COSA NON FARE: LENIN, IL MARXISMO E IL PROLETARIATO

In un recente numero speciale di Science & Society dedicato all'opera di Lenin, Alan Shandro offre un interessante resoconto della teoria leninista della coscienza di classe presente in Che fare? Analizzando con cura le affermazioni contenute nel testo, Shandro sostiene che la teoria di Lenin è più sofisticata e attraente di quanto abbia ritenuto la maggior parte dei commentatori. In particolare, Shandro cerca di mostrare che il ragionamento di Lenin non presenta le implicazioni autoritarie usualmente ascrittegli, sostenendo, invece, che era molto più dottrinaria e paternalistica la posizione dei suoi avversari all’interno del movimento russo. Sebbene il tentativo di Shandro di "fornire una lettura coerente del testo, laddove interpretazioni alternative mancano di farlo", sia ammirevole (Shandro, 1995, p.273), la sua difesa della tesi di Lenin è fallimentare.. La teoria leninista della coscienza di classe, come viene presentata in Che fare?, è di fatto incompatibile con la concezione di Marx dell’autoemancipazione del proletariato, ed è inoltre molto più dottrinaria e paternalistica della teoria alla quale i suoi avversari russi aderirono. La visione di Lenin semplicemente non può essere sostenuta da una prospettiva marxista - ed egli stesso senza dubbio la abbandonò dopo il 1902  di fronte ad una critica intensa. In questo breve saggio spiegherò: 1) perché la tesi di Lenin è incompatibile con la teoria di Marx sull'autoemancipazione del proletariato; 2) perché la sua visione è dottrinaria, paternalistica e potenzialmente autoritaria; 3) perché la sua teoria non è appropriata per una comprensione del suo pensiero e della sua pratica nella fase matura.

