse differente, in una forma di esistenza sociale separata dalla loro forma di esistenza naturale… Così come è impossibile superare le difficoltà e le contraddizioni che provengono dall’esistenza del denaro, legate alle merci particolari che trasformano la forma denaro, è ugualmente impossibile superare il denaro, allorché il valore di scambio continua a essere la forma sociale dei prodotti» [K. Marx, Grundrisse]

È completamente inconcepibile e utopico eliminare il rapporto sociale denaro, senza eliminare il valore di scambio; ogni società mercantile è una società «monetaria». Ogni tentativo di sostituire al denaro, ad esempio, dei buoni-lavoro, senza un processo che distrugga le basi stesse della merce è votato all’insuccesso.

E anche se la materia fisica ha come caratteristica di contraffarsi enormemente, il denaro in quanto unica condensazione/concentrazione sociale del lavoro privato, in quanto lavoro sociale, e dunque in quanto comunità, rifarà la sua comparsa. E reciprocamente, ogni società dominata dalla relazione sociale «denaro» è necessariamente una società mercantile nella quale il denaro ordina le materie fisiche prodotte (e dunque, in ultima istanza, la loro distribuzione).

«Il denaro, essendo la comunità, non può tollerarne altre al suo cospetto» [K. Marx, Grundrisse]

Con la trasformazione del denaro in capitale, il processo di esclusione di ogni altra forma di comunità tra gli uomini, lungi dall’essere negato, è riprodotto a un livello quantitativamente e qualitativamente superiore. Infatti, il denaro in quanto capitale, cioè in quanto rapporto sociale generale in cui tutto è subordinato al processo di valorizzazione del valore, è in un primo tempo una determinazione sociale del denaro, determinazione che tuttavia lo supera e, nello stesso tempo, ingloba tutte le altre determinazioni.

«Il lavoro salariato da una parte e il capitale dall’altra sono, di conseguenza, altre forme del valore di scambio sviluppato e denaro come l’incarnazione di questa forma. Il denaro è immediatamente la comunità reale, già che è, nello stesso tempo, la sostanza generale dell’esistenza di tutto e il prodotto comune di tutto. Ma nel denaro, come abbiamo già visto, la comunità è, nello stesso tempo, pura astrazione, cosa esterna e occasionale per l’individuo, e puro mezzo di soddisfazione come individuo» [K. Marx, Grundrisse]

Di conseguenza, il socialismo con il denaro non può essere altro che un’astrazione assurda, una comunità esterna e fortuita, una comunità fittizia. Lungi dall’essere l’affermazione del comunismo, questa comunità è, al contrario, l’affermazione tipica della socializzazione sotto il Capitale: l’esistenza del denaro continua a dimostrare che il lavoro non è direttamente sociale, ma che è privato e che ha bisogno del denaro (di questa mediazione che si sostituisce così alla comunità) per divenire «sociale». Questa socializzazione denaro-Capitale[15] esclude ogni altra socializzazione.

Inoltre, lo sviluppo del valore di scambio, fino alla sua trasformazione in capitale, lungi dall’essere una possibilità tra le altre, è, al contrario, un processo ineluttabile e contenuto nella merce.

Come sostiene Marx:

«È un desiderio tanto pio quanto imbecille volere che il valore di scambio non si sviluppi fino a convertirsi in capitale o che il lavoro produttore del valore di scambio non si sviluppi fino a convertirsi in lavoro salariato» [K. Marx, Grundrisse]

In particolare ci teniamo qui a sottolineare una cosa così tanto spesso negata dagli stalino-trockisti e dagli altri socialisti borghesi.

Per Marx, come per noi, ogni società in cui domina il valore di scambio sviluppato è una società capitalista, così come ogni società salariata è una società capitalista.

L’importanza di citare Marx è una questione che non si pone, perché infatti egli sarà il punto di riferimento (bene o male conosciuto, secondo i casi) teorico principale dei bolscevichi, la vera «autorità» in materia, per tutti i protagonisti della pretesa «trasformazione socialista».

Si potrebbe obiettare a ciò che i testi citati non erano conosciuti dai bolscevichi[16]; noi ce ne siamo comunque serviti in questo testo per la chiarezza che apportano, per il loro carattere esplicito e il loro potere di sintesi del tema affrontato. Comunque queste testi si ritrovano un po’ ovunque nell’opera di Marx ed Engels, come ha sufficientemente dimostrato Bordiga, ad esempio, nei suoi vari e diversi contributi sul tema. Inoltre, ciò che ha potuto rendere oscuro, a tale o talaltro bolscevico, il carattere non mercantile del socialismo, l’indissociabile unità tra valore di scambio, merce, denaro, lavoro salariato e capitalismo, non è il fatto di non aver letto i Grundrisse, né la mancanza di chiarezza degli autori classici nell’insieme dell’opera (queste tesi erano perfettamente chiare in Contributo alla critica dell’economia politica, Il Capitale, l’Anti-Dühring), ma piuttosto l’ideologia e i pregiudizi propri a tutta la socialdemocrazia internazionale e russa in particolare. Non possiamo assolutamente dimenticare in tutto ciò che seguirà, che i bolscevichi furono formati nella concezione borghese socialdemocratica del mondo, e che nella loro grande maggioranza consideravano le teorie di Marx ed Engels come equivalenti alle revisioni, riscritture, ritraduzioni e interpretazioni fatte dai capi della socialdemocrazia: le presentazioni del marxismo effettuate da Kautsky a livello internazionale e Plechanov in Russia, come se esse fossero identiche all’opera di Marx ed Engels!

 

Le debolezze della rivoluzione

 

In generale, ogni esposizione sulle possibilità di trasformazione economico-sociale in Russia comincia da un’analisi della povertà esistente in questo Paese, dalla «mancanza di sviluppo», o ancora dall’esistenza di strutture precapitaliste. Noi rigettiamo totalmente questo punto di vista.

In realtà, la povertà esistente nella Russia zarista non era dovuta alla mancanza di sviluppo del capitale nazionale russo[17] (e ancor meno alle sedicenti strutture non capitaliste) ma, al contrario, prodotta dall’effettivo sviluppo generalizzato e contraddittorio del capitalismo mondiale, il quale produceva da una parte la miseria, e dall’altra spingeva alla guerra imperialista, come si concretizzò nel 1914.

In più, contrariamente a ciò che si sostiene in genere, la borghesia mondiale possedeva in Russia un’industria molto concentrata e molto importante che, in piena epoca zarista, faceva della Russia la quarta potenza economica mondiale. Inoltre, la concentrazione del proletariato in città come Pietroburgo e Mosca era una delle più importanti del mondo. Evidentemente, la maggior parte della popolazione viveva nelle campagne, come non smettono di ripeterlo tutte le analisi descrittivistiche (antidialettiche, castrate dalle prospettive e dal progetto sociale rivoluzionario) che incentrano tutto sul «contadiname». Quest’ottica nega non soltanto il fatto che per la loro separazione da tutte le forme di proprietà (malgrado le molteplici forme giuridiche camuffanti questo rapporto, esso resta fondamentalmente basato sul lavoro salariato), dai mezzi e oggetti del lavoro, questa parte della popolazione sia composta da proletari, ma quest’ottica sopprime anche il movimento globale di opposizione al capitale nazionale e internazionale, movimento rivendicativo generale che abbracciava la campagna e la città, si opponeva a tutti i governi e che finì per costituire nelle strade, nelle fabbriche, nei comitati d’impresa, nei soviet e nell’esercito, la principale forza di decomposizione dello Stato borghese[18].

Negare questa costituzione generale del proletariato in classe, la quale ha condotto alla dinamica nelle città e nelle campagne («contadini» e «cittadini», brutale negazione della vita stessa con il linguaggio borghese!), è negare la storia stessa della costituzione dei soviet di operai e di soldati (anche questi soldati «contadini» venuti dalle campagne, obbligati a portare l’uniforme e che formeranno una parte decisiva del proletariato nelle azioni di disfattismo rivoluzionario), è infine negare la storia stessa dell’insurrezione russa!

È dunque un errore fondamentale spiegare i limiti della rivoluzione in Russia con il numero dei contadini (e con la loro importanza relativa nella popolazione), con la mancanza di sviluppo del capitale, o con il «feudalesimo». In realtà, il tentativo di rivoluzione non è mai stato determinato linearmente da uno sviluppo delle forze produttive, regione per regione, Paese per Paese, e le possibilità di trasformazione economico-sociali non furono in alcun caso maggiori in un Paese «più sviluppato» (per utilizzare i termini dell’opinione pubblica, cioè dei nostri nemici) che in Russia.

Questa spiegazione fu, come vedremo nel seguito di questo articolo, il pretesto generale utilizzato dal Capitale e dallo Stato borghese per giustificare, esprimendosi per bocca dei bolscevichi, tutta la politica economica contro il proletariato, contro la rivoluzione sociale[19]. Se la rivoluzione si è rivelata molto debole, con i bolscevichi al potere, per realizzare importanti cambiamenti economici e sociali, ciò è essenzialmente dovuto a due ragioni:

1 L’impossibilità generale di distruggere i rapporti mercantili in un solo Paese (vale a dire la totale opposizione tra «socialismo» e «Paese»), e lo sviluppo sfavorevole della correlazione delle forze internazionali nella contraddizione rivoluzione comunista o controrivoluzione capitalista (disfatte successive della rivoluzione negli altri Paesi e continenti).

2 Le debolezze programmatiche e organizzative della direzione internazionale e del proletariato in Russia così come l’insufficiente rottura a tutti i livelli con la socialdemocrazia (vedere paragrafi precedenti).

Bisogna sottolineare che questi due aspetti sono indissociabili e che si sono condizionati reciprocamente. La debolezza di organizzazione del proletariato in Partito internazionale, prodotto di decenni di controrivoluzione socialdemocratica, ha determinato la disorganizzazione generale, la disfatta Paese per Paese, e l’applicazione di una politica in favore della controrivoluzione capitalista in Russia.

La divisione metafisica tra elementi oggettivi e soggettivi, così spesso effettuata, non ha fatto altro che imbrogliare ancora di più i rapporti dinamici di una totalità complessa: la correlazione oggettiva delle forze integra e dipende dalla struttura, e dalla coscienza delle forze che si oppongono, vale a dire, dagli elementi soggettivi.

Questo è l’abc della nostra metodologia, non si tratta di contemplare il mondo oggettivo, «così com’è», come fa il materialista volgare, ma di concepire ogni correlazione di forze oggettive in quanto pratiche umane soggettive, rivoluzionarie e controrivoluzionarie[20].

Tutto il nostro lavoro sulla controrivoluzione e sullo sviluppo del capitalismo in Russia, e più in particolare l’esposizione specifica su questo Paese, ha come punto di partenza e come prospettiva una visione globale, internazionale di tutto il periodo. Né la rivoluzione, né la controrivoluzione sono «russe», né possono comprendersi senza una comprensione globale dell’interazione internazionale delle forze.

Questa è presente in tutti i nostri studî e sviluppi teorici e non può in alcun caso essere persa di vista, anche se in ciò che segue, ci concentreremo sulla concretizzazione delle contraddizioni mondiali in Russia.

Ora, studiare come la debolezza oggettiva del proletariato si è espressa e concretizzata in Russia, implica criticare la pratica soggettiva, la pratica volontaria, umana di quelli che pretesero dirigere la «rivoluzione», e che, in realtà, diressero la riorganizzazione capitalista controrivoluzionaria: il Partito bolscevico.

Il paragrafo precedente è fondamentale a questo riguardo, poiché abbiamo esposto la concezione generale della socialdemocrazia internazionale, e quella della socialdemocrazia in Russia, di cui i bolscevichi furono la frazione. Quest’ultimo paragrafo è dunque la conseguenza di questa concezione; è lo studio dei tentativi dei bolscevichi di applicare una politica economica e sociale coerente con la loro visione della transizione al socialismo.

La famosa parola d’ordine di Lenin condensa perfettamente quest’ottica socialdemocratica, e diverrà, d’altronde, una guida per la politica economica e per tutta la società:

«Il comunismo, è il potere dei Soviet più l’elettrificazione di tutto il Paese[21]»!!!

 

La politica economica e sociale dei bolscevichi al potere:

 

L’orientamento generale

Il proletariato aveva lottato contro il Capitale e contro la guerra, e aveva respinto in maniera violenta, e ogni volta più combattiva, tutti gli pseudo cambiamenti e ciò fino a spingere il partito più radicale ad assumere il potere: i bolscevichi. Tuttavia, questa autonomia, questa crescente combattività nelle strade, al fronte, nelle campagne… non era stata accompagnata da un rafforzamento della sua direzione (nel senso forte, storico, del progetto sociale), anche se sulla questione della violenza, della decomposizione dell’esercito, del terrorismo rivoluzionario, della cospirazione insurrezionale, si sono avuti dei progressi importanti. Malgrado ciò, le rivendicazioni sociali erano rimaste esattamente le stesse, cioè «il pane», «la pace», «la terra».

Fu questa ignoranza del progetto sociale rivoluzionario (distruzione del capitale e del lavoro salariato) ad avere un peso controrivoluzionario decisivo; e accompagnata dall’affermazione della necessità della dittatura rivoluzionaria, della violenza rivoluzionaria…, condusse il proletariato a una situazione tragica: a imporsi come direzione di una società, senza essere capace di dirigerla in relazione ai proprî interessi.

Il partito bolscevico fu il punto di incontro nel quale si concentrò questa contraddizione: e perché i poli di questa contraddizione vi scoppiarono in modo più chiaro e violento, e perché questo partito fu l’agente principale della risoluzione di questa contraddizione in favore della controrivoluzione capitalista. Da ciò deriva l’importanza fondamentale dello studio delle posizioni dei bolscevichi, così come della politica che questo partito condusse.

In quanto agente e interprete del proletariato russo e delle sue contraddizioni, il partito bolscevico, dopo molti dubbi ed esitazioni[22], finì per assumere insurrezionalmente la direzione della società.

Con le sue forze e le sue debolezze, esso sarà capace di spiegare direttamente la necessità della dittatura, e di assumerla, ma si mostrerà incapace di dirigere il proletariato con delle parole d’ordine rivoluzionarie e verso un progetto rivoluzionario della società. Ben al contrario, si accontenterà di promuovere al livello del «programma rivoluzionario» l’insieme delle misure democratiche borghesi (pace, pane, terra, democratizzazione dell’esercito, controllo operaio…), misure che gli operai desideravano[23] e chiedevano in special modo attraverso i soviet[24].

In generale, la prima fase del potere bolscevico è molto mal studiata, cosa che consente di mantenere il mito del «passaggio al socialismo». Infatti, se come riassumiamo nel nostro lavoro si tiene realmente conto della correlazione delle forze internazionali, dell’evoluzione dei rapporti di produzione, dell’ideologia, delle intenzioni e delle prime misure adottate dai bolscevichi, la tesi di una trasformazione economica socialista immediata alla «rivoluzione» del 1917 crolla. D’altra parte, lo studio di questo periodo ha un’importanza decisiva poiché tutti i grandi problemi, le decisioni, le opposizioni saranno definiti duranti questi primi anni, e il dispiegarsi successivo delle contraddizioni non sarà nient’altro che lo sviluppo di una situazione già esistente.

Di conseguenza, vediamo dunque quale fu la politica effettivamente difesa e applicata dai bolscevichi.

Dopo il controllo della situazione militare, i bolscevichi, coerentemente con la propria concezione e col desiderio della maggioranza operaia, annunciarono il proprio piano di governo. Nell’atto col quale Lenin dichiara ufficialmente la destituzione del governo provvisorio e il fatto che il «potere di Stato è passato nelle mani dell’organo dei soviet degli operai e dei soldati di Pietrogrado, al Comitato Rivoluzionario Militare che si trova alla testa del proletariato e della guarnigione di Pietrogrado[25]», si trova riassunto il programma che i bolscevichi tenteranno di mettere in piedi, programma per il quale «il popolo ha lottato», e che essi si impegnano dunque ad applicare.

Questo programma secondo Lenin e i bolscevichi era: «…l’immediata proposta di una pace democratica, l’abolizione del diritto di proprietà dei proprietari fondiari, il controllo operaio della produzione, la creazione di un governo dei soviet[26]».

Ciò voleva dire che, all’indomani stesso dell’insurrezione trionfante[27], si liquidava la lotta rivoluzionaria del proletariato contro il capitale e la guerra riducendo quest’ultima a un’assurda caricatura e fissandogli come obiettivo un insieme di misure di riorganizzazione della democrazia. Non una parola della lotta, della rivoluzione socialista, né del proletariato, ma la conferma di un programma timidamente riformista che il popolo deve rivendicare (il popolo, questo «soggetto» della storia che ogni borghese ha sulla punta della lingua per affossare il proletariato). È perciò assolutamente coerente quindi che Lenin non abbia indirizzato questo proclama di vittoria al proletariato internazionale, bensì ai «Cittadini di Russia» (negazione del carattere rivoluzionario e internazionalista del movimento e imposizione della bandiera populista, democratica e nazionalista).

Lo stesso giorno, il programma venne esposto da Lenin al «Secondo Congresso dei Soviet dei deputati e soldati di Russia»:

«Il potere dei Soviet

1. proporrà una pace immediata e democratica a tutti i popoli e un armistizio immediato su tutti i fronti;

2. assicurerà la restituzione, senza indennizzo, delle terre dei proprietari fondiari, dei nobili e dei monasteri, ai comitati dei contadini;

3 difenderà il diritto dei soldati procedendo alla democratizzazione totale dell’esercito;

4. stabilirà il controllo operaio della produzione;

5. assicurerà, in un tempo stabilito, la convocazione dell’Assemblea Costituente;

6. si preoccuperà di rifornire di pane le città e di beni di prima necessità la campagna;

7. assicurerà a tutte le nazioni che popolano la Russia il vero diritto di disporre di se stesse[28]».

 

Significato. Applicazione e progetto storico

Salta subito agli occhi che questo programma, – anche nella migliore delle ipotesi per quanto riguarda la sua applicazione –, non rimetteva assolutamente in questione il carattere capitalista della società russa. Tutti i miti concernenti la trasformazione socialista in Russia provengono sia dalla totale ignoranza della politica applicata dai bolscevichi, sia dall’occultamento sistematico del significato di ciascuno di questi punti e delle concretizzazioni storiche. Da ciò dipende, dunque, l’importanza di analizzare il carattere di queste misure così come dei loro risultati pratici.

Vediamole una per una:

 

1. «La pace immediata e democratica»

significava accettare il programma borghese e rinunciare apertamente alla consegna del disfattismo rivoluzionario[29], della guerra civile internazionale contro la guerra imperialista, per la quale il proletariato mondiale aveva lottato e con la quale, ovunque e anche in Russia, l’avanguardia rivoluzionaria internazionale si era identificata.

Nei fatti, ciò significava perpetuare l’illusione – inconsapevolmente o deliberatamente – che si potessero eliminare le guerre sulla base dei rapporti tra le nazioni.

