Alcune considerazioni sul convegno dell’OCSE a Bologna (giugno 2000)

Se le manifestazioni di Seattle ci hanno convinto poco, sia sui contenuti, sia sulla loro capacità di creare un effettivo fermento sociale attorno alle proteste contro il WTO, a Bologna si ha l’impressione di uno scimmiottamento di un già visto. Almeno a Settle la riunione del WTO doveva decidere effettive misure di liberalizzazione commerciale fra gli stati aderenti al GATT, regole internazionali sui brevetti, l’abbattimento delle tariffe sui prodotti agricoli, minori restrizioni sui prodotti derivati dalle manipolazioni genetiche ecc.. Si poteva avere l’illusione di fermare un ingranaggio del mercato, di sensibilizzare l’opinione pubblica su “leggi” che avrebbero inciso sulle condizioni di vita di gran parte degli abitanti di un pianeta. A Bologna ci si scaglia contro un convegno, il cui risultato sarà nullo. E’ innegabile quindi come l’interesse per l’OCSE coincide con la “Seattle mania” che ha investito lo scenario politico europeo. Si assiste ad un susseguirsi di sfilate durante scadenze che dovrebbero determinare il corso dell’economia mondiale europea italiana....

Unica nota positiva ci sembra essere il fatto che diverse aree politiche si ritrovino nelle piazze e socializzino, così come materiali e analisi trovino un bacino dove poter girare e contaminarsi, tuttavia il fermarsi al piano della comunicazione ci appare alquanto limitato.

Siamo rimasti stupiti nel vedere il completo disinteresse per la manifestazione in seguito allo sciopero dei metalmeccanici, che riguardava la piccola e media impresa dell’Emilia Romagna, il soggetto sociale che viene maggiormente coinvolto dal tema di questo convegno dell’OCSE.... Era una manifestazione sindacale, che sul profilo dei contenuti era debolissima tuttavia ha portato quasi 10.000 metalmeccanici in piazza, con allegato uno sciopero del settore industriale in solidarietà.

In questo frangente abbiamo constatato l’estremo disinteresse per una azione che scavalchi le solite cerchie politiche, non è un caso che le manifestazioni che si sono indette per l’OCSE riguarderanno molto di più le aree nazionali politiche che un vero e proprio radicamento sulla città.

 

Dove è la classe  

 

Attorno a queste manifestazioni vi è un grosso equivoco di fondo, il perdere il referente sociale che viene investito dalle manovre economiche. Si assume quindi il referente cittadino di settecentesca memoria, l’antagonista puro e solo contro tutti, ecc...

La contrapposizione di classe, viene bandita, assecondando le parole d’ordine borghesi.

Ci si dimentica come nel capitalismo, lo sfruttamento dei produttori da parte della classe dirigente non assume forma diretta e visibile, come invece accadeva nella società schiavistica o feudale. E’ infatti in apparente libertà che il proletariato vende la sua forza lavoro al capitalista ed è in seguito a scambi perfettamente regolari che quest’ultimo realizza un plusvalore, plusvalore che sembra risultare dal funzionamento di leggi economiche che sono obiettivamente uguali per tutti. Ma dietro all’apparenza del contratto libero ed uguale si nasconde la divisione della società in una classe di proletari che non dispongono che della forza lavoro (e che sono costretti a venderla per sopravvivere) e in una classe di capitalisti che possiedono i mezzi di produzione e hanno al loro servizio uno Stato che ha l’incarico di garantire tale possesso.

E’ difficile quindi riuscire a codificare una nuova classe operaia, che si difende e resiste ogni giorno sui posti di lavoro?.

Noi vediamo questa nuova classe operaia nelle fabbriche, nei cantieri, nei magazzini di un grande supermercato, nei palazzi a lustrare le scale... dove ogni giorno per un salario da fame, si combatte individualmente o collettivamente per vivere, in mezzo all’estrema flessibilizzazione del lavoro e alla contrattualistica precaria, creata per assecondare l’esigenza del capitale di programmare la produzione quasi giorno per giorno.

