CORTE DI APPELLO  PENALE

DI

MILANO

 

 

 

Processo: N.R. Corte  1339/04

 

Per: Benattia Nabil

 

 

TRASCRIZIONE  SCRITTA  DELLE  CONSIDERAZIONI  E CONCLUSIONI  ORALI  DELLA  DIFESA

 

 

 

 

Sig. Presidente, Ecc.ma Corte di Appello di Milano,

 

 

In primo luogo la difesa di Benattia Nabil si richiama a tutte le istanze istruttorie formulate nell’Atto di Appello dell’avv. Simona Carolo, elencate da n. 1 a n. 5 e si insiste sulle stesse.

 

 

Questo processo è nato da un progetto e da una strategia politica che ha preceduto le operazioni stesse che hanno condotto gli imputati innanzi ai PP.MM. prima, alle Corti, dopo.

A questa Corte è affidato il compito di riportare equilibrio, senso del diritto, verità.

 

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Non possiamo che partire dal significato più generale per il quale ci troviamo in questo processo di fronte alla contestazione di cui all’art. 416 c.p.  ma non possiamo capire fino in fondo, quello che è il senso di quel progetto cui abbiamo appena fatto riferimento, se non colleghiamo tutti insieme, i processi per il così detto “terrorismo islamico” che hanno interessato fino ad oggi le Corti italiane.

 

E’ qualcosa che personalmente sento ancor più evidente in quanto proprio io ho avuto la ventura di essere presente in tutti questi processi, da Roma a Milano, e che ho dovuto cogliere quell’inquietante presenza di ricorrenti analogie ed il peso di quella che è stata la traccia direttrice, che ha guidato tutte le operazioni in tutta Italia, ma potremmo dire, in tutta Europa e nel mondo occidentale.

Parlo della Madre di tutte le Relazioni da cui hanno tratto origine tutte le varie relazioni dei servizi di sicurezza locali.

Una Relazione redatta all’indomani dell’11 Settembre, dai servizi di sicurezza degli Stati Uniti, nella quale, con una spaventosa mole di notizie, illazioni, nominativi, indicazioni, ingiunzioni ai vari governi alleati, venivano fornite le linee da seguire, i nomi delle persone e dei gruppi da perseguire, le operazioni da svolgere, le attività commerciali da sopprimere e persino le legislazioni da applicare, con il consiglio di istituire “tribunali speciali” perché quelli ordinari avrebbero soltanto paralizzato l’efficacia di un’operazione di repressione mondiale contro il terrorismo islamico internazionale.

Traccia di quella Relazione-guida ne abbiamo trovata nei processi di Roma svoltesi nelle varie Corti di Assise; il riferimento esplicito lo troviamo in questo processo, attraverso testimonianze indirette del teste principale, Mengale.

 

Ma vedete, come in una precisa regia che ha attentamente predisposto e preceduto le varie operazioni, noi troviamo la curiosa e significativa circostanza che, questo fenomeno, ha dato frutti diversi secondo che si consideri Roma oppure Milano e dintorni.

E non mi riferisco soltanto alle diverse soluzioni giudiziarie scelte dai PP.MM che del resto sono indotte dai quadri probatori che si trovano formati nelle varie operazioni che li precedono; ma mi riferisco soprattutto alla diversa natura delle operazioni stesse.

Curioso, ma non privo di significato nell’ottica da me assunta, che a Roma, tutti, dico tutte le operazioni che hanno condotto all’arresto di gruppi e persone accusate di “terrorismo islamico” hanno rilevato la presenza di bombe, tritolo, armi, veleno, piantine con gli obiettivi da colpire, bigliettini inchiodanti che rivelavano esattamente e senza scampo, l’intenzionalità terroristica della detenzione di quel materiale.

