COOPERAZIONE E CONFLITTO

a cura di Zona Industriale

"L’uomo può amare il suo simile al punto da morire per lui; non l’ama al punto di lavorare per lui" - Proudhon, Sistema delle contraddizioni economiche, 1846

Si vuole fornire, in questo opuscolo, un quadro sintetico dello sviluppo del sistema cooperativo nell’ultimo decennio, analizzandone il peso specifico nel sistema economico Emiliano-romagnolo, in particolare nel territorio bolognese. In primo luogo bisogna costatare l’ottimo stato di salute goduto dall’economia cooperativa a livello nazionale, sia a livello di incremento del fatturato, sia a livello di creazione di cooperative, che di  aumento degli addetti. Riferendosi alla ‘Lega’, è interessante notare come dal ’96 al ’98 circa metà la delle nuove adesioni a questa centrale cooperativa, sia della Associazione Nazionale Cooperative di Servizio e Trasporto, riguardano cooperative che si occupano del servizio all’impresa, del servizio alle persone, delle pulizie, della manutenzione, ecc. Inoltre quest’aria settoriale è quella che fa registrare il maggior aumento di organico, con uno sviluppo particolare delle cooperative sociali.

Alcuni esempi:

Camst, impresa italiana di ristorazione, il suo fatturato passa da 150 miliardi nel 1989 a 400 nel 1999, ha un organico di circa 5 mila dipendenti tra fissi e non , aumentato di circa 2.800 unità in 10 anni, composto per oltre l’80% da donne, con un 75% di lavoratori impiegati part-time 

Coopservice, impresa di servizi di cui i ¾ riguardano la pulizia e la quota rimanente la vigilanza, fattura circa 230 miliardi ed ha più di 4900 occupati.

Manutencoop, la cosidetta multinazionale delle cooperative.

I servizi tra mito e realtà

“L’espansione dell’occupazione retribuita delle donne, specie di quelle sposate e in età riproduttiva, è stata una delle trasformazioni più profonde della forza lavoro nei paesi sviluppati e sul piano quantitativo, di gran lunga più ampia rispetto a qualsiasi fenomeno connesso all’immigrazione…L’occupazione femminile si concentra nei servizi, nel lavoro a tempo parziale…Il lavoro a tempo parziale, soprattutto svolto da donne, è per lo più dequalificato.

Quali sono le attività meno retribuite nei paesi svilippati? Prendiamo per esempio l’Inghilterra dei primi anni ottanta( i dati fra parentesi sono in percentuale):

Per le donne: parrucchiere (95,6); bariste (89,6); cassiere di negozi(96,9); commesse(91,3); cameriere(82,3); pulitrici (87,6); operatrici di macchine per cucire (86,2); receptionist (83,3); chefs e cuoche (81,7); addette all’imballaggio (79,3)

Per gli uomini: lavoratori agricoli (88,0); baristi (74,4), inservienti ospedalieri (73,9); sorveglianti (67,6); macellai (66,0); venditori e commessi (65,5); fornai (58,9); facchini (58,8); artigiani (65,5); lavoratori generici (57,7)” - Nigel Harris, I nuovi intoccabili[1]

 

Una delle tante allucinazioni ideologiche che vengono strombazzate a destra e manca, è l’assunto seguente: la crescita del lavoro nel cosiddetto settore terziario, o se si preferisce dei servizi, dimostrerebbe la fine del lavoro industriale come luogo dell’accumulazione e del conflitto sociale. Uno sguardo meno superficiale ci fa rilevare che il lavoro nei servizi cresce come condizione necessaria alla riproduzione sociale (formazione, assistenza, trasporto, amministrazione, ecc. ) e come effetto della dissoluzione delle relazioni sociali precapitalistiche, dissoluzione che comporta la necessità di acquistare sul mercato, o di ottenere dalla macchina statale, prestazioni e servizi che nell’ambito delle relazioni sociali tradizionali erano inesistenti o garantiti dalla struttura familiare o da quella della comunità locale. Inoltre, se l’orario di lavoro effettivamente svolto si allunga,  se l’emissione nel mercato di lavoro di manodopera femminile diviene un fenomeno significativo e l’entrata nel mondo del lavoro salariato viene anticipata dalle fasce più giovani del proletariato,  tutte caratteristiche dell’attuale condizione della working class, viene conseguentemente rosicato sempre più il tempo libero dedicabile, tra l’altro, alle normali attività riproduttive ed assistenziali, con le ovvie ricadute sociali che ognuno di noi ha sotto gli occhi.

<<I costi di riproduzione sono saliti molto al di sopra del salario medio del lavoratore maschio. Non ci si può aspettare che il salario di riferimento sia sufficiente a mantenere una famiglia di quattro persone. Che le donne siano “spinte” dall’aumento dei costi del mantenere una famiglia o “attratte” dalle crescenti occasioni di guadagno, sta di fatto che oggi servono due redditi per far fronte ai costi privati della riproduzione necessari a conseguire il livello sociale desiderato di produttività ( le madri separate stanno rapidamente divenendo una delle componenti principali delle fasce di povertà)>>[2].