Nei fatti, questa politica si applicò immediatamente con le trattative tra lo Stato in Russia, rappresentato dai bolscevichi, e lo Stato in Germania, rappresentato dai generali tedeschi[30], e si concretizzò negli accordi di Brest-Litovsk (febbraio 1918). Questo trattato, che nei fatti si situava nella continuità dei difesisti, pacifisti, socialisti borghesi, e non degli internazionalisti rivoluzionari, sarà il primo di una lunga serie condotta contro la lotta del proletariato internazionale, contro i suoi proprî interessi (specialmente in Russia e in Germania). Il capitale, in riproduzione in questi territori, rafforzerà i propri legami commerciali, finanziari e militari. Dopo numerosi tentennamenti, esitazioni ed andirivieni, questa stessa politica di pace democratica, cioè di ristabilimento dei rapporti di forza interimperialisti e di militarizzazione completa, condurrà lo Stato russo, diretto da Stalin, a mettersi, all’inizio della guerra capitalista, dalla stessa parte della barricata dello Stato tedesco diretto da Hitler.

 

2 L’espropriazione delle terre e la loro restituzione ai comitati di contadini corrispondeva alla canalizzazione e alla legalizzazione di una situazione di fatto: l’espropriazione e l’occupazione delle terre erano stati all’ordine del giorno durante gli ultimi mesi dell’azione e dell’agitazione rivoluzionarie. Durante l’inverno del 1917-1918, accelerata dall’appoggio effettivo dei soviet urbani, la maggior parte delle terre dei proprietari fondiari, dello Stato e della Chiesa venne riappropriata, così come alcune parti delle terre degli antichi «contadini ricchi»[31]. Ma al posto di orientare effettivamente verso la rivoluzione sociale una lotta che si era sviluppata oggettivamente contro il capitalismo in tutte le sue forme (cioè contro ogni sfruttamento e per la riappropriazione dei mezzi di produzione, qualsiasi fossero le forme immediate sotto le quali questo sfruttamento si concretizzava – salariato dichiarato, salariato camuffato nella piccola proprietà giuridica), i bolscevichi hanno fatte proprie le vecchie parole d’ordine, come «la terra ai contadini», comuni a tutti i partiti populisti; cosa che nei fatti rafforzava la piccola proprietà borghese e lo sviluppo anarchico del capitale in generale. Come in precedenza, nella misura riguardante la pace (giustificata dal fatto che non c’erano altre soluzioni), nessuno – e meno ancora quelli che conoscevano l’abc del marxismo, tra cui i bolscevichi – hanno osato qualificare queste misure come «socialiste», ma piuttosto come «concessioni alla piccola borghesia democratica», nella tattica dell’alleanza «operai, contadini». La socialdemocrazia, dall’epoca del gruppo «emancipazione del lavoro» (di cui il grande animatore fu il maestro di Lenin, Plechanov), aveva sempre criticato come utopica e reazionaria l’illusione di fare rivivere l’antica comune rurale e la piccola proprietà della terra, mettendo in evidenza lo sviluppo apportato dal capitalismo: «… trasportando nelle campagne tutte le contraddizioni della produzione di merci, la classe contadina si estenderà ancora più velocemente in due grandi campi contrapposti: una minoranza di sfruttatori e una maggioranza di lavoratori[32]».

La storiografia ufficiale o semiufficiale (come ad esempio Bettelheim[33]) sosterrà che il processo di espropriazione sarà condotto dall’antica comune, il mir, la quale si rafforzerà durante questo processo. Quest’ottica, non soltanto fa l’amalgama tra le due forme immediate distinte e preesistenti di organizzazione del lavoro[34], ma porta anche a ignorare apertamente la contraddizione principale capitale/proletariato; la soluzione adottata (la «rivoluzione agraria democratica») deviava l’espropriazione massiva verso una soluzione totalmente compatibile con il processo/sviluppo del capitale: la piccola proprietà mercantile.

In tal modo significava fare una «concessione» al proletariato agricolo affinché diventasse proprietario giuridico della «sua terra», e mantenerlo così nell’illusione reazionaria del ritorno alla propria comunità, alla ricostituzione della comunità perduta, il mir, cercando, così, di conciliarsi tutte le ideologie populiste e contadine e di recuperare la base sociale dei partiti populisti. Ma – e non poteva essere altrimenti – non si ebbe mai ricostituzione del mir, e allo stesso modo andò allorché gli operai confusero la rivoluzione con la riappropriazione delle «loro fabbriche»: in questo modo il Capitale ha potuto paralizzare l’impulso rivoluzionario del proletariato e riorganizzarlo sulla base della stessa illusione degli operai agricoli che credevano infine di riaver la propria terra (nel 1919, secondo le statistiche sovietiche riprodotte da Bettelheim, il 96,8% delle terre erano coltivate «individualmente», lo 0,5% per mezzo di cooperative agricole e il 2,7% da fattorie di Stato). Bettelheim stesso riconosce implicitamente che del mir, in quanto unità di produzione collettiva, non restava nulla, salvo che «è un apparato politico di ridistribuzione della terra, che assicura non una coltura collettivista, bensì “individuale”, e che di conseguenza ogni produttore fa ciò che vuole della sua produzione; può vendere i proprî prodotti e accumulare liberamente[35]». In più, il mir non poteva esser altro che una società mercantile del lavoro salariato e del Capitale e ogni confusione tra le unità di produzione capitaliste e l’antica comunità (confusione che esisté effettivamente a livello sociale e fu molto nefasta), non può servire che la controrivoluzione.

Molto rapidamente, queste misure di espropriazione, che canalizzarono la proprietà della terra verso la piccola produzione privata, si sono rivelate disastrose. Nell’estate del 1918, non si parlò più di estensione della produzione agricola, ma di disastroso ribasso, di penuria generale nelle città ecc. L’inflazione si generalizzò, le città furono inondate di biglietti coi quali non si poteva comperare nulla. I capitalisti agrari specularono; non avevano alcun interesse a vendere i proprî cereali (pagavano le tasse con carta moneta svalorizzata) e preferivano aumentare i proprî stock e speculare. Da una parte, i proletari, che per i decreti di fine 1917, erano stati i beneficiari ed erano divenuti proprietari di un appezzamento di terra, e in pieno apogeo dell’illusione «proprietaria», si sentivano difficilmente solidali con gli operai urbani che crepavano di fame, mentre dall’altra parte, la dimensione della loro «proprietà» era così minuscola che la produzione era insufficiente per esser commercializzata. Vale a dire che lo sviluppo della piccola proprietà si traduceva rapidamente in un nuovo acceleratore dell’inflazione, restringendo una parte notevole della produzione e sviluppando un cuscinetto sociale (temporaneo, ma questo fu un momento decisivo) che proteggeva il capitale. Fu in queste circostanze che i bolscevichi riaffermarono ciò che sosteneva Lenin nelle Tesi di aprile, cioè, di appoggiarsi sugli «operai agricoli e i contadini poveri» e chiamare alla costituzione di organi classisti e alla requisizione dei cereali. I bolscevichi passavano così da una politica che permetteva il trionfo capitalista sulla base della conciliazione[36], grazie alla promozione di strati intermedi (anche se nella pratica questi ceti non avevano prospettive economiche e sociali differenti da quelle del proletariato, essi si erano ben costituiti contro il proletariato sulla base dell’illusione della comunità perduta e del minuscolo appezzamento di terra), a un appello disperato alla lotta proletaria nelle campagne contro la borghesia. Secondo Lenin, la costituzione dei «comitati dei contadini poveri» significava il superamento dei limiti borghesi della rivoluzione, il passaggio dalla «rivoluzione borghese nella campagne», all’«edificazione socialista propriamente detta»[37]. Il proletariato agricolo, estenuato dalla guerra e dalla miseria, diviso più che mai (alle vecchie divisioni, erano state aggiunti i «nuovi proprietari»), non rispondeva favorevolmente a questo appello, e il tentativo dei bolscevichi si riduceva alla requisizione del grano, al rifornimento diretto centralmente ecc., cosa che lungi dallo sviluppare la lotta proletaria contro il Capitale, appoggiava lo sviluppo dell’opposizione tra gli abitanti delle città e gli abitanti delle campagne (gli agenti di questa espropriazione non erano i proletari e i loro soviet, ma lo Stato centrale e il proletariato urbano). Il capitale in generale e i proprietari dei «kulaki» in particolare furono i beneficiari di questa situazione, e ciò tanto più che questi ultimi, uniti ad altre forze controrivoluzionarie apparirono come i difensori del lavoro nelle campagne e della proprietà dei «contadini».

In termini più generali, questa politica (di cui descriviamo appena il tallone d’Achille nell’agricoltura) si fece conoscere sotto il nome di «comunismo di guerra» e si concretizzò in un nuovo e categorico insuccesso dei bolscevichi. D’altra parte essi lo riconobbero e passarono all’altro polo dell’oscillazione: la difesa aperta del libero commercio e della proprietà privata particolare agricola, conosciuta sotto il nome di nep (nuova politica economica).

In seguito, ritorneremo sul significato non comunista di politiche come «il comunismo di guerra» e la «nep».

L’importante ora è comprendere che tutta la politica agraria della Russia, dal 1917 fino a oggi, è figlia di questa politica tentennante della prima ora; si passava dall’appoggio alla proprietà privata particolare, con tutta l’autonomia di decisione che ciò implicava, all’imposizione violenta delle decisioni dello Stato contro ogni decisione delle unità produttive, e da questa politica a un nuovo riconoscimento aperto della proprietà privata particolare e all’apologia del commercio. Questa politica proseguirà nell’epoca stalinista e post-stalinista: (dall’apologia generale dell’accumulazione borghese privata: «ARRICCHITEVI», alla riattivazione della contraddizione tra le cooperative e la borghesia agricola tramite l’imposizione terrorista per le necessità del Capitale – concentrazione, centralizzazione – e dello Stato centrale – collettivizzazione – a una nuova fase di accumulazione basata sulle unità decentralizzate, le cooperative, l’autonomia finanziaria, il commercio ecc.), senza riuscire (non parliamo nemmeno di socialismo, pretesa assurda e ridicola in questo quadro ridotto alle sole contraddizioni tra frazioni del Capitale una volta sconfitto il proletariato rivoluzionario dalla scena della storia all’inizio degli anni ’20), senza neanche riuscire dunque a eliminare il problema dell’alimentazione della popolazione russa.

Oggi, nel 1989, l’economia capitalista russa non produce sempre abbastanza da nutrire i proprî abitanti (senza parlare della penuria di carne, ma soltanto di cereali) e continua a essere dipendente, per l’alimentazione in cereali, da altre potenze imperialiste, e dagli usa in particolare.

 

3. I diritti dei soldati e la democratizzazione dell’esercito era il terzo punto programmatico che Lenin annunciò in questa decisiva giornata del 25 ottobre. Così, in piena paralisi della guerra imperialista dovuta gli atti di disfattismo rivoluzionario, (tesi in precedenza difesa da Lenin), in piena distruzione pratica dell’esercito zarista (da ogni parte, i comitati dei soldati e i soviet rifiutavano di ubbidire agli ufficiali, arrivando perfino in certi distretti a fucilarli), Lenin proponeva la democratizzazione dell’esercito esistente e l’estensione dei diritti ai soldati. Al fondo, tutto questo non era nient’altro che verbosa demagogia corrispondente a una situazione reale nella quale l’indisciplina nell’esercito era generalizzata e si avevano dei soldati armati un po’ ovunque che rispondevano soltanto ai proprî comitati. Ma Lenin, come qualsiasi capo militare e dirigente esperto di questione militare, pensava che nessun esercito potesse funzionare senza una disciplina verticale.

L’importanza di questo punto programmatico non sta nell’analisi della sedicente «democratizzazione» e «estensione dei diritti ai soldati». Siccome non poteva essere altrimenti, l’esercito si ristrutturava su di una base verticale ridivenendo, così, l’agente dello Stato zarista, – dipinto di rosso (come Lenin stesso riconoscerà) – e permettendo a numerosi ufficiali zaristi di recuperare i proprî posti.

L’importante, invece, sta nel fatto che Lenin sopprimeva la propria consegna di liquidazione/distruzione dello Stato e dell’esercito, e vi sostituiva quella della democratizzazione, ed effettuava, così, una rinuncia programmatica gigantesca che lo sospingeva, una volta di più, al fianco di Kautsky. In Stato e rivoluzione, Lenin aveva criticato Kautsky sostenendo che: «In questo opuscolo (Rivoluzione Sociale), si parla tutto il tempo di potere dello Stato, senz’altro; vale a dire che l’autore dà una formula che costituisce una concessione agli opportunisti poiché si ammette la conquista del potere senza la distruzione della macchina dello Stato».

E Lenin insisteva incessantemente, nel suo scritto, sul fatto che occorresse distruggere, demolire, sopprimere tutti gli apparati dello Stato borghese. Per ciò che riguarda l’esercito, la sua posizione era netta: la soppressione dell’esercito e la sua sostituzione col proletariato armato.

Quanto ai funzionari, egli insisteva sulla riduzione dei loro redditi giacché nessuno doveva guadagnare più di un operaio.

Due mesi appena trascorsi, dopo aver scritto Stato e rivoluzione, e non era già più questione di demolire la vecchia macchina ma di democratizzarla[38], di accordare dei diritti democratici ai soldati. Un po’ più tardi, Lenin, valutava ogni divulgazione delle proprie vecchie idee sullo Stato inadeguata, giungendo finanche a opporsi alla diffusione, proposta da Bucharin, dell’«anarchico» Stato e rivoluzione. A partire da questo momento, ogni riferimento alla distruzione dello Stato fu perseguito e duramente represso, mentre Lenin si riavvicinava alla vecchia solfa socialdemocratica. Così, al tempo della propria conferenza «Sullo Stato», egli dirà: «Noi abbiamo strappato questa macchina (= lo Stato) ai capitalisti e ce ne siamo appropriati; con questa macchina o questo bastone, distruggeremo ogni sfruttamento[39]». Lenin era ritornato allo stesso livello rimproverato a Kautsky, il quale parlava sempre e soltanto di una conquista dello Stato; Lenin ammetteva la conquista senza la distruzione della macchina dello Stato.

La questione si fa più complessa; non è una concessione agli opportunisti, si tratta del Capitale che utilizza questi stessi opportunisti per presentarsi sotto un’altra spoglia.

Anche se consideriamo la questione dei funzionari, che non dovevano essere pagati più degli operai, possiamo osservare come questa risoluzione sarà capovolta, e ciò in pieno periodo di fame e di miseria, poiché Lenin difenderà la necessità di attirare, con l’aiuto degli alti redditi, i tecnici, gli amministratori e gli altri specialisti. E questa misura fu immediatamente applicata.

Nel 1920, Trockij, capo dell’esercito, metterà la parola fine all’illusione della democratizzazione dell’esercito col proprio scritto Disciplina e ordine, le cui direttive avevano già compiuta la loro funzione politica di menzogne, mentre, dal punto di vista militare, non potevano mantenersi. Trockij dirà allora apertamente che «l’elezione democratica degli ufficiali è stata abbandonata giacché era politicamente inutile e tecnicamente inefficace[40]».

La ricostituzione dell’esercito di difesa nazionale e di repressione operaia si operava molto rapidamente. Gli operai armati che avevano avuto un ruolo decisivo al tempo dell’insurrezione e nei giorni seguenti, saranno disorganizzati a beneficio del vecchio apparato dell’esercito, strutturato sulla base dell’arruolamento obbligatorio.

Alla repressione di qualche settore radicale del proletariato – che non aveva mai ceduto – si aggiungeva la massiccia repressione dei proletari di Pietrogrado, di Kronstadt e della ribellione machnovista[41]. Questa repressione fu diretta dai capi bolscevichi per spingere il proprio progetto di sviluppo del capitalismo (vedi sotto), al fianco degli ufficiali zaristi o sotto il plauso entusiasta dell’antica borghesia russa, rappresentata dai democratici costituzionalisti più notevoli, raggruppati attorno alla «Smiena Vej» la quale aveva capito che:

«I bolscevichi possono dire ciò che vogliono, ma, in realtà, questa non è una tattica ma un’evoluzione, una degenerazione interna, essi arriveranno a un comune Stato borghese e noi dobbiamo appoggiarli[42]».

 

4. Il controllo operaio della produzione

Tenendo conto della chiarificazione effettuata in precedenza sul significato dei 7 punti programmatici annunciati da Lenin, non c’è alcun dubbio che di questo insieme di misure borghesi di ricostruzione nazionale, la sola misura che pretenda dare una tinta operaia sia quella del controllo operaio.

Ma allorché ne osserviamo la reale portata storica, ogni contenuto realmente operaio si estingue, e del senso che i suoi protagonisti hanno dato a questa misura, pretesa applicata, non resta altro che una politica capitalista agghindata di rosso; la politica operaistica del Capitale.

Il controllo operaio della produzione equivaleva infatti al «controllo democratico del popolo lavoratore», che la socialdemocrazia aveva ereditato da Lassalle, e che fu violentemente criticato da Marx poiché come tale nulla ha a che vedere con il socialismo. Questa disposizione, secondo i suoi difensori, consisteva in «un insieme di misure destinate a dare alla classe operaia la possibilità di vigilare sull’uso dei mezzi di produzione… che devono funzionare tanto nelle fabbriche ancora appartenenti al capitale privato, che in quelle che sono state espropriate[43]».

Come se gli operai potessero controllare qualcosa in un processo di accumulazione i cui criteri – la valorizzazione – non sono da loro diretti, ma che al contrario dirigono gli operai!

Come se Marx non avesse dimostrato una volta per tutte che nella produzione di valore (e nessuno smentirà che ben di quello si tratta!), i produttori non controllano i proprî prodotti, più che l’impiegato i proprî mezzi di produzione, ma che sono i mezzi di produzione che controllano gli operai, gli impiegati!

Non si trattava affatto di dispotismo centralizzato del proletariato (principio fondamentale di Marx, Engels…) contro le determinazioni di valorizzazione e di sviluppo delle forze produttive in rapporto a questa determinazione (in ultima istanza il tasso di profitto).

Si trattava, al contrario, di fare in modo che fossero gli operai (criterio sociologico) ad assicurare la «produzione» in generale, «la vendita, l’acquisto di tutti i prodotti e materie prime»[44], ed è in pieno periodo di guerra e di miseria che essi dettero impulso allo sviluppo e alla centralizzazione delle forze produttive, che assicurarono la disciplina della fabbrica, l’ordine col lavoro, l’aumento della produttività e l’intensità del lavoro. Lungi dall’assumere la rivendicazione del valore d’uso, imponendone la dittatura contro il valore di scambio, e spinti dalla situazione di penuria, i bolscevichi obbligavano i comitati di impresa a giocare la doppia funzione di capomastri e di agenti dello Stato, per ricostituire il ritmo d’accumulazione del Capitale:

«In tutte le imprese di una certa importanza (dette “d’importanza nazionale”), i comitati di fabbrica diventano responsabili davanti allo Stato del mantenimento dell’ordine più stretto, della disciplina e della protezione dei beni – dice Lenin –: questa responsabilità grava sui rappresentanti eletti degli operai e degli impiegati nominati per esercitare il controllo operaio[45]».

