Esportazione di capitale e speculazione

H.Grosmmann

Il fatto dell’esportazione di capitale compare con il capitalismo stesso. Esso è noto fin dagli inizi del capitalismo, ma come qualcosa di non “caratteristico”. Dato lo scarso livello dell’accumulazione, vi era grande libertà di investimento di capitale all’interno, senza essere costretti a esportarlo. Se al capitalismo dell’Europa occorsero 150 anni per svilupparsi dalla forma organizzativa del periodo della manifattura fino alla forma capitalisticamente sviluppata del trust mondiale, così non occorre che le aree “coloniali” di Asia, America e Africa, ripetano questo lungo sviluppo. Esse assumono il capitale nella forma più matura raggiunta nei paesi ad alto sviluppo capitalistico. Il còmpito scientifico consiste nella spiegazione di questo fatto, cioè nel presentare la funzione che spetta a questo fenomeno nel meccanismo capitalistico della produzione.

Hobson stabilisce nel suo libro sull’imperialismo che “il fattore economico di gran lunga più importante per spiegare l’imperialismo riguarda gli investimenti”, che acquistano sempre maggior peso. “L’imperialismo aggressivo, che costa così caro al contribuente, che è di così scarso valore per il produttore e per il commerciante, che è causa di così gravi e incalcolabili pericoli per i cittadini, è invece una fonte di grandi guadagni per l’investitore che non riesce a trovare in patria impieghi profittevoli per il suo capitale e insiste che il governo lo aiuti per poter fare investimenti profittevoli e sicuri all’estero”. Perché non si può dunque trovare in patria un investimento redditizio di capitale? Questa decisiva questione neppure una volta viene affrontata da Hobson; in generale, nel suo libro – che peraltro ci offre la descrizione dei fatti in modo pregevole – Hobson si discosta da ogni problema teorico.

Qual è il fattore decisivo dal punto di vista economico generale? Perché in patria il capitale non può essere investito così vantaggiosamente come all’estero? Alla base di tutta l’esposizione sta il concetto di “saturazione economica”, di eccedenza del capitale disponibile in rapporto alla possibilità d’impiego. Oltre le constatazioni empiriche non si procede, in particolare non viene mostrato perché mai in queste circostanze la condizione di “saturazione” debba subentrare necessariamente. Si esprime il processo senza darne una spiegazione. Non sono le formazioni casuali delle condizioni di mercato all’interno e all’estero i fattori determinanti dell’esportazione di capitali, bensì la regolarità interna dello sviluppo economico di una dato paese, cioè un determinato grado di questo sviluppo, ulteriormente accelerato dalla guerra e dall’arricchimento conseguito grazie alla guerra. Ma perché tali circostanze si verificano solo presso certe nazioni, presso paesi spiccatamente esportatori di capitale, mentre altri paesi sono importatori di capitali? Perché si debba giungere a tali eccedenze di capitale, perché queste non possano trovare investimento nell’economia interna del paese, questo non è spiegato.

Anche nella saggistica marxista, sebbene essa proprio negli ultimi anni si sia molto occupata dei problemi dell’esportazione e delle migrazioni di capitali, si cercherebbe invano un chiarimento della funzione vera e propria  che spetta all’esportazione di capitale nel sistema capitalistico. Mai è stata sollevata la questione, e ancor meno è stata data risposta, relativa a quale funzione e ruolo spetti all’esportazione di capitale nel sistema teorico marxiano. Si sono visti i fenomeni, come essi si presentavano in superficie, e se n’è data una descrizione, senza che si sia tentato di inserirli nel sistema marxiano complessivo. Già Ricardo aveva affermato che le migrazioni di capitale, non soltanto all’interno tra le differenti sfere di produzione, ma anche tra i differenti paesi, sono condizionate dal livello del tasso di profitto, in quanto esista la libera concorrenza; cioè, qualora nessun impedimento giuridico o di fatto si contrapponga al movimento. Se si prendessero le mosse dalla supposizione erronea che ogni somma di capitale, anche grande, possa trovare all’interno illimitata possibilità d’investimento, si dimenticherebbe la verità elementare che, negando la possibilità di sovrabbondanza di capitale, si verrebbe a negare al tempo stesso anche la possibilità della sovraproduzione di merci. Proprio Marx dimostrò l’impossibilità dell’investimento illimitato di capitale in un determinato paese, ed enunciò le condizioni nelle quali avviene la spinta all’esportazione di capitale.

L’investimento di capitale esige plusvalore. Ma il plusvalore è lavoro. Però il lavoro in ogni paese è costituito da una data grandezza, e da una data popolazione può essere estratta soltanto una determinata grandezza massima di pluslavoro, anche se dotata di una certa elasticità. L’affermazione che il capitale può essere ingrandito senza limiti sottintende che anche il plusvalore è parimenti illimitato, dunque è aumentabile indipendentemente dalla grandezza della popolazione, il che non significa altro che il plusvalore non dipende dal lavoro. Invece, il capitale del paese capitalisticamente sviluppato si appropria di una parte del plusvalore che è stato prodotto nel paese meno sviluppato. Non il tasso di plusvalore più alto, quello dei paesi meno sviluppati, forma la causa dell’esportazione di capitale, ma è la massa di plusvalore conseguita in proporzione al capitale che è più elevata in questi paesi. Come all’interno del capitalismo, pensato come sistema isolato, gli imprenditori, che si sono attrezzati con una tecnica sviluppata oltre la media sociale, vendendo le merci ai prezzi medi sociali conseguono un extraprofitto a spese di quegli imprenditori la cui tecnica è rimasta al di sotto della media sociale, allo stesso modo, sul mercato mondiale, i paesi a elevato sviluppo tecnico conseguiranno extraprofitti a spese di quei paesi la cui composizione organica è inferiore, e il cui sviluppo tecnico ed economico è arretrato.