Il segmento della forza lavoro addetto ai servizi è, in misura crescente, supposto a condizioni di lavoro ed a relazioni sociali sostanzialmente simili a quelle che caratterizzano il lavoro di fabbrica, dall’organizzazione scientifica del lavoro all’allungamento della giornata lavorativa ( tendenzialmente 24 ore su 24, 7 giorni su sette, 365 giorni all’anno, 366 negli anni bisestili), dall’azzeramento di qualsiasi tutela alla forte precarizzazione e ad una notevole mobilità interna tra vari comparti dello stesso settore. << Se, quindi, si ha la semplice accortezza di non confondere fabbrica ed industria ci accorgiamo che il lavoro industriale cresce contemporaneamente nella produzione diretta e nel lavoro di riproduzione>>[3].

Analizzando poi il contesto statunitense, che insieme alla Germania ed al Giappone costituiscono i modelli di riferimento a prescindere per una qualsiasi analisi degna di nota dello sviluppo del sistema capitalistico, il mito della  società del ‘terziario avanzato’ appare per quello che è: pura ideologia.

<<Negli anni ottanta, i tre quarti di tutti i nuovi posti di lavoro sono stati nei servizi, ma solo un terzo di essi è stato in ambiti a ‘retribuzione relativamente elevata, soprattutto nella finanza, assicurazioni e immobili’. Quelli a salari relativamente bassi – ‘commercio al dettaglio, riparazioni e tempo libero’ – sono stati il 42 per cento. In generale la terziarizzazione ha voluto dire per milioni di persone salari bassi, impieghi instabili o saltuari a tempo parziale, e senza copertura assistenziale>>[4]

Inoltre un discorso a parte dovrebbe essere fatto sui rilevamenti statistici riguardo al mondo del lavoro in generale e alla realtà dei servizi in particolare, per comprendere quali omissioni, quali falsificazioni e quali criteri vengono usati per la metratura della società, oltre alle loro modalità di utilizzo da parte della pubblicistica di stampo divulgativo di vario genere[5].   

Riforma del welfare state, cooperative sociali, ipersfuttamento dei lavoratori…

Nel quadro strategico della gestione dei servizi sociali le cooperative hanno dato ad Enti, Istituti e amministrazioni pubbliche la possibilità, mediante il meccanismo della gara d’appalto, di utilizzare una manodopera a basso costo mantenendo allo stesso tempo un’accettabile qualità di servizio. Questo settore definito come “terzo settore”, “no profit” cioè senza scopo di lucro, o della “economia sociale” è nato con lo smantellamento dello stato sociale e occupa una forza lavoro generalmente giovane e per la maggior parte femminile, formata in appositi istituti tecnici od in corsi di formazione ad hoc finanziati pubblicamente. Facendo presa sulla “natura sociale” del servizio fornito e sulla propensione assistenziale dell’operatore - speculando sia sul disagio degli assistiti e sia sulla “buona volontà” degli assistenti – le direzioni delle cooperative fanno passare comunque ogni sacrificio dei lavoratori come necessario, essendo finalizzato al bene, appunto, degli utenti. Quando invece malumori si manifestano più continuamente e comincia a filtrare una certa volontà di cambiamento, anche riguardo alla effettiva qualità dell’assistenza data, le direzioni delle cooperative passano a forme di ricatto “meno velate”, come la minaccia di una presente e futura possibile perdita dell’appalto a causa delle eccessive richieste, o l’ ”allontanamento”, cioè il licenziamento, per i lavoratori che espongono più apertamente le loro critiche e sono determinati a vedere soddisfatte le loro richieste. Qualsiasi tentativo di far trapelare all’esterno, cioè in primo luogo alle famiglie degli assistiti e di rendere pubbliche le deficienze dovute allo cattiva gestione della direzione, compreso l’ottica prettamente economica con cui viene erogato il servizio e l’iper-sfruttamento dei lavoratori, vengono considerati come diffamante, arrecante un danno all’immagine della cooperativa, dell’amministrazione della medesima e delle forze politiche che la sostengono: “in contrasto con gli scopi sociali dell’impresa” e con le finalità di trasformazione della politica di assistenza.  Con questo sistema, la “qualità del servizio” non può che realizzarsi attraverso la rimozione ed il silenzio sulla pessima qualità della condizione lavorativa degli operatori, e degli assistiti !

La progressiva affermazione delle cooperative sociali nella gestione dei più diversi servizi è stata resa possibile da due fattori; innanzitutto il processo di ‘deregulation’ del servizio pubblico verso forme di “Welfare Mix” dove l’ente pubblico (nel frattempo aziendalizzato tramite lo strumento dell’economia finanziaria e gestionale) gestisce condizioni di erogazione del servizio, mentre al privato viene demandata l’erogazione del servizio stesso[6].

In secondo luogo le cooperative sociali si configurano come aziende dove la flessibilità organizzativa e quella del lavoro sono elevatissime, consentendo sia un’eccezionale capacità di adesione delle stesse coop. alle richieste dell’ente pubblico sia un abbassamento reale del costo del servizio.

Un dipendente pubblico che svolge lo stesso lavoro di un socio della cooperativa sociale guadagna di più, ha un trattamento migliore sotto l’aspetto previdenziale-assistenziale insieme ad altri benefici (più ferie, permessi retribuiti, orario ridotto, minore mobilità). È esattamente questa differenza nel “costo del lavoro” che ha attivato e sviluppato la politica degli appalti e dei subappalti da parte delle pubbliche amministrazioni.