 

A cominciare dal primo caso che avevo avuto occasione di trattare: i due bengladesci di Roma nel cui negozio posto davanti al mercato di Piazza Vittorio, custudivano una bomba a mano da guerra, americana, che avrebbero dovuto lanciare nel mercato stesso. Naturalmente era avvolta con un bigliettino con il disegno di Bush che sodomizza Bin Laden perché diversamente non si sarebbero potuti accusare con matematica certezza, che erano di Al Qaeda.

Caso voleva che personalmente li conosceva da troppi anni e che incontravo le loro mogli ed i loro figli piccoli, sempre nel mercato dove avrebbero dovuto lanciare la bomba dal loro negozio che è un “call center”. Soprattutto, avevo avuto occasione due anni prima di svolgere per loro una pratica che ha poi costituito nel processo, la chiave di lettura per capire da che parte proveniva quella “bomba”. Un elemento che è stato il punto principale della loro assoluzione con formula piena; cioè: il materiale non è loro ed è stato collocato da altri….

 

Però, quasi parallelamente avvenivano altre due operazioni, una più terribile dell’altra: i tre presunti kamikaze di Anzio nella cui abitazione veniva rinvenuto tritolo e pistole e in cui faceva la comparsa una presunta cinta da kamikaze e le piantine degli obiettivi da colpire, con le loro brave crocette e tutto il resto.

Troppa analogia, troppa stupidità. Questi terroristi sono andati tutti alla stessa scuola di cretineria. C’è qualcosa che non và. La difesa, il sottoscritto, iniziano le indagini difensive.

Dopo poco dichiarai pubblicamente che  tutta una bufala.

Allora scoppia il caso del gruppo dei presunti aspiranti avvelenatori dell’ambasciata americana a Roma (quello di cui il teste Megale parla in questo processo, a referenza delle sue Fonti superiori).

Caso o non caso vuole che io sono presente anche in quel processo. Scopro troppe analogie, troppe ricorrenti stranezze.  I colleghi ne rimangono impressionanti e convinti; il collegio difensivo è univoco.

Ricordate che siamo di fronte a diverse sezioni e diversi collegi della Corte di Assise di Roma e stiamo svolgendo processi per l’art. 270 bis nella sua nuova formulazione, con la presenza effettiva di armi, veleno, planimetrie, più di cento fogli di soggiorni falsi, circa 22.000 intercettazioni.

 

Anche in questo secondo processo dichiarai pubblicamente che era una costruzione, una perfida montatura dei servizi segreti stranieri cui, quelli locali, sono purtroppo reverenzialmente come subordinati.

Tanto mi apparve evidente che diedi alle stampe un libro su tutti quei casi, per una sorta di impegno morale verso la verità, dall’impegnativo titolo: “Il Terrorismo islamico in Italia - realtà e finzione”, con il proposito di rilevare il sottofondo del fenomeno:, cioè, una strategia globalista, e non solo, che fa da regia ad un progetto di attacco al Medio Oriente, e di soppressione di tutto quello che ancora può fare da intralcio a questa nuova colonizzazione; vale a dire: le resistenze culturali interne di quei paesi, le identità culturali rappresentate ancora dall’Islam.

Ma intendiamoci, avrebbero potuto essere anche il Buddismo o lo stesso Cristianesimo, se ci fossimo trovati altrove, cioè, se gli interessi avessero riguardato altre aree ed altri tempi e se quelle tradizioni possedessero ancora una forza vissuta e sentita, a livello intellettuale e popolare ad un tempo, come è ancora il caso dell’Islam.

 

Il libro era uscito ma non ancora le sentenze. Avrei potuto passare per uno sciocco, un romanziere e forse peggio. Avrei giocato tutta la mia credibilità e trent’anni di professione.

Forse non sarebbe mancata neppure qualche ritorsione.

Invece escono le sentenze; e le sentenze danno atto di tutte le inquietanti stranezze che rendono improbabili quelle operazioni; che risaltano la presenza inquietante ed inquinante dei servizi segreti; che dichiarano che quel materiale non è degli imputati e che è collocato da… terzi.