In sostanza, la funzione del controllo operaio era chiaramente quella di riorganizzare la produzione aumentando il tasso di sfruttamento, ma, in più, gli era attribuita una funzione di controllo sui capitalisti la quale dava l’illusione che una tale misura fosse contro il capitalismo.

In queste circostanze di crisi sociale, economica e politica, ove lo schema di dominio si trovava rimesso in questione e in decomposizione, molti capitalisti privati, terrorizzati, organizzavano la fuga dei capitali (non soltanto verso altri Paesi, ma al di fuori del processo produttivo) e tendevano a occultare le reali possibilità di produzione, utilizzando il lock-out come meccanismo di opposizione politica e di sabotaggio del nuovo regime.

Di fronte a ciò, e data la confusione programmatica regnante e la mancanza di direzione comunista, la lotta del proletariato contro il Capitale sarà canalizzata (leggi liquidata) verso una lotta per il controllo operaio dell’accumulazione capitalista, una lotta contro i capitalisti sabotatori, contro i lock-out. Al posto di una guerra contro il Capitale, abbiamo allora una guerra contro i capitalisti che tradiscono i criteri generali del Capitale, una lotta contro gli speculatori che non tengono conto delle necessità generali dell’accumulazione capitalistica nazionale. In questo processo di lotta contro la frode, Lenin insisterà continuamente sull’abolizione del segreto commerciale e sull’apertura dei libri contabili.

Si trattava, evidentemente, di una contraddizione reale tra i capitalisti privati, la loro visione ristretta e immediata delle possibilità di accumulazione privata, la loro opinione politica, e le necessità generali del Capitale di riorganizzare il processo di riproduzione allargato a livello di tutto il territorio[46], utilizzando, per questo, il governo e l’energia delle masse operaie contro i capitalisti privati.

Le misure di controllo operaio adottate svilupparono ancor più queste contraddizioni, e convinsero i bolscevichi che il controllo operaio, per essere effettuato, doveva essere spinto fino alle sue ultime conseguenze, cosa che supponeva la nazionalizzazione generale e la centralizzazione del controllo operaio.

Il controllo operaio fu considerato da Lenin come «prima misura che prepara la restituzione completa delle fabbriche, delle officine, delle miniere, delle ferrovie e degli altri mezzi di produzione e di trasporto, allo Stato operaio e contadino»[47].

In questo senso, un’importante tendenza bolscevica nel movimento sindacale (Solomon Abramoviã Lozovskij) si esprimeva in favore della centralizzazione del controllo operaio. I comitati di fabbrica erano una struttura non centralizzata mentre i sindacati sì. Così emergeva una certa opposizione tra diverse organizzazioni per chi dovesse esercitare il controllo operaio: i comitati di fabbrica che sostenevano il controllo dalla base, e i sindacati la necessità della centralizzazione. Data la concezione dei bolscevichi, la situazione sociale particolare di sabotaggio dei capitalisti e l’illusione socialista della lotta contro di essi, fu la tendenza dei sindacati a rivelarsi dominante. Occorreva evitare, con ogni mezzo, di uscire da un’amministrazione privata che ignorava gli interessi generali dell’accumulazione nazionale, per cadere in un’altra amministrazione privata. I sindacati criticarono anche le decisioni centrali dei bolscevichi che «tendevano a perpetuare le imprese come unità indipendenti». Lozovskij, in quanto delegato sindacale del Comitato Centrale Esecutivo Panrusso, dichiarò:

«È necessario formulare le cose in una maniera assolutamente chiara e categorica affinché i lavoratori di ogni impresa non abbiano l’impressione che l’impresa possa appartener loro[48]».

Tutto spingeva i bolscevichi a tentare di fare una centralizzazione totale del controllo del Capitale, che si realizzò attraverso le massive nazionalizzazioni e i tentativi di centralizzazione del controllo operaio e di pianificazione dell’economia. In forma parallela e coerente con questa politica (si trattava anche si espropriare i capitalisti che sabotavano il processo e che speculavano), si praticheranno, nel settore agrario, delle requisizioni forzate di cereali. Si arriverà così a una situazione in cui l’unità di produzione, tanto nell’agricoltura che nell’industria, non aveva praticamente più capacità di decisione; lo stesso commercio venne ridotto al minimo, mentre si pretendeva che tutte le decisioni fossero assunte centralmente dallo Stato. Si trattava del periodo del «comunismo di guerra», enorme ondata di illusioni (come indica il nome stesso), e che continuerà finché la situazione diverrà così catastrofica da convincere i bolscevichi che, contrariamente alle loro intenzioni, non erano riusciti nel controllo del Capitale, cosa che li condusse ad adottare la nep.

Quando avremo concluso con l’analisi del significato e dell’applicazione dei 7 punti programmatici, ci fermeremo su questo tentativo supremo di controllo dell’economia capitalistica, non perché essa implicasse qualcosa di differente (nel senso non capitalista) dalle misure analizzate, ma principalmente perché questo tentativo è la fonte principale di numerose illusioni sul supposto cambiamento della natura sociale della Russia.

 

5. La convocazione dell’Assemblea Costituente

Non c’è alcun dubbio sul fatto che questa misura, come tutte le altre, è chiaramente una misura borghese e corrisponda alla ricostituzione dello Stato borghese. Dai cadetti agli zaristi, la borghesia aveva sempre parlato di Assemblea Costituente. Durante il periodo post-insurrezionale, più che mai, la borghesia si raccolse attorno alla richiesta di convocazione dell’Assemblea Costituente. Alcuni settori operai avevano sempre respinto questa consegna borghese. Nella pratica, i bolscevichi, se volevano accordarsi l’avanguardia rivoluzionaria, dovevano non soltanto abbandonare tale parola d’ordine ma anche accettare la dissoluzione dell’Assemblea Costituente. Fu ciò che storicamente accadde: la borghesia richiese il pieno funzionamento della Costituente, e i bolscevichi se ne assunsero la dissoluzione violenta effettuata dagli operai armati. Ma per difendere questa posizione contro la borghesia unificata, i bolscevichi dovettero, non soltanto fare un cambiamento «tattico» di 180° (giustificato tramite il superamento della tappa democratica e con l’inizio della tappa socialista), ma anche combattere una parte dell’ideologia democratica che aveva sempre allignato nei proprî ranghi. Infatti, i bolscevichi in generale e Lenin in particolare non avevano soltanto sostenuto la necessità transitoria dell’Assemblea Costituente (come sarà detto più avanti) ma, accentando tutta l’ideologia della democrazia, essi pretendevano difendere la «vera» democrazia contro le false, la «vera» assemblea che esprime «realmente» la volontà di tutto il popolo e che sia «realmente» «costitutiva». Infine, essi difendevano la «vera Assemblea Costituente» contro i settori che ne avevano fatto una rivendicazione vuota di senso. Così, Lenin sosteneva, nella difesa del programma del proprio partito, la socialdemocrazia:

«[…] ebbene, il proletariato combattente d’avanguardia della democrazia (sic) rivendica, giustamente la libertà completa; inoltre, è tanto più opportuno sottolinearlo che, precisamente nel momento attuale, vediamo dei monarchici, e più precisamente il partito detto “costituzional-democratico” coprirsi della bandiera della democrazia. Per instaurare la Repubblica, sarebbe necessaria un’Assemblea del popolo (sic), eletta necessariamente dal popolo intero (sic) [(sulla base del suffragio universale (sic), eguale (sic), diretto (sic) e a scrutinio segreto (sic)] e costituente (sic). È ciò che riconoscerà più tardi la risoluzione del Congresso. Ma essa non si limita a ciò. Per istituire un nuovo regime che esprima realmente la volontà del popolo (sic), non basta qualificare come costituente l’Assemblea dei rappresentanti, occorre ancora che questa Assemblea abbia il potere e la forza di “costituire”. Cosciente di questo fatto, il Congresso non si è limitato a formulare puramente e semplicemente, nella propria risoluzione, la parola d’ordine di “Assemblea Costituente”; esso ha precisato le condizioni materiali che sole permetteranno a questa assemblea di compiere veramente il proprio compito (sic) Era urgente, e indispensabile indicare le condizioni nelle quali un’Assemblea Costituente di nome, potesse diventare costituente di fatto (sic), giacché la borghesia liberale, rappresentata dal partito costituzional-monarchico, deformava scientemente, l’abbiamo detto diverse volte, la parola d’ordine di Assemblea Nazionale Costituente e la riduceva a una frase retorica (sic)»

Lenin, Due tattiche della socialdemocrazia nella Rivoluzione Democratica[49].

Chi legge si può dunque immaginare come in un partito formato nell’ammirazione imbecille e reazionaria di tutti i miti della «vera democrazia» (come se la vera democrazia potesse essere altra cosa dalla dittatura contro il proletariato) della «vera rappresentanza popolare» «eletta dal popolo intero» (come se il vero popolo potesse essere altra cosa dalla negazione dispotica del proletariato in quanto classe!), della vera costituente(!), del suffragio universale, uguale, diretto e a scrutinio segreto (come se la dittatura e l’oppressione capitalista fossero meno brutali grazie all’utilizzo di tali meccanismi e questi ultimi garantissero qualcosa al proletariato), il fatto di ammettere la dissoluzione della «vera» Assemblea Costituente non fu cosa facile. Ciò provocò anche una crisi profonda quando gli operai combattivi e armati posero (come dice Bordiga) al «sommo della sua intensità, la critica della democrazia col mezzo dell’espulsione di questa banda di canaglie che costituiscono l’Assemblea Costituente democraticamente eletta».

Ma prima di questa dissoluzione violenta, nessuno nel gruppo dei bolscevichi, neanche lo stesso Lenin, si era deciso a condannare in generale questa parola d’ordine borghese. Osservando come l’effettiva composizione dell’Assemblea Costituente fosse in maggioranza controrivoluzionaria, Lenin propose nelle Tesi sull’Assemblea Costituente[50] l’applicazione «generalizzata e rapida» del diritto del popolo di procedere a nuove elezioni dell’Assemblea Costituente», prova irrefutabile che il feticismo democratico, anche in piena effervescenza rivoluzionaria, regnasse signore e sovrano nel Partito bolscevico.

In quei giorni, vale a dire tra la fine di novembre e la prima quindicina di dicembre, mentre Lenin tentava di rimanere coerente con la consegna controrivoluzionaria sempre difesa e, in accordo con le proprie idee, tentava di sostituire l’Assemblea Costituente reale con un’altra esplicitamente sottomessa al potere bolscevico, l’Assemblea Costituente era rimessa in questione in piazza. Gruppi di proletari si ponevano in modo crescente il problema dell’assurdità di una tale parole d’ordine che, senza alcun dubbio, era un ostacolo dichiarato alla rivoluzione e un tentativo generale della controrivoluzione per riorganizzare lo Stato. Fu questa situazione che permise la dissoluzione dell’Assemblea Costituente e non, come si è sempre preteso, una direttiva dei bolscevichi.

Tra i gruppi che spinsero a questa dissoluzione violenta, si trovavano gli anarchici rivoluzionari di Mosca e di Pietrogrado, che rifiutavano, da sempre, questa parola d’ordine. Numerosi motivi indicano che essi non erano comunque i soli a volere questa dissoluzione e che gruppi di proletari, ogni volta più combattivi, tra cui i marinai di Kronstadt, chiamavano apertamente a ciò. A questo proposito non possediamo che un solo testo esplicito comparso sul settimanale anarchico «Goloss Truda»: «se i bolscevichi non avranno una forte maggioranza nella Costituente, oppure se vi si ritroveranno in minoranza, la Costituente sarà… un’istituzione politica inutile, […] social-borghese. Essa non sarà che un piccolo gruppo assurdo alla maniera della conferenza dello Stato di Mosca, della conferenza democratica di Pietrogrado, del consiglio provvisorio della repubblica ecc. S’attarderà in discussioni e in dispute vane e frenerà la vera rivoluzione. Se noi non esageriamo questo pericolo, è perché sappiamo che in questo caso le masse prenderanno una volta di più le armi per salvare la rivoluzione e spingerla sul suo vero cammino» (citato da Volin, La rivoluzione sconosciuta, I volume).

Nei fatti, la dissoluzione violenta dell’Assemblea Costituente si produsse per una serie di eventi contingenti. I bolscevichi, approvando un decreto al riguardo, legalizzarono l’atto allorché la dissoluzione si era già realizzata. Alla testa degli operai armati che dissolsero la Costituente, vi era Anatol Jelezniakoff, marinaio di Kronstadt, capo del distaccamento delle guardie della suddetta Assemblea.

La revisione della storia, effettuata più tardi, arriverà persino a negare la partecipazione decisiva di settori proletari non controllati dai bolscevichi, sia a riguardo della preparazione della coscienza proletaria contro la Costituente, che a riguardo dell’azione decisiva, considerata giustamente da Bordiga come il livello supremo della critica della democrazia e del liberalismo borghesi. Poco tempo dopo, – e non poteva essere altrimenti – si ebbe una sanguinosa repressione dei settori decisivi che avevano condotto questa critica (poco importa che si autodefinissero anarchici o meno), mentre i bolscevichi continuavano a rivendicare come propria questa dissoluzione. Col tempo, si tenterà di presentare un Partito bolscevico sempre cosciente di tali necessità e un Lenin intento a preparare segretamente (malgrado le proprie dichiarazioni) questo passo, così come uno Jelezniakoff diventato bolscevico convinto. E infatti, quando Jelezniakoff morì, i bolscevichi si incaricarono di precisare che sul letto di morte costui aveva rinunciato all’anarchismo e aderito al bolscevismo!

 

6. Rifornire le città di pane e le campagne di articoli di prima necessità,

costituisce il sesto punto del programma che i bolscevichi proclamarono dopo la conquista dello Stato. In realtà, non si trattava di una misura particolare, ma dell’auspicio che tutte le forze politiche avevano avanzato, compreso lo zarismo.

In pratica, nessuno dei governi, né quello zarista, né il governo provvisorio, né i bolscevichi, sono realmente riusciti a risolvere questo problema decisivo. Durante la prima fase del governo bolscevico, il problema sarà aggravato dalle requisizioni forzate (che spinsero, nello stesso tempo, a un ulteriore disinteresse per la produzione), per ritornare, in seguito, con l’introduzione della nep, a un livello simile a quello precedente l’insurrezione. Le contraddizioni rimarranno in attesa di soluzione fino a che Stalin le affronterà alla propria maniera attraverso la «collettivizzazione», sulla base dell’aperto terrorismo di Stato. Questa soluzione, non meno capitalista di quella delle requisizioni forzate delle prime ore, dimostrerà più che mai la barbarie generalizzata del Capitale.

In generale, adesso si riconosce l’esistenza di milioni di proletari sacrificati, di milioni di prigionieri nei campi di concentramento, ma ciò che resta sempre meno noto, è la FAME generalizzata che si produsse su una delle terre più fertili dell’Europa: soltanto in Ucraina i morti per fame, durante gli anni 1932-1933, si valutano a più di SEI MILIONI di individui. D’altra parte, abbiamo già detto che nel dopoguerra, l’agricoltura russa riusciva a mala pena ad alimentare la popolazione russa e che la dipendenza in cereali, e di conseguenza la dipendenza finanziaria che ciò comportava, continuava a costituire il vero tallone d’Achille di tutta la potenza imperialista russa.

 

7. Assicurare a tutte le nazioni che popolano la Russia, il reale diritto di disporre di se stesse.

«Il diritto delle nazioni a disporre di se stesse» non era una consegna avanzata a nome del socialismo, bensì del capitalismo. Questo fa parte, esplicitamente, della concezione socialdemocratica bolscevica tendente a rafforzare il Capitale, appoggiando i movimenti nazionali e tentando così di adattare, nel miglior modo, le separazioni politiche a ciò che essi idealizzavano come le esigenze del capitalismo moderno.

Il fondamento centrale della teoria di Lenin sul «diritto delle nazioni a disporre di se stesse», pubblicato nel 1914, era che «la formazione degli Stati nazionali che meglio soddisfano le esigenze del capitalismo moderno è di conseguenza una tendenza propria a ciascun movimento nazionale».

In pratica, questa consegna ha avuto come significato, da un lato il riconoscimento – in nome del proletariato trionfante – del diritto delle differenti borghesie nazionali a proseguire il proprio sfruttamento e oppressione del proletariato, e da un altro, la porta aperta alla partecipazione alla guerra imperialista in nome del movimento borghese nazionale. Ciò ha portato non soltanto a tradire e liquidare differenti movimenti insurrezionali del proletariato (in Ucraina, in Persia, in Cina …), ma anche a riconoscere e a patteggiare con i varî boia del proletariato (le «borghesie nazionali»). Così, ad esempio, l’insurrezione del proletariato persiano (diretto da Kutchuk-khan) è tradita e liquidata dai bolscevichi, con Lenin in testa (1920), cosa che faciliterà le relazioni diplomatiche tra i due Paesi, fino alla conclusione di una serie di trattati bilaterali tra la Russia e la Persia (1921).

Come regola generale, possiamo affermare che è questa posizione che ha permesso al governo russo di riconoscere e di negoziare con tutti gli Stati (giacché se ogni nazione può disporre di se stessa, può anche disporre del massacro degli internazionalisti), fossero anche i più sanguinari boia del proletariato, e ciò senza che i bolscevichi vi trovassero alcuna contraddizione.

 

Il tentativo di controllare centralmente l’economia capitalistica

 

Abbiano considerato le misure una per una, e abbiamo dimostrato come tutta la politica economica e sociale dei bolscevichi non andasse contro gli interessi del capitale in Russia, ma, al contrario, cercasse di riorganizzarlo per farlo uscire dalla crisi e spingerne lo sviluppo. Abbiamo visto a grandi linee come siano state applicate queste misure di riorganizzazione nazionale e a cosa abbiano condotto. In tutto questo non vi è un atomo di socialismo. Chiunque sia, avendo studiato da un punto di vista proletario questi primi anni della rivoluzione, non può parlare seriamente di socialismo. Il supposto cambiamento del modo di produzione, a partire dall’insurrezione, è una leggenda assurda.

Ma perché sia ancora più chiaro, dobbiamo vedere quale è stata la portata reale del tentativo supremo dei bolscevichi di controllare centralmente l’economia capitalista, tentativo che sarà alimentato dall’illusione di andare verso un capitalismo controllato totalmente dallo Stato «operaio», – anticamera immediata del socialismo –, o peggio ancora da un’identificazione totale tra socialismo, comunismo e controllo dell’economia, la cui natura profonda (produzione di valore) continua a essere la stessa. Prima di vedere in cosa è consistito questo tentativo di centralizzazione generale, è necessario chiarire alcuni punti.

