Dammi una mano ad incendiare il piano padano
il controllo sociale in Emilia

Con questo articolo vorremmo mettere in evidenza alcune probabili tendenze della politica penitenziaria in Emilia Romagna, non per fornire un quadro “localistico“ ma piuttosto per analizzare un aspetto, quello della repressione, in un’area che presenta caratteristiche omogenee rispetto al sistema produttivo, alla gestione e all’organizzazione del lavoro e della vita sociale. Più che ad una regione geografica, facciamo riferimento ad un’area metropolitana che si snoda lungo la via Emilia tra nuclei abitativi e grandi aree industriali. 

Struttura produttiva
Storicamente, l’Emilia Romagna è caratterizzata dall’esistenza di tessuti produttivi diffusi, una notevole sinergia tra grandi e piccole/medie imprese che ne costituiscono l'indotto, da un rapporto molto stretto sia tra industria e artigianato che tra industria e agricoltura. Data la struttura produttiva, quest’area è sempre stata suscettibile a facili ristrutturazioni e mutamenti, senza però pesanti ricadute sul livello occupazionale ed anzi potendo contare su un “certo” benessere dei lavoratori (il tasso di disoccupazione in Emilia Romagna è stato del 4,6% nel 1999, del 4% nel 2000 e del 3,7% nel 2001, a fronte di una media italiana del 10-12%). 
Tuttavia, è necessario anche un elevato livello di pace sociale per la riuscita di ristrutturazioni che comunque incidono pesantemente sulle condizioni di vita dei proletari e sulla composizione di classe (aumento della flessibilità e della precarietà, presenza crescente di forza-lavoro extraeuropea). Le giunte rosse emiliane, per anni hanno garantito poche resistenze alle iniziative di uscita/ripresa dai periodi di crisi, non tanto a causa di un reale consenso, quanto per il fatto che la borghesia, attraverso il PCI, poi DS, è riuscita a mantenere una vasta rete di rapporti di controllo e direzione all’interno della classe, egemonizzando pesantemente sia le organizzazioni sindacali, sia le svariate forme culturali, di movimento e di aggregazione esterne ai partiti. 
In sintesi, la particolare elasticità della struttura produttiva rende possibile il mantenimento in Emilia Romagna di una certa stabilità sociale che può avvalersi della possibilità del riassorbimento della forza-lavoro espulsa nel circuito produttivo e/o del recupero delle avanguardie di classe all'interno del mastodontico apparato burocratico-sindacale della CGIL o del PCI-DS.

