Ulach Smah! - nessun perdono

notizie dall'insubordinazione algerina

 

 

Indice

I primi assalti proletari dell’aprile 2001 in Cabilia
La borghesia disorientata

Contro il “particolarismo cabilo”: l’estensione della lotta ad altre regioni

Forze e debolezze del movimento

Nel 1988…

Le soluzioni democratiche proposte dalla borghesia

Gli “Aarch”

Contro il mito dell’invincibilità dello Stato…

… la lotta contro l’isolamento!

SEGUE…

Piattaforma di rivendicazione detta Piattaforma di El-Kseur

 

I primi assalti proletari dell’aprile 2001 in Cabilia

 

Il 18 aprile, le prime sommosse scoppiano a Beni-Douala (regione di Tizi Ouzou, nella Grande Cabilia, 100 km a est di Algeri) in seguito all’assassinio di un giovane liceale da parte dei gendarmi. Secondo la versione ufficiale il giovane liceale sarebbe stato ucciso “da una raffica di fucile mitragliatore caduto accidentalmente (sei pallottole!) dalle mani di un gendarme”.

Fin dal giorno dopo “le sommosse si estendono a diversi villaggi della Cabilia provocando, in certi casi, decine di feriti e causando ingenti danni materiali”[1]. Nel frattempo ad Amizour (regione di Béjaïa, nella Piccola Cabilia, 250 km a est di Algeri), “la manifestazione di protesta contro il fermo e l’arresto di tre liceali che scandivano slogan ostili al potere degenerava in sommosse e scontri in tutta la Piccola Cabilia”[2] .

Sabato 21 aprile: “sono centinaia, molto giovani, spesso liceali, a manifestare la loro collera lanciando pneumatici incendiati, pietre, bottiglie Molotov contro il commissariato della gendarmeria a Beni-Douala, El-Kseur e Amizour”[3].

Domenica 22, ad Amizour, malgrado gli appelli alla calma lanciati dalle famiglie delle vittime e dai dirigenti del FFS (Fronte delle Forze Socialiste, attualmente partito dell’opposizione) venuti “a fare da pompieri”, “alcuni manifestanti attaccano il distaccamento a pietrate, incendiando due veicoli della gendarmeria, la sede della Daïra (sottoprefettura), i servizi dell’anagrafe del comune e saccheggiando il tribunale” (corsivi nostri)[4].

L’azione del proletariato in Algeria fu fin dai primi giorni immediatamente violenta e diretta contro la propria borghesia. A partire da un avvenimento specifico e locale, vissuto come la goccia che fa traboccare il vaso, il proletariato affermò improvvisamente la sua esistenza. Ovunque, la strada fu occupata. Rapidamente la gendarmeria cessò di essere il bersaglio esclusivo e la vendetta del proletariato si generalizzò all’insieme delle istituzioni dello Stato, sia civili che militari. La violenza di classe fu senza concessioni per la borghesia (incendi, saccheggi, distruzioni, razzie, riappropriazione diretta delle merci, ostacoli alla repressione etc.).

Come sempre di fronte a questi avvenimenti la borghesia tentò alla meno peggio di calmare il fermento proletario giocando simultaneamente il bastone e la carota. Fin dal lunedì 23, unità antisommossa furono inviate da Tizi Ouzou (capitale della Cabilia) verso Beni-Douala, a 20 km di distanza. Parallelamente, “per uno scrupolo di calmare le acque”, le autorità annunciarono il 24 la sospensione del vice-capo della Sicurezza della wilaya (prefettura) di Béjaïa, l’arresto del gendarme autore degli spari mortali a Beni-Douala e l’istituzione di un “programma speciale di aiuto economico a questa regione”, diffondendo nel contempo gli appelli alla calma dei genitori del liceale assassinato decisi a “intentare un’azione giudiziaria”.

Ma né le promesse, né gli appelli alla calma dei genitori della vittima e dei partiti e organizzazioni socialdemocratiche (RCD, FFS, MCB, …)[5], né il dispiegamento di forze repressive hanno impedito la continuazione delle sommosse. Contemporaneamente, l’assalto al tribunale rispecchiava quante poche illusioni questi proletari si facciano sui risultati delle “azioni giudiziarie”, ben decisi a condurre la loro lotta in maniera autonoma. I partiti socialdemocratici sembrano incapaci di modificare questa determinazione e quest’orientamento violento. Scrivendo sui loro striscioni “Non potete ucciderci, siamo già morti”, questi proletari affermano che è la miseria totale a cui il capitale li ha condannati che li spinge a lottare senza concessioni.

Qualche cifra può dare un’idea della situazione. Dal 1991 al 1999, in otto anni, il “potere d’acquisto” del proletariato in Algeria è diminuito del 60%. Tra il 1999 e il 2001 il numero di persone dichiarate “al di sotto della soglia di povertà” è passato da dieci milioni a quattordici milioni… sui trenta milioni che conta l’Algeria. Quasi la metà della popolazione vive così con meno di 50 euro al mese mentre gli affitti degli appartamenti privati nei quartieri popolari oscillano tra 130 e 170 euro al mese. Non sorprende pertanto che il tasso medio di abitazione sia di più di sette persone per alloggio.

Il FMI, istituzione internazionale del capitale, sbloccò un aiuto finanziario al governo algerino in cambio di una ristrutturazione del settore pubblico industriale. L’andare incontro alle nuove norme produttive comportò il licenziamento di 400.000 dipendenti. Questi ultimi, per la maggior parte operai, non hanno nessuna speranza di riconversione tenuto conto del declino della produzione industriale in questa regione.

Alla vigilia delle sommosse, il tasso di disoccupazione raggiungeva ufficialmente il 40% della popolazione attiva. Fatto rivelatore della situazione sociale tesa, il solo settore che assume è quello delle società di sicurezza private. Esistono in Algeria più di 80 società di questo tipo, che occupano a volte fino a 1500 lavoratori. E le più numerose, cosa sintomatica, sono le società di vigilanza industriale…

In Algeria perfino i bisogni più elementari dei proletari oggi non sono più coperti: l’acqua potabile, la casa, l’elettricità mancano a molte famiglie. I più colpiti da queste condizioni sociali sono i giovani con meno di trent’anni, che costituiscono il 70% della “popolazione attiva”. Sono 300.000 ad arrivare ogni anno su un mercato del lavoro che non ha bisogno di loro. Aggrediti fin nelle possibilità di sopravvivenza, si inventano delle strategie per arrangiarsi. Visto l’importo degli affitti, è per loro impossibile prendere in considerazione di lasciare il nucleo familiare. E allora si fanno volontariamente bocciare a scuola per rimandare la scadenza del servizio nazionale e quella del primo giorno di disoccupazione. Si capirà così la parte che si accingono a prendere nella rivolta, e non ci si stupirà del fatto che i giornalisti ne approfittino per snocciolare i loro cliché sociologici preferiti. Partendo dalla realtà del dilemma tra l’esilio e la disoccupazione, i giornali ci ripropinano il grande “disagio giovanile” e la “sete di giustizia e di democrazia”, negando che è il proletariato di tutte le età a scontrarsi con la giustizia e con la democrazia.

Spazzando via ogni terapia cittadina, questi proletari che non hanno da perdere che le loro catene riprendono la sola arma di lotta efficace per la nostra classe, l’azione diretta: “I giovani manifestanti non hanno voglia di parlare con un potere che li disprezza. Anche loro disprezzano il potere, ciò di cui hanno voglia per il momento è spaccare. E allora si spacca tutto ciò che simboleggia lo Stato. I manifestanti non hanno voglia per il momento di dialogare”[6].

Questa collera non si fissa veramente su delle rivendicazioni specifiche. L’insopportazione è generale e verte sugli aspetti “economici”, “politici” e “sociali” della sopravvivenza che viene loro imposta. L’assenza di rivendicazioni precise, concrete o di proposte positive rende ancor più arduo il compito liquidatore dei riformisti di ogni risma. Soltanto l’opposizione a tutto ciò che proviene dal potere in generale è esplicita. La negazione di tutto l’esistente costituisce senza dubbio l’elemento-forza del movimento. Dall’inizio delle sommosse, e malgrado tutti i tentativi borghesi di appelli alla calma, di polarizzazioni ideologiche, di conciliazioni, di riforme, di negoziazioni, i proletari si aggrappano in maniera risoluta al terreno della lotta di classe, facendosi carico di diverse necessità che si impongono nello sviluppo di questa lotta.

Alla fine di una settimana soltanto di scontri, la lotta è quasi riuscita ad estendersi a tutta la Cabilia. Il numero di bersagli presi di mira non ha smesso nel contempo di dilatarsi. Gli espropri della proprietà borghese si sono moltiplicati. I proletari fanno razzia delle merci di cui hanno bisogno e distruggono volontariamente quello che, per loro, ha sempre significato più repressione e più miseria (incendio del palazzo delle imposte, della prefettura, delle sedi dei partiti per la tutela dell’identità nazionale etc.). In pochi giorni la totalità delle città e dei villaggi della Cabilia è in ebollizione.

Sabato 28 aprile “una marea umana ha invaso le strade di Béjaïa, anche se gli scontri più micidiali hanno avuto luogo nelle piccole città, se non addirittura nei villaggi… Ancora una volta gli edifici pubblici sono stati saccheggiati. A Béjaïa i manifestanti hanno distrutto la casa della cultura, la direzione del Demanio, la stazione degli autobus[7]  (corsivi nostri). Sebbene la giornata di sabato 28 aprile sia stata la più sanguinosa dall’inizio delle sommosse, con una trentina di vittime, il rapporto di forza tendeva complessivamente a invertirsi a favore del proletariato. Un giornalista osserva che “da 40 a 60 membri delle forze di sicurezza sarebbero stati uccisi giovedì 26 aprile in uno scontro a sud di Tébessa”[8] . Si noti che abbiamo trovato quest’informazione soltanto una volta… È forse rivelatrice di un armamento più conseguente del proletariato?