Nessun rivoluzionario può fare un’opposizione di principio alla concentrazione e alla centralizzazione della società, poiché le decisioni decentralizzate delle unità di produzione (o da un altro punto di vista il federalismo) conducono irrimediabilmente alla perpetuazione del modo di produzione mercantil-capitalistico. Una dittatura del proletariato concentrerà tutte le decisioni in materia di produzione e di distribuzione, prenderà in conto quello che bisogna produrre e come, contabilizzerà e armonizzerà centralmente l’utilizzo dei materiali, pianificherà la produzione e, di conseguenza, la distribuzione delle forze produttive…Il problema non risiede nella centralizzazione in sé (posto che anche il capitalismo centralizza) che non contiene alcuna virtù salvifica intrinseca, ma piuttosto nel piano generale nel quale si inscrive questa centralizzazione, o meglio ancora nel progetto sociale reale (il capitalismo o il comunismo) che utilizza praticamente il meccanismo della centralizzazione per imporsi.

Nel caso dei bolscevichi, si è visto come tutto andasse nella direzione dello sviluppo del capitale, fase considerata necessaria e progressiva.

In seguito, si vedrà fino a che punto i bolscevichi, con Lenin in testa, faranno l’apologia totale del capitalismo e inscriveranno tutte le loro prospettive nel senso dello sviluppo di questo.

Il tentativo di controllare centralmente il capitalismo consisteva fondamentalmente in:

1 – generalizzazione delle nazionalizzazioni industriali[51] e requisizione dei cereali per alimentare le città;

2 – centralizzazione del Controllo Operaio (creazione del Consiglio panrusso del Controllo Operaio);

3 – istituzione del Consiglio Supremo dell’Economia Nazionale (vesenkha) per pianificare e dirigere centralmente l’economia.

Stabilito chiaramente come il piano d’insieme dei bolscevichi fosse quello dello sviluppo del capitalismo, non ci sono più dubbi sul fatto che questa politica di requisizione dei cereali, di approvvigionamento diretto dall’alto, di riappropriazione e di organizzazione centralizzata del trasporto degli alimenti, di messa in funzione delle imprese abbandonate dai padroni, ovvero ciò che si è chiamato il «comunismo di guerra», contrariamente a quello che il suo nome indica non avesse niente di socialista o di comunista. Indipendentemente dal Paese capitalista che realizzi questa politica in periodo di guerra o di penuria, si tratta della classica politica dello stato d’assedio a cui il capitale è costretto in una situazione d’emergenza.

Neanche la gratuità totale dell’alimentazione della forza lavoro, che è ciò che nutre maggiormente l’illusione del «comunismo di guerra», ha niente a che vedere con il socialismo, ma costituisce una necessità imperativa per la ricostituzione della produzione capitalistica: mantenere, costi quel che costi, la forza lavoro.

Per coloro che dopo Cuba, la Cina o l’Albania identificano la gratuità della sussistenza col socialismo, noi ricordiamo che questi esempi supremi di un tale socialismo della gratuità, si ritrovano in tutti gli eserciti del mondo, e in tutti i campi di concentramento dove gli alimenti, il vestiario, le cure mediche… si distribuiscono gratuitamente agli operai! La gratuità verrà abolita contemporaneamente al denaro (giacché l’una non va senza l’altro) e al socialismo borghese che la rivendica.

Quanto alla nazionalizzazione dell’industria, questa non modifica in nulla il problema. Come Marx ed Engels hanno sempre detto, il fatto che la proprietà passi nelle mani dello Stato non sopprime il carattere capitalistico delle forze produttive, ma al contrario rafforza lo Stato e permette un migliore sfruttamento. Prima di prendere il potere, i bolscevichi avevano perfettamente compreso l’opposizione esistente tra il capitalismo concentrato nello Stato e il socialismo. Nel 1915, Bucharin, ad esempio, ne L’economia mondiale e l’imperialismo (testo pubblicato in Russia soltanto a partire dal 1917) affermava: «Kriegsozialismus (socialismo di guerra) e Staatsozialismus (socialismo di Stato) sono dei termini utilizzati all’evidente scopo di indurre in errore e di dissimulare con una “bella” parola, la realtà delle cose che è lontana dall’essere bella. Il modo di produzione capitalistico si basa sul fatto che i mezzi di cui esso dispone sono monopolizzati dalla classe capitalista nel quadro dell’economia mercantile. Poco importa a questo proposito che sia lo Stato l’espressione diretta di questa “monopolizzazione”, o che essa sia consegnata all’“iniziativa privata”. In un caso come nell’altro, l’economia mercantile si mantiene (e in primo luogo il mercato mondiale); e cosa ancor più importante si mantengono i rapporti di classe tra il proletariato e la borghesia».

Ma ciò non ha impedito ai bolscevichi di utilizzare la «superba» espressione di «comunismo di guerra» e di mantenere la confusione: nazionalizzazione uguale capitalismo di Stato, uguale socialismo di Stato…uguale socialismo tout court!

L’importanza di demistificare le nazionalizzazioni sta nel fatto che è il solo aspetto di questo tentativo di direzione centralizzata che resisterà. In effetti, come sappiamo, tutta la politica di requisizione dei cereali, centrale nel «comunismo di guerra», sarà abbandonata e sostituita dalla nep. Quanto ai tentativi di pianificazione e di centralizzazione del controllo operaio, essi non si svilupperanno, malgrado la volontà e le illusioni dei bolscevichi, e con la nep si aprirà un periodo di regresso generalizzato.

Dapprincipio, i bolscevichi, e Lenin in particolare, speravano che il controllo operaio centralizzato costituisse l’elemento chiave della contabilità, delle statistiche e della pianificazione. È così che ne I bolscevichi sapranno mantenersi al potere? Lenin sostiene: «…il controllo operaio può diventare la contabilità più esatta e più minuziosa, – onnipresente, e che abbraccia tutta l’economia nazionale –, della produzione e della distribuzione…» e in Come organizzare l’emulazione egli insiste sull’«importanza decisiva del censimento e del controllo […] tappa economica essenziale di ogni Soviet dei deputati degli operai, dei soldati e dei contadini, di ogni cooperativa di consumo, di ogni associazione o comitato di approvvigionamento, di ogni comitato di fabbrica o di qualsiasi organo di controllo operaio in generale». È in questa stessa linea discendente che si creò un complesso sistema di relazioni gerarchiche tra i differenti comitati, il cui centro (almeno formalmente) era il «Consiglio Panrusso del controllo operaio».

Il Consiglio Supremo dell’Economia Nazionale, o veshenka, costituiva un passo in più in questa direzione[52]. Lenin sosterrà: «Noi siamo passati dal controllo operaio alla creazione del veshenka». La funzione attribuitagli era quella «di organizzare l’attività economica di tutta la nazione, e i mezzi finanziari del governo», e di costituire il dipartimento responsabile della direzione dell’industria nazionalizzata. A questo fine, il dipartimento era formalmente composto dai membri del Consiglio Panrusso del Controllo Operaio, dai rappresentanti di tutti i commissariati e da qualche esperto a titolo puramente consultivo. I poteri di questo dipartimento erano molto ampi: poteva confiscare, comprare, prendere possesso di qualsiasi impresa o branca della produzione o del commercio; era incaricato di centralizzare, di dirigere il lavoro di tutti gli organismi economici e di preparare le leggi e i decreti relativi all’economia e di sottoporli direttamente al Consiglio dei Commissari del Popolo. In termini territoriali, il veshenka era organizzato sulla base di sezioni regionali denominate «Consigli dell’Economia Nazionale» (sovnarkhov).

In pratica:

— il veshenka non riuscirà mai a giocare il ruolo che gli era stato assegnato di saper pianificare centralmente l’economia;

— in generale, sarà assorbito dall’amministrazione dell’industria nazionalizzata (amministrazione che, d’altra parte, sarà riconosciuta come totalmente inefficace);

— gli operai e i rivoluzionari si mostreranno molto meno abili dei capitalisti nel gestire il capitale (cosa che non ci stupisce affatto!), e il controllo operaio sarà uno scacco come riconoscerà lo stesso Lenin;

— del controllo operaio non resterà altro che il controllo degli operai da parte di delegati dello Stato (rovesciamento della delega attraverso il processo reale di direzione dello Stato esercitato dal capitale) che eseguono gli ordini corrispondenti alle necessità del capitale (cosa che ridicolizza la volontà dei personaggi del governo che tenteranno di controllare il processo);

— l’organo ideato per la centralizzazione del controllo operaio, il Consiglio Panrusso del Controllo Operaio, non riuscirà realmente a funzionare;

— il Veshenka, teoricamente formato dagli organismi di centralizzazione del controllo operaio e da militanti rivoluzionari, sarà composto rapidamente soprattutto da tecnocrati borghesi. In effetti, le discussioni sulla pace di Brest-Litovsk porteranno i comunisti di sinistra, Ossinsky e Bucharin, a rinunciarvi, cosa che aumenterà notevolmente il peso degli economicisti, come Larin e Miljutin, nel veshenka.

 

La lotta proletaria e le sinistre comuniste contro la direzione dello Stato

 

Il sentimento di frustrazione del proletariato agricolo e urbano in questa situazione storica di miseria, di guerra, di crisi e di drastico calo della produzione, senza paragoni in tutta la storia del capitalismo, era molto forte.

Non solo, il governo bolscevico non era riuscito a finirla con il capitalismo, la guerra, la fame, cosa che i proletari speravano, ma in più, continuava a difendere la politica economica del capitalismo, mentre si produceva un aggravamento generale della situazione del proletariato (aumento del tasso di sfruttamento).

Pertanto, era inevitabile che importanti settori del proletariato – che difendevano in modo intuitivo i propri interessi di classe, o per coscienza rivoluzionaria, o per tutte e due le cose insieme – lottassero contro lo Stato e criticassero violentemente la politica della direzione bolscevica. Perciò, contrariamente a quel che si sostiene di tale periodo, alla politica portata avanti dalla direzione bolscevica non si opposero solo gli ex capi d’impresa, i socialisti rivoluzionari di destra, i menscevichi, gli anarchici difesisti, i cadetti… ma anche il proletariato e la sua avanguardia, la sinistra comunista.

La storiografia ufficiale dell’urss, così come tutte le pseudo opposizioni allo stalinismo, per esempio il trockismo e la socialdemocrazia in generale, non hanno mai fatto altro che nascondere, sfigurare, occultare l’opposizione proletaria alla posizione bolscevica, non parlando che dell’opposizione democratica.

Non faremo qui un’analisi dettagliata della contraddizione tra il proletariato e la direzione del Partito bolscevico (che era contemporaneamente la direzione del governo, degli apparati economici, dell’esercito e della polizia), ma è indispensabile sottolineare che dopo l’inizio ci fu, in maniera crescente, un movimento proletario che si oppose fermamente alla politica difesa e applicata dai bolscevichi. (Vedere i testi specifici a questo proposito, in particolare Brest-Litovsk, testo apparso in «Le communiste» nn. 22-23, Kronstadt, «Le communiste» n. 24, La Machnovicina di prossima pubblicazione.)

Ciò che è importante capire è che questi movimenti di lotta contro il potere centrale, che si concretizzavano in scioperi, virulente critiche sulla stampa contro il potere centrale, manifestazioni, espropri non autorizzati, consolidamento di gruppi strutturati al di fuori o come frazioni comuniste del Partito bolscevico ecc., hanno avuto delle profonde implicazioni nella direzione della politica economica e sociale bolscevica. In effetti, questa è la ragione fondamentale dell’oscillazione permanente, del tira e molla della direzione dello Stato: dalla pretesa di far passare questa o quella misura (le nazionalizzazioni, il controllo operaio) come socialista o come passaggio al socialismo, alla difesa integrale di tutte queste misure come una necessità del capitalismo nazionale russo e viceversa; dalla difesa del «capitalismo di Stato» per lottare contro il «capitalismo privato» alla difesa di ogni capitalismo («statale» e «privato») per lottare contro la piccola proprietà; dal divieto totale e violento per gli operai di effettuare un qualsiasi esproprio senza autorizzazione (e quindi l’appoggio ai padroni), all’incoraggiamento senza mezzi termini degli espropri di tutti i padroni; dall’appoggio alle iniziative del proletariato (esempio: lo scioglimento dell’Assemblea costituente) alla repressione, ogni volta più sistematica, di ogni iniziativa non proveniente dalla direzione del Partito. Si potrebbe credere che queste oscillazioni fossero ancora il riflesso di una certa vitalità in seno al Partito e l’espressione, di tanto in tanto, degli interessi del proletariato, anche se la sua politica complessiva non poteva assolutamente essere considerata né proletaria, né comunista. Ma dimenticheremmo allora che da una parte queste oscillazioni, nel casino che era in quel momento il Partito bolscevico, erano di fatto il risultato di una unità senza principî, e dell’inesistenza di un programma veramente rivoluzionario (confronta la nostra critica della concezione socialdemocratica della transizione al socialismo, nel testo precedente), e che d’altra parte, qualsiasi governo borghese avrebbe fatto la stessa cosa di fronte allo scacco bruciante della politica che era stata applicata (nella semplice gestione del capitale!) e soprattutto di fronte alla lotta operaia. Non bisogna dimenticare altresì che le oscillazioni di questa politica si accompagnarono, dapprincipio con la repressione sistematica di ogni resistenza proletaria e contro coloro che non accettavano la disciplina nel lavoro (a partire dall’inizio del 1918), in seguito contro tutti gli anarchici (a partire dal 12 aprile 1918)… e ben presto in repressione contro le frazioni in seno allo stesso Partito bolscevico, che ebbe come suo punto culminante la repressione del proletariato di Pietrogrado in sciopero (febbraio 1921) e quella di Kronstadt[53].

Dobbiamo quindi tenere conto che ciò che si chiama ufficialmente «terrore rosso» comprende non solo elementi di terrorismo rivoluzionario contro il regime precedente, ma anche terrorismo classico contro il proletariato e la rivoluzione; terrorismo che non può essere chiamato dai rivoluzionari che con il suo vero nome: il terrore bianco.

In questo testo, centrato sulla politica economica e sociale dei bolscevichi e le sue conseguenze sull’evoluzione della società russa (la continuità capitalista), ciò che ci interessa di più della contraddizione sono le sue conseguenze sulla polemica socialismo-capitalismo così come il suo risultato storico concreto: la politica economica effettivamente applicata[54] e il fatto che questa polemica ha contribuito a chiarire la natura capitalista dell’economia russa.

Le espressioni più avanzate della lotta del proletariato contro lo Stato e contro la direzione del Partito bolscevico sono sorte non da un’organizzazione anarchica qualsiasi, ma dal Partito bolscevico stesso[55]. In generale, tutte «le opposizioni di sinistra»[56], «i gauchisti», accusavano i bolscevichi di difendere il capitalismo contro il socialismo: La prima opposizione comunista si costituì in contrasto alla linea di Lenin sulla pace con lo Stato tedesco. Questa opposizione che rifletteva, in maniera disordinata e primitiva, una grande opposizione del proletariato contro la direzione dei bolscevichi su questa questione cruciale, prese la forma di un gruppo che si esprimeva a partire dal periodico «Komunist», e i cui animatori più conosciuti furono: Smirnov, Ossinsky, Bucharin. Molto presto essa si trasformò in un’opposizione più generale a tutta la politica fin lì condotta e particolarmente grazie alla penna di Ossinsky che sosteneva, ad esempio: «Noi non appoggiamo il punto di vista della costruzione del socialismo sotto la direzione dei trust. Noi sosteniamo il punto di vista della costruzione della società proletaria sulla base della creatività dei lavoratori stessi e non sulla base dei diktat dei capitani d’industria… Il socialismo e l’organizzazione devono essere instaurati dal proletariato stesso. In caso contrario, non si riuscirà a fare niente. In luogo del socialismo, noi otterremo l’instaurazione di un’altra cosa: il capitalismo di Stato»[57].

Quanto alla politica di accordi con il capitale internazionale, congiuntamente alla realizzazione della rivoluzione in un solo Paese, i comunisti di sinistra, mostreranno una grande e premonitrice lucidità: «la rivoluzione operaia di Russia non può essere “al sicuro” se abbandona il cammino della rivoluzione internazionale, evitando senza posa lo scontro e retrocedendo di fronte all’avanzata del capitale internazionale, facendo delle concessioni al “capitalismo nazionale”. Da questo punto di vista, è indispensabile adottare risolutamente una politica internazionale di classe, cha parallelamente alla propaganda rivoluzionaria internazionale attraverso i discorsi e le azioni, rafforzi il legame organico con il socialismo internazionale (e non con la borghesia internazionale)[58]».

Malgrado la sua chiarezza su certi punti programmatici, questo primo gruppo non fu capace di opporre un progetto complessivo coerente e a causa di ciò scomparve rapidamente.

Tuttavia, questa prima opposizione fu la prefigurazione di quelle che sorsero negli anni seguenti, e le sue critiche ebbero delle importanti conseguenze. Abbiamo già detto che quando i membri di questa frazione rinunciarono a impegni di responsabilità, la predominanza tecnocratica negli organismi concepiti per la centralizzazione economica si ristabilì immediatamente. D’altra parte, fu la critica di questo gruppo che obbligò Lenin a spiegare la concezione d’insieme che guidava la politica dei bolscevichi e a dichiarare apertamente che si trattava di sviluppare il capitalismo (vedere più avanti). Inoltre, l’influenza dei comunisti di sinistra sull’adozione della politica dura del «comunismo di guerra», delle nazionalizzazioni ecc. non deve essere sottovalutata. Fu precisamente questa politica, oltre all’aggravarsi della guerra interna e alla severa critica di Lenin, che accelerò la dispersione della maggioranza di questo gruppo. Esso si sciolse per obbedienza e sottomissione all’appello all’«unità del Partito», ma anche perché si considerò parzialmente soddisfatto dall’adozione di questa politica pseudoradicale di esproprio. Anche Bucharin recederà nelle proprie critiche e scriverà Problemi del periodo di transizione in cui la politica economica e sociale non viene più tacciata di essere capitalista, ma considerata come adattata al cammino verso il socialismo. Non si criticava più «il capitalismo di Stato», ma soltanto il fatto di chiamare «capitalismo di Stato» quello che, secondo Bucharin, era il sistema della «dittatura socialista del proletariato»: «questo imbroglio ha raggiunto il suo parossismo durante e dopo la guerra. Esso si è prima di tutto concretizzato nella più grossolana confusione tra sistema del capitalismo di Stato e sistema della dittatura socialista del proletariato».

Riprendendo l’esempio di Ziperoviã, Bucharin irrideva il fatto che questi considerava la fase posteriore all’Ottobre come «una tappa del capitalismo di Stato».

Bucharin, di fatto, criticava Lenin (senza osare farlo direttamente), il quale aveva riconosciuto apertamente che le misure applicate «favorivano il capitalismo di Stato». Tuttavia Lenin era ben più vicino alla realtà (giacché in realtà, si sviluppava il capitalismo tout court), e le buone intenzioni di Bucharin si mescolavano a un insieme di illusioni sui rapporti tra le proprie misure e il vero socialismo, cosa che la realtà si incaricherà di dimostrare. Paradossalmente, qualche anno dopo, Bucharin sarà il più ardente difensore del capitalismo aperto e dichiarato, come in precedenza lo era stato Lenin.