Un mondo migliore è possibile... senza di voi!
Anche sul piano repressivo, una struttura produttiva e politica di questo tipo, ha condotto alla formazione di tendenze riformistiche, finalizzate formalmente alla progressiva riduzione del ricorso alla pena detentiva e, comunque, al miglioramento delle condizioni di esecuzione della pena. 
E' nostro preciso obiettivo fare piazza pulita della favoletta del carcere più umano, della riabilitazione e del recupero attraverso il lavoro, mostrando come tale ipotesi riformista sia possibile solo in ristretti contesti produttivi, capaci di assorbire la forza-lavoro eccedente ma, soprattutto, come sia perfettamente funzionale al sistema repressivo nel suo complesso. Credere di poter sostituire progressivamente il carcere con forme di custodia attenuata, alternative alla reclusione e fondate sul lavoro, significa non voler fare i conti con le contraddizioni più macroscopiche di questo sistema sociale. Il capitalismo porta porzioni di proletariato a entrare a far parte dell'esercito industriale di riserva (disoccupati). Questo meccanismo si acuisce nei momenti di crisi economica. Queste porzioni sociali vivono grazie ad attività extra-legali. L'illusione di poter umanizzare il carcere sembra così nascere in contrapposizione e in alternativa ad una visione autoritaria di "destra" ma, nei fatti, ne costituisce un elemento indispensabile e complementare. Le cosiddette misure alternative alla reclusione carceraria tramite affidamento in prova, semilibertà, lavoro esterno, comunità di recupero ecc., costituiscono un essenziale strumento materiale delle moderne politiche repressive poiché è soltanto attraverso un percorso premiale che il singolo detenuto può accedere ai benefici concessi dallo Stato. La differenziazione della pena applicata mediante il trattamento individualizzato, le meschine privazioni e il ricatto del "premio" per chi dimostra arrendevolezza collaborando, operano nella direzione di una sistematica desolidarizzazione del proletariato imprigionato e della frammentazione preventiva della sua forza potenziale come classe. 
L'"alternativa" si concretizza praticamente nello sviluppo, dove possibile, di sinergie tra istituzioni statali, datori privati di lavoro sottopagato, cooperative sociali (a Parma, il Consorzio di Solidarietà Sociale, la Sirio, la Cabiria) e associazioni di volontariato nel ruolo di intermediari di forza-lavoro. E’ così che a Parma, ad esempio, c’è una ricchezza di progetti per la formazione e il reinserimento dei detenuti e si sprecano gli appelli accorati per creare e promuovere “ponti tra fuori e dentro”, come le strutture di accoglienza e gli stages lavorativi finanziati dalla regione nei penitenziari di Parma, Forlì e Piacenza. Così pure si sprecano le tavole rotonde di esperti, mirate a sviluppare risorse e opportunità per detenuti ed ex-detenuti durante il reinserimento e a facilitare il rapporto tra luoghi di esecuzione della pena e territorio.
Di fronte alla miseria dei risultati raggiunti dall'enorme apparato riformista in Emilia Romagna sul versante della de-carcerizzazione, stanno gli alti livelli di repressione e di controllo sociale diffuso garantiti dalla sua funzione "umanitaria". Allora, per sgomberare il campo dalle illusioni riformiste di un'alternativa capitalistica al carcere e alla reclusione, sarà meglio far coincidere le ipotesi di umanizzazione del carcere - queste si, realmente utopiche poiché implicitamente paventano un capitalismo dal volto umano - con le politiche di diffusione e differenziazione del controllo sociale, cui sottendono le attuali “politiche della sicurezza”. 
In questi ultimi anni stiamo assistendo al rapido decentramento e alla diffusione territoriale del carcere, attraverso meccanismi alternativi di internamento e di controllo e la creazione di nuove strutture para-carcerarie. Una sorta di carcere metropolitano, differenziato sia in orizzontale, in relazione alla collocazione sociale del soggetto "criminale" (Centri di Permanenza Temporanea per il proletariato extraeuropeo, comunità per tossicodipendenti, manicomi per i “malati” psichici) e sia in verticale, in relazione al grado di controllo connesso alla “pericolosità sociale”. In quest'ottica, l'applicazione in forma estesa del 41bis, la detenzione nelle carceri dure, l'isolamento protratto, l'annientamento psico-fisico non sono che l'altra faccia dell'accesso individualizzato e premiale alle forme di custodia attenuata; una riedizione in chiave in moderna della logica del bastone e della carota.
Dinamiche simili possono ravvisarsi per quanto riguarda le politiche di gestione dei flussi migratori dal Sud e dai paesi più poveri dell’area mediterranea. L'alto grado di sfruttamento e l'elevata ricattabilità costringono milioni di proletari in una situazione di illegalità permanente, determinante il sovraffollamento e la nuova composizione sociale nelle carceri: al 31 maggio 2001 si hanno 1.930 detenuti italiani e 1.400 stranieri rinchiusi nelle carceri emiliane; dai dati nazionali risulta che sono solo 670 i detenuti nati in Emilia Romagna. La critica ai C.P.T., sul piano antirazzista e umanitario, non fa che rafforzare l'opzione riformista di una gestione alternativa di queste nuove strutture carcerarie e, con essa, le "politiche della sicurezza" nella loro totalità e, nello specifico, il decongestionamento delle carceri mediante la diffusione di nuove strutture di reclusione. Gli appelli all'integrazione del proletariato extraeuropeo nascondono le caratteristiche generali di queste nuove trasformazioni sociali in cui si fa sempre più labile il confine fra proletariato e sottoproletariato. 