 

La borghesia disorientata

 

L’angoscia e la sorpresa che il rapido sviluppo del movimento suscitò nei ranghi della borghesia locale, la paralizzarono più o meno, a seconda dei casi, nella sua azione. Avendo già sperimentato senza successo svariati campi di immediate repliche, non riusciva più alla fin fine a dotarsi di una linea chiara e precisa di risposta.

Le strutture d’inquadramento e di mediazione sociale si sono rivelate completamente superate. In balia dello sviluppo della lotta, esse furono in maniera sempre più esplicita denunciate praticamente, come testimoniano i saccheggi delle sezioni dei partiti indipendentisti. Questi fatti dimostrano chiaramente che nessuna formazione politica di questo tipo è idonea a canalizzare gli straripamenti, ma anche, e soprattutto, che la lotta dei proletari in Cabilia non è né nazionale, né indipendentista, come ogni lotta proletaria. La parola d’ordine della “liberazione nazionale” esprime sempre una manovra della borghesia mondiale per spezzare la nostra lotta, per isolare il proletariato in ogni paese e rendere così possibile la sua sconfitta paese per paese di fronte alla “sua” borghesia nazionale[9]. Questa ideologia oggi è superata nel movimento in Algeria, ma il contesto mondiale è ancora segnato da una grande debolezza dell’internazionalismo, che implica che questa lotta non venga riconosciuta, vissuta, condivisa, assunta dal proletariato negli altri paesi. In modo particolare in Francia, la non-lotta globale del proletariato lo porta a vedere, del movimento in Algeria, solo l’immagine che ne dà la borghesia, reagendo quindi con l’indifferenza, il rifiuto, quando non addirittura la difesa di putride parole d’ordine socialdemocratiche. Forte di questa passività del proletariato, lo Stato francese può continuare impunemente a portar sostegno e inquadramento alle forze dell’ordine in Algeria.

Sul terreno tuttavia, la capacità di repressione e controllo militare della situazione si è ritrovata assottigliata a causa dell’ampiezza assunta dal movimento. Poiché i tumulti non cessano di scoppiare in altre regioni – separate da diverse centinaia di chilometri di distanza – le forze dell’ordine non possono essere materialmente presenti in numero sufficiente su tutti i fronti. I proletari hanno saputo trarre vantaggio dalla topografia accidentata della regione per ostacolare seriamente lo spostamento delle truppe della repressione, bloccando delle strade. Si aggiunga inoltre che le autorità delle città in cui fino ad ora è stata mantenuta la pace sociale temono che l’estensione del movimento le raggiunga, ed esitano perciò ad accogliere le richieste di rinforzi delle altre città.

A metà giugno la borghesia non poteva che constatare la perdita di ogni controllo della situazione in Cabilia. Quest’ultima era una zona interamente assediata dagli insorti, mentre le forze repressive erano costrette a barricarsi in campi fortificati: “Sia a Tadmaïl che a Ouadhias, Boghni, Akbou, Aïn el-Hammam, Mekla, Larbaa-Nath-Irathen, Azazga, Béjaïa,… tutti i distaccamenti della gendarmeria nazionale offrono lo stesso spettacolo di fortini assediati, portali sfondati, mura sventrate, facciate incendiate, porte ammaccate. Tutto attorno resti di pneumatici bruciati, piloni divelti, alberi abbattuti bloccano tutte le strade che portano ai distaccamenti. Ovunque i commercianti si rifiutano di servire i gendarmi. Il boicottaggio è totale. I 36 distaccamenti che conta la Cabilia vengono approvvigionati da Algeri, tramite elicottero o via terra con convogli estremamente armati. Un giovane di Tigzirt, che ha lanciato un pacchetto di sigarette a un gendarme al di là del muro di cinta del distaccamento, poco c’è mancato venisse linciato dalla folla. La sollevazione è divenuta un’insurrezione generalizzata. […] Da tre settimane non c’è più nessun gendarme per strada in Cabilia. Barricata nei propri locali, la missione dei gendarmi è rimanere sul posto a difendere il proprio distaccamento, la propria vita. La regione è in balia dei rivoltosi”[10].

 

Contro il “particolarismo cabilo”: l’estensione della lotta ad altre regioni

 

Come sempre, quando la borghesia si trova di fronte ad una radicalizzazione della lotta in un determinato territorio, fa di tutto affinché da lì non esca.

“Le autorità temono che il movimento si allarghi a macchia d’olio, essendoci già state delle frizioni nei dintorni di Sétif, ai confini orientali della Cabilia. Sabato 28 aprile hanno avuto luogo a Oran e a Boumerdès, vicino ad Algeri, dei tentativi di manifestazione, mentre nella capitale regnava una forte tensione”[11], constatava un “inviato speciale”. La tattica del governo diventa allora quella di presentare la lotta dei proletari in Cabilia come una “battaglia per l’identità berbera”, al punto che questo stesso giornalista fu indotto a segnalarla con cautela: “La paura di vedere il movimento fuoriuscire dalla Cabilia ha indotto il potere a tentare di ridurlo a una rivendicazione strettamente linguistica, cancellando l’insieme delle rivendicazioni sociali e politiche che vi si esprimono e che sono comuni all’intero Paese. Isolando la Cabilia, Algeri spera così di montare il resto della popolazione contro il “particolarismo cabilo”, per impedire qualsiasi congiungimento nella contestazione”[12]. Le frazioni borghesi insediate al governo speravano anche di utilizzare i 250 km che separano Algeri dalla regione insorta per stroncare i rischi di contaminazione.

Se è avvenuto tutto il contrario, occorre capire che ciò è dovuto a diversi fattori:

• la borghesia aveva imposto delle condizioni di sopravvivenza miserabili simili in tutta l’Algeria, creando così essa stessa condizioni favorevoli al ravvicinamento;

• i proletari della Cabilia avevano attaccato dei bersagli che, per il loro significato, rendevano difficile questo tipo di confusionismo interessato borghese. I giornalisti stessi furono costretti a riconoscere che “l’incendio che conosce oggi la Cabilia non ha alcuna attinenza con le tensioni che agitano regolarmente la regione. Non c’è nessuna rivendicazione culturale e linguistica questa volta, ma una vera e propria esplosione sociale. […] Anche le formazioni politiche fortemente radicate in Cabilia, che fino a poco fa controllavano e inquadravano le rivendicazioni per l’identità, non vengono risparmiate dai manifestanti. Costoro non vogliono più sentir parlare di rivendicazioni pacifiche e non si fanno nessuno scrupolo a farlo sapere ai responsabili del Fronte delle Forze Socialiste (FSS) e soprattutto a quelli del Raggruppamento per la Cultura e la Democrazia (RCD) che paga così la sua partecipazione al governo”[13].

Il 25 aprile “le città di Sidi Aïch, El-Kseur, Tazmalt, Barbacha, Seddouk e Timezrit sono state abbandonate alle razzie di giovani sovreccitati, che urlavano slogan contro il governo. Le macchine dei privati non sono state risparmiate, proprio come le sezioni di partiti che difendono la causa berbera e cabila, che sono state saccheggiate. […] I rivoltosi hanno incendiato la sede della Daïra di Ouzellaguen […]. I manifestanti hanno incendiato il palazzo dell’ufficio imposte di Abkou e Barbacha, nella Piccola Cabilia. La strada statale fra Béjaïa e Algeri è stata picchettata di sbarramenti eretti dai rivoltosi, impedendo la circolazione per una sessantina di chilometri”[14] (corsivi nostri).

Attaccando i partiti nazionalisti, ostentando chiaramente il loro rifiuto della lotta per l’identità, denunciando direttamente il “potere assassino”, questi proletari hanno operato concretamente per l’estensione e il riconoscimento universale della loro lotta. Nei fatti la carta identitaria o autonomista non ha potuto imporsi. Fin dalla fine del mese di aprile l’intera classe dominante fu presa di mira, tanto le sue frazioni autonomiste quanto quelle governative, socialiste o meno, dentro o fuori l’opposizione… Perciò il primo maggio, quando il RCD annuncia il ritiro dei suoi due ministri dal governo di Algeri, questo non basta a ridare credibilità a questo partito presso i proletari.

Durante i mesi di maggio e giugno hanno luogo un po’ ovunque in Algeria diverse manifestazioni (di cui due nella stessa Algeri), malgrado molte di esse fossero state vietate dalle autorità. Secondo gli organizzatori le manifestazioni volevano essere pacifiche. È abitudine delle frazioni socialdemocratiche, ancora oggi, quella di organizzare manifestazioni per riacciuffare il movimento che sfugge loro. È quello che sembra sia successo durante un “periodo di calma temporanea”, in cui i manifestanti seguivano docilmente gli organizzatori, portatori di lettere di rimostranze indirizzate al governo. Ma la “calma” di quel periodo era molto relativa e alla fin fine fu solo di breve durata. Il tentativo di smobilitazione fallì, giacché fin dalla metà di giugno gli scontri ripresero con vigore, assumendo forme quasi insurrezionali ed estendendosi questa volta, è da sottolineare, a numerose altre regioni dell’Algeria.

Martedì 12 giugno scoppiano delle sommosse a Khenchela (550 km a est di Algeri), nelle Aurès (1 morto), ad Aïn Fakroun (500 km a est di Algeri) e a Sour El Ghozlane (130 km a sud di Algeri).

Due giorni dopo, giovedì 14, sarà nella stessa Algeri che scoppieranno violenti scontri, verso l’una di pomeriggio in piazza I° maggio, tra i proletari e la polizia antisommossa: “Alle pietre e ai proiettili lanciati dai manifestanti hanno risposto i lacrimogeni, gli idranti. E pallottole vere. Alcuni capannoni del porto di Algeri sono stati razziati. Questo assembramento è il più importante dall’inizio della rivolta nata il 18 aprile in Cabilia […]. Nelle strade di Algeri dei nomi di città [vengono] lanciati come le notizie da un fronte di cui nessuno riesce a prevedere le vampate. “Kenchela, 1 morto” dice uno. “Skikda dietro le barricate” risponde l’altro. “Sour El Gozlan distrutta”. “E anche Annata”. Adesso la rivolta ha largamente oltrepassato la Cabilia, dove non si placa da 45 giorni”[15]. Questa manifestazione del 14 giugno ha riunito nella capitale dalle 500.000 ai 2.000.000 di persone a seconda delle fonti. Tutte le manifestazioni nella città durante i due mesi precedenti avevano seguito un solo itinerario imposto dallo Stato. Quest’ultima fu la prima a essere illegalmente deviata, per la determinazione dei proletari, verso la sede della presidenza della repubblica.