Il significato dell'autoemancipazione

La principale tesi di Shandro è che "la valutazione di Lenin della spontaneità e della coscienza non viola, contrariamente al giudizio convenzionale, la concezione marxista dell'autoemancipazione del proletariato." Sebbene venga dedicato poco spazio a questo argomento, viene asserito che la concezione di Marx consiste di due affermazioni collegate: primo, che "la classe operaia è capace di un'autonoma attività rivoluzionaria"; secondo, che "il fine e lo scopo dell'emancipazione proletaria, la soppressione del capitalismo e la costruzione di una società socialista, possono essere ottenuti soltanto attraverso l'attività indipendente della classe operaia." Data questa esposizione "del cuore del pensiero rivoluzionario di Marx", Shandro procede nel dimostrare che le argomentazioni di Lenin in Che fare? sono compatibili con l'idea dell'autoemancipazione del proletariato (Shandro, 1995, 269). Shandro ha ragione nel dire che la tesi leninista della coscienza portata dall'esterno non viola le due concezioni specificate. Anche nel 1902 Lenin non dubitava del fatto che il proletariato fosse capace di un'autonoma attività rivoluzionaria  o che il socialismo potesse essere raggiunto soltanto attraverso una cosciente e indipendente attività della classe, ed egli certamente non credeva che l'intellighenzia borghese poteva o doveva fare la rivoluzione per conto del proletariato. Il problema posto dall'argomento di Shandro , però, è che la soglia che Lenin deve raggiungere per  qualificarlo come un marxista coerente è posta troppo in basso. Marx insisteva non solo sul fatto che i lavoratori avrebbero raggiunto il socialismo attraverso la loro propria azione autonoma, ma aggiungeva anche che  lo avrebbero riconosciuto come loro fine e scopo nel corso della pratica stessa. L'esperienza illumina, pensava Marx, per quanto egli caratterizzasse la sua teoria come una generalizzazione e una conferma di ciò che l'esperienza stessa si suppone possa insegnare al proletariato. Come egli spiega nella Miseria della filosofia, i socialisti settari "improvvisano sistemi e rincorrono le chimere di una scienza rigeneratrice", ma appena "la storia progredisce e che con essa la lotta del proletariato si profila più netta, essi [i teorici socialisti] non hanno più bisogno di cercare la scienza nel loro spirito; devono solo rendersi conto di ciò che si svolge davanti ai loro occhi e farsene portavoce" (Marx, 1976, 107). Non v'è dubbio che la teoria può essere d'aiuto alla pratica, ma si dice che è la stessa prassi della classe operaia a generare la percezione che il socialismo è l'obiettivo per il quale il proletariato deve lottare. Questo è certamente ciò che gli avversari di Lenin compresero dell'insegnamento di Marx. Secondo l'ortodossia della socialdemocrazia russa, i lavoratori erano perfettamente capaci di diventare da soli dei socialisti coscienti, sebbene opportuni interventi da parte dell'intellighenzia marxista avrebbero accelerato questo processo. La coscienza non deve essere portata  ai lavoratori dall'esterno, affinché acquisiscano convinzioni socialiste, ma l'aiuto esterno dei marxisti era tuttavia considerato augurabile come un mezzo per affrettare la radicalizzazione del proletariato (Mayer, 1997). Così, mentre Lenin si appellava incessantemente alla gioventù rivoluzionaria perché si rivolgesse ai lavoratori per elevarne la coscienza, G.V. Plekhanov negava "che il destino della Russia giacesse nelle mani di centinaia o migliaia di giovani... La decomposizione del vecchio ordine economico sta avvenendo in modo assolutamente indipendente dall'influenza dell'intellighenzia, come lo è la crescita quantitativa della classe operaia e la graduale maturazione della sua coscienza" (Plekhanov, 1924a, 29-30). Altrove Plekhanov affermava che "l'assenza di alleati tra l'intellighenzia non impedirà alla classe operaia di diventare consapevole dei suoi interessi, di comprendere i suoi compiti, di far emergere leaders dalle sue file e di creare una propria intellighenzia  operaia" (Plekhanov, 1924b, 79-80). Per mantenere la sua integrità dialettica, la teoria marxista deve riconoscere la sufficienza dell'attività pratica della classe operaia, cosa che non fece Lenin in Che fare? Egli affermò che la pratica, inclusa la lotta sostenuta sui luoghi di lavoro, non genera la coscienza socialista (Lenin, 1961b, 421-422). Sostenne, infatti, che essa (nella forma della lotta sindacale) rende in realtà i lavoratori borghesi (Lenin,1961b,384). Sebbene alcuni lavoratori ( Waitlinghiani e Proudhoniani) riescono da soli ad andare oltre la coscienza borghese, sviluppando la teoria socialista, ciò accade apparentemente perché sono i più brillanti o i meglio educati, non perché l'esperienza dello sfruttamento capitalistico, a cui sono sottoposti, li porta al socialismo. La coscienza socialista, per Lenin, è il prodotto di una riflessione operata da individui estranei alla classe operaia, che ad essa però devono trasmettere , se il socialismo deve essere realizzato (Lenin, 1961b,375). Come Kevin Anderson (1995,166-169) fa notare in un recente libro, questa non è una teoria dialettica. Essa non considera lo sviluppo della coscienza socialista come un processo di autoschiarimento nella tradizione della Fenomenologia dello spirito di Hegel. La tesi di Lenin sulla coscienza portata dall'esterno, perciò, viola la concezione marxista dell'autoemancipazione del proletariato e Shandro si sbaglia quando sostiene che quella  tesi "semplicemente non comporta l'inattitudine dei lavoratori alla coscienza socialista"(Shandro, 1995, 275). Mentre Lenin ammetteva che i lavoratori possono assimilare la dottrina socialista quando gli viene presentata (Lenin, 1961b,386n), si affermava che la grande maggioranza della classe era incapace di riconoscere i suoi interessi sulla base della propria esperienza. Per Lenin, il proletariato è di fatto incapace di fare questo come nessun altra classe.

