Non c’è più niente da fare, è stato bello sognare

La vita ci ha regalato dei lunghi giorni felici…

Bobby Solo, 1964

“Un lungo passato è un lungo ricordo del passato”

Sant’Agostino “Le Confessioni”

 

La convinzione secondo la quale è solo la classe operaia ad essere in grado di rovesciare i rapporti di produzione capitalistici deriva dalla considerazione che Marx fa dei rapporti di produzione all’interno del processo di accumulazione. Secondo lui la classe operaia, pur essendo parte del capitale, attraverso la sua azione nei luoghi di produzione ha la possibilità di condizionare il processo di produzione sia in senso favorevole alla realizzazione del profitto sia in senso opposto. Tale convinzione Marx la trae principalmente sul piano dell’analisi della teoria del valore-lavoro ma poi la sua vena filosofica lo spinge spesso ad addentrarsi nei meandri delle elucubrazioni più complicate, tanto care agli intellettuali di ogni tempo, nei suoi scritti peggiori.

E’ a partire dai rapporti materiali di produzione che Marx imputa alla classe operaia il “ compito storico” del rovesciamento del capitalismo per la costruzione di una nuova forma sociale ed economica superiore. Per cui sta già in Marx la mitizzazione della classe operaia e del proletariato in generale, mitizzazione che ha portato alle successive esaltazioni dei suoi epigoni preoccupati nel corso del tempo di aderire il più possibile ai dettami del marxismo, piuttosto che sviluppare, in maniera evolutiva, l’indagine iniziata dal Vecchio Marx tirato continuamente per la giacca dai suoi discepoli.  

E’ vero che i rivoluzionari di ogni tempo ( o presunti tali) hanno puntualmente preso dei grossi abbagli sulle dinamiche dell’accumulazione perché, fedeli ai dettami di una religione pressoché identica a quella cattolica, oltre ad aspettare il solito messia, si sono adoperati nel propagandare i dogmi contenuti nel marxismo (in tutto il suo impianto) senza minimamente affaticarsi ad indagare meticolosamente i fenomeni che li circondavano. La propaganda costituiva l’essenza stessa dei rivoluzionari (fino alla perversione leninista dei rivoluzionari di professione che puzza tanto di evangelizzazione) che usavano i lavori (peggiori e più ambigui) di Marx come se fossero l’insieme del Vecchio e del Nuovo Testamento, con le conseguenti varianti di interpretazione.

Nessuno ci sa spiegare in che cosa consistono certi termini che Marx ha introdotto nella vulgata della vecchia e nuova sinistra, come “coscienza di classe”, “la crisi finale” , “ il compito storico del proletariato” “la lotta di classe” e quant’altro. A me sembrano nuovi modi di esprimere “la purezza dell’anima” “la fine del mondo” “ il giudizio universale”. Sarebbe interessante proseguire con tali parallelismi tra la religione marxista e quella cattolica, ma ormai penso sia una fatica inutile in quanto l’evoluzione della società moderna ha ormai determinato il superamento delle categorie religiose e dei luoghi comuni che il marxismo stesso ha alimentato per cento cinquant’anni. Non si tratta qui di infangare l’opera di Marx (mi riferisco a quella prettamente scientifica contenuta in varie parti del Capitale e delle Teorie del Plusvalore) ma semplicemente di dichiarare definitivamente il suo superamento, anche perché del positivismo di Marx o addirittura della validità o meno delle sue teorie non frega più niente a nessuno.