Forze e debolezze del movimento

 

Occorre risalire al 1988 per ritrovare un’esplosione simile in Algeria (sulla quale torneremo più avanti). In un contesto mondiale ancora globalmente segnato dalla debolezza delle lotte della nostra classe, gli ultimi movimenti importanti su scala del continente africano risalgono parimenti a diversi anni fa[16]. Come in altre parti del mondo, alcune oasi a intensa valorizzazione (estrazione di oro, di diamanti, di uranio, ma anche di petrolio, di gas, …) e una serie di concentrazioni industriali convivono in Africa con vaste zone disertate dai capitali, serbatoi di mano d’opera a buon mercato in cui imperversano “record” di miseria assoluta. Quanto all’eliminazione del proletariato in eccesso, se non bastassero quelle che impropriamente vengono chiamate “catastrofi naturali” (in realtà penurie, carestie e malattie direttamente legate al modo di produzione, fra le quali la distruzione del sistema immunitario catalogata sotto il nome di “Aids”), i massacri e le guerre imperialiste attribuite esoticamente agli “odî tribali” e ai “conflitti interetnici” porteranno a termine l’ingrato lavoro. Come ovunque, le chimere di “crescita” e di “sviluppo” non sono che appelli mascherati a sacrificarsi agli interessi del capitale. E contro ogni ideologia che discetta all’infinito sui rapporti fra “paesi poveri e paesi ricchi”, affermiamo che la miseria mondiale del proletariato non ha soluzione che non sia  mondiale e rivoluzionaria.

Una delle forze maggiori del movimento attuale in Algeria consiste proprio nell’essere negazione vivente del mito disfattista borghese, secondo cui la lotta del proletariato non è o non è più d’attualità. D’altronde la situazione qui descritta corrobora in diversi punti la “caratterizzazione generale delle lotte attuali[17] che abbiamo trattato in una nostra precedente rivista, ossia:

• il proletariato oggi sopporta, senza replicare, degradazioni estreme della propria situazione e massacri in serie;

• nei momenti in cui il proletariato manifesta la sua esistenza la sua lotta è immediatamente violenta, si impone attraverso l’azione diretta e tende ad affermarsi al di fuori di qualsiasi terreno specifico (posto di lavoro, quartiere, …), a negare le divisioni alimentate dalla borghesia (lavoro, età, origine, …), tende a generalizzarsi ed è portatrice di un rigetto globale dello Stato e di ogni ambito socialdemocratico e rivendicativo (contro ogni mediazione dello Stato, dei partiti e delle organizzazioni borghesi, contro le parole d’ordine legaliste, pacifiste, elettorali, …).

Questi tratti essenziali dell’affermazione della lotta del proletariato caratterizzano oggi anche il movimento proletario in Algeria nel senso che:

• il vecchio arsenale socialdemocratico è completamente inefficace di fronte all’azione decisa e violenta del proletariato;

• la rivolta è priva di ogni obiettivo preciso ed esplicito, e non propone nulla di positivo;

• i proletari espropriano direttamente la proprietà borghese per soddisfare immediatamente i loro bisogni.

Oltre a questi “tratti caratteristici delle lotte attuali”, la lotta in Algeria presenta delle forze che denotano un livello di scontro con il capitale superiore a quello generalmente raggiunto dalle lotte attuali del proletariato.

La prima espressione di questa forza risiede nel fatto che qui, anche una volta sfumato l’effetto sorpresa, la borghesia non è riuscita a condurre in maniera efficace la sua controffensiva. Contrariamente a quello che è successo ad esempio durante le sommosse di Los Angeles[18], tutti i tentativi borghesi di spaccare il movimento, separando la maggioranza dei proletari dalle loro avanguardie, sono finora falliti.

È un fatto reale che alla testa delle azioni si sono trovati in maggioranza dei “giovani proletari” (il 60% della popolazione ha meno di 25 anni e sono i primi a essere colpiti dalla disoccupazione), ed è anche vero che è capitato talvolta che conducessero la loro lotta sotto la bandiera islamista, ma i tentativi borghesi di caratterizzare l’azione diretta del proletariato sulla base di queste realtà parziali non hanno finora avuto realmente presa sul movimento. La pratica dell’amalgama, che consiste nel presentare la lotta delle avanguardie del proletariato come quella di “giovani rivoltosi”, di “casseurs”, di “banditi”, se non di “islamisti radicali”, non ha avuto l’effetto sperato presso il resto del proletariato in Algeria. Il movimento si è mostrato più forte di tutte le divisioni che la società impone. Proprio perché è l’insieme del proletariato che oggi lotta in Algeria.

Le poche “divisioni dei compiti”, che la borghesia desidererebbe farci intendere come politiche, sono solo tecniche e organizzative. Finora la solidarietà e l’unitarietà sono realtà concrete del movimento. È da notare che azioni come i blocchi stradali presuppongono un certo livello di organizzazione, di centralizzazione del movimento. Anche se oggi sono sviluppate solo da un pugno di proletari, queste azioni costituiscono un abbozzo di autonoma assunzione di aspetti militari della lotta.

Nel periodo attuale un’altra specificità del movimento in Algeria è la sua durata eccezionale e la sua estensione. Contrariamente alle espressioni attuali del proletariato, che generalmente bruciano il tempo di un lampo, questo movimento perdura da aprile… e il cielo è ancora minaccioso per la borghesia! Dal 18 aprile il movimento proletario non ha smesso di estendersi sia in ampiezza che in profondità, e ancora oggi la lotta continua.

• Essa tende oggi a interessare numerose regioni in Algeria.

• I bersagli attaccati sono ogni volta più globali – ogni simbolo dello Stato è un potenziale bersaglio.

• L’azione diretta è affermata sempre più esclusivamente come unica arma del proletariato di fronte allo Stato.

• Il proletariato tende a tracciare sempre più chiaramente la frontiera di classe che lo separa dalla borghesia nel suo insieme, comprese le sue frazioni “di sinistra” (FFS, RCD).

Questa forza, questa persistenza del movimento attuale è da collocare in un processo di continuità con le forze delle lotte passate. Più di un decennio fa abbiamo sottolineato nelle nostre riviste centrali che il movimento di ottobre del 1988 in Algeria fu un movimento di negazione, di attacco al capitale e ai suoi difensori.

 

Nel 1988…

 

• i proletari se l’erano presa con gli edifici e i beni ufficiali (municipi, macchine dei rappresentanti del governo, diverse sedi dell’FLN, commissariati di polizia, palazzi di giustizia e luoghi sacri dell’accumulazione capitalista come uffici delle imposte, banche, …);

• partendo dal rifiuto di condizioni di sopravvivenza insopportabili, i proletari non formularono rivendicazioni precise. Non reclamavano riforme, si lanciavano negli espropri diretti attraverso la via delle sommosse allo scopo di riappropriarsi del prodotto sociale di cui erano privati;

• il movimento del 1988 è partito dalla strada e non da imprese precise, cosa che non ha lasciato all’inquadramento socialdemocratico, fra cui i sindacati, la possibilità di prendere pienamente il posto abituale di liquidatore delle lotte.

È chiaro che il movimento che oggi infiamma diverse regioni dell’Algeria presenta delle evidenti similitudini con la lotta dell’ottobre 1988. Riprendiamo qui alcuni brani del commento di “Libération” nell’aprile 2001: “Erigendo barricate distruggono i simboli dello Stato e le stazioni di gendarmeria”. “È la rivolta di una gioventù radicalizzata [oh, categorie a-classiste!] che non ha più niente da perdere, poiché schiacciata dalla miseria e senza speranza. “Non potete ucciderci, siamo già morti”, gridano così i manifestanti”. “Lanciando pietre, pneumatici incendiati, bottiglie Molotov, sfuggono totalmente al controllo di qualsiasi partito politico ed esprimono una collera che nulla sembra poter canalizzare: tre sedi del FFS e numerosissimi locali del RCD d’altronde sono stati bruciati” (corsivi nostri).

Il processo di negazione in opera dall’aprile 2001 nella regione rinnova tre aspetti che avevano costituito la forza del movimento del 1988:

1) L’attacco alle istituzioni e alle forze dello Stato.

2) L’assenza di rivendicazioni precise, espressione di una insopportazione generale da parte di proletari coscienti che non hanno niente da perdere… e niente da guadagnare negoziando con lo Stato.

3)  La scarsa presa dell’inquadramento socialdemocratico tradizionale sul movimento[19].

Questa breve digressione storica è sufficiente a mostrare chiaramente che il rifiuto delle strutture di inquadramento socialdemocratico e della lotta per la tutela dell’identità non piove dal cielo e non proviene unicamente dalle condizioni di sfruttamento immediate. Trarre lezione dalle lotte passate ha molta importanza e sciaguratamente oggi ci si fa carico di rado di questa continuità. Non disponiamo a questo proposito di espressioni chiare, di testi di minoranze, ma sappiamo che alcune manifestazioni hanno avuto luogo attorno a “monumenti” creati dai proletari in memoria dei loro fratelli e sorelle di classe che hanno lottato contro lo Stato, in particolare durante la cosiddetta “primavera berbera” nella primavera del 1980 e durante il movimento di fine 1988. La nostra classe è così riuscita a mantenere viva una memoria operaia malgrado i molteplici tentativi di eliminarne ogni traccia. In ogni caso l’usura progressiva delle ideologie borghesi nel corso di ognuna di queste lotte induce il proletariato a rifiutarle sempre più apertamente.

Su queste basi il movimento attuale ha superato il suo predecessore su alcuni punti:

• L’“affermazione dell’identità” e la “liberazione nazionale” non sono più portatrici di speranza fra quei proletari ai quali 40 anni di indipendenza (di cui 20 di governo del FLN) non hanno portato che miseria e massacri supplementari.