Di questa prima frazione restò solo una minoranza che costituì, nel 1919, il gruppo del «Centralismo democratico» – i cui militanti più conosciuti furono Ossinsky e Sapronov –, il quale andrà a «battersi» al ix Congresso del Partito (1920) contro il principio della direzione unica, la burocrazia, la concentrazione dei poteri nelle mani di una minoranza… Questo gruppo era legato teoricamente e organicamente a un altro gruppo che aveva come dirigente principale Smirnov e che si opponeva alla politica militare burocratica di Trockij, il quale aveva riadottato l’esercito zarista come modello. Va da sé che questa critica ritardata che fece Trockij, in quel momento capo dell’esercito e del governo, considerava allora ogni critica della burocratizzazione come assurda e al servizio del nemico[59].

L’opposizione più conosciuta oggi è quindi quella che ha meno importanza da un punto di vista rivoluzionario. Si tratta dell’«Opposizione operaia» di Kollontaj, Schliapnikov, Medevev… che si opposero apertamente alla militarizzazione del lavoro e dei sindacati (posizione difesa da Trockij[60]), così come alla posizione di Lenin che voleva mantenere i sindacati nel loro ruolo classico. Di fronte ad essi, l’«Opposizione operaia» rivendicò la necessità di prendere direttamente in mano la produzione, la distribuzione, la centralizzazione e tutta l’organizzazione dell’economia. Benché tale opposizione non rappresentasse alcuna alternativa rivoluzionaria, essa si opponeva in generale a tutta la politica economica e perciò, nei fatti, godette (fino alla sua capitolazione vergognosa) di grande prestigio presso il proletariato industriale.

Mentre si svolgeva il x Congresso del Partito bolscevico, l’antagonismo tra i bolscevichi e il proletariato raggiunse un livello esplosivo. L’Opposizione Operaia era considerata controrivoluzionaria e, di fatto, minacciata di subire la stessa sorte riservata ai proletari e ai marinai del bastione rivoluzionario di Kronstadt. Di fronte a ciò la maggior parte capitolò e appoggiò la repressione. Solo una minoranza continuò un’importante e difficile lavoro di opposizione clandestina e costituì il nucleo iniziale dell’opposizione successiva.

Dopo questa ondata di repressione, i bolscevichi instaurarono la Nuova Politica Economica (nep), e si dichiararono apertamente a favore del commercio e del Capitale. A partire da questo momento, era chiaro che ogni disaccordo con la politica ufficiale portasse alla prigione e alla tortura; bisognava quindi organizzarsi in clandestinità. Non c’è dubbio che a partire da questo momento, si sviluppò un’importante opposizione clandestina, ma è molto difficile conoscerne le vere critiche e posizioni.

Ci è comunque possibile distinguere tre gruppi[61]:

— il gruppo «Verità Operaia», che pubblicò «Prolet’kult» e di cui il principale dirigente fu Bogdanov. Malgrado le sue proposte positive fossero chiaramente borghesi, dato che considerava necessario trasformare la Russia in un Paese capitalista progressista, egli era cosciente dello sviluppo degli irrimediabili antagonismi di classe, da una parte tra «la classe operaia disorganizzata… che conduce un’esistenza miserabile», e dall’altra tra la «nuova borghesia (i funzionari responsabili, i direttori d’impresa, gli uomini di fiducia, i presidenti dei comitati esecutivi) e i nepmen». Allo stesso tempo, egli era cosciente del fatto che i sindacati non erano più delle «organizzazioni di difesa degli interessi dei lavoratori», ma delle «organizzazioni per la difesa degli interessi economici della produzione, cioè del capitale di Stato prima di ogni cosa».

— Il gruppo dei «Comunisti rivoluzionari di sinistra», che si proponeva di costituire un vero «Partito comunista operaio», dato che le «principali preoccupazioni del Partito comunista russo erano i negoziati – e che – non c’era alcuna possibilità di riformare il Partito comunista russo dall’interno».

Allo stesso tempo, questo gruppo accusava l’Internazionale e la sua politica di compromesso con il Capitale, di essere uno strumento della «ricostituzione dell’economia capitalista mondiale».

— E per concludere, il gruppo più importante programmaticamente e storicamente, il gruppo «Operaio comunista» il cui dirigente più conosciuto fu Mjasnikov. (Abbiamo previsto un lavoro specifico sulla critica che questo gruppo realizzò della politica capitalista dei bolscevichi, che apparirà prossimamente nella rivista.)

Passiamo ora alla risposta «intellettuale» che i bolscevichi «ufficiali» e il loro capo Lenin fornirono ai comunisti di sinistra (non dimentichiamo che oltre a questa risposta intellettuale esisteva anche una repressione aperta), posto che essa costituisca l’esposizione più compiuta della logica d’insieme che guidava tutta la politica economica e sociale dei bolscevichi.

 

La logica d’insieme che ha guidato la politica economica e sociale dei bolscevichi: Lenin e la sua visione apologetica del capitalismo[62]

 

Lenin, come ogni buon dirigente populista, manteneva un doppio livello di discorso, uno per le masse, l’altro per i suoi simili, i dirigenti. Quando faceva un discorso pubblico utilizzava un linguaggio popolare e impreciso; si indirizzava al popolo, ai cittadini, facendo riferimento alla Russia delle «imprese socialiste», della «distribuzione comunista», del «viva la patria socialista», senza preoccuparsi dell’antimarxismo di questi argomenti. Era sufficiente per dirigere gli operai, verso i quali la socialdemocrazia si era data come compito di apportare la coscienza. Ma al contrario, quando Lenin si rivolgeva ai suoi compagni di Partito, non poteva più utilizzare questo linguaggio vago e populista, «ascientifico» e incompatibile con la «scienza marxista» che Kautsky e Plechanov gli avevano insegnato. Così, ad esempio, nel testo Sull’infantilismo della sinistra e le idee piccolo borghesi[63], scritto in risposta ai suoi avversari, Lenin è obbligato a essere più rigoroso, e deve spiegare, ad esempio, che «la difesa della patria socialista» è fondamentale al fine di legare le masse allo Stato, cosa che da un punto di vista marxista è un non senso. Lasciando credere agli operai che il socialismo avesse qualcosa a che vedere con la difesa della patria e facendo creder loro che la denominazione socialista avesse a che fare con l’ordine sociale ed economico che esisteva in Russia, Lenin li mobilitava. Di fronte ai suoi compagni di Partito, che irridevano questa formula, era invece obbligato a dichiarare che: «nessun comunista ha negato, sembra, che l’espressione Repubblica Socialista dei Soviet traduca la volontà del potere dei soviet di assicurare la transizione al socialismo, ma questo non significa in alcun modo che il nuovo ordine economico sia socialista». Per comprendere la logica profonda che legava tutte le misure portate avanti dai bolscevichi, bisogna prestare un’attenzione del tutto particolare ai testi che Lenin ha scritto per i suoi avversari, e principalmente, per quelli che si trovavano in seno al Partito. A questo proposito, esistono due articoli che ci sembrano fondamentali e nei quali si mostra la sua visione nel quadro globale della società russa e la politica condotta dai bolscevichi, vale a dire il testo che abbiamo menzionato Sull’infantilismo della sinistra e Sull’imposta in natura (che spiega la nuova politica e le sue condizioni)[64].

In questi testi, Lenin stabilisce chiaramente:

a) una definizione della società russa che farà epoca;

b) un’apologia del capitalismo di Stato che adotta come modello l’esempio tedesco;

c) una concezione molto particolare della contraddizione capitalismo comunismo e delle principali contraddizioni esistenti;

d) una strategia dedotta dai punti precedenti.

Riprendiamo ciascun punto in particolare:

 

a) La società russa

 

Lenin sostiene che nella società russa coesistono cinque formazioni di «tipo economico e sociale differenti»[65]:

1 – l’economia patriarcale, cioè in gran parte l’economia contadina naturale.

2 – la piccola produzione mercantile (che comprende la maggior parte dei contadini che vendono grano).

3 – il capitalismo privato.

4 – il capitalismo di Stato.

5 – il socialismo.

 

b) L’apologia del capitalismo di Stato

 

Lenin sostiene a questo proposito: «se le parole che noi abbiamo citato fanno sorridere è un ridere omerico quello che provoca la scoperta fatta dai “comunisti di sinistra” secondo i quali “se la deviazione bolscevica di destra” si affermasse, la Repubblica dei soviet rischierebbe di evolvere verso un capitalismo di Stato. Ecco lo spauracchio […] Ora, essi non hanno pensato che il capitalismo di Stato sarebbe un passo in avanti in rapporto all’attuale stato di cose nella nostra Repubblica dei Soviet. Se in sei mesi, per esempio, avessimo instaurato da noi il capitalismo di Stato, questo sarebbe un immenso successo […]

Il capitalismo di Stato è, dal punto di vista economico, infinitamente superiore alla nostra economia attuale […] Nostro dovere è di andare a scuola dal capitalismo di Stato dei tedeschi».

Possiamo osservare fino a che punto la concezione socialdemocratica impregnasse tutta la concezione dello Stato. Non solo Lenin era totalmente incapace di riconoscere la realtà generale del Capitale (che sussume attraverso la produzione generale di valori, tutti i rapporti di produzione immediati e particolari) ma in più, si inginocchiava di fronte al polo positivo del Capitale e considerava direttamente «il capitalismo di Stato tedesco» come il modello da seguire.

 

c) Le principali contraddizioni

 

L’analisi di queste mostra l’ignoranza dell’abc delle contraddizioni sociali:

«È evidente che in un Paese di piccoli contadini, è l’elemento piccolo borghese che domina e non può non dominare; la maggioranza, l’immensa maggioranza degli agricoltori è formata da piccoli produttori. L’involucro del capitalismo di Stato è squarciato qua e là dagli speculatori, essendo il grano l’oggetto principale della speculazione. È precisamente in questo campo che si svolge la lotta principale. Quali sono gli avversari che si affrontano in questa lotta, se parliamo usando categorie economiche come il capitalismo di Stato? Sono il quarto e il quinto elemento che ho enumerato? Certo che no. Non è il capitalismo di Stato ad essere qui alle prese con il socialismo, ma la piccola borghesia e il capitalismo privato che lottano, colpo su colpo, allo stesso tempo contro il capitalismo di Stato e contro il socialismo (…)

Loro (i comunisti di sinistra ndr) non vedono nell’elemento piccolo borghese il nemico principale contro il quale si scontra qui da noi il socialismo…».

 

d) La strategia globale

 

È normale che Lenin e tutti coloro che perseverarono in una tale concezione combattessero la piccola borghesia e assumessero la bandiera del capitalismo di Stato, identificandola ogni volta di più con il socialismo di Stato.

«Quello che predomina […], è il capitalismo piccolo borghese, a partire dal quale non esiste che un solo e unico cammino per pervenire sia al gran capitalismo che al socialismo (l’identificazione fa i suoi primi passi ndr) e questo cammino passa per la stessa tappa intermedia […], quando la classe operaia dovrà difendere l’ordine dello Stato (quale Stato? ndr) contro lo spirito anarchico della piccola proprietà, quando essa avrà imparato a organizzare la grande produzione a livello di Stato[66] sulle basi del capitalismo di Stato, essa avrà allora […] tutte le carte in mano e il consolidamento del Socialismo sarà assicurato».

È questa strategia di fondo che guiderà il Partito «comunista» russo dal 1917 fino ad oggi. In questo senso, non ci sono differenze fondamentali con il periodo staliniano: i bolscevichi, prima e dopo la morte di Lenin, non hanno avuto altro obiettivo che lo sviluppo del capitalismo.

La differenza tra i due periodi è ideologica: Lenin chiamava le cose con il loro nome, mentre all’epoca di Stalin, la necessità del Capitale e dello Stato era di sostituire la denominazione di «capitalismo» con quella di «socialismo».

Come Lenin stesso segnala, questa posizione di ammirazione reazionaria del capitalismo («di Stato») non era nuova per lui (né per nessun membro della socialdemocrazia), e già prima dell’Ottobre egli sosteneva: «Ebbene, sostituite questo Stato di Junkers e di capitalisti, di proprietari terrieri e di capitalisti, con uno Stato democratico rivoluzionario. Ovvero con uno Stato che distrugge rivoluzionariamente tutti i privilegi, che non ha timore di imporre rivoluzionariamente la democrazia più completa, e voi vedrete che in questo Stato veramente democratico e rivoluzionario, il capitalismo di Stato rappresenta inevitabilmente, infallibilmente, un passo verso il socialismo! Poiché il socialismo non è che la tappa successiva del monopolio capitalista di Stato o per meglio dire: il Socialismo non è altro che il monopolio capitalista di Stato, messo al servizio del popolo intero, e di fatto cessa di essere un monopolio capitalista di Stato.

Il capitalismo monopolistico di Stato è la preparazione più compiuta per il socialismo, la sua anticamera, un gradino nella scala storica sulla quale tra questi e ciò che è chiamato socialismo non ci sono gradini intermedi» (V.I. Lenin, La catastrofe che ci minaccia e come combatterla, 27 settembre 1917).

Questa citazione rappresenta molto bene la concezione controrivoluzionaria e socialdemocratica del passaggio al socialismo predominante in Lenin e nei bolscevichi. Per loro, tra il capitalismo e il socialismo, non c’è distruzione rivoluzionaria, soppressione dispotica di tutta la vecchia società, abolizione del salariato, del valore di scambio, negazione dei rapporti di produzione (di vita), né rivoluzione generale di tutte le determinazioni della società, che sostituisce alle forze produttive del Capitale, le forze produttive concepite sulla base delle necessità dell’umanità…, ma c’è semplicemente la loro messa al servizio del popolo, come sottolinea Lenin, volendo significare che questo socialismo non è di fatto che il capitalismo (il polo positivo del capitalismo sviluppato, industrializzato, monopolizzato, concentrato, centralizzato, statalizzato) amministrato dal popolo, attraverso uno Stato democratico rivoluzionario. È l’estremo tipico e reazionario della deviazione politicista.

Nel 1921, in Sull’imposta in natura, testo considerato fondamentale, Lenin cita, riprendendo parola per parola in varie pagine (principalmente quelle comprendenti le citazioni che noi abbiamo ripreso), lo scritto del marzo 1918, nel quale sono analizzate la società russa e la strategia da adottare[67].

Benché non ci fosse più l’ottimismo del 1918, Lenin ratificò integralmente il fondo dell’analisi: «gli argomenti citati, che datano dal 1918, contengono una serie di errori per ciò che concerne i termini previsti. Questi si sono rivelati più lunghi del previsto. Ciò non comporta nulla di particolare. Ma gli elementi fondamentali della nostra economia continuano a essere gli stessi»[68].

Il solo grande cambiamento che fa Lenin tra l’analisi del 1918 e quella del 1921 sta nel fatto che in quest’ultima non considera più «il capitalismo privato» (!) come nemico del «capitalismo di Stato» e del «socialismo»: adesso (nell’assurda costruzione di Lenin) anch’esso è passato dalla parte giusta della barricata, dalla parte del socialismo!

Il principale nemico continua ad essere «la piccola produzione» e la «produzione patriarcale», mentre, d’altra parte, esiste ora il «capitalismo privato venuto ad aggiungersi al socialismo e al capitalismo di Stato»[69].

Ma lasciamo parlare Lenin stesso: «bisogna sviluppare con ogni mezzo e ad ogni costo, lo scambio, senza temere il capitalismo, dato che noi lo abbiamo troppo limitato a un quadro troppo circoscritto (con l’espropriazione dei proprietari terrieri e della borghesia in economia, con il potere degli operai e dei contadini in politica), a un quadro troppo moderato. Questa è l’idea fondamentale dell’imposta in natura, questo è il suo significato economico… questo potrebbe apparire un paradosso. Il capitalismo privato nel ruolo di sostegno al socialismo? Ma non è in alcun modo un paradosso, è un fatto di carattere economico assolutamente incontrovertibile. Si tratta di un Paese di piccoli contadini con dei mezzi di trasporto particolarmente vetusti, di un Paese che è uscito dalla guerra e dal blocco, e che è diretto politicamente dal proletariato, il quale ha in mano i trasporti e la grande industria; da queste premesse si deduce, inevitabilmente, l’importanza che ha in questo momento, in primo luogo lo scambio locale; in secondo luogo, la possibilità che il capitalismo privato presti il suo aiuto al socialismo (senza già parlare di capitalismo di Stato)».

Lenin Sull’imposta in natura

 

Continuità capitalista e confusione di Lenin

 

Possiamo affermare categoricamente – contrariamente a quanto si crede, o a ciò che ci vorrebbero far credere (non solo gli stalinisti, i trockisti, i socialisti… ma anche l’ala destra della borghesia del mondo intero) –, che negli anni successivi la rivoluzione del 1917, non si ebbe trasformazione socialista in Russia, ma che al contrario il sistema economico e sociale che continuò ad esistere fu il capitalismo. Se c’è una differenza tra i primi tentativi e la nep, non si tratta assolutamente di una differenza di forma o di una qualche gradazione di socialismo, né di un passaggio al comunismo che fa qualche concessione al capitalismo, ma al contrario, del passaggio da un tentativo (iniziale, ottimista, illusorio) di controllare il capitalismo grazie al controllo degli apparati di Stato, a un riconoscimento esplicito del ruolo dei bolscevichi al servizio dello sviluppo del capitalismo, accompagnato (lo vedremo alla fine) dal riconoscimento implicito del fatto che era il capitale che controllava lo Stato e non viceversa. L’adozione stessa della nep, implicava non solo l’apologia del capitalismo (privato e di Stato), ma anche l’inizio di un’autocritica (che si chiarirà più tardi) che consisteva nel riconoscere l’incapacità dei bolscevichi di pianificare il capitalismo, l’incapacità dello Stato di sopprimere la concorrenza, il commercio, il valore di scambio…

Ma per comprendere l’importanza cruciale dell’autocritica di Lenin e di tutte le sue implicazioni è necessario rileggere i testi ripuliti dalle confusioni concettuali introdotte da Lenin e proprie a tutta la visione socialdemocratica.

Dato che è impossibile qui argomentare tutti i punti[70], ci accontenteremo di affermare le principali tesi in materia, contro la visione dei bolscevichi in generale e di Lenin in particolare[71]:

1 – Se la divisione della società russa in cinque «formazioni economico-sociali» stabilita da Lenin, descrive una «realtà», si tratta di una realtà secondaria che ignora l’essenziale della realtà sociale in trasformazione, e che in più si inganna apponendo categorie eterogenee. Se per il momento mettiamo da parte l’elemento «socialista» (che accanto ad altre è, sia una categoria completamente diversa e che non può essere apposta, sia quindi un’aberrazione totale), possiamo ammettere che Lenin voleva descrivere i diversi tipi di rapporti immediati (contingenti, locali) di ciascun agente di produzione e di scambio. È così che vede «l’economia patriarcale», la “piccola produzione mercantile”, il “capitalismo privato” il “capitalismo di Stato”. Ma, dimentica che questa “realtà”, queste forme immediate di produzione e di scambio sono subordinate e incluse (in una parola, sussunte) nei rapporti generali di produzione e di riproduzione della società intera (non solo russa, ma mondiale) e che questi rapporti sono essenzialmente dei rapporti di valori!