Signori della Corte; siete giudici provati e di ricca esperienza: all’intelligenza il resto!

Di quei casi si sono interessate trasmissioni satiriche come  “le iene”, Rai Tre, Repubblica e seri giornalisti. Sono troppo significative e non posso non produrvele; sono una necessità intrinseca di questo processo; quasi una premessa..

 

E ALLORA torniamo a quello che stavo dicendo:

A Roma, “qualcuno” o “qualcosa” vuole che i casi di terrorismo assumano i connotati del 270 bis nella sua nuova formulazione; ma vuole anche che si vada sul sicuro. Infatti, questo articolo,  ancora al suo esordio; suscita diffidenza, perplessità e resistenza in un paese di tradizione giuridica come il nostro; di “sentita democrazia” ancora in qualche modo libera dai vincoli dei grossi gruppi economici del potere.

Bisogna andare sul sicuro; bisogna che all’accusa generica di “associazione eversiva con finalità di terrorismo internazionale, di indiscriminate stragi, di semina di terrore e di panico nella popolazione civile  ed inerme”, si accompagnino riscontri oggettivi, “storici”: la presenza di materiale incriminante sicuro.

L’art. 270 bis va testato in questo modo, affinché si imponga nella prassi giudiziaria.

Ecco allora la necessità di “pre-costruire” incastri, di ”inquinare” i luoghi, di artefare la realtà. Ecco la necessità di collocare materiale incriminante nella sfera di disponibilità dei soggetti da incastrare.

A Milano invece si tenta un’altra strategia. Si svolgono operazioni nelle quali  viene “saggiato” il terreno dell’ambiente giudiziario e sociale,  con l’arresto di gruppi di persone che, in qualche modo, avevano pendenze con la giustizia: piccoli reati di criminalità comune: piccole forme di ricettazione, occasionali falsificazione di documenti,  forme di piccola evasione fiscale legata ad attività commerciali di insignificante calibro.

In questo modo, si ha la certezza che almeno la contestazione dei singoli episodi è in qualche modo incontestabile.

Certo in mezzo ci può anche capitare qualcuno che, come il Benattia, non c’entra neppure con quegli episodi specifici, ma questo poco conta nel quadro principale e rispetto alla strategia complessiva.

Su questa “certezza”, bisogna verificare si può costruire un’altra certezza.

Bisogna verificare se è possibile estendere una responsabilità tutta personale, tutta individuale, tutta banalmente economica, e politicizzare il tutto, nella chiave voluta; in quella chiave utile al momento storico e politico.

Ecco escogitato l’artifizio dell’art. 416 c.p.

Perché no?  Perché non affermare che quei singoli personaggi, quei singoli gruppuscoli disorganizzati e legati soltanto da una solidarietà di “cittadini extracomunitari” stretti nella morsa di “regolarizzazioni” amministrative spesso rese impossibili, non sono altro che la “cellula” minore, centri di aggregazione e di “associazione”, di una più vasta Organizzazione, di una più grande Associazione, che è il “Terrorismo islamico internazionale”, Al Qaeda cui essi svolgerebbero una consapevole, cosciente, criminale, azione di “supporto logistico”, in piena condivisione di metodi e sistemi.

In piena condivisione delle finalità terroristiche, doviziosamente descritte nel capo di imputazione di questo processo e di tutti quelli analoghi in corso di celebrazione a Milano e dintorni.