Da uno studio della regione Emilia-Romagna del ’96, per esempio, relativo ai sevizi per portatori di handicap risulta che le cooperative sociali gestiscono, parte in  convenzione con le UU.SS.LL., parte direttamente, una quota pari al 46% di questi servizi, da allora questa tendenza non ha fatto che rafforzarsi.

Questo sistema produce una spietata concorrenza tra cooperative e la tendenza delle cooperative vincenti a appaltare a sua volta parte del servizio, moltiplicando quindi i profili giuridico-contrattuali degli operatori, tutta la vasta gamma dei contratti “atipici” – diversi anche all’interno della stessa cooperativa - e frantumando ulteriormente l’organico, impossibilitato a controllare minimamente l’intero processo di erogazione del servizio. La puntuale ripetizione dell’appalto poi, per un abbattimento delle spese da parte dell’Ente, o chi che sia, in perenne ricerca del miglior offerente, contribuisce ad una gara al ribasso che: o peggiora costantemente le condizioni di lavoro di una cooperativa vincitrice, e pone ai lavoratori un aut aut molto secco, quale andarsene o accettare un maggiore auto-sfruttamento, o provoca la perdita del posto dei lavoratori della cooperativa a cui non viene rinnovato l’appalto. I lavoratori spesso si trovano così costretti a “riciclarsi” in una altra cooperativa vincitrice, per continuare a svolgere magari la stessa mansione, nello stesso luogo, probabilmente a condizioni peggiori – considerato che la cooperativa sociale che vince l’appalto ha proposto condizioni economiche migliori per l’Ente (o chi che sia) di quelle precedenti, andando solitamente ad incidere sulle condizioni di lavoro: estrema flessibilità degli orari, moltiplicazione delle mansioni, abbassamento delle retribuzioni (straordinari non pagati, ore notturne pagate come diurne, inquadramento retributivo inferiore alle mansioni svolte) e quindi anche diminuzione del carico contributivo della cooperativa.

E evidente che le condizioni imposte dalla gara d’appalto funzionano da “vincoli esterni” nel processo decisionale “interno” alle cooperative, azzerando ogni possibile autonomia gestionale da parte del personale della cooperativa, sia per ciò che concerne la progettazione del lavoro e l’organizzazione dello stesso, sia trasformando in mera formalità i già rosicati residui di democrazia interna delle strutture interne delle coop.

Altre caratteristiche dovute alla specificità della condizione di socio-lavoratore, quindi non solo del lavoratore delle cooperative sociali, come i cosiddetti “regolamenti interni”, la situazione contributiva ed i diritti formalmente non garantiti al socio-lavoratore, verranno affrontate più avanti[7].

Le cooperative: avanguardia dell’intermediazione di manodopera e delle esternalizzazioni

Sebbene la legge, prima dell’introduzione del lavoro interinale nell’autunno del ’97, vietasse esplicitamente l’intermediazione di manodopera, universalmente conosciuta come caporalato, cioè la fornitura di lavoratori ad una azienda qualora lo richiedesse, le cooperative hanno praticamente svolto questa funzione, per così dire aggirando sostanzialmente la legge e anticipando il legislatore praticando la funzione, svolta in altri paesi[8], dal lavoro interinale, ma qui senza regole, reintroducendo, sotto una nuova forma, appunto il caporalato sia per ciò che concerne il servizio alle imprese nella logistica, che, violando espressamente il divieto di utilizzare personale cooperativo, direttamente in produzione, come, solo per citare alcuni esempi, alla Corticella molini e pastifici di Coticella, alla Felsineo di Zolla Predosa, alla Meliconi di Cadriano.

Le cooperative sono state per così dire anticipatrici di un modello che si è andato progressivamente affermando, con l’avvallo del sindacato e talvolta il suo contributo attivo, nel non opporsi alle esternalizzazioni o come alla Ducati-Motor opponendosi apparentemente solo quando lo ‘spezzatino’ di operai era stato già preparato dall’azienda con una ristrutturazione interna, coadiuvata dagli stessi RSU, mirante a produrre il maggior volume possibile di outputs con il minimo di organico, tra l’altro quando la maggioranza degli operai dei processi di ristrutturazione precedenti erano stati già abbondantemente fagocitati da altre aziende dell’indotto o erano stati sostituiti da quelli delle cooperative.

Riguardo a questo processo più che avanzato appaino ridicoli per esempio i punti del presente contratto alimentare che riguardano le esternalizzazioni, che certamente non puntano ad arrestarlo, ma lo sollevano all’attenzione per il possibile stravolgimento delle condizioni di lavoro dei dipendenti interessati dall’outsourcing…Chiudere la stalla quando sono già scappati i buoi!