• L’ideologia islamica ha perso capacità d’influenza in seguito alla perdita di credibilità della frazione socialdemocratica che la sostiene, il FIS[20]. “Oggi gli islamici non sono riusciti a sfruttare le rivendicazioni della gioventù algerina”, osserva uno storico[21] . I proletari stessi denunciano le “concessioni del presidente Bouteflika agli islamici”, segnatamente nella recente direttiva del governo che vieta di baciarsi sulle panchine pubbliche e nei parchi.

• I movimenti indipendentisti hanno perso credibilità quanto alla loro capacità di produrre cambiamenti reali. Malgrado gli accenti berberi del suo programma, l’entrata del RCD nel governo non ha cambiato nulla delle condizioni di vita in Cabilia. Al contrario, il proletariato denuncia oggi la sua partecipazione all’esecuzione dei piani di austerità.

Il succedersi di ogni ondata di lotta pone direttamente, in tal modo, le condizioni di uno scontro di classe venturo sempre più violento. Ogni scontro rivoluzione/controrivoluzione è un momento di esacerbazione del rapporto di classe nel corso del quale delle maschere cadono, delle ideologie si compromettono, delle illusioni si dissolvono…, aprendo la strada all’espressione proletaria sempre più chiara delle determinazioni storiche della sua lotta.

Allo stesso modo, il ruolo dell’esercito nella feroce repressione del 1988 (imprigionamenti, torture, assassinii, …) oggi gli si ritorce contro perché parecchi soldati hanno partecipato alle sommosse dell’epoca. L’esacerbarsi delle contraddizioni fin nel suo seno costituisce un limite per la repressione militare, se non altro per l’ampiezza che dovrebbe assumere se il movimento proseguisse il proprio sviluppo. Un sociologo osserva perfino: “non penso che spareranno sul popolo algerino. In compenso i servizi speciali o la gendarmeria possono sparare. L’esercito di base, non quello di generali, ha i suoi cugini e i suoi fratelli nella merda. E se ci sono morti, i giovani spaccheranno ogni cosa e a quel punto potrebbe accadere di tutto”[22]. Se questa realtà sorge innegabilmente come prodotto della continuità storica della lotta di classe, ciò non toglie che tutto debba essere ancora giocato! Infatti, nessun indice di fraternizzazione o di disfattismo ci è ancora pervenuto, e neanche di riappropriazione da parte del proletariato delle armi dello Stato, negli edifici delle forze dell’ordine attaccati. E poi non bisogna dimenticare intere parti delle forze controrivoluzionarie come le frazioni per-i-diritti-dell’uomo che, anch’esse, preparano la repressione con il pretesto di denunciarla cercando di rinchiudere il proletariato in una “lotta per la democrazia contro i generali sanguinari”. Occorrerebbe, secondo questi apostoli del pacifismo e del parlamentarismo, liberare Bouteflika dall’influenza degli undici capi di stato maggiore (di cui nove sono vecchi ufficiali dell’esercito di liberazione) che dirigono l’Algeria per consentire al “processo democratico di svolgersi normalmente” … Cosa che porterebbe, ancora una volta, la mannaia parlamentare a tagliare la testa alla lotta del proletariato! È chiaro che tra l’Esercito e la Chiesa le urne possono ancora ottenere un posto onorevole!

 

Le soluzioni democratiche proposte dalla borghesia

 

Lo si vede, anche la borghesia tenta di trarre lezione dalle lotte passate. Per esempio, come nel 1988, la stampa ci viene a parlare di “disperazione algerina” come di un effetto specifico del governo in carica. Ora, per noi è evidente che la condizione riservata al proletariato non è l’esclusiva di un particolare governo, di una particolare nazione.

Storicamente, tutte le frazioni borghesi che si sono succedute al governo hanno operato nella gestione sanguinaria dell’Algeria coloniale e postcoloniale, con il sostegno permanente dello Stato francese che si compiaceva di essere “la patria dei diritti dell’uomo”. Indebolito dalla lotta montante dei proletari nella regione dal 1944, lo spazio di valorizzazione algerino fu cementato all’inizio da massacri (Sétif etc.), poi dall’“indipendenza nazionale”, alla fine dal rafforzamento del ruolo giocato dall’esercito nel buon andamento delle cose. A seguito di ciò, da decenni in Algeria i proletari in eccesso sono massacrati in maniera diretta, cruda e brutale. Interi villaggi vengono regolarmente incendiati, le pratiche di tortura sono di ordinaria amministrazione. Cambia solo di volta in volta la giustificazione evocata. Da 10 anni questi massacri sono potuti proseguire grazie all’imposizione di una polarizzazione “governo contro integralismo islamico”, con la comparsa del FIS, frazione socialdemocratica e islamica.

Costretti a far fronte successivamente alle frazioni coloniale (sempre presente), indipendentista poi islamica, i proletari tendono progressivamente a identificarle complessivamente come “la loro borghesia”. Opponendosi nel contempo allo Stato francese, a Bouteflika, ai generali, al FIS, al FFS, al RCD, al FMI, questi proletari affermano praticamente quel riconoscimento sempre più chiaro del loro nemico di classe: lo Stato del capitale in generale, sotto ogni forma e a tutti i suoi livelli di organizzazione.

In realtà la successione delle frazioni borghesi al governo poggia sulla loro capacità di organizzare condizioni di produzione che massimizzino la valorizzazione del capitale, segnatamente attraverso l’incessante aumento del tasso di sfruttamento dei proletari. Il mantenimento o la sostituzione di queste frazioni dipende non solo dalla loro capacità di imporsi e mantenersi nella guerra permanente a cui si dedicano l’una contro l’altra per accrescere i rispettivi capitali, ma anche dalla loro efficacia nella gestione dell’antagonismo di classe, più o meno espresso a seconda delle circostanze storiche. Questi due aspetti sono indissociabili dal ruolo sociale della borghesia in quanto classe dominante. L’impegno dello Stato francese si inscrive così nella necessità del mantenimento della coesione sociale nella regione.

Il FIS, dal canto suo, è il prodotto di una centralizzazione di gruppi strutturati attorno all’ideologia islamica. Si è rafforzato nel contesto del crescente malcontento dei proletari in Algeria dall’inizio degli anni ’80. La pratica di questa organizzazione è stata fin dall’inizio quella di canalizzare la combattività proletaria spostandola sul terreno religioso: soltanto una lotta per la sovranità di Allah consentirebbe di assicurare di nuovo le gioie che sono state spossessate dalla vita pagana. Il FIS fa dunque opera di inquadramento delle lotte reali del proletariato e ne snatura il contenuto. Il vantaggio rappresentato dall’inquadramento religioso era riconosciuto finanche nei ranghi del governo del FLN (“Front de Libération Nationale”) che, in quegli stessi anni, non smise di finanziare la costruzione di nuove moschee e scuole musulmane, favorendo di fatto lo sviluppo del FIS.

La loro complementarietà si rivela tanto più evidente dato che alla fin fine è grazie al FIS che la combattività proletaria dell’ottobre 1988 venne ricondotta sotto la mannaia parlamentare. Da buon partito socialdemocratico, il FIS proclamava che era giunta l’ora che “la sovranità di Allah” si insediasse anche in parlamento. Partecipò attivamente a rinforzare l’illusione che i proletari nutrivano riguardo all’organizzazione delle prime elezioni libere dopo “l’indipendenza”. Ma quali prospettive la “libera scelta” fra candidati-carnefici ha mai portato ai proletari se non la denegazione della loro lotta e il mantenimento dello sfruttamento borghese!? L’FLN, partito unico fino a quel momento, accusò una cocente sconfitta a beneficio dei dirigenti del FIS nei quali i proletari spossessati della loro lotta investivano le loro speranze di maggior benessere. Il FIS vinse le elezioni municipali del 1990, poi quelle del primo turno delle politiche nel dicembre 1991.

Ma il secondo turno delle politiche, previsto per il gennaio del 1992, non avrà mai luogo. Fu annullato in seguito all’assunzione della direzione degli apparati centrali dello Stato da parte della frazione borghese compattatasi attorno allo stato maggiore dell’esercito.

La persistenza di una forte combattività proletaria in quel periodo ci consente di capire che in realtà il FIS è stato scavalcato dagli avvenimenti (sommosse del 1991). Pertanto la frazione borghese compattatasi attorno all’esercito, facendosi forte di non avere alcuna credibilità da difendere davanti al proletariato, reputò che essa sola sarebbe stata capace di ristabilire realmente l’ordine borghese. La situazione che sfuggiva al FIS poté allora essere ripolarizzata in una guerra borghese intestina FIS/militari.

Del resto una partecipazione al governo avrebbe potuto essere fatale per il FIS. La composizione dei suoi ranghi era troppo eterogenea perché potesse, senza rischi di diserzione di massa, assumerne concretamente i compiti nella regione, cioè:

• condurre apertamente la repressione degli elementi più combattivi dell’ottobre 1988;

• proseguire la distruzione dei proletari in eccesso;

• eseguire gli inevitabili piani di austerità venturi.

L’applicazione di un simile programma gli avrebbe probabilmente fatto perdere velocemente qualsiasi credibilità fra i proletari.

Il “colpo di Stato militare” ha consentito così di completare la messa in riga dei proletari in Algeria. Questa frazione della borghesia, che si impose come partito dell’ordine, potè, come ogni volta, esercitare la sua repressione soltanto perché la combattività del proletariato era stata preliminarmente dispersa da frazioni socialdemocratiche. È essenziale qui vedere che senza partecipare (ufficialmente) al “potere”, è proprio il FIS ad aver preparato l’irregimentazione dei proletari nella morsa parlamentare che era allora la chiave della restaurazione dell’ordine borghese.