In fondo, dato per scontato che almeno alcuni degli arrestati nelle varie operazioni è effettivamente implicato in questioni di falsificazioni, in reati di piccola criminalità comune, allo stesso modo di come lo è un italiano o un europeo, resta da convincere le Corti che, una serie di elementi di suggestione, farebbero necessariamente supporre e dimostrare, l’esistenza di una “associazione”; farebbero necessariamente supporre l’esistenza di una organizzazione gerarchica, ben coordinata, collegata sistematicamente, costituita allo scopo di fare quei singoli reati minori contestati ai singoli personaggi e poi estesi al gruppo.  Soprattutto, con questo, si dovrebbero dimostrare che ci troviamo sì, in presenza di un’organizzazione minore; ma tuttavia costituita allo scopo di rendere “supporto logistico” alla più grande “Organizzazione criminale internazionale”, di dare protezione ai membri d quest’ultima, di favorirli affinché essi possano effettivamente raggiungere lo scopo di attuare il fine per il quale l’Organizzazione più grande esiste, cioè, compiere stragi!

 

Vedete che balzo “logico-illogico”; che forzatura mostruosa; che artifizio giuridico si è tentato.

Dobbiamo infatti intanto dare per scontato non solo che i singoli imputati svolgessero i singoli reati nei quali guadagnavano, in concerto tra loro; ma dovremmo altresì dare per scontato che lo facessero come loro specifica attività associativa; come attività organizzata di gruppo. Ma non basta: nell’ottica accusatoria, dovremmo soprattutto (ed è questo quello che si vuole) dare per provato e dimostrato che questa “attività in concerto”, ove pur volessimo darla anche per dimostrata per certi versi, è finalizzata coscientemente non solo a produrre il risultato più immediato (cioè la costruzione o il procacciamento di un documento falso, la copertura o il favoritismo di un clandestino) ma che tutto questo non abbia ALTRO FINE, ALTRO SCOPO che il sostegno, la condivisione di una comune ideologia, di un comune obiettivo che si traduce nell’attuazione di stragi ed attentati; in una parla riassuntiva:  di rendere attuabile questo scopo!

VEDETE, è questo lo scopo; diversamente questi piccoli personaggi non sarebbero mai stati portati davanti alle Corti, e non sarebbero mai usciti dal sottobosco di una piccola criminalità, peraltro spesso ben nota alla polizia, tra il grande mare della illegalità comune.

La scelta dell’art. 416 c.p. attuata in alternativa al 270 bis doveva nascere da questo diverso modo di saggiare le Corti non già, come si dice, dal fatto che il 270 bis non era ancora stato formulato. Infatti, la sentenza di Cassazione che indica la scelta dell’art. 270 bis al posto del 416 c.p. è del 1997 e la nuova formulazione del 270 bis è immediatamente successiva all’11 settembre 2001. Tutte le operazioni in tutta Italia, e gli episodi contestati in esse,  sono tutti successivi al 2001 e paralleli tra loro.  La scelta di operare con il 270 bis rafforzato con gli “inquinamenti” e le “costruzioni”   o con il 416 c.p. è dunque soltanto strategica; come a dire: se non si coglie il risultato in modo lo si coglierà in un altro. Se non si raccoglie a Roma, si raccoglierà a Milano.

 

MA ATTENZIONE: non è una scelta delle Procure.

Le Procure lavorano su un quadro già formato che giunge sui loro tavoli con tutti gli elementi che impongono certe scelte.

Le Procure non possono che prendere atto. Spesso anche un diverso sospetto che possa sorgere in loro per una forma di onestà intellettuale, non è loro consentito.

Noi riteniamo che c’è una libertà limitata, legata alla loro stessa funzione; ma soprattutto alle esigenze politiche del momento; alle ragioni, vere o presunte, di “sicurezza”; agli obblighi della politica internazionale e delle alleanze.

Quelle alterazioni avvengono “prima”, prima ancora dell’operazione stessa che costituisce la “notitia criminis” che avvia il procedimento e l’ulteriore corso delle indagini.

E’ nella fase di preparazione del terreno che tutto si verifica; la “bonifica” dei luoghi, la predisposizione della trappola.

E’ questo il momento ed il terreno di azione dei “servizi segreti” nei quali tutto può avvenire.  Soprattutto quando si ha a che vedere con questioni e momenti di “guerra”; di presunta “sicurezza”, ove prevale su tutto, sulla stessa verità e giustizia, la necessità di dover dare supporto a ragioni che devono motivare momenti di sacrifici e di grande tensione sociale.