La natura della coscienza socialista

Per essere dunque coerenti con la visione di Marx, una teoria dell'autoemancipazione del proletariato deve ritenere che la coscienza socialista può emergere nella classe operaia attraverso la sua pratica nella società capitalistica, cosa che il Lenin di Che fare? nega categoricamente. Ma Shandro ribatte che la tesi della coscienza "dall'interno", sostenuta dagli avversari di Lenin, "deve far assegnamento su una comprensione della teoria marxista come d'una dottrina i cui dogmi, essenzialmente, sono stati elaborati una volta per tutte"; quindi, "l'autoemancipazione  del proletariato diventa poco più che un'assimilazione di questa dottrina" (Shandro, 1995, 273-74). La tesi della coscienza dall'esterno, al contrario, "mette in grado Lenin di collocare se stesso, come  teorico marxista,  dentro la lotta di classe e così imparare dal proletariato, cioè cambiare, mentre i suoi critici elevano la teoria storica della società di Marx al di sopra della storia e perciò la rendono inalterabile e, conseguentemente, un dogma tendenzialmente autoritario" (Shandro, 1995,295). A me pare, tuttavia, che sia vero proprio l'opposto. E' Lenin che aderì ad una interpretazione più dottrinaria della teoria marxista, ed è la sua visione, perciò, veramente paternalistica e almeno implicitamente autoritaria. Il problema fondamentale posto dall'argomento di Shandro risiede nella sua comprensione di ciò che costituisce la coscienza socialista. In un primo momento, egli ci dice che la " 'coscienza' è definita, da tutti i partecipanti alla controversia, dal riferimento alla teoria marxista" (Shandro, 1995, 273). Di fatto, però, la controversia sulla tesi di Lenin era precisamente una controversia sulla relazione tra quella teoria e la coscienza socialista, e mentre tutti i partecipanti concordavano sul fatto che la teoria marxista rappresentava la formulazione scientifica della coscienza socialista, furono gli avversari di Lenin a credere che si poteva essere pienamente coscienti senza essere versati nella scienza di Marx. Dunque essi non ritenevano che il processo di formazione d'una coscienza si identificasse necessariamente con l'assimilazione d'una dottrina, mentre Lenin sì.

Dalla tesi della coscienza dall'interno ne segue logicamente, che i lavoratori non hanno alcun bisogno di conoscere qualcosa della teoria marxista allo scopo di essere coscienti. Come indicano i passaggi di Plekhanov sopra citati, lo sviluppo della coscienza socialista può avvenire in modo "assolutamente indipendente" dalla presenza di teorici marxisti. I lavoratori, ovviamente, non sono nati socialisti, ma gli avversari di Lenin credevano che l'esperienza dello sfruttamento capitalistico e la conseguente lotta contro di esso avrebbero inevitabilmente guidato  i lavoratori in una direzione socialista. D. B. Riazanov  espose minuziosamente questa concezione nella prima critica pubblicata della tesi di Lenin. Contro di lui, Riazanov insisteva sul fatto che "lo stesso sistema capitalistico prepara tutti gli elementi materiali e intellettuali del [futuro] sistema socialista." Allo scopo di raggiungere la coscienza socialista, il consiglio di Riazanov all'operaio era semplicemente "conosci te stesso": "Un attento studio delle condizioni della  propria esistenza…sviluppa nella classe operaia la coscienza della sua missione storica, la quale è imposta precisamente dalla sua situazione di vita"(Riazanov, 1903, 89-100). Fu proprio questa posizione, comunque, che Lenin rigettò in Che fare? Egli negò che i lavoratori avrebbero potuto sviluppare una coscienza socialista da se stessi - coscienza della necessità della lotta per una alternativa socialista al capitalismo. La sola strada per giungere a quella coscienza era l'assimilazione della teoria marxista, la scienza del socialismo, che doveva essere portata dall'esterno. E' perciò più accurato dire che era Lenin ad avere una concezione dottrinaria della coscienza socialista.

Sebbene Shandro non si pronunci sulla questione, appare evidente che le concezioni di Lenin in Che fare? erano pesantemente influenzate da Karl Kautsky, il quale era più pessimista sulle capacità della classe operaia rispetto a Plekhanov ed alla maggioranza dei socialdemocratici russi (Mayer, 1994, 674-676). Nel secondo capitolo del suo pamphlet, Lenin cita un lungo passo di un articolo di Kautsky comparso sulla Neue Zeit nel 1901, nel quale quest'ultimo insisteva sul fatto che "la moderna coscienza socialista può sorgere soltanto sulla base di una profonda considerazione scientifica" (Kautsky, 1901, 79-80). Questa concezione della coscienza socialista, tuttavia, è inevitabilmente dottrinaria, poiché  definisce la coscienza necessaria  ai lavoratori nei termini di un corpo di conoscenze che rivendicano lo status di scienza: la teoria marxista. Invece di essere vista come una conferma scientifica di conclusioni a cui si è giunti nel corso della pratica, la teoria marxista è trasformata nel vero contenuto di quella coscienza che è richiesta dai lavoratori per potersi emancipare. Il risultato è una concezione settaria del movimento, nella quale si privilegia la teoria sulla pratica, l'avanguardia sulle masse. Alle ultime è negato l'accesso alla conoscenza dei loro propri interessi a meno che non si convertano alla prospettiva marxista. Per usare il linguaggio di Marx nel Manifesto, quelli che sostengono ciò hanno una "fede fanatica e superstiziosa nell'efficacia miracolosa della loro scienza sociale" (Marx-Engels, 1961, 130).

