I Limiti dell'Economia Mista e l'accumulazione di capitale dei giorni nostri

 di Paolo Giussani

Trent'anni dopo la pubblicazione del più importante testo di Paul Mattick[1] è possibile esaminare le tesi fondamentali in esso esposte alla luce dell'evoluzione economica susseguente. Il pilastro centrale del libro di Mattick è sicuramente l'idea che le politiche fiscali keynesiane di espansione della domanda aggregata incontrino un limite intrinseco nelle possibilità oggettive di valorizzazione del capitale. Contrariamente al senso comune keynesiano-sottoconsumista, secondo il quale la redditività del capitale e la conseguente crescita della produzione complessiva dipendono dalla quota aggiuntiva di domanda creata dall'amministrazione pubblica, gli ultimi trent'anni si sono incaricati di dimostrare che quella che in generale domina è precisamente la relazione inversa: l'andamento della quota di domanda costituita dalla spesa pubblica dipende dalla redditività del capitale e dalla quota di capitale accumulato in base a questa reddivitità. Questa relazione basilare è chiaramente dimostrata dall'evoluzione economica degli anni '70, allorchè l'espansione keynesiana, invece di sollevare l'economia internazionale dalla stagnazione quasi assoluta in cui era sprofondata, andò incontro ad una fine ingloriosa finendo addirittura per essere ideologicamente percepita insieme alla sua presunta creatura, il settore pubblico dell'economia, come causa dei problemi economici del mondo.

Capitale

Si può anzi asserire che Mattick nella sua trattazione sia stato perfino troppo gentile con il keynesianismo, giacché si ebbe in seguito modo di constatare come una creazione keynesiana di liquidità, quella degli anni '70, sia sfociata nella formazione di una solida base per l'immane esplosione speculativa dei due decenni successivi; circostanza non propriamente prevedibile in base agli asserti keynesiani e neoclassici -contrariamente alla teoria classica privi di qualsivoglia spiegazione dell'investimento speculativo- e che anzi gioca un ruolo decisamente cruciale contro l'impianto keynesiano giacché la politica fiscale espansiva è da esso concepita e prevista esplicitamente come l'arma fondamentale per evitare la formazione di riserve liquide inutilizzate, esattamente il contrario di ciò che ebbe luogo negli anni '70.

La base del principio, posto da Mattick, per cui le politiche di tipo keynesiano hanno limiti assoluti è l'idea, abbastanza oscuramente esposta in Marx e Keynes e in altri testi, che l'espansione produttiva (incremento del grado di utilizzo dei mezzi di produzione e della forza lavoro) contribuisca ad aumentare la produzione in termini fisici ma non in valore ossia in termini monetari. In altri termini, l'asserzione di Mattick equivarrebbe ad affermare che la produzione aggiuntiva risultato dell'allargamento della spesa pubblica conduce ad innalzare il tasso di utilizzo del capitale fisso per la produzione di una quantità maggiore di beni non riproduttivi, che debbono quindi venire consumati improduttivamente nel periodo successivo dopo essere stati pagati con la medesima quantità di denaro del periodo precedente.

Malgrado la non eccessiva chiarezza della formulazione, Mattick coglie qui una caratteristica essenziale delle politiche espansionistiche di tipo keynesiano. Ipotizzando che la domanda aggiuntiva generata dal governo venga finanziata mediante la pura espansione monetaria attraverso la cosiddetta monetizzazione del debito pubblico, la circolazione delle merci si troverebbe occupata da una quantità aggiuntiva di denaro non creditizio (fiat money) col risultato generale di un corrispondente innalzamento dei prezzi. L'effetto sarebbe quello di evitare, almeno entro certi limiti, l'insorgere di una crisi acuta dovuta a scarsezza assoluta di domanda solvibile, lasciando tuttavia inalterate le cause di fondo dell'ostruzione del processo di accumulazione e di crescita che appartengono alla sfera del saggio di valorizzazione del capitale investito. Ne conseguirebbe una tendenza sempre meno latente alla stagnazione generale della produzione, come ancora una volta l'esperienza degli anni '70 ha mostrato.