E questa è la risposta a chi si dovesse ancora ingenuamente chiedere: Ma perché tutto questo?

Perché nell’annunciato clima di “sacrifici”, di “restrizioni libertarie”, di “leggi speciali”, di “severi controlli”, di “inasprimento della vita”, di “guerra lunga e difficile”, cui i capi di Stato, soprattutto statunitensi, ci hanno abituato, serve disperatamente di trovare qualche serio riscontro giudiziario; qualche sentenza di condanna sicura, che costituisca precedente; che dimostri che l’annunciato pericolo terrorista islamico sulla base del quale tutto è stato fatto, è incombente, reale, accanto a noi,  minacciosamente pronto a colpirci.

Molto prima che si assistesse a quel balzo di qualità che sembrerebbe almeno all’apparenza aver portato fuori dai territori di guerra (Iraq ed Afganistan) la violenza, la “resistenza” e l’ostilità verso gli invasori (o i “liberatori” che dir si voglia) e che si sarebbe tradotta negli attentati di Madrid, di Riad e di Istanbul, nello scritto che ho già riferito, a questo proposito osservavamo preoccupati “…Ma se qualcuno dovesse indugiare a credere ancora a questo imminente ed incombente pericolo, chissà mai che non succeda veramente, più vicino a noi, qualcosa di drammatico che serva a far rompere gli indugi e convinca tutto l’Occidente a serrarsi contro il presunto avversario comune, facendo così superare, definitivamente, ogni possibile opposizione; ogni possibile “simpatia” e scrupolo, nei riguardi delle ragioni dell’avversario; ogni velleità “pacifista…”.

I misteriosi fatti di recentissimi rapimenti che si sono spostati da soggetti “mercenari”, da giornalisti ostili alla causa irachena e troppo vicini alle ragioni degli Stati Uniti, a pacifisti autentici, a persone animate da vere aspirazioni umanitarie, pacifisti amati veramente dalla popolazione e che non hanno mai nascosto la loro “simpatia” per la causa popolare degli Iracheni, hanno fatto sospettare più di uno, che si tratti di una strategia per smarrire quelli che ancora avevano riserve umanitarie e pacifiste, in Occidente.

Dobbiamo pensare che si comincia con le frodi pre-processuali nei paesi alleati, e si finisce con le… stragi, pur di aggregare compattamente tutto l’Occidente, nello sforzo militare di “globalizzare” il mondo sotto il monopolio di poche decine di famiglie economiche che hanno assunto ormai quasi l’aspetto di oligarchie familiari più che di società sovranazionali?

Vedete noi ci serviamo in questi processi, delle Relazioni di quel paese. Relazioni che sono necessariamente, prima che il preoccupato grido di allarme per l’umanità, il prodotto degli interessi interni di quei paese stesso.

Quando noi affermavamo nei processi “romani” e nel nostro scritto che la “Fonte altamente attendibile” di cui si parlava non era altro che la F.B.I. e la C.I.A. supportata anche dal Mossad e da alcuni aggregati del servizi segreti tunisini ed egiziani, ossequiosamente al servizio dei primi, avevamo notizie certe ma non potevamo dimostrarlo se non dagli stralci di quella Relazione confluita in quei processi.  Qualcosa di spaventoso quelle Relazioni. Ma non per il contenuto apocalittico quanto perché rivelavano quale mostruosa operazione di controllo mondiale i servizi americani avevano messo in atto per… dobbiamo dire… la sicurezza del mondo?.  Cose da non credere: noi avevamo soltanto lo stralcio che riguardava la comunità bengladesci in Europa.  Cosa c’era scritto?  Migliaia e migliaia di nomi, di tutte le famiglie che si erano trasferite in Europa, con i loro numeri di telefono, gli indirizzi, le attività commerciali, i negozi, le transazioni, le telefonate ai familiari.  Attenti: non dei sospettati.  La prima Relazione li indicava come certi finanziatori di Al Qaeda.  Tutti i negozi di bigiotteria, di C.D., di shish kabak (i locali di carne con il classico doner) erano stati aperti da Al Qaeda per finanziarsi.  Ogni bengladeshi era in Europa per svolgere questa funzione. Non meno di 50.000! Facevano eccezione soltanto alcuni fuoriusciti del “partito comunista bengalese” considerati pericolosi sotto altri aspetti ma non interessanti al fine attuale. 