Basta ricordare che le esternalizzazioni alla Granarolo di Cadriano hanno trasformato i lavoratori che portavano il latte in padroncini, con tutto quello che comporta in ambito di concorrenza reciproca e perdita di solidarietà con gli altri lavoratori del caseificio e successivamente i lavoratori della piattaforma in lavoratori della Cooperativa Trasporto Latte. Chi ha fatto la scelta di associarsi alla cooperativa ha visto ben presto peggiorare le proprie condizioni di lavoro, verificarsi una cristallizzazione delle gerarchie decisionali, amplificarsi di un atteggiamento omertoso rispetto alle precarie condizioni di sicurezza. Questi elementi non hanno fatto altro che provocare un esodo dei lavoratori ex-dipendenti dell’azienda, sostituiti da soci-lavoratori di serie b, più ricattabili e quindi, retroattivamente, ad un acceleramento delle dinamiche interne che si erano prodotte. La misteriosa morta di un lavoratore del CTL ed il velo d’omertà che si è voluto immediatamente stendere non hanno fatto che confermare questi dubbi[9].

Sempre più mansioni sono state esternalizzate, cioè il personale che le svolge non è più direttamente dipendente dell’azienda presso cui lavora, magari anche se si tratta della stessa persona fisica, ex compagno di lavoro. In altri casi alcune lavorazioni, o alcuni servizi, precedentemente decentrate ed affidate alla fornitura esterna, sono state concentrate nuovamente sotto lo stesso tetto, anche se gli addetti a queste sono rimasti formalmente ‘esterni’[10]. Oppure per ciò che riguarda i lavoratori interinali, gli vengono universalmente affidate le mansioni meno-qualificate, più ripetitive e talvolta più usuranti.

Nel caso specifico la ristorazione collettiva, le pulizie, la portineria, la logistica, talvolta la movimentazione interna è esternalizzata, cioè è affidata non a dipendenti dell’azienda, ma a lavoratori delle cooperative, anche se questi lavoratori lavorano continuativamente ed esclusivamente presso questa azienda. Così chi sporziona e serve le pietanze a mensa, chi passa lo straccio nei bagni e spazza per terra nei reparti, chi sposta col muletto i bancali e carica i camion, chi risponde al centralino…è di una azienda diversa, ha un inquadramento contrattuale differente ed un differente controparte.

All’interno di una stessa azienda vi è una frantumazione sul piano del profilo giuridico dei differenti lavoratori, oltre che una forte differenzianzione sul piano delle retribuzioni, dell’orario di lavoro, nonché delle tutele complessive: una moltiplicazione delle controparti e degli interessi che modifica la percezione ed il comportamento dei lavoratori che sono all’interno della stessa unità del ciclo produttivo. Questi aspetti aumentano le difficoltà di ricomposizione degli interessi dei lavoratori di una stessa unità produttiva, e talvolta gli spazi comuni di socializzazione, come se il taglio delle pause e l’introduzione dei turni e dei sabati a scorrimento non bastassero!

<<Il lavoratore delle cooperative ha nella mobilità la sua professionalità: mobilità di orari, di posto, di settore e della remunerazione legata al tempo effettivamente lavorato. È un girare dall’alba al tramonto, a volte anche la notte, dal lunedì al sabato, da un luogo all’altro, cambiando colleghi, padroni e posti di lavoro. Un girare che ricorda l’andare ‘a opera’ di un tempo o alcune figure artigiane; ma i lavoratori delle cooperative non hanno né strumenti né un mestiere e nemmeno un posto da sentire come propri e vengono per lo più addetti a lavoratori manuali e ripetitivi. Relegati ai margini dei collettivi lavorativi, svolgono la loro attività o all’esterno dei reparti di produzione, oppure vi entrano quando questi sono inattivi e deserti; mentre nelle pause pranzo è più facile incontrarli in qualche bar che nelle mense aziendali>>[11].

Il sindacato ha avvallato queste scelte rinunciando di fatto alla pretesa di rappresentare unitariamente i lavoratori di una spessa unità produttiva, anche con gli interinali, tacendo tra l’altro sulla condizione dei lavoratori impiegati nelle mansioni esternalizzate, abbandonando così il campo e promuovendo sia l’esternalizzazione che l’intermediazione di manodopera svolta dalle cooperative ed ora anche dalle agenzie di lavoro interinale.

Nei bacini industriali dove questa tendenza è stata connaturata con quel particolare modello di sviluppo produttivo, ed è il caso del capitalismo renano di matrice felsinea, le cooperative hanno conosciuto un processo di concentrazione, e di espansione territoriale e di specializzazione, una politica di finanziarizzazione, ed un livello di sviluppo tecnologico, del tutto ragguardevole, sono stati il volano infrastrutturale sul piano dei servizi all’impresa proprio di questa espansione.

Obbiettivo Lavoro: un parto cooperativo

Poco dopo l’accordo del Luglio ’93 che prevedeva la futura introduzione anche in Italia del lavoro interinale, La Lega sviluppa l’ipotesi della creazione di una propria agenzia di lavoro interinale. Obiettivo Lavoro, creata con la Compagnia delle Opere (l’associazione di imprenditori di area cattolica) e altri soggetti economici, è uno dei soggetti che preme maggiormente per la sua veloce introduzione e l’ampliamento delle sue modalità di utilizzo, oltre che per la liberalizzazione del part-time e l’ampliamento delle forme contrattuali precarie. Tra le prime 4 agenzie di lavoro interinale in Italia per volume d’affari, ha una novantina di filiali, quasi 300 dipendenti e circa 3.500 aziende clienti, stringe accordi  con il CNA il 22/3/’99 per la fornitura alle aziende aderenti al CNA di personale temporaneo e per il monitoraggio delle esigenze di organico e di profili professionali di questo comparto, successivamente prende accordi con la CONAD nell’Aprile ’99 ed mantiene rapporti privilegiati con COOP ITALIA. Attualmente nell’area milanese ha stretto accordi con la CGIL per una cooperazione nella ricerca e nella qualificazione del personale, della serie il più pulito c’ha la rogna!