In questo caso, le frazioni socialdemocratiche uscivano quasi integralmente non compromesse dalla loro reale collaborazione repressiva. O meglio, la frazione islamica poteva presentarsi come martire e proseguire il suo ruolo di catalizzatore dei malcontenti del proletariato. Se non è escluso che alcune frazioni islamiche abbiano perfino trascinato alcuni proletari in atti di terrore borghese, è notorio che la maggioranza – se non addirittura la totalità – dei massacri abitualmente attribuiti all’“islamismo armato” sono puramente e semplicemente atti dell’esercito algerino (e dunque francese, attraverso tutti i quadri che non smette di fornire). Infine, quando il proletariato conduce il proprio terrore di classe, sotto la bandiera islamica o meno, direttamente contro l’esercito o contro altre milizie organizzate dallo Stato più localmente, la borghesia gli appiccica addosso le definizioni ideologiche di “integralismo musulmano” e di “ cieco massacro di innocenti”. Con il pretesto di quest’amalgama, sotto la bandiera della “lotta contro il terrorismo”, la borghesia applica diffusamente il proprio terrore di classe, il terrorismo di Stato. È anche così che venne giustificata la crescente militarizzazione del regime, lo “sforzo nazionale” di cui il proletariato paga sempre il prezzo. La polarizzazione borghese FIS/militari, “terrorismo/antiterrorismo”, rese possibile la messa di nuovo in riga dei proletari e l’imposizione di condizioni di sopravvivenza ancora più miserabili e di nuovi massacri.

 

Gli “Aarch”

 

Attualmente percepiamo nel movimento una vistosa debolezza, in realtà ricorrente nei movimenti attuali: il contenuto proletario viene affermato attraverso l’andamento stesso che assume la lotta, ma non viene rivendicato esplicitamente. L’obiettivo comunista non viene identificato, non viene portato coscientemente.

A livello internazionale oggi le minoranze che agiscono all’avanguardia del movimento ne rivendicano solo molto raramente le determinazioni classiste. Così la bandiera rivoluzionaria che corrisponde al contenuto della lotta è brandita solo di rado o in maniera confusa. Questa inconseguenza presenta diversi effetti nefasti:

• essa contribisce all’isolamento estremo della lotta del proletariato in Algeria dalla lotta del resto del proletariato internazionale;

• consente alla borghesia di utilizzare questa mancanza di chiarezza per trasformare la lotta in conflitti fra frazioni borghesi.

Una critica militante e responsabile di queste debolezze si inscrive imperativamente in una prospettiva rivoluzionaria e direttamente internazionalista. È in questo senso che ci sforziamo qui di:

• cogliere le determinazioni storiche di cui il movimento è oggi portatore ma la cui affermazione chiara gli sfugge;

• criticare le debolezze attuali della lotta dei proletari in Algeria;

• rompere la frammentazione del movimento proletario a livello mondiale, non solo criticando le debolezze della nostra classe a tale livello, ma anche diffondendo internazionalmente il presente contributo.

È certo che un movimento non raggiunge questa durata e questa profondità senza sviluppare un processo di organizzazione, di acquisizione di autonomia (è ciò che spesso avviene ancor prima della sollevazione propriamente detta). Le forme sviluppate nel corso di questo processo, le bandiere che esso si dà ci rimangono tuttavia poco precise. Nessuna struttura del movimento sembra finora aver dato prova di una attività internazionale di presa di contatto con proletari del resto del mondo. L’assenza di reti proletarie di diffusione della lotta ci ha imposto per adesso una dipendenza quasi totale nei confronti dell’informazione borghese, e quest’ultima ha tutte le ragioni di snaturare o di occultare le forze della lotta (in particolare quelle riguardanti la sua acquisizione di autonomia) facendo nel contempo l’apologia delle sue debolezze.

La stampa menziona, come struttura organizzativa del movimento, i “comitati di tribù”, gli “Aarch”. Questi soltanto sarebbero stati all’origine degli svariati “appelli a manifestare”. La stampa li descrive come “delle strutture ancora nebulose”. Sappiamo ben poco di questi “comitati”. Sono l’improvvisa ricomparsa di un’antica struttura sociale paesana scomparsa da più di un secolo, dopo l’annientamento di un movimento insurrezionale in Cabilia nel 1871 (la “grande sollevazione cabila” fu soffocata nel sangue dagli stessi generali francesi che avevano annientato la Comune di Parigi). Secondo la stampa la loro resurrezione si spiegherebbe “con la volontà di attingere dalla cultura locale modalità di rappresentanza che consentano di superare le divisioni amministrative. Il riferimento del vincolo di sangue costitutivo dell’Aarch consente di radunare villaggi appartenenti alla stessa stirpe, ma dispersi fra vari comuni e sottoprefetture […] Una doppia necessità ha presieduto alla resurrezione di queste strutture sociali tradizionali: prima, il fermo rifiuto da parte degli insorti di ogni forma di organizzazione politica legale, poi la necessità di trascendere le divisioni settarie”[23]. Al di là dello sproloquio culturale e particolaristico possiamo rilevare che questa resurrezione di strutture inter-paesane vietate fino ad allora esprime per lo meno la realtà di una lotta contro l’isolamento e contro le organizzazioni politiche legali.

Come succede generalmente in tutte le piattaforme che emergono dalle lotte attuali, quella di questi comitati mescola rivendicazioni basate sui bisogni reali della nostra classe e altre che comportano le polarizzazioni borghesi e i particolarismi locali: “Costoro reclamano, alla rinfusa, l’immediato allontanamento della gendarmeria, il farsi carico da parte dello Stato delle vittime della repressione, l’annullamento delle azioni giudiziarie intraprese contro i manifestanti, la consacrazione del tamazight come lingua nazionale e ufficiale, più libertà e giustizia, l’adozione di un piano d’urgenza per la Cabilia e la concessione di un sussidio di disoccupazione per tutti i senza lavoro…”[24].

Attualmente “la funzione di questi comitati di paese è essenzialmente difensiva”, secondo un commentatore preoccupato di denunciare l’immaturità politica del movimento. Costui prosegue sprezzantemente sul successo degli Aarch: “Come si può non condividere un discorso che pretende riparazione per l’aggressione subita? è un guazzabuglio di rivendicazioni diverse che non è fondato su alcuna idea in prospettiva o programma politico”[25]. Questa struttura (che raggruppa 2000 delegati) afferma infatti che “nulla è negoziabile”, ed è appunto in base a ciò che giudichiamo la sua forza. L’assenza di un progetto politico in senso borghese rivela secondo noi il rifiuto di responsabilizzarsi come amministratori, di cadere in quella trappola tesa immancabilmente dalla socialdemocrazia. Gli Aarch rifiutano anche qualsiasi processo elettivo nella ripartizione delle responsabilità.

Ci risulta tuttavia difficile valutare l’espressione di queste contraddizioni in seno agli Aarch, e questo aspetto sfugge necessariamente alle informazioni calibrate delle agenzie di stampa e ai loro zelanti commentatori. In ogni caso non possiamo ridurle ad alcuni loro appelli a manifestare “pacificamente” (quando la violenza proletaria si afferma alla più piccola manifestazione), né alle dichiarazioni di questo o quell’altro loro “rappresentante”, eventuale candidato-interlocutore presso lo Stato, quando i proletari che si riconoscono negli Aarch non solo hanno bruciato gli edifici dei partiti autonomisti e le “case della cultura berbera”, ma hanno anche rifiutato, a colpi di bottiglie Molotov, il “programma speciale di aiuto economico alla regione” proposto dalle autorità all’indomani delle prime giornate di sommosse.

Ciò di cui possiamo essere sicuri è che la rivendicazione della propria identità, la democrazia, costituisce oggettivamente il programma che la borghesia locale, nazionale e internazionale cerca d’imporre. Il proletariato, invece, non ha nulla da guadagnare in questo programma… e tutto da perdere! In Algeria, visto il contenuto reale delle azioni dirette, è un dato di fatto che il movimento proletario afferma concretamente la propria lotta contro il programma democratico, nelle sue varianti parlamentariste, di rivendicazione d’identità etc. anche se, come ovunque, è una minoranza ad imporlo. È evidente che in ogni lotta del proletariato sono presenti dei programmi al ribasso rispetto a quanto afferma il movimento nella sua pratica reale e che la stampa borghese metterà sempre in evidenza soltanto le espressioni più confuse del movimento, adoperandosi affinché il proletariato venga spossessato degli aspetti più forti della propria lotta.

 

Contro il mito dell’invincibilità dello Stato…

 

In linea di massima la socialdemocrazia ci presenta attualmente la lotta di classe come una lotta di “apparato contro apparato”: “sbirri contro manifestanti”, “giovani rivoltosi algerini contro esercito algerino”… Partendo dallo scontro fra apparati in sé, questo tipo di postulato dualistico considera solo la potenza in sé di ciascun apparato preso isolatamente. Se al termine dello scontro l’apparato contestatore risulta battuto, se ne dedurrà che la potenza dello Stato era superiore fin dall’inizio. Di fronte a questa sconfitta le frazioni socialdemocratiche dichiareranno che non era il momento di lottare, mentre alcune frazioni del proletariato raccomanderanno il volontarismo armato come unico mezzo per attaccare lo Stato onnipotente[26]. È da questo quadro adialettico di analisi che emerge il mito dell’onnipotenza dell’apparato statale. L’ideologia del riformismo armato (in questo caso l’ideologia del fochismo cara a Castro e a Guevara) considera che la forza acquisita dall’“apparato militar proletario” (cellule combattenti, guerriglia,…) corrisponda a una diminuzione dalla potenza dell’apparato borghese fino alla maturità completa dello “Stato proletario”. L’ideologia disfattista borghese considera dal canto suo ogni “sconfitta” del proletariato come un ulteriore rafforzamento dell’invincibilità dello Stato. Fra queste due ideologie vi è una semplice inversione di punto di vista. Il postulato della lotta rimane lo scontro di “apparato contro apparato”, a partire dal quale viene dedotto che la forza persa da uno dei campi si trasferirebbe nell’altro, fino a farne “il campo vittorioso”.

In contrasto con quest’incomprensione della natura dialettica dei rapporti sociali, noi affermiamo che:

• Il mito della “superpotenza” attuale dello Stato ha una realtà effettiva solo in quanto ideologia divenuta materia controrivoluzionaria, come mezzo per scoraggiare il proletariato, essendo qualsiasi lotta considerata come persa in anticipo di fronte al colosso statale.