Psycho…
Anche nella repressione dei comportamenti cosiddetti “devianti”, assistiamo all’estensione dell’uso della reclusione; anche quando suddetti comportamenti non costituirebbero un danno immediato per la società, vengono comunque considerati “pericolosi” o una minaccia per la tranquillità sociale. E’ il caso, tra i tanti, di tutti coloro che vengono definiti “malati psichici”. 
La recente occupazione del centro psichiatrico “1° Maggio” di Colorno, in provincia di Parma, ha costituito il riemergere vivo di queste tematiche; non ci soffermiamo adesso sulla cronaca o i particolari di questa lotta che saranno ripresi a margine. Ci interessa evidenziare come alcuni settori della sinistra istituzionale parmigiana si siano prodigati nel tacciare questa lotta, che è stata portata avanti insieme ai “malati” e ai loro familiari, come lotta conservatrice, difensiva della logica manicomiale. 
Come per il carcere, sembra che l’intera questione possa essere risolta attraverso una psichiatria innovativa e democratica, che sostituisce ai manicomi gli appartamenti, agli infermieri professionali gli operatori sociali, all’elettroshock e ai letti di contenzione, bombe di psicofarmaci. Il “manicomio che si libera” , come venne definito in un libro di F. O. Basaglia (“Manicomio, perché? - 1982), fa parte ed è il capostipite di tutta quella “cultura alternativa” alla cosiddetta devianza, male curabile frazionando il grande cubo, brutto, logoro e vistoso, in tanti piccoli cubetti più accettabili moralmente, ed esteriormente più discreti. 
Su queste tematiche, il dibattito è stato spesso ridotto alla contrapposizione tra sostenitori del privato e sostenitori del pubblico, tra liberisti e statalisti. Ma c’è anche chi ha pensato di poter fare di necessità virtù, proponendo il modello del privato-sociale, del sociale che si fa impresa. Questa scelta si colloca a metà strada tra pubblico e privato, poiché associa ad una gestione privatistica dei servizi, il ricorso ai finanziamenti statali, regionali, europei (pubblici), oltre all’accettazione del principio aziendale, in primis, quello della competitività. Le motivazioni ideologiche che vengono portate a sostegno del privato-sociale, coincidono con una visione della società molto superficiale: si critica il servizio pubblico ma senza mettere in discussione la logica aziendale/mercantile riprodotta nelle cooperative, anzi in esse accentuata dal carattere mistificante del “lavorare senza un padrone”. Oltretutto, il passaggio della psichiatria, della sanità in genere, dal pubblico al privato, se pur in forma ibrida (appalti e finanziamenti nel pubblico, investimenti e sgravi fiscali nel privato), garantisce notevoli fette di torta da accaparrare all’universo delle associazioni, cooperative sociali, enti ed imprenditori di questa promettente new-economy della sofferenza. Con questo, non vogliamo certo ergerci a strenui difensori del pubblico poiché, oltre a non aver mai rappresentato una risposta agli interessi proletari, è servito e serve tuttora come strumento di controllo e repressione di quegli stessi interessi. 
La tendenza a livello nazionale, tramite la proposta di legge Burani-Procaccini, è quella di inasprire ulteriormente le condizioni già precarie dei “malati psichici”, attraverso ad esempio la riesumazione della pericolosità sociale e l’estensione del ricovero coatto, tendendo a far diventare l’intero circuito dell’assistenza psichiatrica, un diffuso Ospedale Psichiatrico Giudiziario governato da operatori, cui è attribuita la responsabilità piena, anche legale, del comportamento e delle scelte di un individuo ridotto a malato. 
La psichiatria non è professata solo dagli psichiatri, ma di fatto, da tutti quelli che pensano che certi comportamenti siano automaticamente sintomi di pazzia, psicosi, schizofrenia, delirio paranoide, ecc. La classificazione tra normale e anormale, tra sano e malato di mente, è uno degli schemi più usati nel linguaggio comune e nel giudizio verso gli altri. L’intervento del controllo sociale della devianza, della malattia psichica, del comportamento anomalo, che nella pratica riveste forme di sovvenzione, assistenzialismo, soluzione dei bisogni, ha nella realtà il fine, appunto, di controllare, prevenire, annientare o recuperare alla norma del dominio e del modo di produzione capitalistico. 