2 – I rapporti di valori dominano, integrano tutte le forme particolari di produzione e di scambio delle cose. Il capitalismo non è, né può essere, assimilato ad alcun’altra forma di produzione di cose (e quando ci riferiamo a questo aspetto immediato del Capitale), non dovremmo mai dimenticare di indicare «modo immediato di produzione del capitale»; è per contro il modo generale di riproduzione della specie umana sottomesso alla dittatura del valore in processo. Nel capitalismo tutte le forme particolari di produzione e di scambio sono dei modi sussidiari di produzione e di riproduzione del Capitale.

3 – L’errore teorico di Lenin è gigantesco. Egli ha realizzato una ripartizione della globalità, senza comprendere precisamente la globalità in quanto tale, né le leggi di questa globalità (legge del valore, dell’accumulazione…). Questo lo ha portato a una rappresentazione completamente caotica della realtà concreta dove ogni particolare isolato obbedirebbe a delle leggi proprie. Nell’analisi di Lenin, i rapporti, le contraddizioni, sono introdotti a posteriori come rapporti tra i cinque elementi. Parafrasando Hegel, potremmo dire che Lenin fa come gli anatomisti, lavora con dei cadaveri[72].

Ciò che è abnorme, è la pretesa di spiegare lo sviluppo della vita fuori dalla sua organicità, attraverso le leggi delle differenti parti del corpo. Se gli anatomisti non hanno preteso una simile assurdità, Lenin non ha esitato a tentare di spiegare la società russa a partire da pezzi inanimati. Per Lenin ci sono i cinque elementi e in seguito le loro contraddizioni[73].

4 – Per conoscere la società russa, Lenin non ha neanche tenuto conto dei criteri di astrazione fondamentali:

a) Totalità: la totalità è una realtà differente da ciascuna delle sue parti; è necessario astrarre gli elementi accessori e concentrarsi sulla comprensione della totalità. Non solo non troveremo le leggi della totalità sommando le parti, ma troveremo quelle delle parti nella totalità. Ad esempio, è solo comprendendo il Capitale nella sua globalità che possiamo comprendere che ciò che Lenin chiama la piccola produzione mercantile (o capitalismo di Stato o socialismo…), non è altro che la riproduzione del Capitale.

b) Movimento, Negazione, Necrologia: nello studio della totalità dobbiamo concentrarci sulla sua trasformazione, o meglio ancora sul suo movimento, sulla totalità come movimento, sulla totalità autonegantesi. La chiave nello studio della società capitalista è lo studio delle contraddizioni del capitalismo che conducono alla sua soppressione violenta. Gli economisti studiano la biologia del Capitale, noi studiamo la sua necrologia, e anche se ciò sembra paradossale, non possiamo comprendere il capitalismo (la biologia, l’anatomia del sistema) che come sistema contraddittorio che produce la propria negazione violenta, la propria morte (necrologia).

Lenin non comprende neanche il socialismo come negazione brutale del capitalismo, ma lo concepisce, come abbiamo visto, come un prolungamento logico del capitalismo. Non poteva quindi comprendere la totalità – il capitalismo mondiale – come movimento.

c) Contraddizione: ogni totalità è contraddittoria, il movimento è contraddizione, la totalità è sempre contraddittoria nel movimento di negazione. Lenin non ha capito la totalità, né le sue leggi, né le sue parti, né il movimento di negazione di questa totalità, né la contraddizione come centro della totalità. Al contrario, ha sommato le parti alle quali ha attribuito delle leggi e ha tentato di definire le contraddizioni a partire da queste. Questo, accompagnato da una visione che identifica il socialismo con il capitalismo centralizzato e amministrato dagli operai, lo porterà, con i bolscevichi, a perdere completamente di vista la contraddizione capitalismo comunismo, considerando il capitalismo alla stessa stregua del socialismo, e come nemico il precapitalismo.

5 – La «realtà» descritta da Lenin è una realtà castrata, propria alla negazione della totalità. È ciò che accade ogni volta che il capitalismo viene studiato senza tener conto della sua necrologia, della sua negazione violenta da parte del comunismo organizzato in Partito. È lo stesso genere di «realtà» del tipo che descrive le classi sociali, non sulla base del divenire del progetto sociale, ma sulla base, per esempio, del livello di reddito. Marx ha finito Il Capitale non senza aver ridicolizzato questo punto di vista. Egli sostiene: «[…] i medici e i funzionari formano anch’essi due classi, poiché appartengono a due gruppi sociali distinti […]. Possiamo dire la stessa cosa dell’infinita diversità di interessi e di posizioni che la divisione del lavoro sociale fa nascere tanto tra gli operai che tra i capitalisti e i proprietari terrieri. Questi ultimi, per esempio, sono divisi in proprietari vinicoli, proprietari di terreni coltivabili, proprietari di boschi, proprietari di miniere, proprietari di zone pescose».

Questa visione della realtà su cui Marx ironizzava, è quella che Lenin adotta per spiegare la società russa.

È la stessa «realtà» descritta dalla sociologia accademica, con le sue da cinque a dieci «classi sociali» e le sue da tre a sei “formazioni sociali” coesistenti. In ogni caso, in questa “realtà”, non esiste mai la negazione rivoluzionaria, la distruzione del capitalismo.

6 – Lenin fa un’associazione (propria a tutta la socialdemocrazia internazionale) tra il Capitale e il suo polo positivo: la grande industria, lo sviluppo… che altro non è che l’idea che il Capitale ha sviluppato di se stesso. È per questo che Lenin, nel bel mezzo della distruzione, considera che il capitalismo non esista più, per rinascere in seguito. Cosa che permetterà a Bordiga di tirare la sua famosa conclusione sull’esistenza di due capitalismi in Russia. Della polemica tra Lenin e Bucharin, Bordiga sottolinea le tesi seguenti: «noi assistiamo alla rinascita del capitalismo, all’evoluzione della sua prima fase».

E ciò consente a Bordiga di sostenere: «dialetticamente, la quantità appariva come qualità: un capitalismo ridotto a un chilogrammo d’acciaio per persona[74], ciò che è sufficiente per produrre dei chiodi, dei pennini, degli spilli per un anno, non è più un capitalismo. Non risale come sembrava, “quantitativamente”, ma rinasce a partire da uno sfondo sociale precapitalista. La Russia ha quindi conosciuto due capitalismi, e non un capitalismo rimpiazzato da un socialismo»[75]. Noi siamo d’accordo nel sottolineare l’importanza della trasformazione della quantità in qualità per affermare, ad esempio, che un’industria la cui produzione si riduceva a un chilo d’acciaio per persona non è più veramente un’industria; che quantitativamente questa non è più ciò che era, ma che rinasce. Ma noi consideriamo totalmente falsa l’identificazione dell’industria e del capitalismo. Il capitalismo non è soltanto l’aumento straordinario e folle delle forze produttive, ma anche e necessariamente la sua distruzione massiva e periodica. Più ancora, il capitalismo è essenzialmente l’unità contraddittoria, in processo, di sviluppo e di distruzione, di valorizzazione e di svalorizzazione. Noi respingiamo totalmente le tesi di Bordiga sui due capitalismi separati da una fase precapitalista. Quello che è accaduto in realtà, è che il ciclo generale del Capitale mondiale ha prodotto una distruzione e una svalorizzazine brutale dovuta alle sue contraddizioni. In Russia, come altrove, il capitalismo esistente è lo stesso vecchio capitalismo di sempre.

7 – L’incomprensione di Lenin della dinamica propria alla totalità lo conduce a cercare le contraddizioni laddove non ci sono[76], a opporre elementi che hanno essenzialmente lo stesso contenuto: il “capitalismo di Stato” e il “capitalismo privato”; il “capitalismo di Stato e privato ai rapporti di produzione piccolo borghesi”.

8 – Il capitalismo è – da quando esiste – una combinazione di proprietà particolari e di Stato, ma la sua natura è essenzialmente la stessa. Di più, anche il “capitalismo di Stato” priva i produttori dei loro mezzi di produzione. È per questa privazione che esistono i proletari, che per procurarsi i loro mezzi di sostentamento, sono obbligati a vendere la propria forza lavoro; è per questo che il salariato è mantenuto, e perciò non ha senso farne una categoria a parte. Si tratta “semplicemente” di capitalismo. Che le imprese e i mezzi i sfruttamento siano proprietà di singoli o dello Stato, il capitalismo è sempre privato.

9 – I rapporti di produzione che Lenin chiama «piccolo-borghesi» (o «produzione mercantile» e «economia patriarcale») sono sotto il capitalismo, produzione di merci e quindi sono sottomessi alle stesse leggi. La pretesa di Lenin è quindi assurda: «impiantando il capitalismo di Stato sotto forma di concessioni al capitale (straniero ndr), il potere sovietico rafforza la grande produzione contro la piccola, la produzione avanzata contro la produzione arretrata, la produzione a base di macchine contro la produzione manuale. Esso aumenta così la quantità di produzione della grande industria riunita nelle sue mani, e rafforza le relazioni economiche regolate dallo Stato come controparte di fronte ai rapporti piccolo borghesi anarchici».

Preconizzando il capitalismo (con ancora la pretesa di un capitalismo controllato dallo Stato), Lenin pretende di combattere l’anarchia dei rapporti di produzione, cosa che è giustamente una caratteristica inevitabile e inerente a tutto il capitalismo, «grande», «piccolo», «medio», «di Stato», «industriale», «agricolo», «monopolistico», «patriarcale», «usuraio», «piccolo-borghese», come dimostrò Marx nei confronti della «mano invisibile di Adam Smith».

10 – Da ultimo, dobbiamo introdurre questo quinto elemento che è «il socialismo», di cui abbiamo fatto astrazione fino ad ora. Lenin utilizza in generale questi termini (se teniamo conto della globalità della sua opera) per coprire in realtà «il potere socialista», «il governo socialista», lo Stato della «dittatura del proletariato», «il potere dei soviet». A fianco delle altre quattro «forme economico-sociali» di Lenin, questo elemento non è apponibile ed è qui completamente estraneo. Sarebbe, in questa accezione del termine, l’elemento politico che tenderebbe a controllare gli altri. Da qui segue la teoria dell’elettrificazione più il governo dei soviet.

Se la questione dell’«elemento socialista» fosse tutta qua ci basterebbe, alla luce dell’evoluzione storica della società russa, mettere in evidenza che questo elemento socialista non è mai stato altro che un elemento volontaristico, e che malgrado la volontà e le dichiarazioni socialiste del governo, questo si abbassava alle necessità del Capitale, come vedremo nel prossimo capitolo.

Ma a fianco di questa accezione «politica», Lenin utilizza il termine «socialista» e «comunista» dal punto di vista economico e sociale, cosa che porterà la confusione a un livello demenziale e permetterà ai suoi successori (Stalin, Trockij, Zinov’ev, Kamenev…) di sostenere che egli considerava che il capitalismo era stato economicamente superato dall’esistenza degli elementi postcapitalisti (Stalin, «socialismo in un solo Paese», Trockij «Stato operaio degenerato»). Molto spesso quando Lenin utilizza il termine socialista, da un punto di vista economico-sociale, lo fa riferendosi all’industria come base del socialismo. Benché questo serva alla teoria del socialismo in un solo Paese, in tutte le sue varianti, possiamo dire (come fa Bordiga) che in questo senso, è giusto parlare di «socialismo» e che in realtà, è vero che esistono in Russia le basi del socialismo. In effetti, le basi del socialismo e il capitalismo… sono esattamente la stessa cosa, il capitalismo ha socializzato la produzione. Ma, per quanto concerne Lenin, lo stato di confusione andava molto più lontano e l’interpretazione di Bordiga – che prende atto che Lenin non ha mai ammesso l’esistenza di parti di socialismo nella società russa – è totalmente esagerata. Se non fosse così, Lenin non avrebbe mai classificato l’economia in cinque «formazioni economiche e sociali differenti», dalla forma patriarcale alla forma socialista.

La confusione di Lenin c’è sempre stata e si rivela nell’insieme della sua opera. L’identificazione economica tra capitalismo di Stato, controllato dagli operai, e socialismo-comunismo, è generale nella sua opera. D’altra parte, comparivano continuamente i sedicenti elementi economici socialisti esistenti in Russia, le «imprese socialiste», «la patria socialista»… Anche l’introduzione dell’imposta in natura che ristabilisce la libertà di commercio, dopo il suo pagamento, è considerata da Lenin come uno «scambio socialista».

«L’imposta in natura è una delle forma che permettono di passare da un “comunismo di guerra” molto particolare, imposto dall’estrema miseria, la rovina e la guerra, agli scambi socialisti regolari (sic). E questi ultimi costituiscono a loro volta delle forme della transizione dal socialismo (sic), con le particolarità ingenerate dalla piccola proprietà contadina tra la popolazione, al comunismo (sic)» (V.I. Lenin, Sull’imposta in natura).

 

Dittatura sul Capitale o dittatura del Capitale

 

Abbiamo visto che malgrado l’insurrezione proletaria dell’Ottobre 1917, che fa parte della più grande ondata rivoluzionaria internazionale che abbiamo conosciuto, non si ebbe la trasformazione anticapitalista (socialista, comunista), della società russa.

Malgrado la catastrofe della guerra e la risposta rivoluzionaria del proletariato, malgrado la riproduzione allargata negativa nel corso di più anni successivi, il proletariato non si è dotato di una direzione dispotica agente contro la dittatura del capitale. Nessuna delle misure adottate dai bolscevichi rimetteva in questione la continuità dello sviluppo del capitalismo in Russia.

Dal punto di vista classico (Marx ed Engels), la dittatura del proletariato comincia laddove la società non è più determinata dalle leggi del valore, della valorizzazione del Capitale, ma dal proletariato come classe dominante, ovvero allorché questo, in quanto Partito, è capace di dirigere e pianificare imperativamente la società. Il dispotismo del valore d’uso, della produzione per le necessità umane è l’elemento decisivo[77] contro la valorizzazione, contro «l’evoluzione del commercio». Ogni altra accezione dell’espressione “dittatura del proletariato” liquida il suo vero contenuto sociale rivoluzionario, e riduce la dittatura ai suoi aspetti di forma di dominio (e la conseguente concezione dominante opposta alla “democrazia”) di violenza, di forza armata di un dato governo.

Una società in cui i governanti e i pianificatori sono obbligati a seguire ciecamente leggi che non controllano, nella quale si contentano di fare stime rispetto al futuro… è una società nella quale i governanti e i pianificatori, anche se pensano di dirigere e pianificare, sono in realtà diretti, pianificati da un soggetto estraneo: il CAPITALE. In questa società lo Stato è necessariamente lo Stato capitalista. I governanti pensano di governare, dirigere, controllare, essere soggetti di decisioni, ma in realtà, non sono che marionette delle leggi immanenti al Capitale che essi non fanno che legittimare e amministrare.

Tutti i bolscevichi riconoscevano questo abc, almeno rispetto alla differenza tra l’economia mercantile e l’economia diretta dal proletariato, tra l’economia che l’uomo è capace di dirigere (amministrazione delle cose e una economia che dirige l’uomo, anche i governanti e i pianificatori). Stalin diceva: «ammettiamo che ci sia anche (sotto il sistema capitalista) qualcosa che somigli a dei piani. Ma questi piani non sono che pronostici, stime congiunturali, che non vincolano nessuno, e sulla base dei quali, è impossibile dirigere l’economia di un Paese. È tutto diverso con i nostri. I nostri piani non sono pronostici o stime congiunturali ma istruzioni a carattere obbligatorio e che determinano il corso futuro dello sviluppo economico del nostro Paese».

Per concludere, ci sembra fondamentale mettere in evidenza che il capitalismo non è riuscito a essere controllato, pianificato, diretto, come pretendevano i bolscevichi e che malgrado la volontà socialista, il proletariato, non ha in alcun momento diretto la società verso il suo progetto. Nel senso stretto del termine (se non vogliamo ridurre la dittatura del proletariato alla semplice applicazione della forza da parte di un governo «di operai»), è totalmente scorretto parlare di Stato proletario in Russia o di dittatura del proletariato. Il Capitale ha continuato a costituire la vera direzione della società, a esercitare la sua dittatura. Lo Stato capitalista (che non è altro che il Capitale organizzato in forza per il mantenimento del proprio dominio), malgrado fosse disorganizzato, colpito, occupato, non è stato distrutto.

I bolscevichi hanno preteso di controllare il capitalismo senza distruggerlo, cosa che è un’utopia reazionaria. Il capitalismo, per le sue proprie determinazioni essenziali (carattere anarchico) è ingovernabile. I bolscevichi tentarono l’impossibile; all’inizio in modo centralista, dispotico («comunismo di guerra»); in seguito, di fronte all’isolamento della Russia e allo scacco di una politica precedente, sotto una forma più liberale. Anche tutto quello che faceva riferimento alla distruzione dello Stato era stato ideologicamente abbandonato e proibito. Lenin, come abbiamo visto, era orientato verso la vecchia affermazione socialdemocratica che consiste nel prendere il potere dello Stato – considerato come una macchina, uno strumento, un apparato – di metterlo al servizio della rivoluzione. È importante sottolineare che è con questo stesso apparato, con questa macchina zarista, occupata dai bolscevichi, che Lenin pretende di dirigere e pianificare il capitalismo, proponendosi così non di distruggerlo, ma di ricostruirlo: (Il primo obiettivo) «si tratta innanzitutto di rifare il nostro apparato amministrativo che non vale assolutamente niente e che abbiamo ereditato interamente dal passato; in cinque anni di lotta, non abbiamo avuto il tempo di modificarlo seriamente, e non possiamo farlo».

Nello stesso testo, Lenin considera: «[…] impresa di tipo socialista propriamente detta (quella in cui) i mezzi di produzione così come la terra appartengono allo Stato (ovvero a questo stesso Stato che si era mantenuto integralmente! ndr)».

E Lenin continua ancora pretendendo che per passare al socialismo in Russia fosse sufficiente una rivoluzione culturale, basata sulle cooperative contadine: «[…] se potessimo raggruppare tutta la popolazione in cooperative, noi saremmo con un piede sul terreno del socialismo. […] oggi ci basta compiere questa rivoluzione culturale per diventare un Paese pienamente socialista» (V.I. Lenin, Sulla cooperazione).

Con delle simili confusioni alla guida del Partito bolscevico (si crederebbe di leggere Proudhon o Mao Tse-tung!), il risultato non poteva essere altro che la cieca obbedienza alle leggi del capitalismo. Qui, la grande differenza tra Lenin e Stalin è che il primo riconobbe che i bolscevichi non dirigevano ma erano diretti (senza peraltro comprendere che il vero soggetto storico è il Capitale), mentre il secondo no.