Per essere esatti, l'argomento di Lenin differiva un po' da quello di Kautsky (Mayer, 1994, 676-678). Mentre entrambi negavano che la coscienza socialista potesse derivare dalla pratica stessa, Kautsky non credeva che i lavoratori fossero spontaneamente borghesi. Egli sosteneva, infatti, che l'esperienza dello sfruttamento capitalistico generava un "istinto o impulso socialista" trai lavoratori salariati che non doveva o non poteva essere introdotto dall'esterno (Adler, 1954, 373-375). Il problema, nondimeno, consisteva nel fatto che questo istinto poteva soltanto rendere i lavoratori dei socialisti utopisti, ma era insufficiente a procurargli la consapevolezza scientifica necessaria per conseguire la loro emancipazione (Kautsky, 1892,232-242). Kautsky era dunque meno pessimista di Lenin, perché quest'ultimo riteneva che i lavoratori potevano avvicinarsi all'ideale socialista soltanto appena gli veniva presentato, senza che loro potessero sviluppare un impulso socialista dall'interno, per cui erano più dipendenti dall'aiuto dell'intellighentia borghese di quanto Kautsky pensava fosse necessario.

Shandro critica la tesi della coscienza dall'interno, poiché si basa su "l'assunzione di una basilare armonia tra teoria marxista e classe operaia. Non contestare questa assunzione, significa non capire la necessità teoretica e politica, per la teoria marxista, di imparare dalle masse" (Shandro, 1995, 225). E' vero che quelli che considerano una assunzione incontestata l'unità della teoria marxista e della  spontanea esperienza della lotta di classe proletaria - invece di farne una previsione che deve essere verificata -, si precludono la possibilità di imparare dalla pratica del proletariato, adottando "una sottile, ma distinta, aria paternalistica" (Shandro,1995, 295). Quelli che aderiscono alla tesi della coscienza dall'interno sono pronti a commettere questo errore, data la loro autentica fiducia nelle capacità del proletariato., ma è importante notare che il loro paternalismo è probabilmente innocuo, precisamente in ragione di questa fiducia. Essi non forzeranno in alcun modo il proletariato, in quanto sono convinti che la classe può autoemanciparsi anche senza il loro aiuto. La concezione leninista, al contrario, è pericolosa perché nega che i lavoratori possano comprendere quelli che sono i loro interessi in assenza d'un aiuto esterno, ed è, inoltre, paternalistica perché considera la classe operaia incapace e dipendente da altri per la conoscenza di ciò che deve essere fatto. E' vero che "questo non è il paternalismo del poliziotto o  del sergente che addestra la truppa," per usare la distinzione di Shandro, ma è il paternalismo del tutore che nega a chi è in sua custodia qualsiasi possibilità di autodeterminarsi (Shandro,1995,295). Ciò  è di gran lunga peggiore del sottile paternalismo di quelli che hanno fiducia nel proletariato, perché essi rigettano completamente la necessità di guardiani forniti d'una scienza.

L'inattualità di un testo classico

Data l'ambiguità di alcune formulazioni di Lenin nel secondo capitolo di Che fare?, sono possibili differenti interpretazioni di ciò che egli  intende dire in questa pubblicazione. Senza impegnarci, comunque, in una lunga discussione testuale, dobbiamo chiederci quale è lo status di questo testo nel corpus degli scritti di Lenin e se egli continuò a sottoscriverne le tesi negli anni successivi. Come Shandro rileva, l'interpretazione testuale deve essere integrata da un'analisi contestuale, quest'ultima particolarmente importante in relazione a Che fare?, giacché è evidente che la tesi della coscienza dall'esterno esposta in quel lavoro fu di fatto un errore dal quale Lenin presto ripiegò e non, dunque, una sua convinzione definitiva. Dobbiamo chiederci, allora, se ha un valore cercare di salvare una teoria che lo stesso Lenin non difese negli anni successivi, modificandola con una più ottimistica valutazione delle capacità del proletariato.