L'altro sistema concepibile di espansione fiscale keynesiana -la spesa in deficit finanziata mediante l'indebitamento pubblico sul mercato dei capitali- dovrebbe produrre un effetto ancor più paradossale: evitando di accrescere il tasso di inflazione si priverebbe dell'unico strumento atto a trasformare una crisi acuta in una stagnazione permanente, innalzando il saggio di interesse nel breve periodo e ad abbassando il tasso del profitto netto (after-tax) nel lungo periodo allorché il denaro creditizio preso a prestito dal governo venga a scadenza; circostanza che le due violente recessioni, all'inizio ed alla fine del decennio '80- hanno messo in risalto.

Ambedue le ricette di politica economica keynesiana - più antica e radical-naif la prima, spuriamente adattata alle condizioni presenti (postkeynesianismo) la seconda- sono criticamente discusse da Mattick nel suo libro. Molto opportunamente Mattick sottolinea che è cruciale per il keynesianismo-sottoconsumismo evitare di ricondurre le crisi economiche di lungo periodo (intese come rallentamenti del processo di accumulazione e di crescita) alla sfera della redditività del capitale per mantenerle entro quella più generale ed astratta del rapporto fra domanda pagante e produzione di merci. Il keynesianismo ha le sue radici in una preordinata politica e non nel funzionamento oggettivo del capitalismo: la politica che consente ai funzionari dell'apparato amministrativo, che naturalmente non possono mancare di venire coadiuvati dai loro guru teorici, di (credere e far credere di) giocare il ruolo cruciale. Per quali e quanti che siano i mirabili effetti immaginabili dalle espansioni keynesiane, il massimo che si può pensare di trarre da esse è che conducano il livello di attività economica ad un punto prossimo al grado di utilizzo ottimale della capacità produttiva, fatto che di per sé non può avere alcun influsso sull'andamento di lungo periodo del saggio generale del profitto giacché il tasso di utilizzo della capacità produttiva si muove compiendo ampie fluttuazioni attorno ad un trend di lungo periodo che è, come è noto, marcatamente costante.

Ma la confusione metafisica fra lungo e breve periodo, cui i keynesiani hanno dato un consistente contributo, è veramente grande sotto il cielo. Il lungo periodo è convenzionalmente definito come quello in cui lo stock di capitale fisso è variabile, il breve periodo quello in cui lo stock di capitale fisso è costante. Ma se lo stock di capitale fisso è costante nel breve periodo ciò significa esso deve essere costante sempre, giacché, esattamente come ogni altro elemento del capitale, esso pure è composto di merci che vengono prodotte, vendute (e quindi consumate) tutti i giorni da parte di aziende capitalistiche costituenti giganteschi rami della produzione sociale. Se il sistema economico accresce il suo tasso di utilizzo della capacità produttiva (ovvero del capitale fisso esistente) ciò comporta che nello stesso periodo la produzione di capitale fisso addizionale debba accrescersi grazie ad un maggiore impiego di capacità produttiva nei settori che producono gli elementi del capitale fisso, ergo beni che costuiscono capitale fisso venire acquistati, installati ed utilizzati produttivamente mediamente in tutti i rami. Immaginare un accrescimento di breve periodo dell'utilizzo della capacità produttiva che lasci inalterato lo stock di capacità produttiva è pura invenzione letteraria, adottata all'unico scopo di fabbricare spazio teorico per le politiche economiche, ed il cui assunto, implicito ma ugualmente evidente e sotteso a tutti i ragionamenti teorici keynesiani, è precisamente che il capitale fisso non esista.[2] Ipotesi quest'ultima che è simmetricamente opposta a quella centrale della teoria classico-marxiana, che il capitale fisso costituisca l'elemento assolutamente decisivo di produzione, accumulazione e crescita. Per quanto lo studio delle oscillazioni e delle crisi economiche di breve periodo sia un campo totalmente sottosviluppato per l'economia politica classico-marxiana, l'osservazione dell'evoluzione fenomenologica degli ultimi 80 anni - ossia da quando esiste qualche statistica degna di tal nome - e soprattutto del periodo del secondo dopoguerra, conduce immediatamente a concludere che i fenomeni di lungo e di breve periodo sono inscindibilmente connessi. Nel periodo 1947-1973,  il cosiddetto golden age dello sviluppo capitalistico, marcato dal più elevato saggio annuo medio crescita nella storia del capitalismo moderno, le recessioni erano state molto rare, lievi e non generalizzate; nell'intervallo 1974-oggi, in cui il tasso di crescita medio è sceso ad un terzo rispetto al precedente periodo, si sono succedute con ritmo quasi frenetico, accompagnate da una fenomenologia di crescente fragilità finanziaria.