Privatizzazione delle carceri
In generale, è il business il motore che permette in Emilia Romagna buone prospettive di razionalizzare al meglio il sistema repressivo. A fronte di un 33% di detenuti tossicodipendenti e 30% di stranieri, le soluzioni per il sovraffollamento, sono strutture detentive differenziate per i tossicodipendenti e il rimpatrio, previo soggiorno nei già citati C.P.T., per gli immigrati. 
La detenzione dei tossicodipendenti, si traduce di fatto in una vera e propria privatizzazione delle carceri, già paventata negli scorsi anni, oggi diventata realtà. E’ il caso di Castelfranco, in provincia di Bologna, che potrebbe rappresentare l’apripista alla penetrazione dell’interesse privato nel settore dell’esecuzione penale. Il modello è quello anglosassone. 
L’ex casa di lavoro di Castelfranco in Emilia (per la cui ristrutturazione, lo stato ha speso 15 miliardi di lire), affidata in gestione alla comunità dei Muccioli (San Patrignano), sarà il primo esperimento di carcere privato in Italia. Questa struttura è costituita da un’azienda agricola di 23 ettari con stalle, frutteti, vigne, serre, alveari e macchine agricole e, in attivazione di un protocollo d’intesa tra ministero della giustizia e regione Emilia Romagna, sarà destinata a casa di lavoro a custodia “attenuata” (un carcere “soft”) per i tossicodipendenti e potrà "ospitare" fino a 150 persone. L’operazione è iniziata a metà luglio del 2001, in ballo c’è l’assegnazione di un finanziamento della comunità europea (progetto Equal). Il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia Romagna, firma un’intesa di partnership con la comunità di Muccioli. Il 26 agosto, data di scadenza del bando europeo, viene presentato un progetto che appalta al privato l’esecuzione della pena e nel contempo impedisce il controllo da parte dell’amministrazione penitenziaria. 
E’ chiaro che con l’intervento dei capitali privati, il giro d’affari crescerà non solo intorno alle mere strutture (aree di costruzione, edificazione, forniture di vario genere), ma anche intorno alla gestione stessa dell’esercizio della penalità: insomma, più gente andrà in carcere, più ci si potrà guadagnare. Alle società private può essere data in gestione la sorveglianza interna (o parte della sorveglianza) dei detenuti o l’esecuzione della pena.

E’ ormai appurato che un sistema produttivo in fase recessiva abbia la necessità di “ottimizzare i costi”, contraendo il più possibile gli investimenti improduttivi, ma senza per questo prescindere dal potenziamento delle strutture repressive e di controllo che, proprio in relazione alla fase recessiva in atto, tendono ad essere sempre più diffuse ed affollate.
Di fronte alla necessità inderogabile di ridurre la spesa pubblica - che ha già portato a drastici tagli alla sanità, alla scuola, all'assistenza e alle pensioni, e a processi di privatizzazione - anche quella parte di spesa destinata alle "politiche della sicurezza" e, in particolare, al mantenimento del sistema penitenziario, deve essere razionalizzata. 
L'esperimento di Castelfranco in Emilia si colloca in questo scenario e non è un caso, infatti, che sulla questione l'ex direttore del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, Alessandro Margara, parla di "espropriazione dei ruoli" e di "violazione delle regole", facendosi interprete degli interessi corporativi di tutto l'apparato penitenziario. La riduzione di questa parte della spesa pubblica non potrà che passare per l'esternalizzazione/privatizzazione di parte delle funzioni di custodia e di reinserimento, quantomeno per quei detenuti che esprimono un basso grado di "pericolosità sociale". 
E' chiaro che una simile tendenza entra immediatamente in rotta di collisione con gli interessi materiali dell'apparato penitenziario che in questo modo vedrebbe ridimensionato il proprio ruolo sia in termini economici che politici.
Negli ultimi anni l'apparato politico-militare penitenziario ha rafforzato ulteriormente il proprio potere. Gli svariati benefici ottenuti dalla Polizia Penitenziaria, per il "difficile compito che svolge", svelano come dietro al pestaggio nel carcere di San Sebastiano (SS) nell'aprile del 2000, premessa delle successive manifestazioni sindacali della PP solidali con i "colleghi" colpiti da ordine di custodia cautelare, vi siano in realtà forti interessi e tendenze corporative. Il potenziamento e l'autonomia ottenuti attraverso i provvedimenti legislativi degli ultimi 10 anni, pongono il corpo di Polizia Penitenziaria come l’unico soggetto a cui delegare la gestione del carcere e il controllo sui detenuti e le detenute. Rispetto alle lotte dei detenuti il messaggio è stato chiaro: far temere che la situazione nei carceri 