• Lo sviluppo della potenza dello Stato borghese è sempre il prodotto della lotta di classe, del rapporto di forza sociale fra proletariato e borghesia. Parlare d’invincibilità della borghesia, di scomparsa della prospettiva rivoluzionaria rivela un’incomprensione del modo di sviluppo reale della lotta fra le classi. Quest’immediatismo nasconde il fatto che la lotta di classe si è sempre sviluppata attraverso salti qualitativi, intervallata da periodi di pace sociale più o meno lunghi. Sicuramente la durata di questi ultimi può fortificare il mito del trionfo definitivo della borghesia o la ricerca idealistica di un motore della storia diverso dalla lotta fra le classi.

• Ad ogni nuova ondata importante di lotta lo scontro fra classi si fa più teso. È dialetticamente, nel movimento di scontro tra rivoluzione e controrivoluzione, che il proletariato afferma e sviluppa sempre più chiaramente il proprio progetto rivoluzionario. È nel corso stesso della lotta che gli antagonismi si disvelano e che il proletariato opera le rotture necessarie con le forze contro-rivoluzionarie che ostacolano lo sviluppo della sua lotta, e questo avverrà fino all’abolizione della società di classe stessa ad opera del proletariato.

Non possiamo quindi vedere l’eventuale futuro arresto del movimento in Algeria come una “sconfitta” del proletariato. La denuncia che Marx aveva fatto della cosiddetta “sconfitta della rivoluzione del 1848” è ancora oggi valida:

Chi soccombette in queste disfatte non fu la rivoluzione. Furono i fronzoli tradizionali prerivoluzionari, risultato di rapporti sociali che non si erano ancora acuiti sino a diventare violenti contrasti di classe, persone, illusioni, idee, progetti, di cui il partito rivoluzionario non si era liberato prima della rivoluzione di febbraio e da cui poteva liberarlo non la vittoria di febbraio ma solamente una serie di sconfitte. In una parola: il progresso rivoluzionarlo non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate, ma, al contrario, facendo sorgere una controrivoluzione serrata, potente, facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell’insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario” (Marx, Le lotte di classe in Francia, 1850).

Pertanto, la critica rivoluzionaria può brandire risolutamente la lotta attuale del proletariato in Algeria in quanto portatrice della prospettiva rivoluzionaria, in quanto prova vivente della potenza contenuta dalla classe proletaria quando si scontra direttamente contro lo Stato.

 

… la lotta contro l’isolamento!

 

La questione che vogliamo sollevare adesso è quella di capire ciò che condiziona in ultima istanza lo scemare – sempre provvisorio – di lotte proletarie tanto perspicaci e profonde quanto quella attualmente in corso in Algeria. La spiegazione fondata soltanto sulle debolezze interne è secondo noi totalmente insufficiente in questo caso. Ci sembra che occorra assolutamente denunciare la crudele mancanza di internazionalismo proletario nei confronti della lotta dei proletari in Algeria. Infatti, se la repressione o lo sfinimento riescono ad arrestare momentaneamente il movimento, ciò non è affatto la dimostrazione della “superpotenza dello Stato” in sé, bensì, al di là delle debolezze interne del movimento, la principale conseguenza dell’attuale mancanza di internazionalismo proletario.

È un bisogno vitale per il proletariato quello di rompere con la separazione, l’isolamento, il non riconoscimento delle proprie lotte in ogni parte del mondo. Più che mai, bisogna capire che in ultima istanza è l’assenza di solidarietà proletaria internazionale che consente oggi alla potenza repressiva dello Stato di colpire le nostre lotte. Così è stato in Albania, in Iraq, … E al momento di scrivere queste righe non vediamo come potrebbe essere diversamente in Algeria. Il riconoscimento della lotta dei proletari in Algeria da parte del resto del proletariato internazionale, il suo prolungamento attraverso la lotta dei proletari del resto del mondo contro la propria borghesia, è l’unico modo di sostenere praticamente il movimento proletario in Algeria.

La borghesia, invece, sembra essere ben consapevole di questo fatto. Pertanto farà tutto il possibile per evitare questo riconoscimento. La sua prima tattica consiste immancabilmente nel disporre dei “cordoni sanitari” per isolare il proletariato in lotta dal resto della sua classe.

In Algeria il primo cordone che essa dispose per isolare la lotta in Cabilia come “lotta per l’identità berbera” fu spezzato dal riconoscimento dei proletari del resto dell’Algeria della loro lotta comune contro quel “potere assassino” che essi stessi subiscono quotidianamente. La loro evidentissima comunanza d’interessi è stata il motore dell’estensione del movimento, di un certo grado di generalizzazione.

Il secondo cordone, questa volta efficace, consiste nell’isolare la lotta dei proletari in Algeria dal resto del mondo. La facilità con cui la borghesia riesce a isolare le rivolte proletarie è molto caratteristica del periodo attuale. Essa è nuovamente consentita innanzitutto dalla mancanza di collegamenti fra organizzazioni proletarie nel mondo. Grazie al monopolio dell’informazione, la borghesia riesce molto facilmente a evitare la generalizzazione, a snaturare, a confondere le acque, con lo scopo di negare il carattere classista delle lotte. I media assumono così un livello statale essenziale nell’organizzazione del capitale come forza di dominio. Con un colpo di bacchetta magica, hanno così trasformato in spettacolo compassionevole i massacri commessi in Algeria. Hanno trasformato oggi lo scontro violento dei nostri fratelli di classe contro la loro borghesia in una “richiesta di democrazia”. Agli occhi del proletariato internazionale hanno trasformato una lotta contro il sistema in lotta per la “democratizzazione delle istituzioni”. Ci presentano la lotta che oppone in Algeria il proletariato alla propria borghesia come una lotta che oppone “cattivi generali” (crudeli, corrotti, responsabili di tutti i mali, dall’inflazione fino ai massacri) a “buone volontà democratiche”. Queste ultime hanno le “mani legate” dai generali, che “da soli dirigono di fatto il paese da quindici anni”.

La soluzione proposta dai media e da umanitaristi di ogni parrocchia è reclamare, a colpi di petizioni, una “commissione d’inchiesta internazionale sugli abusi del regime”! Preparando in questo modo un inquadramento della gestione del capitale con delle strutture statali il più internazionali possibile, questo tipo di politica partecipa anche alla costruzione del “cordone sanitario”. A questo proposito abbiamo mostrato nella nostra precedente rivista che il ruolo a malapena celato della NATO era proprio quello di evitare che la pace sociale si dissolvesse a livello mondiale. Si tratta, attraverso l’aumento dei sussidi della NATO, di rinforzare il “cordone sanitario” di protezione delle “zone sane”, contro ogni rischio di contaminazione da parte delle lotte proletarie. Isolando le zone di lotta, la NATO consente l’indispensabile ristrutturazione della coesione sociale interna di ogni Stato di fronte al proprio proletariato. Finché questo ordine sociale interno non è ristabilito, non vi è vittoria per nessuna delle frazioni della borghesia internazionale! Così, è direttamente sul piano internazionale che si prepara il massacro dei nostri fratelli di classe in lotta in Algeria e che si gioca la perennità di questo sistema di sfruttamento.

È allo stesso modo su scala internazionale che si determinerà in fine la capacità d’intervento dell’apparato repressivo algerino, come quella dello Stato francese o di ogni altro Stato. La capacità repressiva di qualsiasi livello di organizzazione dello Stato è prima di tutto determinata dalla combattività del proletariato che lo fronteggia in tutti i paesi. Tanto la paralisi attuale dello Stato algerino dipende dal livello di lotta del proletariato in questa regione, quanto la sua ristrutturazione è imminente solo grazie alla passività del proletariato nel resto del mondo di fronte a questi avvenimenti. Non vi è “superpotenza”, né di uno Stato nazionale specifico, né di nessuna coalizione internazionale borghese!

La decisione di una repressione militare di vasta portata non è priva di pericoli per la borghesia. La natura contraddittoria dell’esercito, composto anche di proletari in uniforme ne ha sempre fatto un punto particolarmente delicato del modo di produzione capitalista. Si conosce storicamente la rapidità con cui si decompongono gli eserciti borghesi non appena i proletari che li costituiscono fraternizzano con i proletari che dovrebbero combattere. Si è visto prima che la borghesia è cosciente della fragilità del suo esercito, composto per la maggioranza da proletari che hanno vissuto le sommosse del 1988. Contrariamente alla lotta di “apparato contro apparato”, allo scontro di “sbirri contro manifestanti”, l’azione disfattista rivoluzionaria, sul fronte come nelle retrovie, assilla ostinatamente la “superpotenza” dello Stato!

La generalizzazione della lotta si impone al proletariato come un bisogno vitale. Contro il mito della superpotenza dello Stato, la lotta dei nostri fratelli di classe in Algeria ci mostra che è prima di tutto perché non ha smesso di estendersi che essi sono ancora in piedi! Ma ci mostra anche che l’assenza completa di ogni solidarietà proletaria internazionale vuol dire sottoscrivere internazionalmente il suo “arresto”.

 

Soltanto l’affermazione della nostra forza, ovunque nel mondo, manifesta la negazione mortale di questo sistema che ci uccide! Soltanto la generalizzazione della lotta consentirà il superamento rivoluzionario delle società divise in classi, dando alla luce una società che soddisfi realmente i bisogni umani!

Estendiamo la lotta! Classe contro classe!

Riprendiamo la bandiera della rivoluzione mondiale!

 

Ottobre 2001

 

SEGUE…

 

Questa cronologia degli sviluppi dell’insubordinazione cabila dal giugno 2001 al giugno 2002, si basa sui resoconti apparsi nei principali quotidiani algerini, consultati su internet, e riutilizzati da alcuni italiani appassionati.

 

Dopo la manifestazione di Algeri del 14 giugno 2001, e dopo che ancora due cortei indetti per il 5 luglio e l’8 agosto vennero vietati dal governo, il 5 ottobre un’altra manifestazione chiamata per deporre direttamente tra le mani del presidente algerino Bouteflika le quindici rivendicazioni della Piattaforma di El-Kseur (vedi allegato), viene fermata alle porte della capitale da un imponente schieramento di reparti antisommossa.