Cooperazione: ricognizione attorno ad un problema

È chiaro che il processo di concentrazione e centralizzazione economico-finanziaria, processo interno alle dinamiche dello sviluppo capitalistico, genera simultaneamente e complementariamente concorrenza e monopolio (tra e di cooperative), aspetti immanenti dei soggetti interni al mercato, quale che sia la volontà soggettiva delle persone coinvolte e la percezione che queste hanno di sé.

La tendenza ad accaparrarsi una fetta del mercato sempre maggiore, ad estendere cioè la propria autorità, per così dire, economica anche ad altri settori, ad incorporare in sé molte più funzioni e processi di lavorazione, in questo caso, tipologie di servizio differenti,  esaspera la guerra di tutti contro tutti nella ricerca di profitto, nel tentativo di incrementare il margine di guadagno nella realizzazione di  questo - alzando cioè il rapporto tra prezzo e costo di erogazione di un servizio - anche attraverso la concorrenza per così dire sleale (prende un appalto che non si è in grado di svolgere e appaltarlo a sua volta ad altre ditte).

Più brutalmente, la logica mercantile ed suo nichilismo di fondo sul piano etico, hanno una forza di penetrazione e sono così pervasive che non ci sono spazi interstiziali, o nicchie che gli resistano: la legge della valorizzazione capitalista si fa beffa delle migliori intenzioni degli individui, nella incessante sete di profitto che sviluppa l’accumulazione. Quest’ultima è una forza sociale che abbisogna di risorse finanziare, piani di investimento, e non da ultima di una rigida e disciplinata divisione e organizzazione del lavoro, al fine di ottenere un adeguato ritorno economico. Classicamente sottrae alle ‘risorse umane’ più di quanto restituisca, anche se e quando lo sfruttamento è auto-sfruttamento, perché il meccanismo impersonale dello scambio ineguale tra un maggiore tempo di lavoro effettivamente svolto e un minore  salario retribuito è la pietra angolare dell’edificio sociale che volenti o nolenti, sosteniamo anche come cooperatori. Che alcune cooperative scompaiano, altre si ingrandiscono, magari inglobandone altre, che la concorrenza sia selvaggia e il mercato poco solidale, tanto da far compire le più inaspettate metamorfosi agli alti scopi sociali delle vari associazioni, è ora come ora un segreto di pulcinella con cui le ipotesi neo-cooperative dovrebbero confrontarsi, per non fare astrazione della base reale e cristallizzare la buona volontà.

Coop-Adriatica a Bologna

Durante la stagione estiva, una compagna della Rete Operaia è stata assunta dall’agenzia di lavoro interinale Obbiettivo Lavoro per lavorare come part-tim  in un punto vendita della Coop-Adriatica.

Durante lo sciopero del 12 Agosto dei dipendenti di Coop-Adriatica di Bologna e provincia (vedi: ‘Alcune note sul Commercio’ sul 2° numero - Ottobre 2000 di Zona Industriale) ha conosciuto un membro delle R.S.U., nonché attivista sindacale della Filcams-CGIL.

La seguente intervista è il prodotto di tale relazione, con lei e con alcuni compagni della Rete Operaia. Sebbene vi siano profonde divergenze  tra gli intervistatori e l’intervistato, sia rispetto alla pratica di intervento, ai limiti - o alle prospettive - dell’azione sindacale, agli spazi di agibilità che sono dati all’interno delle R.S.U. come all’interno di una struttura sindacale, sia sui punti di debolezza (o di forza) dell’azione dei lavoratori, evidenziati e prefigurati da una mutata composizione sociale e contrattuale dell’organico e dalla  strategia ‘offensiva’ della direzione, il senso dell’intervista è da un lato la necessità di far emergere, il punto di vista di un salariato e dall’altra la volontà di intrecciare relazioni proficue con tutti i lavoratori che desiderano iniziare un lavoro di con-ricerca ed un confronto, anche aspro e serrato, con la rete operaia sulle linee strategiche dell’intervento di classe e le riflessioni che questo può far scaturire: cioè un contributo alla crescita politica ed alla militanza attiva della classe.

Qual è la composizione dei dipendenti Coop-Adriatica di Bologna e provincia?

La C-A ha 5.749 dipendenti, di cui poco più di 4.000 donne e poco meno di 1.700 uomini, su un totale di 115 punti vendita, tra cui 8 ipermercati. L’area bolognese occupa circa la metà dei dipendenti, con circa 34-35 punti vendita, tra cui 4 iper.  

Quali sono la differenze con le altre realtà della grande distribuzione  a Bologna rispetto alla condizione lavorativa (Conad, Euromercato, Esselunga, Ikea, ecc.) e all’agibilità sindacale?