L'occupazione della comunità psichiatrica 1°Maggio a Colorno (PR)
cronologia e interviste

1999: con un repentino trasferimento dei pazienti, a seguito della chiusura dell’ospedale psichiatrico “Monti” di Colorno, nasce la comunità riabilitativa 1°Maggio; la struttura, situata all’interno del parco del palazzo Ducale, al centro della città, è composta da due corpi separati, una residenza e alcuni appartamentini. I pazienti possono uscire liberamente durante il giorno e raggiungere facilmente il centro cittadino. Per molti anni la ristrutturazione e la cura dell’edificio viene abbandonata, non vengono fatti lavori di manutenzione, viene diminuito il personale.
Giugno 2002: data la necessaria ristrutturazione della struttura, il direttore dell’AUSL di Parma, Marino Pinelli, decide la chiusura della comunità e il trasferimento “provvisorio” dei pazienti nel Centro anziani San Mauro Abate di Colorno, situato in prossimità della strada provinciale Asolana (i cui costi di gestione sono aumentati e l’amministrazione non riesce ad ammortizzarli). Luogo che, tra l’altro, dato l’elevato traffico, non consentirebbe il passeggio quotidiano a cui sono abituati i “malati”. La direzione dell’AUSL si avvale della sperimentazione di una delibera, la 713, che si propone di chiudere tutti i servizi residenziali psichiatrici territoriali, di trasferire gli “ammalati” in appartamenti gestiti dalle cooperative sociali e dopo 2 anni di riabilitazione, dichiararne guariti-riabilitati il 70%, mentre il restante 30% viene dichiarato guarito dopo un massimo di altri 2 anni: entro 4 anni il 100% degli ammalati, residente negli appartamenti, verrà espulso dalla sanità e affidato a quella che la delibera chiama “welfare municipale” e “welfare familiare”, cioè i malati vengono dichiarati guariti per via meramente burocratica e scaricati dalla sanità alla assistenza sociale e sulle famiglie. In pratica ciò costituisce un risparmio nel bilancio dell’AUSL. E visto che come in tutti i processi di privatizzazione non si tratta che di un freddo calcolo economico, è chiaro che la “riabilitazione” verrebbe effettuata in appartamenti con turni soppressi, personale insufficiente e non qualificato dal punto di vista sanitario, aumento dei ritmi di lavoro e, conseguentemente, l’abbassamento della qualità del servizio.
6 novembre 2002: i familiari effettuano un picchettaggio ad oltranza per impedire il trasferimento coatto dei pazienti. L’unica psichiatra presente nella struttura, contraria al trasferimento, viene trasferita e sostituita pochi giorni dopo.
10 novembre 2002: i familiari occupano il 1°Maggio; sospendono l’occupazione in attesa di un incontro con il direttore dell’AUSL.
19 novembre: falliti gli incontri con il megadirettore, viene nuovamente occupato il centro psichiatrico 
22 novembre 2002: vengono occupati per due giorni gli uffici della Direzione Generale dell’AUSL e lì indetta un’assemblea cittadina; nella notte viene redatto dagli occupanti un opuscolo di critica alla psichiatria. Continua l’occupazione al centro 1°Maggio e viene fatto girare un foglio anonimo e intimidatorio di raccolta firme tra gli operatori contro l’occupazione. Inizia una serie di incontri tra i familiari e il direttore dell'AUSL, Pinelli, in cui si cerca di trovare un accordo per modificare l’attuazione della delibera 713.
3 dicembre 2002: rottura delle trattative con la direzione generale dell’AUSL, che propone l’attuazione di una delibera (la 614) per risolvere la vertenza ma tale delibera è stata abrogata in passato e dunque inapplicabile; una presa in giro.
7 dicembre 2002: al risveglio, Pinelli, nota con stupore che proprio sotto casa sua, in un paesino in culo ai lupi, sono comparsi manifesti recanti la sua faccia e scritte di solidarietà con l'occupazione del 1° Maggio a firma del Comitato Spontaneo per la Liberazione del Proletariato dal Business Psichiatrico (C.S.L.P.B.P.)
10 dicembre 2002: la direzione minaccia di sospendere pasti e servizi alla comunità 1°Maggio, con l’obiettivo di intralciare l’occupazione e di attuare il trasferimento. Nel pomeriggio, viene contestata una tavola rotonda che si tiene proprio nel Palazzo Ducale a Colorno (che vede la presenza di Pinelli, del sindaco di Colorno, il segretario provinciale CGIL, della CISL, l’assessore alla sanità e servizi sociali amministrazione provinciale di Parma e dirigenti delle cooperative sociali e del dipartimento salute mentale), al seguito della quale la direzione farà molti passi indietro, sospendendo l’attuazione del trasferimento.
21 dicembre 2002: dopo 33 giorni di occupazione, viene pubblicamente sconfessata la delibera 713, viene concordata coi familiari la ricerca di una sede definitiva e più idonea per il trasferimento, in cui i pazienti verranno seguiti dallo stesso personale che li segue da anni, e viene creato un osservatorio per la valutazione della “qualità” dei servizi sia pubblici che privati che potrà essere effettuata dai familiari.