Sul ruolo di Engels visto come erede dell’influenza del marxismo all’interno della socialdemocrazia tedesca e più in generale all’interno di quella che viene definita II internazionale, non vi sono più dubbi, solo un ebete seguace del marxismo-leninismo paleolitico potrebbe ancora rimanere scioccato da una cosa di questo genere. Ormai dopo la pubblicazione da parte del MEGA dei manoscritti originali del III Volume, conosciamo perfettamente tutti gli interventi di modifica e di adattamento per la pubblicazione ripetutamente richiesta dai militanti di partito. Heinrich ha fatto una buona ricerca sulla questione ed ha scritto un ottimo articolo apparso su Science & Society qualche anno fa e che mi sono permesso di tradurre (disponibile sul sito count down http://www.countdownnet.info/ ). Sul fatto che le correnti culturali ed intellettuali allora dominanti fossero influenzate dal marxismo nutro dei seri dubbi. Certo all’interno della social-democrazia non mancavano professori e studiosi affascinati dalle nuove teorie del marxismo (specie dopo la morte del protagonista che riveste sempre un fascino necrologico tra gli intellettuali vecchi e nuovi). Il legame con la corrente filosofica del positivismo potrebbe avere un senso, ma la stragrande maggioranza dei lavoratori e della gente comune non vivevano certo questo dramma teorico che tanto affliggeva qualche giovane laureato pieno di buona volontà e qualche operaio che sperava di emulare i suoi interlocutori appartenenti alle classi più agiate (per poi riciclarsi, come ai nostri tempi, tra i suoi compagni di lavoro il più delle volte annoiati dal suo filosofare). Che poi la classe operaia o il proletariato passi da classe subalterna a cogestore dello sviluppo capitalistico è cosa tutta da dimostrare. Certo una delle tesi che circolano nel microcosmo di chi si è spogliato dei miti, è quella della progressiva integrazione dei lavoratori all’interno delle istituzioni del capitalismo ma ciò è stato sempre condizionato dalla dinamica dell’accumulazione e le rappresentanze formali dei lavoratori (partiti e sindacati) sono sempre stati lo strumento di questo processo, strumento che la forma politica del capitale si da quando la crescita economica e la possibilità di ripartizione della ricchezza sociale è possibile. E’ il capitale stesso che produce al suo interno l’integrazione della forza lavoro, non è la crescita della forza lavoro (sia in termini numerici sia come peso “politico”) che porta all’integrazione nel capitale. Il marxismo in questo non ha giocato un ruolo particolare, era semplicemente il vestito da mettere capitato per caso in quel momento e presso alcuni paesi (in altri il marxismo ha fatto molta fatica, specie in seguito, ad apparire). Non c’è mai stata alcuna egemonia nella società di chicchessia, tanto meno del proletariato, l’unica egemonia, per usare un termine veramente modesto, è quella del capitale come processo di riproduzione della società umana, preceduto da forme economiche egemoni nel passato.

E’ inevitabile, come ormai si ripete da quasi un secolo, il solito riferimento alla socialdemocrazia russa e a quella iattura (per i lavoratori) che è stata la rivoluzione russa. Il riferimento alle teorie di Hildferding sulla concentrazione del capitale nella sua fase imperialistica ( e usiamoli tutti questi termini) che tanto hanno influenzato il maggiore seguace di Karl Kautsky in terra russa non fanno altro che dimostrare ancora una volta come gli intellettuali siamo sempre pronti a sposare l’ideologia di turno. Certo che Lenin si trova ad agire in una situazione diversa ed è per questo che troviamo facilmente tutte le ambiguità delle sue scelte, ma esse erano il frutto di una fase di trasformazione economica ritardata per troppo tempo e che doveva inevitabilmente portare ad un aborto. Le famose (e finalmente passate) diatribe sulla natura dell’economia sovietica, da quella che la considerava un capitalismo di stato, a quella dello stato operaio degenerato, a quella del socialismo in un solo paese, sono risultate semplici esercizi di contorsionismo teorico degne dell’intellettualismo tutto dedito al mercato delle rappresentanze dei lavoratori. Il crollo dell’89 ci ha poi mostrato come tutte queste “analisi raffinate” si sono dimostrate fallimentari e peggio ancora che tutte le tendenze del marxismo del secolo scorso non erano altro che vecchi vestiti malmessi ri-propinati a dei lavoratori che avevano tutt’altro da pensare. Della natura dell’Unione Sovietica se ne parlava nei piccoli raggruppamenti e nei partitini dove la pubblicistica serviva più che altro alle polemiche interne. Oggi chiunque vedrebbe nell’economia sovietica una mostruosità all’interno di un incubo. Insomma non gliene frega più niente a nessuno.