Dai dati in mio possesso non c’è paragone nell’agibilità sindacale tra noi e la ‘concorrenza’. Nell’area bolognese sono presenti in Coop-Adriatica circa 110 componenti RSU di cui un centinaio iscritti o comunque eletti nelle liste CGIL, gli altri suddivisi tra CISL e RDB e nonostante problemi ce ne siano le cose vanno sicuramente meglio che nelle altre catene della distribuzione. In Esselunga, se le cose non sono cambiate in questo ultimo periodo, non c’è un iscritto a nessuna organizzazione sindacale, cosa che comporta ovviamente grossi problemi al sindacato per potere intervenire sulle problematiche interne…Anche le minime tutele sono del tutto assenti. Ho visto una lettera di un lavoratore licenziato perché aveva tolto troppa cotenna dal prosciutto. Per il suo capo-reparto assieme alla cotenna c’era troppo prosciutto che poteva essere venduto, e così è stato licenziato!

In Conad i SM sono in gestione ai privati, cioè i capi-negozio non sono dipendenti di Conad, come per esempio in C-A. Solo Iper Pianeta è gestito direttamente da Conad e solo lì la RSU ha un certo peso, non ostante la presenza di alcuni RSU anche in alcuni SM. All’Ikea di Bologna la R.S.U. è presente ma sicuramente non riesce a competere per agibilità con la RSU di C-A. L’altro anno(1999 per chi legge n.d.r.) la decisione del signor IKEA di distribuire equamente a tutti i dipendenti l’1% del proprio guadagno ha tagliato le gambe alle RSU! Per i dipendenti IKEA, le domeniche lavorative sono la norma, essendo sotto il contratto collettivo del commercio dei mobilifici, si può stare aperti 56 domeniche l’anno. Inoltre, la quasi totalità dei dipendenti è assunta part-time, con part-time anche di 8 ore, mentre in C-A i contratti con l’orario più ridotto sono di 18 ore pagate 20. Molto sinteticamente, i 110 delegati di C-A di Bologna e provincia sono fino ad ora riusciti ad essere un filtro ed una mediazione efficace per le istanze della direzione, che si trovava durante le trattative un muro di persone in grado di replicare alle loro pretese nonostante sventolassero la bandiera della differenza della cooperazione, dei suoi valori, ecc. Nei punti vendita dove i RSU marcavano stretto i capi-negozio e dove c’era una certa vigilanza nella verifica dell’effettiva attuazione degli accordi, la direzione doveva tenere il freno tirato rispetto alla pratiche non conformi ha ciò che era stato deciso, mentre altre situazioni di C-A l’azione delle RSU è risultata piuttosto blanda.

Come la legge Bersani (vedi ‘Alcune note sul commercio’ sul n.2 ZI, n.d.r.) ha cambiato il tempo di lavoro nella CoopAdriatica(apertura fino alle 10 di sera, domenica, ecc.): puoi descrivere la tendenza degli orari di lavoro e le varie tappe rispetto a servizi che si vanno estendendo 24 su 24, sette giorni su sette?

Sulla Legge Bersani bisogna dire che le uniche voci contrarie da parte dei lavoratori si sono sollevate a Bologna, in quanto fino ad allora si era riusciti a livello sindacale a limitare lo splafonamento degli orari. Con questa legge, a Bologna ci siamo trovati a combattere in completa solitudine e quindi nonostante i malumori dei lavoratori, non è si è riusciti a far nulla. Fino allo sciopero di Agosto, il tavolo unico tra sindacati, comune e aziende istituito dalla Legge sugli orari di apertura e chiusura lavorava discretamente, e si era riusciti a stabilire l’apertura serale per due giorni settimanali in alcuni periodi dell’anno e per tre giorni settimanali per altri periodi dell’anno, nonché le 13 domeniche annuali di apertura dei punti vendita per tutte le realtà della grande distribuzione, senza scatenare la guerra al rialzo di tutti contro tutti. Certamente la possibilità dell’apertura serale e il passaggio da 3 o quattro domeniche previste per Dicembre a 13 in un anno, è stato un peggioramento obbiettivo delle condizioni di lavoro. Ma ad Agosto C-A non ha rispettato gli accordi ed ha deciso unilateralmente cosa fare, non comunicando la propria intenzione di anticipare l’apertura del lunedì alle 12:30 anziché alle 14:00, con tutti i problemi immaginabili per chi per esempio finisce di lavorare la sera del sabato e deve iniziare nuovamente il lunedì nella tarda mattinata, sbilanciando pesantemente gli organici.  

Da qui è partita la decisone unitaria delle RSU del primo sciopero dei dipendenti della C-A contro una decisione della direzione, che è riuscito non ostante la pratica di intimidazione della direzione stessa.