La stessa espansione a cavallo fra i due secoli, che pareva terminata con la prima guerra  mondiale e si trovò a venire prolungata solo da una fase di crescita speculativa negli anni venti, per essere riproposta in grande stile nel boom postbellico ha avuto bisogno di un lungo periodo di spaventosa perturbazione dell'economia mondiale, chiuso solo dalla seconda guerra mondiale. In un quadro di questo genere, i cicli brevi keynesiani si trovano ad essere completamente sottomessi alle variabili cosiddette di lungo periodo, che sono le uniche vere variabili dinamiche che compongono la biologia del sistema economico esistente.

Nella sua trattazione Mattick non sembra condividere il pregiudizio, molto diffuso fra i keynesiani e, più ragionevolmente, tra i nostalgici della swinging London e della dolce vita romana, secondo il quale il golden age dello sviluppo capitalistico sia stato un'epoca keynesiana ossia un periodo in cui le ricette keynesiane di politica economica dominavano assicurando con ciò la stabilità della crescita. In tutta la storia del dopoguerra il golden age è in assoluto il periodo che ha conosciuto meno intervento di tipo keynesiano, come si può evincere osservando l'andamento della spesa in deficit, pressoché nulla, e della politica fiscale applicata quasi del tutto neutrale.[3] L'analisi statistica disaggregata ha dimostrato da tempo e per tutti i paesi dell'area ocse che la nascita del welfare state è assai più antica del golden age, e che il suo sviluppo, arbitrariamente considerato un copyright keynesiano, malgrado le solite ingannevoli apparenze, è sempre stato finanziato dai contributi e dalle imposte pagate come quota dei salari lordi e non come quota dei profitti lordi, il che leva qualsiasi realismo alla mitologica nozione di una redistribuzione keynesiana del reddito attuabile ed attuata grazie al potere politico.

È piuttosto nella II guerra mondiale, come Mattick opportunamente rimarca, che va visto il periodo keynesiano per eccellenza nella storia economica moderna. Questo punto di vista appare sensato non solo in riferimento alla fenomenologia empirica ma anche alla teoria. Ciò che, fra l'altro, contraddistingue la IIGM è che si trattò di un'epoca completamente priva di accumulazione in capitale fisso, resa del tutto impossibile dalla riconversione produttiva a scopo bellico ossia dal fatto che i mezzi di produzione e la manodopera che precedentemente producevano impianti, macchinari, strutture, strumentazioni, etc. venivano ora impiegati per la produzione di beni di consumo non riproduttivo (le armi e l'apparato bellico in generale).[4] La formazione di riserve liquide inutilizzate fu neutralizzata con risparmi forzosi ed aumenti di imposte destinate all'immediato impiego nel finanziamento della produzione militare, destinazione nella quale si aggiunsero all'immane incremento della spesa pubblica deficitaria.[5] Solo le guerre su vasta scala, ossia le guerre mondiali, in cui lo stato acquisisce verso i cittadini ed i lavoratori salariati il grado di forza coercitiva sufficiente, desiderato dei keynesiani in particolare e dai sinistri in generale, possono avere un potere così forte da costringere l'economia e la società ad un tipo di accumulazione artificiosa totalmente improduttiva; e l'effetto positivo della guerra sulla lunga crescita del periodo posteriore non fu prodotto dal meccanismo immaginato dalla teoria keynesiana ma precisamente dall'assenza di questo meccanismo; ovvero dall'esaurimento completo dello stock di capacità produttiva che, abbassando ai minimi storici il rapporto capitale fisso/prodotto netto, assieme all'incremento forzato del saggio di sfruttamento innalzò il saggio generale del profitto a livelli senza precedenti, accoppiando tale movimento alla formazione di notevoli riserve liquide (i debiti forzosi), successivamente disponibili per finanziare la ricostituzione del capitale fisso sociale onde appunto approfittare dello stellare livello di redditività creato.