Questo, “all’indomani del comunicato dei servizi del capo del governo che dà notizia di un “incontro” che avrebbe avuto luogo tra alcuni delegati degli Aarchs (di cui nessuno ha avuto il piacere di attendere alla loro conoscenza, figurarsi alla loro designazione) e il Primo ministro, signor Benflis” (“El Watan”, 6 ottobre 2001) per discutere della messa in opera delle rivendicazioni contenute nella piattaforma.

In risposta all’ennesimo divieto a manifestare ad Algeri, e alla messinscena di questo dialogo con dei delegati “taiwan” (come vengono chiamati dai cabili nel senso di “falsi”), in pochi giorni la tensione monta in tutta la regione.

Il 10 ottobre in molte località si registrano scontri tra gruppi di giovani ed elementi dei CNS (Corpo Nazionale della Sicurezza) e della gendarmeria. A El-Kseur un centinaio di ragazzi dà inizio a una fitta sassaiola contro la sede della Pubblica Sicurezza della provincia. Ad Amizour i manifestanti erigono barricate sulle strade principali del paese, e ad Aokas sono ancora dei ragazzi a innescare scontri all’uscita dalle scuole.

L’11 ottobre, in seguito alle decisioni assunte dal Coordinamento Interwilayas, il quale riunisce tutti i delegati degli Aarchs e dei comitati cittadini e di paese della regione, “Le Jeune Indépendant” lamenta che “il cordone ombelicale legale che vincola gli Aarchs al potere è ormai reciso. Peggio, il movimento cittadino della Cabilia […] si accinge a dare inizio alla disobbedienza civile totale”: tasse non pagate, fatture del gas e dell’elettricità che non vengono saldate, chiamate al servizio militare ignorate, rifiuto di tutte le scadenze elettorali venture. I delegati decidono inoltre di non rimettere più a nessun rappresentante dello Stato le rivendicazioni contenute nella Piattaforma di El-Kseur, che a questo punto diventa non negoziabile, e di bandire dal movimento chiunque accetti il dialogo con il governo.

Così, per protestare ancora contro un secondo incontro tra il Capo del governo Ali Benflis e il gruppo di delegati autonominatisi rappresentanti degli Aarchs, il 6 dicembre viene proclamato in Cabilia lo sciopero generale e si organizzano sit-in davanti a tutte le caserme dell’odiata gendarmeria. In poche ore questi sit-in si trasformano in violenti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine che in molte città e altri piccoli centri durano per ben tre giorni.

A Tizi Ouzou i rivoltosi assaltano le caserme, situate al centro della città, con pneumatici in fiamme e bottiglie molotov. A Bejaïa, insieme a Tizi Ouzou principale centro della Cabilia, il bilancio è di una ventina di feriti tra i manifestanti. Ad Amizour, invece, “i rivoltosi, non contenti di assediare il locale distaccamento della gendarmeria, se la sono presa con altri beni pubblici, bruciando le sedi della Sonelgaz [compagnia algerina del gas e dell’elettricità, N.d.T.], dell’ufficio delle imposte e dell’ONM (Organizzazione Nazionale dei Mudjahidin)” (“Liberté”, 8 dicembre 2001). A El-Kseur sono il tribunale e la casa di un magistrato a essere presi di mira e saccheggiati nonostante l’intervento dei CNS.

Col tempo la situazione si fa incandescente anche in altre regioni dell’Algeria, con iniziative di protesta talvolta molto violente. Il 29 dicembre si registrano manifestazioni di collera in molti comuni e località della provincia di Aïn Berda, a causa della cronica mancanza d’acqua potabile, del gas e dell’elettricità, a cui i giovani reagiscono innalzando barricate sulle arterie principali.

E col nuovo anno, il 22 gennaio 2002, è “la volta delle popolazioni del comune di Oued El Aneb di esprimere violentemente la propria insopportazione per come la loro vita quotidiana viene gestita da parte delle autorità locali” (“El Watan”, 23 gennaio 2002), bloccando le principali strade statali della regione di Annaba al confine con la Tunisia.

Nel mese di febbraio del 2002 scontri e tumulti, del resto mai del tutto cessati, riprendono con intensità. Il 7 una delegazione degli Aarchs viene arrestata davanti alla sede dell’ONU di Algeri. Non appena la notizia giunge a Tizi Ouzou gruppi di giovani assaltano la sede della Sonelgaz lanciando bottiglie molotov. Gli agenti dei CNS che si trovano all’interno dell’edificio rispondono con gas lacrimogeni. I manifestanti si dirigono in seguito verso il distaccamento della gendarmeria per lanciare ancora molotov e pietre. Gli scontri proseguono fino a sera.

Il 12 febbraio, il coordinamento dei comitati della provincia di Tizi Ouzou lancia la parola d’ordine di sciopero generale in tutta la Cabilia, per protestare contro la riapparizione nelle strade della gendarmeria messa al bando dopo i tumulti dell’aprile 2001 repressi nel sangue. Ciò, conformemente alla rivendicazione espressa nel quarto punto della piattaforma, nel quale si chiede “la partenza immediata dei distaccamenti della gendarmeria e dei rinforzi URS [Unità Repubblicane di Sicurezza, N.d.T.]”. La regione è completamente paralizzata. Aziende e scuole chiuse, uffici pubblici deserti, serrata dei negozi, trasporti fermi tutto il giorno. Assembramenti solo davanti alle caserme della gendarmeria, che degenerano pressoché immediatamente in scontri con le forze dell’ordine, in particolare a Tizi Ouzou, ma anche nelle vicine cittadine di Azazga e Fréha, o ancora a Akbou, Seddouk e Sidi Aïch.

Il 26 febbraio il presidente Bouteflika annuncia la data delle elezioni legislative, fissate per il 30 maggio 2002, a dispetto del fatto che sia alta la probabilità che non abbiano luogo in una regione estesa e popolosa come la Cabilia. Il movimento cittadino, che si era già espresso per il boicottaggio di ogni recupero elettorale fino a che le rivendicazioni popolari contenute nella piattaforma non fossero state soddisfatte, decide infatti di passare subito alla fase attiva di questo boicottaggio, confiscando e bruciando urne elettorali e altri documenti amministrativi, e lanciando ai primi di marzo un appello a tutti gli algerini affinché si uniscano al rifiuto (fonte “Le Matin”, 9 marzo 2002).

Frattanto, proseguono i tentativi dello Stato algerino di trovare una soluzione alla crisi e venire a capo delle sommosse popolari.

Il 12 marzo, in un discorso pronunciato di fronte ai delegati favorevoli al dialogo, Bouteflika annuncia di aver preso delle decisioni in merito alle rivendicazioni della Piattaforma di El-Kseur: il berbero sarà riconosciuto come una delle lingue nazionali, anche se non ufficiale, i reparti della gendarmeria saranno dislocati lontano dalle città ma non lasceranno la regione, e uno statuto di “vittima”, e non di “martire” verrà attribuito a tutti i caduti a seguito degli eventi dell’aprile 2001, per questo detti dai cabili della “Primavera nera”.

Tuttavia queste risoluzioni non soddisfano la popolazione. Solo alcuni giorni dopo le dichiarazioni presidenziali, intorno alla metà del mese, nei capoluoghi della regione e in molti altri comuni si scatenano vere e proprie battaglie intorno ai distaccamenti delle gendarmerie, che a Tizi Ouzou provocano un morto e decine di feriti.

Il 23 marzo lo Stato algerino sembra fare un altro passo verso la soluzione della crisi. Movimenti di reparti militari a Tizi Ouzou e Bejaïa annunciano la partenza della gendarmeria dalle due città e il suo trasferimento in località vicine.

Poi, improvvisamente, scatena un’offensiva durissima contro i delegati degli Aarchs, disponendo arresti di massa.

La sera del 25 marzo, il teatro Kateb-Yacine di Tizi-Ouzou, sede del coordinamento cittadino, viene assaltato da reparti dei CNS che arrestano ventuno delegati per detenzione di armi proibite e occupazione illegale di beni pubblici. Numerosi altri delegati si danno alla clandestinità dopo che i loro domicili sono stati perquisiti dalla polizia. La città sembra in stato d’assedio.

Già alcune ore dopo gli arresti, mentre i CNS occupano ancora la sede del coordinamento, i primi tafferugli evolvono presto in violenti scontri che trasformano la città in un campo di battaglia.

All’indomani, altri quattrocento mandati di arresto sono spiccati ed eseguiti contro altrettanti delegati di tutte le province interessate dal movimento, con accuse che vanno dalla partecipazione a scontri di piazza alla costituzione di organizzazione non autorizzata.

Il 27 marzo, il corteo chiamato a Bejaïa per esigere la liberazione immediata dei detenuti è severamente represso e impedito. Il 28, a Tizi Ouzou, sin dalle prime ore del mattino, le strade sono avvolte nella nebbia dei gas lacrimogeni, sparati per trattenere la gente nelle case e impedire così il corteo chiamato dagli Aarchs. Ma invano. Il corteo si svolge comunque al grido di slogan contro il potere, con auto messe di traverso sulle strade e scontri violenti che provocano nelle fila dei manifestanti tre morti e decine di feriti.

Mentre nei giorni e nelle settimane successive si moltiplicano gli arresti e le iniziative di lotta per tenere sotto pressione il potere algerino e costringerlo a rilasciare i detenuti (sit-in all’esterno dei tribunali, attacchi alle caserme, cortei degli studenti delle università, e migliaia di alunni che rifiutano di andare a scuola finché quelli fra i loro insegnanti che sono stati arrestati non verranno rilasciati), agli inizi di maggio riprende la campagna anti-elettorale del movimento delle assemblee popolari con appelli, cortei e distruzioni di urne elettorali.

Il 20 maggio, il presidente Bouteflika, recatosi all’università di Bouzaréah di Algeri per festeggiare l’“anno dello studente”, viene accolto da un fitto lancio di pietre dagli studenti che chiedono la liberazione dei detenuti, cui fanno seguito vari arresti. Il giorno dopo gli stessi occupano l’università ed esigono l’immediata liberazione dei loro compagni, che verranno poi graziati dal presidente come gesto per invitare alla calma e andare a votare.

