Note sul movimento pacifista

Queste brevi riflessioni nascono dalla necessità di fare una valutazione sul movimento contro la guerra in Iraq che si è sviluppato recentemente e sul ruolo che i compagni e le compagne possono e devono avere, oggi, nell'agire politico di massa.

Da Seattle a Bagdad

Innanzitutto partiamo col dire che ciò che si è rappresentato in queste settimane nelle piazze è fondamentalmente lo stesso "movimento" che abbiamo visto svilupparsi da Seattle in poi. Fatichiamo un po' a definirlo movimento, almeno in senso classico, in quanto non rappresenta uno specifico spezzone sociale o di classe in lotta (giovani, studenti, operai, disoccupati, ecc…). Non possedendo un’identità di classe precisa  non è mosso da un senso di appartenenza politica comune. Eppure esiste, ed è frutto probabilmente di una serie di percorsi e di condizioni presenti nell'attuale corpo sociale: il progressivo, reale restringimento delle condizioni di vita, il sempre maggiore disincanto nei confronti della politica istituzionale "ufficiale", una sempre maggiore consapevolezza e informazione sulle dinamiche internazionali, l'impegno diffuso a livello individuale o microcollettivo nel campo sociale (dall'ecologia al volontariato solidale) e nel campo sindacale.

Questo movimento non solo esiste, quindi, ma si è dato anche una propria forma di rappresentazione politica che, indipendentemente dal giudizio che ne possiamo dare, è servita a dargli corpo e continuità in questi anni, e cioè i social forum. I gruppi politici che hanno investiti in questo percorso (dai disobbedienti alla CGIL) hanno indubbiamente contribuito alla crescita quantitativa del movimento proprio perché hanno saputo trovare, sia pur per un breve momento, la forma organizzativa adeguata a ciò che questo movimento esprimeva di per sé. Ma adesso le cose stanno cambiando, e probabilmente, dopo l'esperienza della guerra in Iraq, sia il movimento che le sue componenti politiche si troveranno a fare i conti con una realtà differente; ed è proprio questo che ci spinge a fare ora alcune considerazioni di carattere generale sul movimento, sulle sue caratteristiche, sulle sue prospettive.

Un movimento interclassista

Abbiamo definito questo movimento privo di una precisa identità di classe, e quindi strutturalmente interclassista; quello che esprime, in modo preponderante, è un approccio etico e morale su ciò che è giusto o sbagliato, bello o brutto, da difendere o da condannare, considerando per lo più valida un'opzione e una prospettiva riformista, sia pure con la chiara consapevolezza che questa debba essere sviluppata dal basso.

Queste caratteristiche accomunano i movimenti che si sono manifestati nei paesi dell'occidente capitalista. Nelle metropoli occidentali, le condizioni di relativo benessere in cui oggi vive la maggioranza della popolazione, unitamente alla presenza determinante di una direzione politica e sindacale riformista e alla mancanza pressoché totale di organizzazioni rivoluzionarie, hanno reso minima la  capacità dei movimenti di sviluppare al proprio interno un'analisi più profonda del sistema imperialista nel suo complesso e di conseguenza hanno reso meno incisivo il proprio agire.

Così e stato anche per il movimento contro la guerra che, nonostante la considerevole crescita quantitativa, non ha superato [cosa che del resto non poteva oggettivamente fare] i limiti di una critica principalmente etica e morale nei confronti delle politiche guerrafondaie promosse dall'"Alleanza".

E proprio questo limite, a ben vedere, ha determinato la scarsa forza del movimento che, nonostante le enormi mobilitazioni di massa a livello internazionale, non ha saputo saldare e trasformare la rabbia e l'indignazione per l'evidente "ingiustizia" che si stava consumando in Iraq in una critica strutturale al sistema del capitale in quanto tale.

Del considerevole movimento di lotta all'interno delle fabbriche e del mondo del lavoro sviluppatosi nei mesi precedenti al conflitto (ricordiamo le significative esperienze della lotta del blocco FIAT e le mobilitazioni sull'art. 18) abbiamo trovato traccia quasi esclusivamente nella condivisione di alcune pratiche di lotta "avanzate", di fatto inesistenti nei precedenti movimenti per la pace, come l'occupazione di strade e stazioni, "invasioni", e altre forme di iniziativa diretta. Al di là di questo, sono stati veramente pochi i collegamenti con le profonde questioni politiche che lo avevano determinato. Del resto questo è un risultato che le borghesie imperialiste si sono costruite in anni di attacchi alle organizzazioni rivoluzionarie e alle espressioni dell'antagonismo sociale in tutto l'occidente capitalista e attraverso la progressiva cooptazione delle sinistre "storiche" e delle leadership delle principali organizzazioni sindacali all'interno del proprio progetto strategico.

Movimento e riformismo

Qualche parola va dunque spesa sul rapporto tra ciò che ha espresso questo movimento e le componenti politiche che lo hanno "rappresentato".

Ci siamo abituati, in questi anni, a pensare ad un rapporto proporzionale tra crescita dell'organizzazione e livello di mobilitazione: maggiore era la forza organizzativa, più elevato era il movimento che essa esprimeva o rappresentava. Ma questa volta si è creato uno strano rapporto tra "direzione" e "movimento", in quanto le organizzazioni politiche che si sono impegnate nell'esperienza dei social forum, nella realtà, continuano a non rappresentare di per sé l'interezza di ciò che si è espresso. Anzi, abbiamo visto come, nonostante le piazze abbiano continuato a riempirsi, i luoghi organizzativi del movimento si sono velocemente ritrasformati in intergruppi più o meno sterili.