In questo fatto risiede anche lo stimolo e nello stesso tempo la costrizione all’incessante sviluppo della tecnica, all’attuazione di una sempre più alta composizione organica del capitale nei paesi ad alto sviluppo capitalistico. Ciò significa però che, per questo motivo in questi paesi, parallelamente allo sviluppo della tecnica, all’introduzione di una sempre più elevata composizione organica del capitale sorge, nello stesso tempo, un campo per investimenti di capitale più vantaggiosi. Per quanto alti possano essere i profitti nei paesi coloniali, tuttavia gli extraprofitti dei magnati del capitale, nei settori con più alta composizione organica del capitale, non soltanto non sembrano essere inferiori, ma addirittura appaiono più elevati. Perché dunque il capitale viene esportato? Dal punto di vista della teoria per cui i più alti tassi di profitto spingono il capitale all’emigrazione, tutto questo complesso di fatti non si riesce a spiegare. Se davvero il tasso di profitto più elevato fosse il motivo dell’affluenza del capitale verso le aree poco sviluppate di Asia, America, Africa, ecc., come si spiegherebbe che nei paesi dell’Europa ad alto sviluppo capitalistico e negli Usa – nonostante il basso tasso di profitto – vengano investiti in generale capitali nell’industria? Perché il loro apparato di produzione si estende sempre più? Perché l’intero plusvalore, allora, non viene impiegato nell’esportazione di capitale? D’altro canto, non risulta che la composizione organica del capitale, nei paesi recentemente apertisi alla produzione capitalistica, sia sempre inferiore a quella della “madrepatria” del capitalismo.

Poiché soltanto nella produzione viene creato valore, dunque anche plusvalore, la riduzione del tempo di produzione rappresenta la diminuzione del plusvalore e del profitto. Perciò la politica economica capitalistica tende a cercare sfere d’investimento per il capitale monetario rimasto inoperoso. Il capitale non impiegato che cerca investimento viene esportato all’estero; l’esportazione di capitale servirebbe in questo caso a trovare nuove disponibilità per questo capitale monetario disoccupato. Senonché, non si deve confondere il capitale monetario che giace nelle banche con il capitale che cerca investimento. Una parte, e a dire il vero una parte in assoluto crescente – scrive Marx – anche se sempre più piccola, relativamente alla grandezza del volume di scambio, del capitale sociale complessivo deve sempre rimanere nella forma di denaro, come capitale monetario, e questo capitale monetario nell’interesse della continuità del processo di riproduzione può persino non essere diminuito. Sebbene, dunque, il capitale monetario, in quanto appartenente alla sfera della circolazione, non crei alcun valore, dunque nemmeno alcun plusvalore, sebbene esso limiti il funzionamento della parte di capitale produttivo, anche se, dunque, risulta improduttivo, sulla base del modo di produzione capitalistico non si può né escludere né diminuire in modo arbitrario, poiché adempie tuttavia funzioni necessarie e “poiché il processo di riproduzione stesso comprende funzioni improduttive” [Marx].

Subentra qui dunque il momento che Marx ha presente quando dice “che viene accumulato più capitale di quel che si può investire nella produzione. Donde il prestito all’estero”. Invece di accumulare il plusvalore, cioè di accrescere il capitale, questo viene reso disponibile per l’esportazione. Da questo momento in poi l’accumulazione, cioè la ritrasformazione di una parte del profitto in capitale addizionale, trova ostacoli, e questo può accadere “perché questa sfera è satura di capitale. Questa pletora di capitale monetario da prestito attesta semplicemente i limiti della produzione capitalistica, ostacolo dovuto alle leggi della sua valorizzazione”. Certamente è un limite capitalistico, “che viene costantemente spezzato dal sistema creditizio”, cioè dall’esportazione di capitale e dal plusvalore addizionale che viene conseguito in questo modo. Così l’esportazione di capitale – in connessione con la quale sta anche la funzione necessaria della speculazione nel capitalismo –  non è più un fenomeno occasionale, ma per tutti i paesi di avanzato sviluppo capitalistico è divenuta un fenomeno tipico e necessario: è divenuta un mezzo per attenuare la tendenza al “crollo”, per prolungare l’esistenza del capitalismo.

Il capitale privo d’investimento si procura così una serie di canali di deflusso, sia all’interno con la speculazione in borsa, sia all’estero con l’esportazione di capitale. Marx ha mostrato come, dietro l’apparenza dei movimenti di denaro, si debbano osservare gli avvenimenti reali dal lato delle merci. Un buon corrispondente borghese di un giornale commerciale dice: “i presupposti più importanti per un’esportazione di capitale rimangono sempre i processi economici mercantili che stanno dietro il movimento di denaro”. Non il capitale monetario, ma il capitale-merce è emerso dal ciclo del capitale industriale, il che non significa nient’altro se non l’esistenza di una sovraproduzione di capitale-merce che è invendibile e non può perciò ritrovare la via verso la sfera della produzione. [h.g.]