Ma il 30 maggio è in un clima sempre più simile a un’aperta guerra civile che in Cabilia non si tengono le elezioni: barricate sulle strade, uffici delle prefetture e municipi occupati, urne arse sulla pubblica via per dire di no allo “elezioni della vergogna”; uno sciopero generale che paralizza tutta la regione, e in più tumulti e scontri con la polizia che provocano altri morti e centinaia di feriti. Tizi-Ouzou è ancora una città ferma all’inizio della mattinata quando improvvisamente si scatena la collera popolare non appena le urne fanno la loro apparizione negli uffici elettorali, che vengono perciò assaliti e distrutti da migliaia di giovani rivoltosi. E si racconta di scene simili in molte città, nonostante il massiccio schieramento della gendarmeria e delle forze dell’ordine.

In numerosi comuni la gran parte degli uffici elettorali non è stata neanche aperta. Alla fine della giornata la percentuale dei votanti della regione risulterà dell’1,84 %, mentre nell’intera Algeria solo del 46,9 %. Ancorché non nei termini così grandiosi della diserzione di massa alla buffonata elettorale verificatasi in Cabilia, la parola d’ordine del rifiuto delle elezioni lanciata dal coordinamento interwilayas è stata seguita ben al di là dei confini della regione.

Nel mese di giugno 2002, non solo in Cabilia, ma anche in altre regioni dell’Algeria, la situazione è sempre esplosiva e i tumulti non hanno fine. Ad est e a sud del paese, e ancora in alcuni quartieri della capitale, la collera della gente è scoppiata violenta a causa della perdurante mancanza d’acqua, e scatti di nervi collettivi, con strade bloccate ed altri edifici pubblici incendiati, si sono verificati finanche perché nella cittadina di Bordj Ghedir una corrente elettrica che va e viene ha disturbato e reso faticosa la visione dei mondiali di calcio.

Nel pomeriggio del 17 giugno anche la città di Boukadir, 210 chilometri ad ovest di Algeri, è stata teatro di tumulti senza precedenti. “è in seguito all’affissione della lista dei 129 assegnatari degli alloggi sociali che la collera dei cittadini ha raggiunto il suo parossismo. Dall’inizio degli eventi, alle 13.00, centinaia di scontenti hanno cominciato a invadere le strade e i principali quartieri della città. La strada statale n° 4 che attraversa Boukadir, è stata chiusa a più riprese con pneumatici bruciati e pietre. […] Nello stesso momento, un altro gruppo composto da 150 giovani si accaniva violentemente contro la sede del comune. Questi hanno saccheggiato l’insieme del locale in questione con sbarre di ferro, poi hanno incendiato tutto. Mobili, documenti e altri oggetti che vi si trovavano sono stati completamente bruciati” (“Liberté”, 18 giugno 2002).

In Cabilia, il 19 giugno, i detenuti del movimento cittadino incarcerati nella prigione di Tizi-Ouzou, vengono autorizzati a riunirsi in una sala del penitenziario per discutere della proposta informale di un emissario del governo giunta con la mediazione di due sedicenti delegati, poi sconfessati dal movimento. Sono stati invitati a scrivere una lettera ai delegati del coordinamento di Tizi Ouzou per chiedere di accettare un negoziato sulla Piattaforma di El Kseur in cambio della libertà provvisoria per tutti gli arrestati. Alla fine della riunione, rifiutando qualsiasi forma di ricatto esercitato dal potere, in un comunicato i detenuti ribadiscono la loro fiducia nel coordinamento cittadino e l’indisponibilità a negoziare la Piattaforma di El Kseur così come la liberazione loro e di tutti gli altri detenuti.

 

Aggiornamento - agosto 2002: a seguito di violenti e ripetuti incidenti e dell’ultimatum lanciato dal movimento il 25 luglio, il presidente Bouteflika ha graziato tutti i delegati degli Aarch detenuti, i quali all’uscita del carcere hanno dichiarato che la lotta continua...

 

Piattaforma di rivendicazione detta Piattaforma di El-Kseur

 

Questo documento è stato elaborato l’11 giugno dai rappresentanti delle wilayas Sétif, Bordj Bou Arréridj, Bouira, Boumerdès, Bgayet, Tizi Ouzou, Algeri, congiuntamente al Comitato collettivo delle università di Algeri e doveva essere depositato presso la presidenza della repubblica, al termine della manifestazione del 14 giugno.

 

Noi, rappresentanti delle wilayas (…) abbiamo adottato questa piattaforma comune di rivendicazioni:

 

1. Che lo Stato si faccia carico urgentemente delle necessità materiali di tutte le vittime ferite e di tutte le famiglie dei martiri della repressione durante questi avvenimenti.

2. Per il giudizio da parte dei tribunali civili di tutti gli autori, gli organizzatori e i finanziatori dei crimini e per la loro radiazione dai corpi di sicurezza e dalle funzioni pubbliche.

3. Per il riconoscimento dello statuto di martire per ogni vittima della dignità durante questi avvenimenti e per la protezione di tutti i testimoni del dramma.

4. Per la partenza immediata dei distaccamenti di gendarmeria e dei rinforzi delle URS.

5. Per l’annullamento delle azioni giudiziarie contro tutti i manifestanti nonché per l’assoluzione di quelli già giudicati durante questi avvenimenti.

6. Cessazione immediata delle spedizioni punitive, delle intimidazioni e delle provocazioni contro la popolazione.

7. Scioglimento delle commissioni d’inchiesta costituite dal potere.

8. Soddisfazione della rivendicazione amazigh[27] in tutte le sue dimensioni (linguistica, culturale e relativa alla sua civiltà e identità) senza referendum e senza condizioni, e consacrazione del tamazight[28] quale lingua nazionale e ufficiale.

9. Per uno Stato che garantisca tutti i diritti socioeconomici e tutte le libertà democratiche.

10. Contro le politiche di sottosviluppo, di pauperizzazione e di diseredazione sociale del popolo algerino.

11. La riconduzione sotto l’autorità effettiva delle istanze democraticamente elette di tutte le funzioni esecutive dello Stato così come dei corpi di sicurezza.

12. Per un piano d’urgenza socio-economico per tutta la regione della Cabilia.

13. Contro tamheqranit (hogra)[29] e ogni forma di ingiustizia e di esclusione.

14. Per una riorganizzazione degli esami regionali per gli alunni che non hanno potuto sostenerli.

15. Istituzione di un sussidio di disoccupazione per ogni iscritto alle liste di collocamento per un ammontare pari al 50% dell’SNMG[30].

 

Esigiamo una risposta ufficiale, urgente e pubblica a questa piattaforma di rivendicazioni.

 

Nessun perdono, nessuno, la lotta continua

 


[1] “Le Monde”, 24 aprile 2001.

[2] Yahoo! Actualités, 26 aprile 2001.

[3] “Libération”, 24 aprile 2001.

[4] “Libération”, 24 aprile 2001.

[5] “Raggruppamento per la Cultura e la Democrazia”, “Fronte delle Forze Socialiste” e “Movimento Culturale Berbero”.

[6] Commento dell’inviato speciale di Radio France, giornale radio della RTBF, 17-6-2001.

[7] “Libération”, 30 aprile 2001.

[8] “Libération”, 30 aprile 2001.

[9] Questa fu la politica dell’Internazionale Comunista dal suo II° Congresso nel 1920.

[10] “Le Soir”, 16 e 17 giugno 2001.

[11] “Libération”, 30 aprile 2001.

[12] “Libération”, 30 aprile 2001.

[13] “Libération”, 30 aprile 2001.

[14] “Le Monde”, 26 aprile 2001.

[15] “Libération”, 14 giugno 2001.

[16] Rimandiamo il lettore ai nostri articoli concernenti le lotte dei proletari in Marocco (“Le Communiste” nn. 10-11, agosto 1981), in Tunisia e in Marocco (“Le Communiste” n. 19, febbraio 1984), in Sudafrica (“Le Communiste” n. 21, dicembre 1984 e n. 23, novembre 1985) e in Nigeria (“Communisme” n. 41, dicembre 1994). Durante la fiammata insurrezionale in Irak nel 1991 sono nate anche delle lotte in Africa, in particolar modo in Egitto e nel Mali.

[17] Si veda “Communisme” n. 39, ottobre 1993.

[18] Si veda “Communisme” n. 36, giugno 1992.

[19] Dopo dieci giorni di sommosse la stampa stessa stabilisce il legame: “Questa rivolta assomiglia così tanto da trarre in inganno a quella che fece vacillare il paese nell’ottobre 1988 e fece 500 morti dopo che l’esercito ebbe sparato sulla folla” (“Libération”).

[20] “Front Islamique du Salut” [Fronte Islamico di Salvezza].

[21] “Le Figaro”, 5 luglio 2001.

[22] “Libération”, 14 giugno 2001.

[23] “L’Intelligent [sic] – Jeune Afrique”, n. 2113, 10-16 luglio 2001. A proposito degli “Aarch” si veda anche l’ineffabile “Monde Diplomatique”, luglio 2001.

[24] “L’Intelligent - Jeune Afrique” n. 2113, 10-16 luglio 2001.

[25] “L’Intelligent - Jeune Afrique” n. 2113, 10-16 luglio 2001.

[26] Riguardo a questo tipo di azione del proletariato, rimandiamo il lettore al nostro articolo “Critique du Réformisme armé” (“Le Communiste” n. 17, luglio 1983), come ad altri due nostri articoli sul terrorismo: “Contre le terrorisme d’Etat, de tous les Etats existants” (“Le Communiste” n. 26, febbraio 1988) e “Discussion sur le terrorisme” (“Le Communiste” n. 3, settembre 1979, e n. 5, gennaio 1980).

[27] “Uomo libero” in tamazight. è il nome con il quale i berberi si definiscono.

[28] Designa la lingua berbera ma anche la causa e lo stesso fatto berbero.

[29] Il primo è la traduzione berbera del secondo, termine arabo che di questi tempi si usa spesso in Algeria per designare letteralmente “disprezzo” del potere nei confronti dei suoi amministrati.

[30] Salario minimo.