Ragioni di spazio non mi permettono di esaminare nei dettagli questo punto, ma voglio esporre brevemente tre considerazioni, che, assieme, mettono in dubbio lo status della tesi di Lenin e la sua successiva aderenza alla stessa (Mayer, 1966).

Per prima cosa, si deve notare che dopo il 1905 Lenin non ripeté la tesi della coscienza dall'esterno in nessuno dei suoi scritti, e che dopo il 1907 non menzionò mai  Che fare? in corrispondenze pubbliche o private. Scorrendo le migliaia di pagine prodotte da Lenin durante gli ultimi vent'anni della sua vita non si troverà alcun riferimento alla "coscienza trade-unionista" o all'importanza dell'intellighentia borghese. Infatti, come hanno notato molti commentatori, Lenin frequentemente lodò la spontaneità proletaria a cominciare dal 1905 e in seguito espresse grande fiducia nelle capacità dei lavoratori.

In secondo luogo, prove circostanziate suggeriscono che lo stesso Lenin riconobbe come la sua più famosa tesi fosse una formulazione erronea che presto ripudiò. Quando fu attaccato al secondo congresso del partito, egli ammise di avere esagerato sulle incapacità del proletariato "curvai il bastone" allo scopo di  avere successo in una polemica (Lenin, 1961a, 488-489). Ed in uno scritto del 1907 confessò che certe espressioni usate nel secondo capitolo di Che fare?  non erano " da me formulate in maniera completamente accorta e precisa" (Lenin, 1962, 107). Numerosi altri velati riferimenti potrebbero essere citati dagli scritti di questo periodo. Sebbene non vi sia alcuna prova conclusiva, queste ammissioni danno peso all'affermazione che la tesi di Lenin in Che fare? circa le capacità della classe operaia, fu una aberrazione e non una sua ponderata convinzione. In terzo luogo, numerosi amici di Lenin affermarono che egli presto riconobbe come la sua formulazione pessimistica fosse un errore che non rifletteva la sua più sobria visione. Nel 1904, Plekhanov sostenne che, sulla base di discussioni avute con Lenin prima della divisione del partito, "fu convinto che Lenin aveva già abbandonato quelle concezioni" prima del secondo congresso (Plekhanov, 1926, 137). In un ricordo del 1918, il giornalista bolscevico M.S. Aleksandrov rivelò che Lenin sapeva di essere "scivolato su questa questione con una espressione piuttosto infelice", ma che rifiutava di confessare il suo errore in pubblico, malgrado le richieste di compagni bolscevichi (Aleksandrov, 1924, 29), e un suo rivale bolscevico, A. A. Bogdanov, in seguito affermò che Lenin aveva "rivelato" la sua pessimistica formulazione "interamente per caso nel calore della polemica", ma che  questa provocatoria teoria "non aveva nessun legame organico con le concezioni fondamentali dell'autore" (Bogdanov, 1910, 193-94). In breve, ci sono numerose testimonianze che sollevano dubbi intorno ad una ripresa  successiva  di Lenin della sua pessimistica tesi. Sebbene qualcuno potrebbe ancora volere indagare e sviluppare un argomento che l'autore stesso abbandonò, è importante riconoscere che per Lenin la tesi della coscienza dall'esterno fu un vicolo cieco teorico. Essa contrastava troppo duramente con il marxismo ortodosso sostenuto ai suoi tempi, e egli perciò dovette sviluppare altri argomenti durante il corso della sua carriera di rivoluzionario, allo scopo di legittimare l'egemonia del partito all'interno del movimento operaio. Quali fossero questi argomenti, non è oggetto di questo lavoro, ma queste considerazioni suggeriscono che può non essere meritevole cercare di salvare la più famosa teoria di Lenin. Essa rappresentò un insuccesso intellettuale nel suo tempo, ma il suo "scivolone"  tradiva una preoccupante tendenza paternalistica - e in verità autoritaria -, che avrebbe avuto conseguenze disastrose per la classe operaia russa.

Robert Mayer

Science & Society, Vol, 61, N° 3, 1997