In nessun paese la classe dirigente riesce ad organizzare un sistema di controllo addirittura mondiale, così tremendamente efficiente. Perché? Probabilmente perché da nessun altra parte come negli Stati Uniti c’è una classe dominante stabile, che è rimasta e permane per decenni oltre i governi di turno; di cui questi ultimi che si succedono nella scena politica di un potere apparente, sono soltanto “amministrazioni” asservite a questa classe veramente dominante, stabile ed irremovibile.

Nessun Presidente, ministro, governo, ha preoccupazioni così lungimiranti che possano andare oltre il loro mandato; soltanto chi ha la consapevolezza di essere il vertice di una piramide sociale il cui potere, la cui forza e la cui ricchezza si trasmettono per generazioni, oltre i cambiamenti, può ritenere così importante stabilire i presupposti di una supremazia e di un controllo sul proprio ambiente e fuori di esso, tale che ne assicuri nei secoli la continuità.

Capite ora perché dai “Call center” che pullulano nelle nostre città da qualche anno, è possibile telefonare in India, in Cina, in Etiopia, parlando un’ora con un euro, laddove da casa nostra ne pagheremmo 50 - La ragione è che tutte quelle telefonate rimbalzano “via New York”, esattamente come tutti i bonifici e le operazioni bancarie dell’intero occidente. In questo modo può conoscersi da quello che la colf filippina dice a sua madre al nome del fidanzato del Gay, “Antonio” o “Robertino”. E’ un servizio ad incredibile remissione; un investimento di sicurezza; ma non generosamente pensato per noi. 

 

Dicevamo che la comunità Bengladeshi era nell’occhio del ciclone subito dopo l’11 Settembre.  Era lei la vittima designata; il primo caso di “terrorismo islamico” a Roma, prendeva avvio con i due bengladeshi di P.zza Vittorio.

Però, guarda caso, non appena noi fornivamo addirittura il probabile nominativo dell’esecutore materiale che aveva collocato la bomba nella sfera di disponibilità dei due poveretti al fine di farli incastrare; un esecutore materiale molto vicino ad altri a loro volta molto vicini ai molto probabili “mandanti”, compariva agli atti del processo una nuova Relazione che dava atto che la frangia bengladeshi della più vasta organizzazione islamica “Gamati Islamya” non era da considerare fondamentalista come quella pakistana; dunque i due accusati potevano benissimo non essere responsabili.  Guarda caso, pochi giorni prima, la compagine politica all’interno del Bangladesh aveva mutato coalizione. Il partito al governo, formato con l’appoggio di una frangia estremista di sinistra, faceva una nuova coalizione escludendo quest’ultima ed accordandosi con la frangia di cui facevano parte i due imputati.  Effetto finale di questa nuova composizione era che il nuovo governo firmava immediatamente l’accordo “antiterrorismo” con gli Stati Uniti.

Miracoli della politica! I due bengladeshi non erano più pericolosi e diventavano, nelle Relazioni successive confluite agli atti, probabili innocenti.