Di fronte all’Internazionale, Lenin disse così: «il difetto è nel nostro apparato statale. L’abbiamo ereditato dal vecchio apparato statale, ed è il nostro rammarico. L’apparato statale funziona spesso bene contro di noi». Allo stesso modo, in occasione dell’xi Congresso del pc (b): «[…] il nocciolo della questione, è che noi comprendiamo che questo è il capitalismo che possiamo e dobbiamo ammettere, ma inquadrato in una cornice (pretesa utopica, volontarista ndr) giacché questo capitalismo è necessario alla grande massa contadina e al capitale privato (vero soggetto e beneficiario ndr) che deve commerciare in modo da soddisfare i bisogni dei contadini. Bisogna fare in modo che il corso regolare dell’economia capitalista sia reso possibile, poiché questo è necessario al popolo, non sapremmo vivere senza questo (sic) […] ma voi, comunisti, voi, operai, voi, parte cosciente del proletariato che siete incaricati di governare lo Stato, sapreste voi fare in modo che lo Stato di cui vi assumete il carico funzioni come voi volete (sic)? Abbiamo vissuto un anno, lo Stato è nelle nostre mani; ebbene, sul piano della nuova politica economica, ha funzionato come noi intendiamo? No, e non lo vogliamo AMMETTERE. (Si direbbe che Lenin stia parlando ai suoi epigoni). Lo Stato non ha funzionato come noi l’intendiamo. E come ha funzionato? La macchina non ubbidisce: un uomo è seduto al volante, sembra guidarla (i bolscevichi e la loro burocrazia ndr), ma la macchina non va nella direzione voluta; va là dove la spinge un’altra forza (Lenin non può comprendere che il Capitale non è un semplice modo immediato di produzione, ma un soggetto storico!! ndr) – forza illegale (in realtà, del tutto legale ndr), forza illecita (ndr!), forza che viene da non si sa dove (ndr!) – dove la spingono gli speculatori, o forse i capitalisti privati, o forse gli uni e gli altri, (Lenin non aveva capito che il Capitale può spacciarsi per capitalista particolare specialmente quando ha il grande vantaggio di avere dalla sua i bolscevichi, ed egli continua a cercare i colpevoli ndr), ma la macchina non funziona completamente e molto spesso va del tutto differentemente da come se l’immagina colui che è al volante (Lenin prevede lo stalinismo integrale ndr) e che spesso cammina in modo completamente distinto (…e il suo scacco… ndr)». Lenin, Rapporto politico del Comitato Centrale all’xi Congresso del Pc(b), marzo 1922[78]).

— I bolscevichi basavano il loro progetto su un’utopia: non distruggere il Capitale, ma controllarlo attraverso lo Stato.

— Lo Stato che hanno occupato era il vecchio Stato zarista che non avevano distrutto e che hanno avuto molte difficoltà a riscostituire.

— Questo Stato non risponde alla volontà dei bolscevichi. Lenin ne è sorpreso, noi no: lo Stato continua a essere il Capitale concentrato.

— È del tutto normale che lo Stato segua inesorabilmente le leggi del Capitale, e questo indipendentemente dalla volontà di coloro che si trovano al governo o negli uffici della pianificazione.

— Come in qualsiasi altro Paese capitalista, malgrado l’elemento della volontà dei governi, non è la direzione e la pianificazione che decide della vita economica, ma la vita economica e la società mercantile generalizzata che dirigono e decidono la pianificazione.

— Chi governa l’economia? IL CAPITALE.

Una volta di più, citiamo Lenin: «Chi dirige chi? Rimetto in questione il fatto che si possa dire che i comunisti dirigono […]. A dire il vero, non sono loro che dirigono ma bensì loro che sono diretti[79]».

 

Bolscevichi: rivoluzione e controrivoluzione

 

Contrariamente a quello che vedono gli storici e le organizzazioni politiche (sovrastoricamente), i bolscevichi non sono né i buoni, né i cattivi della storia; essi sono, in realtà, i prodotti e gli agenti principali della contraddizione rivoluzione controrivoluzione. È nella fase ascendente della lotta del proletariato, che in questa struttura si cristallizza l’avanguardia del proletariato, detto altrimenti, sono i bolscevichi che costituiscono la direzione del proletariato. Nella fase discendente, il ruolo di direzione del proletariato che avevano i bolscevichi è stato decisivo nell’accettazione (in nome della rivoluzione) del programma di riorganizzazione del Capitale che, in ultima istanza, si impose. Anche nei momenti più forti della rivoluzione e della controrivoluzione, i bolscevichi sono una struttura contraddittoria e indecisa

Nell’Ottobre 1917, i bolscevichi si trovano alla testa del proletariato grazie all’azione di una frazione del tutto minoritaria in contrasto con tutta la vecchia struttura bolscevica.

Durante la riorganizzazione dell’economia capitalista russa contro gli interessi immediati del proletariato, è dall’interno di queste stesse strutture che sorgono i soli tentativi seri di un’alternativa rivoluzionaria.

Le posizioni contraddittorie non sono il risultato esclusivo di un cambiamento formale della direzione o del suo programma. Anche se è vero che tutti i suoi dirigenti fanno una virata di 180°, effettivamente delle rotture con la socialdemocrazia, per ritornarvi in seguito, la tesi della degenerazione del Partito o del suo tradimento è del tutto insufficiente, povera, per spiegare la ricchezza delle contraddizioni che sono in gioco.

In effetti queste posizioni contraddittorie esistono sempre e possiamo trovarle in filigrana nell’azione precedente alle posizioni adottate in seguito. Solo una struttura capace di scindersi dai menscevichi, di condurre una lotta intransigente contro la guerra (esempio a livello internazionale) ha potuto epurarsi e adattarsi alla nuova situazione per trovarsi alla testa del proletariato in lotta contro il governo provvisorio e la guerra imperialista. Ma questa affermazione è inseparabile da quest’altra: la politica controrivoluzionaria, di difesa del Capitale, portata avanti da bolscevichi era implicita in tutta la concezione di base, quella della socialdemocrazia.

Di fronte a tutte le spiegazioni dominanti che non vanno più lontano delle formule del tradimento o della degenerazione e che in ultima istanza concepiscono queste strutture come pure ed esclusive del proletariato in pieno capitalismo e che in seguito si vedono deluse davanti alla crudele realtà; di fronte a ciò, noi concepiamo i partiti formali come prodotti e agenti della contraddizione fondamentale. E questo anche se è difficile da far comprendere in un mondo abituato a ragionare in termini di buoni e cattivi.

Abbiamo molto insistito sulla debolezza della rivoluzione internazionale, della sua disfatta, per spiegare la politica di difesa del capitalismo dei bolscevichi. Benché questo sia assolutamente vero, bisogna completare dicendo che la difesa del capitalismo in Russia ha condotto inevitabilmente i bolscevichi a opporsi al comunismo come azione del proletariato in Russia e nel mondo, cosa che spiega da un lato lo sviluppo simbiotico dell’economia russa e dei suoi accordi commerciali e militari con altri capitali nazionali, e d’altra parte, l’abbandono fino alla liquidazione totale delle posizioni comuniste nell’Internazionale. La debolezza della rivoluzione si concretizza nella debolezza della direzione, nella debolezza dei bolscevichi, nella loro non rottura con l’ideologia controrivoluzionaria socialdemocratica e non può pertanto essere considerata come un semplice presupposto accidentale e oggettivo.

I bolscevichi al governo hanno preteso dei essere gli agenti del capitalismo e del socialismo nello stesso tempo, ma quando ciò che hanno preteso di conciliare e condurre insieme si è rivelato totalmente antagonista, hanno allora agito come gli agenti del Capitale, della controrivoluzione internazionale e nazionale. Nelle grandi lotte del proletariato contro i bolscevichi, le diverse analisi che esistono oggi comparano i programmi per mettersi sia dietro al governo sia dietro i rivoltosi. Per noi, non c’è alcun dubbio che i programmi formali degli insorti di Kronstadt, di Machno, gli scioperi di Pietrogrado… non fossero rivoluzionari. Ma anche se siamo in disaccordo con le bandiere del movimento, noi appoggiamo sempre la rivolta operaia contro il Capitale e il suo Stato . E si trattava esattamente di questo! La politica economica e sociale di difesa del capitalismo applicata dai bolscevichi doveva necessariamente entrare in contraddizione con gli interessi del proletariato. Gli interessi del proletariato si oppongono sempre al Capitale. Non è possibile sviluppare il Capitale senza essere agenti della controrivoluzione. I bolscevichi, sulla base della stessa concezione generale di Noske (sviluppare il Capitale in nome del socialismo), hanno finito per giocare lo stesso ruolo di cani sanguinari contro il proletariato.

La vecchia borghesia russa ha molto presto compreso questo enorme servizio reso dai bolscevichi e lo ha gridato ben forte. Bisogna dire in favore di Lenin che egli ha presentito il pericolo che, malgrado tutta la loro volontà, essi potessero giocare il ruolo di migliori agenti della controrivoluzione internazionale.

È per questo che quando i vecchi ministri, democratici costituzionalisti e interventisti, prevedevano l’avvenire con chiaroveggenza, Lenin riteneva che si trattasse di una verità di classe.

«Voi avete ricevuto un numero della “Smiéna Viekh” che dice senza giri di parole: “Da noi, non è del tutto così, sono delle idee che voi vi fate; in realtà voi vi rotolate sempre nella stessa melma borghese ordinaria dove le bandierine comuniste si agitano con ogni sorta di belle parole (che fantastica descrizione anticipata dell’epoca di Stalin, ndr) […] è molto utile vedere questa cosa scritta […] perché è effettivamente la verità di classe espressa brutalmente, apertamente, da un nemico di classe. “Io sono per il sostegno del potere dei Soviet in Russia” dice Oustraliov – benché sia un cadetto, un borghese, benché abbia sostenuto l’intervento armato – perché ha preso una direzione che va verso il potere borghese ordinario” […] questi franchi nemici sono utili, diciamolo onestamente. Le cose di cui parla Oustraliov sono possibili, diciamo senza ambagi, la storia conosce delle trasformazioni di ogni genere: in politica, contare sulla convinzione, la devozione e altre eccellenti qualità morali, non è affatto serio!!».

Lenin, Rapporto politico del Comitato Centrale all’xi Congresso del Pc(b).

 

«Le Communiste», Bruxelles, n. 28, dicembre 1988


Note

[1] È più corretto esprimere così la realtà poiché il vero soggetto non è la socialdemocrazia ma il capitalismo, come partito politico per i suoi operai.

[2] Queste affermazioni programmatiche non devono essere considerate soltanto come il progetto sociale di una classe o di un partito; esse sono il necessario sviluppo della guerra contro il valore implicata in ogni lotta operaia (opposizione immediata al tasso di profitto) così come è implicata la centralizzazione organica come maniera d’essere.

[3] Che il modo di produzione determini il modo di distribuzione, che il diritto (o altre ideologie) è l’espressione formale della relazione economica; che la politica, malgrado goda di una relativa autonomia, sia in ultima istanza determinata dall’economia…

[4] Gli epigoni di Lenin hanno spinto questa incomprensione ancora più lontano. Così, per Trockij, può esistere uno Stato operaio ove la società è diretta contro gli interessi operai (!!!), un modo di produzione socialista coesistente con un modo di distribuzione borghese (!!!), delle relazioni di produzione socialiste determinanti un diritto borghese (!!!)…

[5] Anche gli strumenti sono socialmente determinati e non neutri, ma questo dibattito supera l’oggetto del presente testo e la critica della socialdemocrazia. Quest’ultima non ha mai compreso che le forze produttive esistenti sono quelle del capitale e che benché esse costituiscano una base della rivoluzione (per la riduzione rapida della settimana di lavoro, ad esempio), dovranno essere, in ultima istanza, totalmente sostituite da altre la cui concezione sia legata ai bisogni umani e non alla valorizzazione del valore.

[6] Facendo astrazione dall’appoggio implicito o esplicito alla politica nazionale imperialista che la socialdemocrazia sosterrà dalla sua origine fino al 1914.

[7] Si sa che a questo riguardo Marx ed Engels difesero una posizione borghese nazionalista: il sostegno all’esercito e alla guerra dalla parte della Prussia. Engels finirà anche con l’auspicare apertamente la posizione «patriottica» adottata dalla socialdemocrazia nel 1914: «Nel 1891, quando sembra imminente lo scatenarsi di un conflitto tra la Germania, da un lato e la Russia e la Francia dall’altro, Engels assicura a Bebel e agli altri dirigenti socialisti che se la Germania è attaccata “ogni mezzo per difendersi è buono”: essi dovranno “lanciarsi contro i russi e i loro alleati chiunque siano”. Potrà anche succedere, sostiene Engels, che in questo caso saremmo l’unico partito bellicista vero e deciso» (Pedro Scaron, “Introduzione” a Karl Marx – Friedrich Engels, Materiali per la storia dell’America Latina, le citazioni provengono da mew, t. XXXVIII, pp. 176, 188, 196).

[8] In realtà, soddisfatto della canalizzazione statale e borghese (sostituzione dello zarismo con un governo di tutta la borghesia) che, di fatto, esprimeva la volontà generale del capitale di deviare e liquidare la vera rivoluzione proletaria che sarebbe emersa.

[9] Il proletariato era identificato con l’operaio urbano, abitante nelle grandi città. Quest’ottica sociologica è tipicamente socialdemocratica. Così, non soltanto si definisce il proletariato come una classe in sé, senza tener conto della sua dinamica di lotta (né del suo progetto sociale e della sua costituzione in partito), ma in più, si ignora il potenziale socialista del proletariato agricolo, base dell’esercito zarista e della sua decomposizione sovvertitrice. Quest’ultimo era definito con la categoria dei «contadini» e gli era attribuita, come prospettiva, la parola d’ordine «la terra a colui che la lavora».

[10] La posizione di Trockij della «Rivoluzione permanente» (che, malgrado le espressioni formalmente simili, è differente da quella di Marx) secondo cui il proletariato potrà portare a termine, nello stesso tempo, le tappe borghesi e la propria rivoluzione, dimentica che le tappe borghesi sono la brutale e terroristica negazione del proletariato e del suo progetto poiché costituiscono la dittatura effettiva della valorizzazione del valore contro ogni tentativo di resistenza proletaria.

[11] Ciò è indissociabile dal fatto che almeno fino all’ottobre del 1917, solo la frazione Lenin fosse conseguente con il disfattismo rivoluzionario.

[12] Lasciamo da parte il fatto che il mito del «partito infallibile» e dei «vecchi bolscevichi» feci sì che si mantenesse l’unità formale di un’organizzazione formale totalmente contraddittoria, la quale non coincideva affatto con l’avanguardia reale del proletariato che aveva realizzato l’insurrezione, un’organizzazione che sosteneva in qualità di grandi capi, i traditori della vigilia (Zinov’ev e Kamenev), e che velocemente si trasformava in un vivaio personalista e individualista di lotte accanite per il potere.

[13] In realtà, se il produttore non è privato dei suoi mezzi di sussistenza (e di produzione) dall’appropriazione privata (particolare o di Stato), la vendita della forza lavoro è un non senso e quindi il lavoro salariato non può esistere; da qui, l’unità indissolubile della rivendicazione rivoluzionaria: «Abolizione della proprietà privata», «Abolizione del lavoro salariato».

[14] Il revisionismo, per quel che concerne l’opera di Marx, ha liquidato in generale l’importanza decisiva del denaro e l’ha considerato per quello che era all’origine: un semplice mezzo (di pagamento, di acquisto, di circolazione). Ha perduto così la possibilità di comprenderlo: 1) In quanto fine, nella sua determinazione come mezzo di accumulazione che ingloba tutti gli altri; 2) In quanto rapporto sociale e comunità sussumente tutti gli altri modi di produzione immediati; 3) Infine, come soggetto storico trasformato in Capitale.

[15] Una società che necessita della socializzazione dei suoi prodotti rivela che la produzione non è concepita in forma direttamente sociale, ma in forma privata. In senso stretto, potremmo affermare che una società realmente socialista non avrà bisogno di alcuna «socializzazione». Parallelamente, una società nella quale non esiste il lavoro privato, né l’individuo cittadino atomizzati, non ha bisogno di alcuna mediazione, e non può d’altra parte esistere alcuna mediazione in questo caso: questa è un’altra angolazione per cogliere tutto quello che c’è di assurdo nel parlare di «socialismo democratico» o di «democrazia operaia».

[16] I Grundrisse, scritti nel 1857, furono pubblicati solamente nel 1939 dall’Istituto Marx-Engels-Lenin di Mosca.

[17] Questa teoria, che si immagina che lo sviluppo del Capitale si realizzi Paese per Paese, e secondo la quale ciascun Paese dovrebbe passare attraverso le stesse tappe, era la teoria fondamentale dei figli teorici di Plechanov.

Essendo il capitalismo un sistema che presuppone il mercato mondiale, porre la questione dello sviluppo nazionale è un non senso. Solo coloro che hanno rimesso in discussione questa tesi e hanno compreso il carattere mondiale del capitalismo e delle sue contraddizioni, hanno potuto sostenere, contro l’ortodossia della socialdemocrazia, la possibilità di una rivoluzione proletaria in Russia.

[18] È precisamente questo il proletariato, e non la dizione sociologica degli operai di fabbrica! In generale, malgrado l’importanza decisiva di questi, essi non sono che una minoranza nella costituzione del proletariato in classe.

[19] Esiste un’altra variante di questa falsa spiegazione, che si basa sul mancato sviluppo degli aspetti sociopolitici del Capitale e, principalmente, della «democrazia». Oltre alla confusione tra democrazia e forma parlamentare repubblicana del Capitale, questa spiegazione è tipica degli epigoni della socialdemocrazia: «più c’è democrazia, più ci avviciniamo al socialismo». Noi critichiamo questo punto di vista in tutti i nostri lavori.

[20] «Il principale difetto d tutto il materialismo passato, compreso quello di Feuerbach, è che l’oggetto, la realtà, il mondo sensibile, non sono considerati che sotto la forma di oggetto o di intuizione, ma non in quanto attività concreta umana, in quanto pratica, in maniera soggettiva… La coincidenza del cambiamento delle circostanze e dell’attività umana non può essere considerata e compresa razionalmente che in quanto pratica rivoluzionaria». (Karl Marx, Tesi su Feuerbach).

[21] Questo principio leninista costituisce ancora oggi la quintessenza della dottrina generale corrente dello Stato.

Nella definizione degli scopi essenziali di edificazione della società comunista, il programma del pcus dice che il Partito si orienta mediante la formula geniale di Lenin: «Il comunismo è il potere dei soviet più l’elettrificazione di tutto il Paese» (Documenti del xx congresso del Partito comunista dell’urss).

[22] Noi non dobbiamo dimenticare che il partito Bolscevico non ha mai chiaramente condotto una politica insurrezionalista e non ha mai concepito un’alternativa di potere esclusivamente proletario prima dell’esistenza della rivoluzione in altri Paesi.

Lenin stesso, nel settembre 1917, si faceva molte illusioni su una «uscita pacifica» di conciliazione con i partiti pseudo-operai (menscevichi e socialisti rivoluzionari). Non dobbiamo dimenticare per altro che l’insurrezione è stata fatta con una struttura relativamente nuova e con l’opposizione della vecchia struttura e dei vecchi bolscevichi.