Che impatto ha avuto l’introduzione del lavoro interinale ? Quale era prima il percorso per essere assunti? Quali sono i piani della azienda nel contenimento dell’organico: avevi spiegato per esempio che la CoopAdriatica tende fisiologicamente a programmare il proprio organico eccessivamente per difetto…

Anche per quello che riguarda il lavoro interinale la situazione è senz’altro differenziata da Coop alla concorrenza. Premettendo che anche in Coop nei SM dove la RSU non vigila attentamente l’azienda tende a usare interinali maggiormente, ma dove ci sono le RSU attente, il percorso è il seguente: 1 mese di lavoro è con contratto interinale, poi se il contratto viene rinnovato si passa direttamente alle dipendenze di Coop, ovviamente con contratto a termine ma con tutte le garanzie che il contratto integrativo prevede. Bisogna dire che i tempi per essere assunti a tempo indeterminato sono lunghi. C’è una continua sostituzione dei dipendenti dell’organico che vanno in maternità, data la composizione prevalentemente femminile, con personale a tempo determinato e part-time. Queste persone entrano in graduatoria, e alle prime 110 persone di questa lista la Coop si impegna a farle lavorare almeno 78 giorni l’anno, che sono i giorni richiesti per accedere all’indennità di disoccupazione a requisiti ridotti. L’altra graduatoria riguarda invece direttamente i dipendenti di Coop-Adriatica, per il passaggio da lavoratore part-time a full-time. Certamente se non ci si impegna nel far rispettare questo impegno formale da parte dell’azienda che non trova ostacoli, questa va avanti per la propria strada…Se sei poi un lecchino, ed hai appena conosciuto il direttore, ti può mettere in ‘percorso di carriera’, perché per lui sei un potenziale capo, perciò queste graduatorie saltano e la mobilità interna diventa molto celere… Ma questi casi finora hanno costituito solo una eccezione.   

La Coop è stata una delle prime aziende a voler riformulare l’organizzazione del lavoro secondo i principi del modello Giapponese(Circoli di Qualità, eliminazione delle gerarchie, ‘valorizzazione’ delle risorse umane), puoi descriverne le tappe e i risultati, come i lavoratori l’hanno presa?

Con l’apertura del Centro Borgo nel ’89 Coop, con il sostegno della Filcams, iniziò questo tipo di percorso, ovviamente anche se il fine era uguale almeno formalmente, l’ipotesi di lavorare senza capi e di un miglioramento delle condizioni di lavoro, gli obbiettivi erano diversi. Per Coop era importante risparmiare sulle varie figure di livello intermedio, per il sindacato dimostrare che i lavoratori oltre le braccia, hanno anche il cervello. Poi Coop si è accorta che le figure intermedie gli servivano più per il controllo dei lavoratori che per organizzare il lavoro, mentre la Filcams ha dovuto capire che ai lavoratori non andava bene dare il proprio cervello, oltre alle braccia, all’azienda, e che molte volte fa comodo continuare a criticare i capi, piuttosto che cercare di risolvere i problemi in prima persona.

Ci si è scontrati da un lato con l’atteggiamento dei capi che non tendevano a delegare a nessuno le loro facoltà decisionali, vedendo questa possibilità come un venire meno del proprio potere sui dipendenti e quasi ad una mancanza di fiducia nei loro confronti da parte dell’azienda, dall’altro da una mancata volontà dei lavoratori di assumersi direttamente responsabilità riconosciute solo nominalmente, ma non retribuite. I PSC ( i nipponici Circoli di Qualità, n.d.r.) che si erano formati, sono stati più i vettori di spiate e infamie incrociate, cioè strumenti di auto-controllo, piuttosto che gli organismi che avrebbero dovuto realizzare una organizzazione del lavoro orizzontale senza capi appunto.

Negli anni successivi, nel ’96, sono stati organizzati poi una decina di gruppi di lavoro su specifici problemi reali composti da lavoratori: su come per esempio calcolare con parametri veridici l’organico necessario per singola unità di vendita, visto il continuo tira e molla tra la direzione convita del sovranumero dell’organico e i lavoratori convinti della sua insufficienza, su come fare l’inventario e altro. Questi gruppi hanno lavorato, l’azienda l’ha riconosciuto, però evidentemente qualcosa non ha funzionato. Delle soluzioni a quei singoli problemi trovate dai vari gruppi non ne è stata applicata quasi nessuna, perché quasi tutte si sono dimostrate più onerose nella loro possibile applicazione rispetto al costo economico delle varie attuali deficienze organizzative.

C’è una politica discriminatoria rispetto all’assunzione di lavoratori immigrati?

Su questo punto non posso che rispondere solo a sensazione, in quanto non ho dati oggettivi.

Ma comunque mi sembra strano che nessun lavoratore immigrato faccia domanda di assunzione in C-A e tutti la facciano in Manutencoop per pulire i nostri bagni, o i corridoi.

E così anche per l’agenzia di lavoro interinale di cui usufruisce Coop (Obbiettivo Lavoro), possibile che anche lì nessun lavoratore immigrato sia iscritto?

Il mio pensiero è che non sono casi, ma c’è una regia occulta che gestisce queste cose, ma non lo posso dire perché non ne ho le prove.

 

Cosa resta per te dello “spirito” cooperativo oggi?

 

Dello spirito cooperativo iniziale, siccome non mi arrendo, non dico che non c’è più niente, ma comunque molto poco.

Il movimento cooperativo sfoggia le varie beneficenze per fare vetrina, aderisce a quasi tutte le campagne mondiali di solidarietà ai popoli e alle terre, contro lo sfruttamento dei minori, ecc. ecc.

Ma si nasconde poi dietro alla scusa del mercato per mantenere i lavoratori precari e peggiorare in termini di orario la vita dei propri dipendenti.