Denaro

Sebbene Mattick non esamini in dettaglio le questioni monetarie legate al keynesianismo ed alla teoria marxiana - oggi divenute di grandissima moda - alcune sue osservazioni tuttavia meritano considerazione. Mattick è, in particolare, uno dei pochissimi autori moderni a non farsi abbagliare dal denaro ed a capire che, per quanto possa suonare bizzarro agli orecchi del senso comune "di sinistra", nella teoria marxiana il denaro svolge una funzione passiva. Questa sana convinzione è in effetti uno degli elementi che spingono Mattick a considerare illusori i tentativi di espansione condotti dall'esterno del processo di accumulazione per mezzo di stimoli monetari di vario genere. L'idea che sia necessario creare artificiosamente delle leve alla crescita economica, di per sé inibita, è la necessaria premessa per la virtuale eliminazione, comune al keynesianismo ed alla teoria neoclassica, di ogni effettiva differenza fra credito e denaro, tratto che Mattick non manca di notare. In effetti, lo spostamento dal vecchio fondamentalismo keynesiano, magari condito di progressismo vagamente labor-libertario, al nuovo rigido e nevrotico postkeynesianismo, maggiormente in linea con le oscene psicopatologie di tipo blairiano-dalemiano, si può definire come lo spostamento teorico dalla proposizione di una politica di espansione realizzata attraverso la creazione di moneta governativa non creditizia al quella di una politica di espansione attuabile attraverso la creazione di riserve da parte dalla banca centrale che siano adeguate a qualsivoglia livello di moneta creditizia generata dal sistema bancario in risposta alla domanda di capitale monetario dei capitalisti.

Ma il problema non è né mai è stato quello della creazione di denaro creditizio bensì del suo ritorno al punto di partenza - premessa che non vale naturalmente per il denaro statale non creditizio che non è soggetto a processo di ritorno. Le polemiche fra i tifosi (neoclassici standard) dei risparmi come precondizione degli investimenti e i tifosi (keynesiani) degli investimenti come causa dei risparmi sono abbastanza comiche. È del tutto fatale, poi, che le correlazioni causali econometriche stimate dai primi attribuiscano sempre il primato ai risparmi, e quelle calcolate dai secondi debbano sempre far vincere gli investimenti. Ambedue considerano il tutto come se il denaro creditizio fosse l'unica forma di denaro esistente e l'accumulazione mediante l'indebitamento col sistema creditizio l'unica forma possibile di investimento. In realtà, la massa del denaro in possesso delle aziende capitalistiche è denaro proprio, e lo studio empirico mostra che l'andamento del tasso di accumulazione e della quota di investimenti sul prodotto netto dipende in misura cruciale dai profitti realizzati essendo in vasta proporzione costituito dal reimpiego di fondi generati internamente -esattamente come gli economisti classici e Marx teorizzarono a loro tempo. Sotto questo aspetto, la relazione fra investimenti e risparmi per come questi sono presentati nelle statistiche standard sfocia invariabilmente in ragionamenti tautologici e in discussioni del tipo di quelle attorno al sesso degli angeli, che lasciano il tempo che trovano.[6]

Proprio l'esperienza di questi ultimissimi anni sta mostrando spettacolarmente ciò che può essere un'espansione creditizia senza limiti percepibili. Dall'inizio degli anni '80 ed a velocità supersonica negli anni '90, anche grazie alle riserve create nel decennio precedente, le forme di denaro creditizio e le istituzioni in grado di crearlo, e quasi senza necessità di riserve di moneta ad alto potenziale, si sono moltiplicate assieme alle forme di credito assai più dei conigli col risultato di una crescita impressionante della massa monetaria creditizia senza inflazione dei prezzi delle merci (circostanza che demolisce completamente le banali tautologie monetariste). Il fatto è che tutto questo credito è fluito e continua a fluire in grandissima misura a finanziare la parallela esplosione speculativa (ossia l'inflazione dei prezzi dei beni non riproducibili e dei titoli), scopo per il quale si trova ad essere appositamente creato, ed in misura praticamente trascurabile ad alimentare l'accumulazione di capitale produttivo; il che è come dire che la realizzazione dei wishful thinking postkeynesiani (adattamento più o meno automatico della creazione creditizia alla domanda) ha generato proprio quel risultato generale che è dichiarato proposito dell'ideologia keynesiana evitare: lo sprofondamento dell'economia in una dinamica puramente parassitaria ed autodistruttiva.