Ma d’altra parte questi miracoli non avvengono ogni volta che cambiano le rotte?  Ghaddafi che era ritenuto in passato il Bin Laden della situazione, accusato di capeggiare il terrorismo internazionale, non si è abbracciato con Blair, con Berlusconi; e non è andato alla Casa Bianca, in questa nuova svolta storica? Gli unici che continueranno a pagare saranno i poveracci che eventualmente hanno svolto il ruolo, più meno indotto, di esecutori materiali, ove sia ipoteticamente vera l’accusa che gravava su Ghaddafi, quale sicuro mandante.

 

QUESTO per rendervi conto dell’attendibilità e dell’imparzialità, di quella RELAZIONE GENERALE dell’alto commissariato per la Sicurezza statunitense, sulla base della quale hanno preso avvio tutte le azioni giudiziarie, precedute dalle operazioni di arresto dei vari gruppi e personaggi indicati in esse.

 

Quando io sostenevo queste cose, dicevo prima, potevo non essere creduto; adesso invece ce lo dice una persona alla quale non possiamo non credere almeno in questo punto perché è, nientemeno che, l’artefice di tutte le operazioni della Lombardia: il dr. Dambruoso nel suo libro “Milano-Bagdad”.

Un incredibile romanzo nel quale queste persone davanti a voi sono presentare come quelle che avrebbero incendiato l’Europa con terribili stragi di ogni genere, se lui ed il dr. Mengale non le avessero fermate.

Leggete come vi confessa candidamente che un gran numero di PP.MM europei è stato “convocato” ed “ammaestrato” negli Uffici dell’ F.B.I. negli Stati Uniti.

Leggete quanta emozione ha riportato nel visionare i video di “addestramenti” e di presunti  “scannamenti” operati da “presunti guerriglieri” Afgani, Arabi o che altro nei vari campi di battaglia.

        

Ma vedete, il dr. Dambruoso è stato definito non a caso dai giornali di governo americani, come “uno degli eroi mondiali dell’antiterrorismo”; però, a giudicare dai risultati reali, questo è in dipendenza più che dei risultati, soprattutto del fatto che ha dato prova di aver recepito appieno certe indicazioni di quelle Fonti. Infatti, nonostante egli si sforzi di affermare che nei Tribunali di Milano, è stata ormai dimostrata l’esistenza del terrorismo islamico in Italia, e siano state fatte condanne per “terrorismo islamico”, riferendosi esplicitamente, tra l’altro, a questo processo,  noi; voi, tecnici del diritto, sapete che non è vero!  Qui, come altrove,  c’è solo  una condanna per “associazione per delinquere semplice”.

Ed allora, non abbiamo ragione nei Motivi di Appello quando affermiamo che è in atto una lotta mediatica, un’azione suggestiva, tutta politica, che mira a far credere, fin da molto tempo prima che cominciassero effettivamente gli attentati in Europa e che fallissero a Roma ed in altri paesi europei, le più grandi operazioni giudiziarie che dovevano dimostrare alla popolazione la presenza incombente e terribile di terroristi che stavano preparando attentati; che intorno a noi stava per accadere qualcosa di terribile e che era necessario impegnarsi a fondo nella guerra. Fallimento accompagnato dalla esplicita ammissione nelle sentenze delle Corti, di strane ed inquietanti circostanze e forzature nelle operazioni relative.

E, guarda caso, soltanto all’esito miserevole di quei giudizi “romani”  che dovevano essere quelli “sicuri”; quelli dove non c’era scampo, tanto era così ben congegnato l’incastro di poveri disperati senza tetto,  cominciano a diventare vere le asserite “minacce” del terrorismo islamico; quelle annunciate da tempo dai “servizi americani” e, almeno fino a qualche tempo fa, ripetute alla lettera da alcuni ministri italiani. 

Che volete,  i pratici e pragmatici americani addetti ai “servizi” lo sanno che i giudici italiani sono dei cavillosi; vanno per il sottile; vogliono sapere troppe cose; hanno il vizio di voler sapere la verità; anche quella inconfessabile e sono poco sensibili ai “segreti di Stato. In Italia, c’è poco “patriottismo” inteso all’americana, cioè, come “…solidarietà di interessi economici del paese, al di sopra di tutto”, secondo la definizione stessa delle maggiori enciclopedie americane.