Secondo me, le condizioni finora conosciute dai lavoratori coop derivavano da un tessuto sociale ora sempre più lacerato e da un contratto sociale in progressiva disgregazione, comunque in crisi viste le modificazioni del tessuto produttivo e urbanistico bolognese. Mi sembra che ci sia stata una volontà di scontro, da questa estate, da parte dell’azienda per preparare il terreno per il rinnovo contrattuale, svuotando dall’interno la valenza di mediazione del tavolo unico, promuovendo tra l’altro il crumirraggio illegale con la sostituzione del personale durante lo sciopero con i quadri degli altri punti vendita della regione, inasprendo i toni: per uno sciopero di qualche ora la direzione ha scritto nel comunicato che c’era una volontà di ‘scontro politico generale’ ed aveva precedentemente appeso nelle apposite bacheche per la comunicazioni ai dipendenti elenchi in bianco dove si invitava a compilare con il proprio nome una lista in base alla decisione di scioperare o meno.

Liberarsi anche del filtro sindacale per decidere unilateralmente le condizioni di lavoro e frantumare sempre di più l’organico sembrano essere gli impegni concreti della direzione. In questo quadro, come pensi si delineeranno i rapporti tra azienda, sindacato, RSU e lavoratori nel prossimo futuro: quali i termini di un nuovo compromesso o di uno scontro tra lavoratori e azienda?

Nell’ipotesi contrattuali di Coop Nord Emilia e di Coop Estense, l’azienda usa la possibilità di non dare la quota di salario integrativo ai neo-assunti con l’entrata in vigore del nuovo contratto, come moneta di scambio per l’eventuale accettazione delle altre proposte della piattaforma. In sintesi si chiede agli attuali dipendenti di Coop di decidere della possibilità di coloro che diventeranno dipendenti di godere o meno, delle £ 230.000 previste dall’accordo integrativo, quando c’è già il salario d’ingresso che differenzia le retribuzioni dei neo-assunti per un periodo temporale e che l’approvazione di questa proposta della Coop cristalizzerebbe creando dei dipendenti di seria A, quelli assunti precedentemente e di serie B…Solo la Cooperazione poteva pensare ad uno strumento così geniale per dividere i lavoratori ! è chiara la portata dello scontro, come la possibilità successiva di eliminare progressivamente tutte le altre differenze con gli altri settori del commercio.


[1] Il Saggiatore, Milano 2000

[2] Ibidem

[3] L’enigma della transizione, Cosimo Scarinzi, Zero in Condotta,  Milano, 2000

[4] L’Autunno degli Stati Uniti, Bruno Cartosio, Shake Edizioni, Milano 1998.

[5] Un notevole approccio critico e demistificatorio alla fabbricazione dei dati statistici sul mondo del lavoro si trova nell’accurata e rigorosa ricerca di Pietro Basso in Tempi moderni, orari antichi, l’orario di lavoro a fine secolo, Franco Angeli, Milano,1999

[6] La riforma dello stato sociale si muove su due direttrici, da un lato il welfare market: la prestazione viene venduta ed acquistata con parametri commerciali e gestita con parametri aziendali, trasformando il rapporto servizio-utenza in un rapporto quasi esclusivamente mercantile, dall’altro il workfake state, cioè l’assistenza monetaria in cambio di una prestazione lavorativa - come quella dei Lavoratori Socialmente Utili, i Lavori di Pubblica Utilità, ecc., per la maggior parte ex-lavoratori licenziati o in cassa integrazione -  precaria, sottopagata, sostitutiva tra l’altro di un rapporto contrattuale maggiormente tutelato, meglio retribuito a più lunga scadenza. Si inserisce in questo quadro anche la progressiva demolizione dei benefici goduti della disoccupazione di lunga durata. 

[7] Oltre alle testimonianze dirette di chi opera nelle cooperative sociali abbiamo abbondantemente utilizzato: Cooperative sociali tra stato e mercato, Roberto Pavio e Cooperative tra socialismo e liberismo, Giovanni Giovannelli apparse sul 3° n. di Sindacalismo di Base Genn.’97; Ancora sul no-profit, Giuseppe Dacci, sul 5° di SdB sett.’97; Il socio, Pietro Stara, sul 9° di SdB nov.’99 e Appunti sulla cooperazione sociale a Torino e sul nuovo CCNL sul  11° di  SdB Ottobre 2000.

[8] <<In Italia, dove il lavoro interinale è stato introdotto solo di recente, troviamo l’80% degli occupati in cooperative di tutti i paesi aderenti all’Unione Europea. In effetti, l’Istat rileva nei servizi alle imprese, tra il 1994 e il 1996, una crescita del 31,8% di lavoratori in proprio e del 71,4% dei soci di cooperative di produzione: una forma che ha a lungo sostituito il lavoro interinale e che dietro a un rapporto societario tra indipendenti nasconde spesso l’interposizione di manodopera>>in La subordinazione invisibile: lavorare nelle cooperative nel trevigiano, A.Brentel, L.Enzo, S.Mestriner, G.Merotto, Altreragioni saggi e documenti, n.8, 1999

[9] Vedi Soda Caustica: l’esperienza di un giornale di fabbrica. Organo dei lavoratori della Granarolo Felsinea, di Giacomo Marchetti, in Sindacalismo di Base n.8 genn. 1999

[10]  caso di alcuni artigiani fornitori concentrati nello stabilimento per cui lavorano, come alla Malaguti di S.Lazzaro

[11] La subordinazione invisibile, art.cit.