Proprio qui si possono utilmente notare i lati ironici della nascita e della morte delle mode ideologiche. Il postkeynesianesimo, che costituisce una mutazione lamarckiana tesa all'adattamento del keynesianismo e degli economisti 'progressive' al mutato ambiente, ha eliminato dal suo armamentario la spesa in deficit finanziata dalla monetizzazione del debito pubblico che è, su di un piano puramente fantaeconomico s'intende, l'unica politica che verosimilmente potrebbe combattere con qualche efficacia l'esplosione speculativa in corso, e che proprio per questo non è proponibile ovvero non ha e non avrebbe alcuna audience. L'ossessione psicotica dei media e della società verso l'inflazione ha la sue radici nella circostanza che la tendenza all'innalzamento del saggio di inflazione dei prezzi delle merci ha l'effetto di deprimere l'inflazione dei prezzi dei titoli rendendo sempre più problematica tanto la speculazione tradizionale quanto quella basata sui titoli derivati. Ma nessun keynesiano e/o postkeynesiano ha finora notato e fatto notare questo fatto empirico assai elementare giacché questo lo spingerebbe subito verso la non attraente posizione del naif lebbroso.

Malgrado in Mattick manchino, e nemmeno si potrebbe pretendere tanto, i dettagli del meccanismo che non avrebbe in futuro mancato di riportare indietro il capitalismo verso il secolo XIX trasformandolo in una sorta di cadavere vivente, di un Nosferatu economico che si nutre del sangue dei vivi aspettando il paletto di frassino nel cuore, quelle in Marx e Keynes sono frasi che rilette a trent'anni di distanza risuonano come autentiche profezie in corso di compimento presente. Altro merito di Paul Mattick è infatti quello di prendersi gioco delle illusioni su possibili autotrasformazioni del capitalismo ovvero su automatiche transizioni, prodotte da fattori del tutto estrinseci, del sistema economico verso forme controllabili dai produttori o forme non mercantili.

L'idea che la leva fondamentale per il superamento del capitalismo sia la forza dello stato, condivisa da keynesiani, stalinisti, socialdemocratici e dal 99%  dell'estrema sinistra del secolo XX, è fortunatamente svanita da un pezzo, dando in pieno ragione a Mattick e riproponendo la concezione marxiana della "società dei liberi produttori associati" che ovviamente può essere creata solo dai produttori medesimi e non dal potere politico. L'altra credenza ideologica, ugualmente cretina e propagandata da quei filosofastri ignoranti che sono i guru dell'autonomia operaia, che il capitalismo spontaneamente si converta in un (assolutamente imprecisato) differente sistema produttivo e distributivo si basa sul presupposto ideologico che il capitale costituisca uno degli elementi della società e non l'unico elemento su cui la società si fonda. Tutte le economie che hanno preceduto la nostra nella storia umana (asiatica, germanica, schiavismo, feudalesimo) erano costituite da elementi separati e giustapposti ossia dall'unione di differenti modi di produzione, uno sviluppato ed un altro embrionale, la cui evoluzione vedeva il più recente svilupparsi autonomamente e soffocare il più antico. Il capitale invece non ammette nulla fuori di sè, solo il cosiddetto tempo libero e/o l'esistenza di persone che sopravvivono ai margini della società senza svolgere alcuna funzione economica, e può quindi trasformarsi solo decadendo, implodendo e ripiegandosi su se stesso senza essere in grado di generare spontaneamente nessun altro organismo in grado di prenderne il posto; processo questo che non è più una semplice ipotesi giacché i tempi presenti hanno la fortuna di poterlo osservare quotidianamente quasi come in vitro -quello che i laidi officianti della comica ideologia corrente hanno la ributtante impudenza di etichettare come "modernizzazione", ed in cui i nevrotici esponenti della sinistra naturalmente credono ciecamente -circostanza che è la miglior garanzia che si tratti dell'esatto contrario non essendo costoro in grado di indovinare un giudizio purchessia da quando esistono.

Milano, Febbraio 2000



[1] Paul Mattick (1969), Marx e Keynes. I limiti dell'economia mista. De Donato, Bari.

[2] Tutti i modelli presunti keynesiani di crescita di lungo periodo, in cui quindi elemento determinate è l'accumulazione di capitale fisso, sono fatalmente costretti a smettere ogni tratto tipico keynesiano e confondersi con la teoria classica, come ad es. i due famosi modelli di crescita di Kaldor.