Questa classe è la sola che può definitivamente dire basta con il capitalismo. Ogni opera di sostituzionismo è quindi da rigettare come falsante.

Se è dentro il rapporto di sfruttamento capitalistico (capitale-lavoro) che questo sistema si rigenera ogni giorno, l’azione va condotta su questo terreno.

Rimane il compito di un qualsiasi gruppo di lavoratori che ha deciso di dire basta con il capitalismo, riuscire a comprendere i cambiamenti produttivi, le spinte che una determinata porzione di classe pone nello scenario sociale, e non inseguire il palcoscenico televisivo...

Comunismo o barbarie (ossia l’attuale civiltà)

Viviamo in una società che si basa sullo sfruttamento della forza lavoro, dove non esistono più grossi margini di riformabilità, cosa che rende ancor più delirante l’ipotesi dei socialdemocratici: rendere più umana l’economia capitalista. Ci si nasconde quindi dietro lo spettacolo senza prendere in considerazione i rapporti di forza tra le classi.

Sono quest’ultimi che permettono un superamento del riformismo, la differenza fra riforme e rivoluzione non è da considerare rispetto alle motivazioni che spingono i proletari a lottare per migliorare le loro condizioni, ma è nella rilevanza dei rapporti sociali comunisti, è nei contenuti che durante una lotta si pongono all’interno della comunità proletaria, questo è possibile solo dove si esplica la forza dei lavoratori e dove il capitale può subire. La capacità del movimento proletario di darsi un contenuto comunista durante le lotte, riappropriandosi della vita e degli spazi, si troverà quindi dove viene prodotta l’espropriazione, cioè sui luoghi di lavoro. Poiché il capitalismo è un modo di produzione fondato sull’estrazione di plusvalore è questo che determina l’articolazione in classi della società. E’ nei luoghi di lavoro che il proletariato è costituito in classe ed è quindi lì che può sviluppare dei rapporti sociali che gli siano propri: dei rapporti sociali comunisti, ossia movimento reale del proletariato che tende al comunismo.

Liberismo e protezionismo

Può esistere una economia capitalista senza gli investimenti esteri e il commercio estero? A questa banale domanda chiunque risponderebbe di no. E’ evidente che il mercato internazionale è sempre stato indispensabile al capitale. Si è cercato di dare molte spiegazioni alla esigenza del capitale di estendersi non solo in diversi ambiti della società, ma anche geograficamente: per R. Luxemburg il problema era da ricercare nel sottoconsumo, cioè nell’esigenza per il sistema capitalista di avere scambi con economie non capitaliste, per Lenin il capitalismo evolve verso forme storiche che si susseguono di cui “l’imperialismo” rappresenta la fase ultima più avanzata. Quindi, secondo Lenin, le economie dei paesi a capitalismo più avanzato (aderenti all’OCSE diremmo oggi) si confrontano con paesi che non conoscono uno sviluppo capitalistico, cioè non hanno all’interno una polarizzazione delle classi sociali fra salariati e capitalisti. Questo è servito ai Leninisti per giustificare l’appoggio alle lotte di liberazione nazionale come lotte antimperialiste e quindi anticapitaliste, indipendntemente dai loro contenuti sociali, pratiche di lotte, composizioni di classe dei gruppi ecc... Tuttavia il problema della concorrenza fra “Stati”, non riguarda esclusivamente paesi ad economia capitalista e paesi con forme economiche non capitaliste, soprattutto oggi la concorrenza fra diversi capitalismi imperversa in un campo economico sempre più mondiale, i cui soggetti sono i differenti stati-aree di influenza che conoscono all’interno forme più o meno sviluppate di capitalismo. Il capitalismo mondiale vive oggi i risultati di una crisi più che ventennale che trova la sua giustificazione nella difficoltà del capitale di trovare un impiego profittevole. Unici rimedi che il capitale ha trovato fin’ora (le controtendenze) sono la crescita dei capitali finanziari speculativi (cioè non impiegati in attività produttive) che cercano di risolvere in ambito monetario i vacillamenti dell’economia reale, maggiore sfruttamento della manodopera mondiale, una maggiore e frenetica crescita degli investimenti all’estero.