Da quanto tempo sei qui al 1°Maggio?
Dodici anni, dal 1990, quasi 13. 
E' il primo posto dove sei stato?
Sono stato anche a Monticelli, ma lì dopo due mesi ti dimettono e io sarei dovuto finire in un ospizio da un prete a Gaiano, ma non ci volevo andare, allora mi hanno portato qui. Ma qui al 1° Maggio, c’ero già stato prima del ‘90 in osservazione per tre mesi, nel ’60. Avevo dei problemi al sistema nervoso che mi peggioravano un problema che avevo al polmone. Perché , se uno è sereno, è possibile che la sua malattia guarisca più in fretta.
Era molto diversa la situazione qui nel ’90?
Si, eravamo chiusi, non si usciva, eravamo tutti sotto chiave, dopo hanno cominciato a tirare via le chiavi e adesso andiamo in paese quando vogliamo, se uno si comporta bene. 
Qual è stato il motivo per cui, prima del ‘90, ai tempi in cui ti hanno portato a Monticelli, ti hanno detto che dovevi essere rinchiuso?
Io ero in marina nel ‘41-‘42; siamo stati destinati ad un’isola della Croazia, allora occupata dall’Italia, dove sono stato due anni. Nel settembre del ’43 ci hanno dimenticati, abbandonati là. Allora dopo un po’, siamo fuggiti sbarcando ad Ancona con un peschereccio. Siamo sbarcati nel porto a mezzanotte, dopo abbiamo passato dei brutti momenti e non si trovava da mangiare. Siamo arrivati in una casa di contadini che ci hanno dato del pane. Gli anni ‘44 e ’45 sono stati molto duri, sono stato nascosto in cantina perché c’erano i tedeschi che ti cercavano, infatti tanti andavano in montagna a rifugiarsi.
Quindi la guerra ha contato molto per il tuo stato di salute…
Ho avuto una pleura al polmone; a quei tempi marcavo visita, ma la vita di un uomo contava ben poco, lo Stato, il governo aveva bisogno di soldati perché bisognava tenere le linee, perciò chi si ammalava veniva trascurato…la pleura si è aggravata ed ha causato una lesione polmonare. Sono stato guarito con un’ operazione nel ’58.
Avevi la tua famiglia?
No. 
Cosa hai fatto dopo la guerra?
Ero in un negozio alimentare e poi sono stato in campagna, lavoravo con le mucche a Gaiano da dei signori che avevano 130 capi di bestiame. Nel ’48 sono stato all’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, dove mi hanno fatto 13 applicazioni di elettroshock, mi ci mandavano ambulatorialmente, non mi ricordo per quanto tempo. Ti danno della corrente che agisce sulla corteccia cerebrale.Il cuore prende certe botte, tanto che qualcuno ci è anche morto.
Perché hanno deciso che dovevi essere curato con l’elettroshock?
Perché così si curava il sistema nervoso, forse per il fatto che non dormivo e non mangiavo. Ho fatto due anni di sanatorio e la notte non dormivo mai. Fumavo qualche sigaretta perché non riuscivo a dormire e mi davano un sonnifero ma non mi faceva niente. E invece il sonno aiuta ai nervi, gli dà una certa carica. Mi hanno fatto anche molte iniezioni. Adesso ci sono dei farmaci che…quella donna là si voleva buttare dalla finestra l’anno scorso, adesso dorme e sta bene. Io prendo ancora 45 gocce di Lantanon e un po’ di elisir in gocce che mi aiuta a respirare.
Vengono utilizzati ancora molto gli psicofarmaci?