[3] Criticando anche su base empirica il presunto mito del fenomenale sviluppo industriale del secolo XIX, alcuni sostengono che il nostro golden age postbellico sia stato un periodo del tutto eccezionale nella storia dello sviluppo economico e che la contemporaneo tipo asfittico di crescita sarebbe piuttosto la norma storica. L'osservazione è abbastanza peregrina per due ragioni principali. Le uniche serie statistiche degne di tal nome e che dunque consentono un'analisi sufficientemente ampia ed affidabile appaiono soltanto a partire dalla IIGM, prima di tale data si tratta di stime che divengono tanto più aleatorie e frammentarie quanto più ci allontana indietro nel tempo. Dal punto di vista concettuale, il confronto di fasi di sviluppo differenti nel tempo riguarda soltanto il settore capitalistico dell'economia e non l'economia nel suo insieme. Nel secolo XIX una vasta parte della produzione era ancora precapitalistica (es. la piccola agricoltura) e non si sviluppava affatto; cio spiega come mai la narrativa storica di una crescita industriale impetuosa si scontri con statistiche che indicano tassi di crescita della produzione complessiva abbastanza modesti. Dove esistono statistiche industriali settoriali (ad es. per l'industria USA) relative al secolo XIX appaiono tassi di crescita spesso superiori a quelli del nostro golden age. 

[4] Si sa che la teoria keynesiana non ama gli investimenti ossia l'accumulazione, tant'è che Keynes li concepisce solo come un residuo del consumi, reso necessario dalla calo della propensione al consumo all'aumentare del reddito.  Non essendo però in grado di formulare teoricamente (performance impossibile sotto l'aspetto logico) il motivo per cui necessariamente sopravvenga nel percorso della crescita un punto in cui la domanda aggregata diviene insufficiente ad assorbire la produzione lorda aggregata, è costretta ad asserire che l'andamento temporale degli investimenti è per sua natura decisamente più volatile di quello dei consumi (improduttivi) che vanno quindi sostenuti per conservare una crescita stabile ovvero un equilibrio di pieno impiego delle risorse produttive. Tale punto di vista si frantuma, tuttavia, al cospetto di due obiezioni. Empiricamente, si constata che la crescita è tanto più elevata e stabile quanto più tende ad accrescersi il tasso di accumulazione in capitale fisso (1896-1913; 1947-1973). Logicamente, l'espansione dei consumi improduttivi deve implicare una riduzione dei profitti netti, il che tende a sottrarre alimento all'accumulazione e a rendere vieppiù volatili gli investimenti se questi utimi sono concepiti come funzione dei profitti e del saggio del profitto. Con l'effetto logico di richiedere dosi crescenti della medicina keynesiana sino alla sostituzione integrale dell'accumulazione con i consumi non riproduttivi, meccanismo il cui più efficace e potente esempio concreto è appunto costitituito dalle economie di guerra.

[5]  Nello NSDAP e nel governo nazionalsocialista tedesco si formò una piccola cerchia di entusiasti adepti della Teoria Generale di Keynes, in cui venivano reperite ottime giustificazioni teoriche alla politica economica applicata in quel periodo. Alcuni di questi NSDAP-keynesiani erano talmente infatuati della teoria di Keynes che cercarono di persuadere Adolf Hitler a leggerne il libro. Hitler si scusò asserendo che "non si intendeva di queste faccende tecniche". Si tratta soltanto di un curioso aneddoto, ovviamente privo di significato se non quello di mostrare che i postkeynesiani, malgrado il loro nullismo e la spettacolare debacle del keynesianismo su scala planetaria, sembrano essere più presuntosi di quanto non lo fosse il Führer della razza eletta.

[6] Il fatto che il denaro appaia originarsi dal e nel sistema creditizio attraverso creazione di depositi debitori non significa assolutamente nulla e non può conferire poteri mistici alla formazione di credito bancari. Il denaro creditizio creato diviene denaro soltanto quando gli agenti economici non creditizi, ossia i capitalisti, lo accettano in pagamento e lo fanno circolare a loro volta. Lo medesima somma in denaro di origine creditizia, una volta che sia passata dal capitalista che lo ha ottenuto dalla banca come deposito di credito ad un secondo capitalista, suo fornitore di merci, e da questi accreditato su di un secondo conto o presso una seconda banca, non è più denaro creditizio ma denaro tout court ovvero un mero titolo a ritirare denaro ad alto potenziale presso la banca medesima, la quale verso il secondo capitalista (il depositante) non funge da istituto di credito ma da mero gestore monetario.