Infine, non dobbiamo dimenticare che anche dopo l’insurrezione trionfante, una parte importante del Partito bolscevico e della direzione era ancora contraria e proponeva di tornare indietro e di creare un governo di «tutti i partiti operai».

[23] O per meglio dire, il «popolo». In effetti, i soviet non sono stati delle organizzazioni del proletariato che in quanto polo di vita, di cospirazione e di lotta contro la borghesia. Questa realtà coinvolse solamente una minoranza dei suoi componenti e questo durante un breve periodo; sia prima che dopo l’Ottobre, quando assolsero la funzione di consiglieri governativi, che cercavano l’uscita dalla crisi, quando si trasformarono in organo di gestione e di inquadramento dei lavoratori, di controllo del lavoro, essi costituirono dei reali consigli popolari statali, attraverso i quali il Capitale manteneva una certa coesione e conduceva la sua politica. È per questo che il suo sviluppo è stato parallelo e simbiotico a quello dei sindacati, che avevano in molti casi, gli stessi membri e un progetto corrispondente.

È in questo senso che i soviet si preparavano già a giocare il loro ruolo successivo e costituiscono i predecessori dei cdr di Cuba o di non importa quale sistema di mobilitazione popolare (le «comuni» in Cina, «Sinamos» in Perù…) dello Stato «socialista».

[24] È debole considerare i soviet come rivoluzionari e i bolscevichi come dei manipolatori. in realtà, i bolscevichi applicheranno la politica maggioritaria desiderata dai soviet, ed eccetto l’esperienza limitata e i tentativi delle sinistre comuniste in Russia, (su un altro versante fondamentalmente bolsceviche), tutte le proposte «alternative» conducevano anch’esse al capitalismo.

[25] Ai cittadini di Russia.

[26] Ibidem.

[27] Erano le 10 della mattina del 25 ottobre 1917. In realtà, l’insurrezione si era concretizzata il giorno e la notte precedente; ma è solamente all’inizio di questa mattinata che Lenin ebbe sufficienti informazioni per capite che il potere era stato preso dal Comitato Rivoluzionario Militare del Soviet.

[28] Lenin, Agli operai, ai soldati, ai contadini, nel corso del ii Congresso dei Soviet. Abbiamo aggiunto una numerazione per facilitare l’analisi che segue.

[29] Non insisteremo qui su questo aspetto fondamentale dato che abbiamo già pubblicato un testo specificatamente su questo soggetto, vedere Brest-Litovsk in «Le Communiste», n. 22-23.

[30] Senza contare i tentativi di riavvicinamento politico-militare con gli alleati, durante i mesi di novembre e dicembre 1917, così come nel gennaio 1918. In effetti, durante i primi mesi insurrezionali, Trockij e Lenin hanno, con l’intermediazione di Jaques Sadoul (della Missione Militare Francese), moltiplicato gli appelli alle Missioni Alleate (e attraverso di esse, alla borghesia, ai governi e ai generali di Francia, dell’Inghilterra, degli Stati Uniti…) al fine di ottenere il loro aiuto nella «riorganizzazione dell’esercito russo». Data la diffidenza generalizzata della borghesia degli Stati Alleati (e la proposta di negoziati tra i bolscevichi e l’altro blocco imperialista, i generali tedeschi), che si concretizzò con la brusca partenza di tutti gli ambasciatori alla fine del febbraio 1918, la collaborazione militare dei bolscevichi con le potenze alleate non riuscì a materializzarsi, malgrado il «cordiale colloquio» (5 dicembre 1917) in questo senso tra il Commissario del Popolo agli Affari Esteri (Trockij) e l’ambasciatore di Francia (Naouels), e malgrado le dichiarazioni di quest’ultimo: «nella vostra resistenza contro la Germania, potete contare sull’appoggio militare e finanziario della Francia» (cfr. a questo proposito Jaques Sadoul, Note sulla Rivoluzione bolscevica).

[31] Non ci sono delle cifre affidabili sulla percentuale di terre espropriate, è su quelle che lo sono state prima o dopo il 25 ottobre 1917. Quello che sappiamo, e che si trattava di più della metà delle terre, poiché i proprietari terrieri, e solo loro, erano proprietari di più del 40%. Di tutti i ceti borghesi, quelli che furono i meno attaccati in questa prima fase, erano i «contadini ricchi»: i kulaki.

Anche la terminologia ideologica dell’epoca cioè «contadini», li proteggeva rispetto agli altri capitalisti.

[32] Plechanov, Le nostre controversie.

[33] Ne Le lotte di classe in urss.

[34] Da una parte, esisteva l’artel con una funzione familiare e comunitaria, dove ogni famiglia è proprietaria di una parte di terra, di attrezzi, di case… e che non si associa che per la produzione comunitaria della terra e dall’altra, esisteva il mir in cui non c’erano dei lotti di terra individuali familiari, ma dove tutto era gestito collettivamente (anche il «capitale fisso e le case»).

Bordiga ha insistito su questa differenza pretendendo di stabilire una continuità storica certa, secondo al quale il mir avrebbe dato origine ai grandi granai di Stato e ai Sovchoz, e che gli artel erano all’origine delle cooperative, i Kolchoz (Amadeo Bordiga, Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, pp. 55-57 e 74-183). Questo ci sembra manifestamente esagerato poiché la sola «continuità» che possiamo stabilire è l’opposizione tra lavoro più collettivo e più familiare e non una continuità storica reale. Se è vero che Satlin ha potuto utilizzare il cooperativismo, l’ideologia dell’artel, nella sua famosa collettivizzazione in favore dei Kolchoz allorché si sono sviluppati i Sovchoz, del mir, non resta tuttavia niente; d’altra parte, questi obbediva una tendenza generale e internazionale di centralizzazione dell’agricoltura capitalista (il fatto che la proprietà giudica passi nelle mani dello Stato non cambia niente) e il passaggio dalle forme più nascoste di salariato a delle forme più aperte e industriali: di vere fabbriche agricola.

[35] Charles Bettelheim, Le lotte di classe in urss, 1917-1923, pp. 190-196.

[36] La conciliazione non è mai neutra, ma parte decisiva della riorganizzazione del dominio capitalista.

[37] Vedere a questo proposito La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, e il discorso di Lenin alla prima conferenza delle sezioni agricole dei comitati di contadini poveri e delle comuni in Russia.

[38] Nella sua concezione generale, Lenin non aveva rotto con il socialismo borghese. Il solo tentativo a questo riguardo, lo troviamo in «Stato e Rivoluzione », e ha sempre ritenuto necessaria la “democratizzazione dell’esercito”. È così che in «Una delle questioni fondamentali della rivoluzione», affermava: «O il potere ai soviet e la democratizzazione completa dell’esercito (!) o il kornilovismo».

[39] Lenin, «Sullo Stato», luglio 1919.

[40] Trockij, Disciplina e ordine, 1920

[41] Vedere Kronstadt: tentativo di rottura con lo stato capitalista in Russia, «Le Communiste» n. 24, e la prossima pubblicazione di un testo sul movimento chiamato «Machnovicina».

[42] Citato da Lenin nella sua informazione al xi Congresso del Partito Comunista di Russia.

[43] Charles Bettelheim, Le lotte di classe in urss 1917-’23.

[44] Del progetto di regolamento del Controllo Operaio.

[45] Bettelheim, citazione pagina 129.

[46] Le conseguenze della guerra imperialista, la lotta rivoluzionaria e la lotta tra le frazioni capitaliste, avevano reso la situazione tale per cui non era possibile la riproduzione semplice e il prodotto nazionale continuava a diminuire(riproduzione allargata negativa).

[47] Lenin nella dichiarazione adottata il 3 gennaio 1918 dal Comitato Esecutivo Centrale Panrusso.

[48] Cit. da E.H. Carr, La rivoluzione bolscevica.

[49] Scritto l’11 e il 12 [¿mese?]1917.

[50] Oltre a tutte le garanzie formali che Lenin cerca nella Nuova Costituente (per esempio, l’adesione di questa alla legge del Comitato Esecutivo sulle nuove elezioni), egli tenta di stabilire delle nuove garanzie di sottomissione al nuovo regime (l’assemblea doveva riconoscere senza alcuna riserva il potere dei Soviet, la rivoluzione Bolscevica, la sua politica rispetto alla pace, la terra, il controllo operaio…).

Lenin, come ogni buon democratico, si era lasciato entusiasmare dal mito del suffragio universale ed è rimasto traumatizzato, poiché al posto di questo popolo immaginario, che ogni buon democratico immagina, si è trovato di fronte il popolo reale – dominato dall’ideologia della controrivoluzione – che ha eletto i carnefici di sempre.

Ora reclamava delle nuove elezioni con delle garanzie rispetto ai suoi risultati.

Marx aveva già sbeffeggiato queste improvvise disillusioni dei repubblicani borghesi:

«Il 4 maggio si riuniva l’Assemblea Nazionale, frutto delle elezioni generali e dirette. Il suffragio universale non possedeva la forza magica che i vecchi capostipiti dei repubblicani gli attribuivano. Essi vedevano gli stessi interessi, lo stesso discernimento, … in tutta la Francia o almeno nella maggioranza dei cittadini francesi. Tale era il rovesciato del popolo. In luogo di questo popolo immaginario, gli elettori hanno messo a nudo il popolo reale» (Karl Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850).

[51] È sulla base di un decreto del 28 giugno 1918 che si apre la fase di nazionalizzazione (cominciando dai settori industriali principali). Questo processo arriva al suo punto culminante alla fine del 1920 (decreto del 28 dicembre 1920) con l’estensione delle nazionalizzazioni a tutta l’industria, compresa la piccola e al media industria.

[52] La vesenkha è l’antecedente della Commissione di Stato per il Piano o gosplan, che funzionerà soprattutto a partire dal 1925.

[53] «Tutti i dati statistici russi, compresi quelli che si trovano nella storia del pc (b) e nel Manuale di economia politica, dal contenuto molto staliniano, concordano nell’affermare che al suo minimo la produzione industriale russa raggiungeva, appunto in quest’anno 1919, un settimo della produzione prebellica. Ciò conferma quello che abbiamo enunciato nella nostra tabella per quanto concerne la caduta della produzione tra il 1913 e il 1920, che è di circa l’87% in rapporto al suo livello iniziale. Non abbiamo trovato altri esempi storici di caduta economica di tale gravità. La caduta massima, provocata da una “crisi economica” è quella che conobbero gli Stati Uniti e fu del 46%, la metà del disastro industriale russo, un quarto in relazione al punto di arrivo. Inoltre, negli Stati Uniti, la caduta si produsse a partire da un livello di alto potenziale industriale, molto più elevato che il massimo russo d’ante guerra. […]

Se noi consideriamo la caduta della produzione industriale determinata dalla guerra, costatiamo che le cifre massime sono date due volte alla Germania Kron (45% e 69%) e una volta al Giappone (70%)…(cosa che nel peggiore dei casi) lascia sur pied circa 1/3 (dal 31% al 30%), cioè il potenziale individuale che la Russia aveva prima della caduta».

Bordiga, Strutture economiche e sociali nella Russia d’oggi.

[54] Kronstadt è la prima volta che la direzione del partito Bolscevico ordina il massacro di massa di militanti rivoluzionari e anche di vecchi compagni del partito.

Nel 1939, questo metodo era stato talmente utilizzato che non restavano quasi più militanti rivoluzionari che avessero partecipato all’insurrezione.

La recente pubblicazione di alcuni testi e manifesti dei socialisti rivoluzionari di sinistra in lingua latina (vedere “I socialisti rivoluzionari di sinistra nella Rivoluzione russa; una lotta sconosciuta”, edito da Spartacus), ci porta a relativizzare quest’affermazione formulata da noi qualche anno fa.

Alla luce di questi materiali, ci sembra evidente che si tratta di una vera opposizione comunista di sinistra, cioè proletaria e rivoluzionaria, costituita al di fuori del partito formale Bolscevico.

[55] Non bisogna dimenticare che questa discussione sulla statalizzazione e la pianificazione non si è svolta precisamente in un ufficio (di pianificazione!) tra un gruppo di scienziati ma, al contrario, nella strada, sotto forma di una violenta e sanguinosa lotta di classe e di frazioni, armi alla mano.

[56] In realtà, non esistono termini adeguati per designare queste frazioni. In generale, il termine «opposizione di sinistra» è esclusivamente associato all’opposizione diretta da Trockij-Zinov’ev. Una volta di più, è importante sottolineare che fu durante questi primi anni che si è deciso l’avvenire della società russa e che delle opposizioni come «l’Opposizione di sinistra» sono sorte dopo che i suoi principali rappresentanti avevano giocato un ruolo decisivo nell’affermazione delle caratteristiche essenziali della società russa attuale.

[57] Il mese di aprile 1918 corrisponde all’inizio ottimistico del «Controllo Operaio» e alla difesa da parte di Lenin della necessità della «amministrazione scientifica» di Taylor (che Lenin aveva denunciato, prima di assumere il potere, come «schiavizzazione dell’uomo da parte della macchina») e del mantenimento degli esperti, degli scienziati e dei capi di impresa del regime zarista sotto il «Controllo Operaio».

[58] «Komunist», n. 2, aprile 1918, Sulla costruzione del socialismo.

[59] Citato da Lenin in Sull’infantilismo di sinistra. Si può constatare fino a qual punto la controrivoluzione ha occultato l’opera delle sinistre comuniste, con il fatto che la più parte dei testi di questi rivoluzionari sono ancora oggi inaccessibili. Sulle questioni fondamentali della rivoluzione internazionale, ne conosciamo le posizioni attraverso i loro avversari (come qui!).

[60] Su questo punto, come su altri, Stalin ha realizzato integralmente ciò che Trockij (e/o Lenin) sosteneva.

[61] Le citazioni sono estratte da un testo della Corrente Comunista Internazionale (cci) La sinistra comunista in Russia, «Rivista Internazionale», nn. 8 e 9, 1977.

[62] Il capitolo non può essere compreso a fondo che considerandolo in stretta relazione con il nostro testo precedente. In effetti, ciò che da coerenza globale alla politica economica e sociale dei Bolscevichi, è la loro visione del capitalismo e del socialismo, applicazione concreta (conseguenza necessaria) della concezione socialdemocratica della transizione al socialismo.

[63] Testo del maggio 1918.

[64] Dell’aprile 1921: la chiarezza di questi testi per quanto riguarda le concezioni che Lenin e i bolscevichi hanno della politica interna, hanno una importanza paragonabile a quella della politica condotta dai Partiti comunisti che si ritrova nel testo tanto rabattu, L’estremismo, malattia infantile del comunismo.

[65] Tutto quello che in seguito è messo tra virgolette è tratto dal primo testo di Lenin menzionato, eccetto quando segnaliamo esplicitamente altre fonti.

[66] Osservate bene a qual punto l’autore di Stato e Rivoluzione ha rinunciato integralmente alla sua opera e ci parla ora, come un Kérenskij o un Kautsky, dello Stato in generale, senza distinguere Stato borghese-Stato proletario, o ancora dello Stato come territorio!

[67] Possiamo pensare che, per quanto i suoi epigoni parlino di socialismo in Russia o di Stato Operaio, Lenin avesse dovuto abbandonare la sua visione. Ebbene no, Lenin morì dicendo che esiste sempre questa 5ª «formazione economica e sociale nell’economia» e che la Russia non è ancora arrivata al capitalismo di Stato!

[68] Sull’imposta in natura.

[69] Idem.

[70] Lo sviluppo di questa argomentazione implica la spiegazione globale dello sviluppo del Capitale mondiale, l’analisi in profondità delle tesi e controtesi fondamentali dell’economia politica e della sua critica, come si fa dall’epoca di Adam Smith. Non possiamo farlo in qualche pagina e non ci resta che rinviare il lettore desideroso di andare al fondo della questione, a una lettura completa dell’opera di Marx (Marx diceva: «Chiunque voglia risalire alle luminose vette deve essere pronto a scalare la montagna attraverso dei sentieri scabrosi»), così come alla comprensione di questa stessa evidenza da parte della sinistre comuniste. Nel nostro materiale, si trovano più testi (alcuni pubblicati nelle nostre principali riviste) che si situano in questa stessa linea di «contributo alla critica dell’economia» realizzata dal partito comunista da più di un secolo.

[71] L’importanza particolare di questi testi di Lenin risiede precisamente nel fatto che costituiscono la sola espressione teorica generale della strategia globale del governo bolscevico in tutta la sua politica economico-sociale.

[72] Hegel diceva, nella Logica di Jena: «Così, per esempio, le membra e gli organi di un corpo vivente non devono essere considerate come delle semplici parti di questo, dato che non sono quello che sono che all’interno della loro unità e si comportano, in qualunque maniera essa sia, in modo indifferente in rapporto a questa unità. Non si convertono in semplici parti del corpo umano che nelle mani dell’anatomista, il quale si occupa non già di corpi viventi ma di cadaveri».

[73] È come se si descrivesse l’uomo come somma dell’apparato digestivo, della barba, delle braccia, della sua disposizione nello spazio grazie ai suoi piedi, degli istinti, del mal di testa, delle preoccupazioni… (l’eterogeneità degli elementi che noi sommiamo non è più assurda di quella che fa Lenin sommando gli elementi della realtà russa!) In seguito, completa il discorso dicendo che il tale elemento è buono e il talaltro è cattivo, che è meglio stare in piedi che avere mal di testa!!!

[74] Ricordiamo che stando alle cifre ufficiali, la Russia produceva 30 kg di acciaio per abitante (cifre del 1913) e questo prima della guerra e della rivoluzione, e in seguito non ne produceva che un chilo per abitante. Per avere un idea di ciò che questo rappresenta; diremo che nel 1981, la Russia produce 544 kg per abitante.

[75] Amadeo Bordiga, Struttura economica e sociale della Russia d’oggi.

[76] Dal nostro punto di vista non si tratta di negare che esistano delle contraddizioni tra questa o quella forma particolare di produzione (per esempio, «l’economia patriarcale» e «la piccola produzione mercantile» e tra ciascuna di esse, il capitalismo privato…). Quello che bisogna sapere è che le contraddizioni alle quali fa riferimento Lenin con questa definizione confusa, non sono né più forti, né più «contraddittorie» dello specifico rapporto di concorrenza tra ciascun capitalista, ciascuna impresa «privata» o di «Stato» o anche del rapporto di concorrenza a cui si abbandonano i lavoratori stessi. Inoltre, il sistema capitalista nella sua totalità è basata sullo sviluppo e la produzione di individui opposti. Tutti i rapporti sono di concorrenza e tutti sono contraddittori.

[77] In generale, le altre definizioni della transizione verso il socialismo si limitano alla discussione sugli aspetti della distribuzione (a ciascuno secondo il suo lavoro o le sue necessità) che in realtà è una conseguenza del cambiamento rivoluzionario nel «cosa e come» produrre, nell’oggetto, nei mezzi e nelle forme di produzione. Il modo di distribuzione è unicamente determinato dal modo di produzione.

[78] In realtà, lo Stato capitalista non può essere distrutto in un solo Paese.

[79] V.I. Lenin, Relazione pronunciata davanti al iv Congresso dell’Internazionale Comunista il 13 novembre 1922.