Non c'è mai stato, dunque, un rapporto diretto tra crescita del movimento e sviluppo delle soggettività politiche che lo andavano rappresentando. E' come se il movimento, proprio perché coagulo di identità e di esperienze molto diverse, avesse la capacità di mantenere una propria autonomia dalle organizzazioni e in generale dal politico, ricomponendosi e manifestandosi principalmente nelle occasioni di piazza e non sempre in modo lineare (un esempio eclatante in questo senso è stata la riuscitissima manifestazione nazionale promossa dal Forum Palestina nel marzo del 2002).

Da quanto detto finora emerge chiaramente che i limiti di questo movimento non possono essere imputati unicamente alle strategie profondamente riformiste di questa o quella organizzazione, e vanno piuttosto spiegati analizzando le condizioni oggettive all'interno delle quali questo si è sviluppato. Sarebbe dunque un errore ritenere centrale l'obiettivo di "delegittimare" queste organizzazioni, impegnandosi in una concorrenza inutile ed assolutamente impari, in quanto esse rappresentano oggettivamente il livello di coscienza politica prevalente oggi. Che le direzioni sindacali e le leadership dei vari partitini della sinistra istituzionale non siano i nostri alleati non c'è bisogno di ripeterlo; va invece assunto con chiarezza che né questi né le varie organizzazioni politiche "antagoniste" (che come al solito cercano di giocarsi la rappresentatività per proprie strategie di potere) non potranno mai diventare motore di una qualsivoglia crescita politica del movimento stesso.

Una sconfitta concreta

Ora il movimento, per la prima volta, ha perso. Per la prima volta si è palesata la sproporzione di forze tra l'azione dell'imperialismo, determinato a raggiungere i suoi obiettivi vitali, e l'azione di un movimento di opinione che democraticamente invoca giustizia e libertà.

Per la prima volta non c'erano "zone rosse" da violare simbolicamente, e la realtà politica ha preso drammaticamente il sopravvento sulla realtà virtuale.

Già Genova aveva dimostrato quale fosse il vero volto del nemico che abbiamo di fronte: e c'è voluto un anno di intenso lavoro delle maggiori componenti riformiste per "ricucire" quello che Genova ha significato per decine di migliaia di uomini e donne. La grossissima manifestazione di novembre a ridato spazio e credibilità alla dialettica democratica, naturalmente ben contenuta nei margini della compatibilità istituzionale. Ora, probabilmente, assisteremo ad una battuta d'arresto delle mobilitazioni di "massa", e il movimento contro la guerra ripiegherà su se stesso. Non è un caso che le forze politiche della sinistra istituzionale, girata velocemente pagina, siano già impegnate a cavalcare la battaglia sull'art. 18, ben attente nuovamente a non mettere in relazione i due piani su cui si sviluppa lo scontro: quello interno e quello internazionale. Noi crediamo che questa sconfitta rappresenti una contraddizione, che non deve essere rimossa o accantonata, ma che, al contrario, può rappresentare uno spazio politico, un'opportunità grossa per avviare all'interno del movimento una riflessione sulle prospettive del proprio agire politico e delle mobilitazioni che inevitabilmente si svilupperanno in avanti.

Per fare questo un passaggio fondamentale è proprio quello di legare concretamente i due piani di attacco su cui l'intera borghesia imperialista è impegnata oggi nel tentativo di attenuare gli effetti della crisi: il piano "interno", basato sulla radicale trasformazione e ristrutturazione del mercato del lavoro, sulle politiche di abbattimento del costo del lavoro e delle spese sociali e sulla blindatura delle politiche e delle relazioni sociali; il piano "esterno", fatto di guerra permanente, di sfruttamento delle risorse, di consolidamento dei mercati attraverso la continua ridefinizione delle gerarchie interne alla borghesia multinazionale stessa.

Due piani che rappresentano, nel loro insieme, il livello e la qualità dello scontro in atto su scala globale.

Questi due binari vengono tenuti attentamente separati, e trovano un momento di unione al massimo nel dibattito interno ad alcune ristrette aree politiche. Ma separati non significa paralleli! Siamo convinti che in prospettiva questi due piani sono destinati ad avvicinarsi sempre più in quanto sempre più risicati sono i margini di gestione della crisi, anche all'interno dello stesso centro imperialista. Ed è proprio questa tendenza che deve essere valorizzata all'interno di ogni movimento della classe. Si tratta dunque di trovare gli strumenti adeguati per sviluppare elementi di collegamento e di crescita all'interno delle varie espressioni del movimento, valorizzando i percorsi e gli obiettivi che maggiormente possono determinare una crescita qualitativa, del movimento stesso, su posizioni di classe.

Questo è lo scenario che abbiamo di fronte e che ci vedrà impegnati "sul campo" nei prossimi mesi a difendere e rivendicare spazi di autonomia politica nei quali esprimere, con quanti sono disponibili, una critica radicale anticapitalista e antimperialista.

Rete regionale anticapitalista e antimperialista Emilia Romagna

(da nemici all’interno giugno 2003)