Si sempre. Anche quando c’era il dottor Mareggiati e poi sua figlia, che era la nostra dottoressa qua. Prima eravamo in 48 e ci facevano fare delle cose, pulire, lavare le scodelle, a mezzogiorno e sera. L’ho fatto per due anni, dopo non ho fatto più niente. Cammino poco perché ho un’ernia, sto seduto e ho una certa età, 81anni. Fino a due, tre anni fa, andavo anche in bicicletta. Dieci anni fa, qui, una mattina, era molto presto, ho ingoiato dell’acido caustico, in un momento di depressione. Ho perso tutti i denti e mi nutrivano con le flebo perché mi sono bruciato l’esofago. Poi il dott. Contini mi ha curato e ho ricominciato a mangiare. Ma mangio solo brodo omogeneizzato, sono 12 anni che non mangio né pane né pasta.
E i giovani che entrano qui? Loro non hanno vissuto la guerra, quale pensi che sia il motivo per cui vengono ricoverati?
Non so come mai questa gioventù adesso…una volta c’era Mussolini, dovevamo essere disciplinati a scuola, era un’altra epoca. Adesso se un maestro dà uno schiaffetto a un bambino ci fanno il processo… invece allora si diceva: quando ci vuole ci vuole.
Credi che durante e dopo l’occupazione qui al 1° Maggio sia cambiato qualcosa in meglio? O è rimasto tutto come prima?
Beh…il problema è che la nostra dottoressa non è ancora rientrata…l’hanno spostata quando c’eravate qui voi; dice che ha vinto la causa e dovrebbe ritornare presto… non so.
A noi interessava mettere la vostra opinione sul nostro giornale, noi vorremmo che mai nessuno venga rinchiuso… possono accadere tante cose o traumi nella vita di una persona che possono causare dei problemi al sistema nervoso, ma non ci piace il modo che ha questa società di risolverli, reclusione, elettroshock, psicofarmaci…
Si infatti mi hanno detto che ha sbagliato il dott. Bertolani a farmi l’elettroshock, non dovevano farmelo a me. Ho scoperto poi che era un criminologo…
…e dopo hai capito che era un criminale… 
Eh, io so tante di quelle cose che…non è che io sia un pazzo, voglio dire, è stato un terribile esaurimento in seguito a tutte le cose che mi sono accadute. Il mondo è molto complesso. La psichiatria anche; mi diceva un’infermiera tempo fa: chi è che può andare a vedere cosa c’è dentro la testa di una persona? Invece ti fanno delle domande e da lì capiscono…
Con gli altri che sono qui dentro hai un buon rapporto?
Eh dipende…vedi, quella là fuma tutto il giorno, poi le sigarette se le prestano, se le rubano, le nascondono…e io invece ho smesso di fumare da sette anni…loro, se ce le avessero, anche di notte fumerebbero. 
Ma non dipende anche dalle medicine questo fumare in continuazione?
Anche, anche. Comunque questa è una malattia che porta al bere e al fumare. E uno beve per dimenticare, come si dice? E’ tanto tempo che bevo che non mi ricordo più cosa devo dimenticare! Il bicchierotto mi piaceva anche a me, ti da un po’ di allegria. In più, ad essere malato così si ha difficoltà a stare con una donna, si ha difficoltà nei rapporti con le donne. Ci sono mille casi diversi di malattie al sistema nervoso, eh, ce n’è da studiare per conoscere quelle cose lì…
Cosa servirebbe secondo te? Che le persone avessero più tempo per parlare, per stare insieme, prima di rinchiudere o intervenire con qualsiasi cura?
E' molto difficile curare queste malattie…c’è uno che quando aveva vent’anni ha investito un ragazzo con la motocicletta, che poi è morto. Lui è qui che bestemmia tutto il giorno. 
Prima andavo anche al mare, in spiaggia…quello che conta più di tutto è l’allegria. Serve il morale; per esempio, un malato di psicosi se si sente oltraggiato, se lo tratti male, gli vengono dei nervosismi che può arrivare ad uccidere. Ma le malattie sono tutte brutte, queste sono più delicate, si tratta dei tuoi nervi, della tua testa.