Nel crescere a livello internazionale il capitale non risolve il problema della caduta del saggio del profitto, maggiore è il capitale da valorizzare maggiore diventa la sua incapacità di avere una sufficiente estrazione di pluslavoro necessaria alla valorizzazione del capitale accumulato. Inoltre e questo ci sembra il lato più interessante da valorizzare politicamente (anche se la teoria del “crollo” ci fa ben sperare su un futuro della comunità umana) il capitale che si espande crea necessariamente la sua contrapposizione sociale. Il lavoro “materiale” non si è fatto “immateriale”, se vi fate un giretto fuori porta scoprirete che esiste eccome, e se alcuni paesi hanno una crescente occupazione nei servizi rispetto alle industrie come gli Stati Uniti, questo non vuol dire che questi proletari sono oggi il “soggetto” sociale rivoluzionario emergente ma il solito grigio demodé proletariato che è l’unica forza sociale in grado di distruggere il capitalismo. Se poi guardaste più attentamente i prodotti che consumate  (o per alcuni producete o usate in fabbrica), vi accorgereste che i processi produttivi sono sempre più sparsi per il mondo, per cui fabbriche che chiudono a Latina riaprono in Francia o in Sud America. Allora cosa vuol dire l’esaltazione che molti dimostrano contro la “globalizzazione”, o contro il “neolibersismo”? Il capitale è sempre stato “globale”, e la liberalizzazione degli scambi è un processo che continua dopo la disastrosa esperienza del protezionismo succedutosi alla crisi economica del 1929, sono aspetti dell’economia capitalista di cui il capitale non può fare a meno senza decretare la sua eutanasia. E’ inutile girare attorno al problema, esso risiede sempre nei rapporti sociali fra le classi e non nei vari riflessi dell’economia come gli scambi commerciali o l’ecologia. Il riformismo per fare maggiore presa si è concentrato sul problema del “terzo mondo”, si dice che vi è uno sfruttamento eccessivo dei paesi economicamente meno avanzati e un “race to the bottom” (peggioramento) delle condizioni di lavoro dei lavoratori dei paesi capitalisticamente più avanzati, a causa della concorrenza internazionale. Questo tipo di argomenti ha spinto i sindacati ufficiali degli Stati Uniti verso posizioni protezioniste e di difesa della forza lavoro americana dalla minaccia del terzomondo. Visto il problema con meno coinvolgimento moralista, i paesi capitalisti più avanzati, scambiano prodotti con poco contenuto di lavoro, con prodotti con alto contenuto di lavoro (quanto lavoro c’è nelle nike che indossiamo fatte in Taiwan e quante ore abbiamo lavorato per averle?), mentre i paesi meno sviluppati hanno come unica chance economica far parte del club dei capitalismi più sviluppati. Non è nell’ambito degli scambi e della virtualità politica che troveremo le risposte ai problemi dei nostri giorni, ma nell’ambito dei rapporti sociali. Non ci stiamo a ricadere nell’inutile disputa fra protezionisti o liberisti. Non può esistere una economia più equa. Cosa vuol dire più equa? Nel sistema capitalista mondiale basato sullo sfruttamento, da parte di  una classe proprietaria e di burocrati a essa asserviti, della classe dei “produttori” non vi è spazio per il commercio equo e neanche per quello solidale, è possibile tuttavia la solidarietà di classe in qualsiasi sua manifestazione più o meno organizzata: da scioperi congiunti al finanziamento di lavoratori in sciopero fino ad un volantino di solidarietà.

Fare le sfilate davanti ai vari enti politici o economici che gestiscono l’esistente può essere solo un passatempo divertente, solo gli esaltati della virtualità mediatica possono ritrovarvi una utilità politica. Tutti i giorni i proletari si difendono, l’attività dei proletari rivoluzionari è quindi da calibrare giorno per giorno nei quartieri, nelle aziende nel fomentare la lotta di classe e rendere la crisi un elemento di forza contro i padroni.

Precari nati