Sul sorgere di quella che viene definita (da chi?) “comunità operaia” vorrei stendere un velo pietoso, non vorrei che fosse il solito parto della mente malata del solito filosofo impegnato a trovare slogan efficaci (la maggior parte dei vecchi militanti di sinistra quando non assilla dei poveri studenti si dedica ad inventare ritornelli per la pubblicità negli uffici di qualche agenzia ottenendo a volte anche dei risultati piacevoli) per poter scrivere il solito opuscoletto da immettere nel piccolo mercato degli intellettuali di estrema sinistra, sempre disponibili ad inserire nuove terminologie nel loro vocabolario così ripetitivo ma poco propensi a cercare di capire la realtà che li circonda senza mettersi sempre in mezzo ai piedi. Che vi sia stata qualche forma di autonomia (che brutto termine!) o di autogestione (non ho mai capito cosa volesse dire) sociale relative alla dinamica della riproduzione dei lavoratori, resta un mistero. I lavoratori percepivano un salario ( un po’ come oggi) ed utilizzavano parte di esso per costituire forme di assicurazione che con l’evoluzione economica e sociale sono diventate vere e proprie istituzioni che garantiscono le coperture da ogni rischio. Il welfare state non è il prodotto dell’evoluzione delle iniziative dirette dei lavoratori, ma una delle inevitabili manifestazioni delle fasi di crescita e sviluppo del capitale. La “comunità operaia” dovrebbe manifestarsi con prepotenza proprio in un periodo come questo di declino economico. Invece i lavoratori sono impegnati, come ripetuto più volte fino alla nausea, nella lotta di tutti contro tutti. Ma forse questa legge della Jungla esisteva anche nei periodi in cui qualcuno si è inventato il termine di “comunità operaia”.

I piccoli movimenti legati a quel fenomeno, molto ristretto, noto col termine di autonomia si sono sbizzarriti ad inventarsi figure sociologiche “antagoniste al capitale”, non ultima la figura dell’operaio massa, che una più attenta indagine avrebbe permesso di ridicolizzare fin dalla sua prima definizione alla fine degli anni sessanta, che avrebbe manifestato comportamenti più o meno sindacali simili a tutte le altre figure sociali (nessuno di questi campioni si è mai preoccupato di ricordare gli scioperi selvaggi di altri tipi di lavoratori compresi i colletti bianchi). Non esistono “centralità” e ne sono mai esistite. Esistono solo i lavoratori che oggi più che mai sono il maggiore perno ed i massimi artefici dello stato di cose esistenti. Nessuno è arrivato ad alcun capolinea perché in realtà nessuno è mai partito per fare la corsa. Come dice un mio amico, paragonando il mito della lotta di classe e delle rivoluzioni raccontate nei romanzi del marxismo ad una partita di calcio, è come se la squadra amatoriale di una azienda che deve giocare contro la capolista del campionato non fosse mai scesa in campo.

Nessuno si è preoccupato di indagare il motivo del declino dell’economia industriale come l’abbiamo conosciuta nei decenni precedenti. Tutti si fermano al fenomeno più evidente (oddio è sparita la classe operaia) ma nessuno ha fatto lo sforzo di studiare la modificazione radicale che ha subito il processo dell’accumulazione.(alla faccia del Dott. Karl Marx)

L’unica cosa possibile è cancellare dalle nostre menti tutti i luoghi comuni e le banalità espresse dal marxismo e dai suoi simili. Dopo tale repulisti immediatamente occuparsi dei fenomeni che osserviamo ogni giorno cercando di studiarli con la precisione delle scienze naturali, ma con la modestia che caratterizza chi ha sempre dei dubbi e mai delle certezze. Il mondo che ci circonda è assai brutto, ma ricco di contraddizioni che possono solo stimolare chi è animato dalla curiosità di vedere come va a finire.

Per concludere desidero fare ancora omaggio al Vecchio di Treviri riportando un brano di una sua lettera ad Engels dell’11/2/1852:

… mi piace molto il pubblico autentico isolamento in cui ci troviamo ora noi due, tu ed io. Corrisponde del tutto alla nostra posizione e ai nostri principi. Il sistema delle reciproche concessioni, dei mezzi termini tollerati per correttezza, e il dovere di assumersi davanti al pubblico la propria parte di ridicolaggine insieme con tutti questi somari del partito, sono cose finite”  

Antonio Pagliarone

Milano 29 gennaio 2002

antepaglia@tiscali.it