Intervista 2 

Ci interessava sapere qualcosa sulla vostra storia, del perché siete qui…
Siamo qui perché non possiamo andare a casa e non possiamo andare a casa perché non sarebbe semplice per noi…è tanto tempo che sono qui, ad andare fuori non me la sentirei, non mi abituerei più alla vita di fuori..
Sai il motivo per cui sei qui dentro?
Perché dicevano che ero malata di nervi; io ero anoressica, adesso sono diventata il contrario!
Avevi un lavoro?
Io ho studiato da maestra. Per un po’ di tempo ho fatto un doposcuola, poi sono stata ferita ad un occhio in un litigio col mio padrone di casa e a Roma ho fatto l’assistente ai bambini non vedenti. 
Hai avuto molto stress in quel periodo?
Si. Ho avuto un’influenza molto forte e ho avuto un soffio al cuore e ho cominciato a piangere, piangere perché credevo di non guarire più. 
Come vanno qui i rapporti con gli altri?
Vanno bene, mi trovo bene qui, mi rispettano.
Avete avvertito come positiva la scelta dell’occupazione?
Si , perché abbiamo sentito che siete stati solidali con noi, che non ci volevate far andare in un posto peggiore di questo. Avete fatto una cosa molto buona.
Pensi che lo stare insieme e avere più tempo servirebbe più dello stare chiusi e delle medicine?
Si, si . Questo locale mi sembra anche adatto a questo. La serenità è molto importante. Si potrebbe migliorare se la vita fuori fosse meno stressante, adesso qui siamo dei pensionati, non siamo persone che lavorano e fuori ci troveremmo male.

Intervista 3

Perché sei stata ricoverata?
Perché non stavo bene.
Cos’era questo non stare bene?
Voglia di far niente, voglia di niente.
Avevi la tua famiglia? Andava tutto bene in casa?
Si, andava tutto bene in famiglia.
Avevi un lavoro?
Non ero capace di lavorare, non ero capace di fare niente.
Come hai vissuto l’occupazione? E’ cambiato qualcosa in meglio?
Non è cambiato molto, no.

inverno 2003

da Senza Freni n.0