Dobbiamo pensare che se fosse dipeso soltanto da loro, sarebbero passati subito a vie di fatto anziché perdere tempo con i tentativi giudiziari?

 

Abbiamo parlato di scopo mediatico di tutte le operazioni giudiziarie legate al fenomeno del vero o presunto “terrorismo islamico”; di una necessità assoluta di creare “casi” e di ottenere in ogni modo e con ogni sistema, sentenze di condanna che supportino, giustifichino ed alimentino il clima bellico e di restrizione libertaria generale.  Che lo scopo sia esattamente questo lo evidenziano da un lato i fallimenti nelle Corti di Roma ma, paradossalmente, anche i “successi”, come quelli dei questo processo, nelle Corti di Milano.

Perché?  Perché voi avete evidenza di come questo genere di sentenze non siano affatto condanne per “terrorismo islamico”; non costituiscano affatto “prove” di quello che si voleva dare per provato. Voi sapete, al massimo, che qualche persona ha aiutato a fare qualche documento falso, ha dato ospitalità, ha conosciuto in una qualche occasione, un’altra persona ritenuta, non si sa bene su quale base informativa, pericolosa o implicata in questo o quell’atto terroristico.  Un sistema accusatorio basato sulle “referenze negative”; neppure sulla frequentazione ma sulla semplice conoscenza di presunti  “cattivi compagni”.

Ma avete anche evidenza di come si sia tentato, e si stia ancora tentando, di far passare queste condanne per successi della lotta contro il “terrorismo islamico in Italia” e dunque della presenza di questo fenomeno tra noi per renderci obbligatoriamente solidali con interessi a noi estranei.

Ma ne avete evidenza anche dal fatto che, quelle Corti le quali, certamente in buona fede ma per incomprensione del fenomeno, per una subìta suggestione, per un timore reverente di fronte alle forze che si muovono dietro questi processi, si sono prestate ad avallare l’ipotesi accusatoria, non si sono fermate ad una condanna ma, pur dovendo attenuare l’accusa di partenza ridimensionandola, hanno lasciato intatto l’impianto suggestivo dell’imputazione iniziale.

Che cosa intendiamo, e come sarebbe successo questo?  Guadate con i vostri occhi la sentenza nella sua forma grafica, prima che sostanziale.

Guardate la prima pagina come riporta in bella vista tutta la suggestiva imputazione secondo la quale gli imputati avrebbero costituito un’associazione a delinquere con lo scopo di offrire supporto logistico ai sodali della più vasta Organizzazione …..IL CUI SCOPO E’ QUELLO DI COMMETERE ATTENTATI, DI COMPIERE STRAGI, (di bruciare chiese e sinagoghe, è aggiunto in un parallelo capo di imputazione relativo ad un altro gruppo, il processo contro il quale è attualmente in corso innanzi alla medesima sez. VIII del Tribunale, la stessa che ha fatto questa nostra impugnata sentenza. (Che volete, ormai i PP.MM si sono incoraggiati…).

Osservate: la sentenza condanna tutti gli imputati per il reato di associazione per delinquere specificato nella rubrica come capo “A”; e, pur eliminando il punto specifico relativo alla grave contestazione dell’aggravante della scorreria con armi grazie alla quale l’accusa stessa di associazione per delinquere si rende possibile in tutto il suo significato, si limita a riportarlo di sfuggita, con la generica indicazione “… con l’esclusione dell’aggravante”, senza peraltro neppure riportare quale.

In questo modo, il capo “A” resta tutto integro nella sua ambigua e terribile formulazione, sicché la caduta delle aggravanti non si traduce in un ridimensionamento effettivo della rubricazione del reato, come dovrebbe essere ma in un elemento accessorio di poco conto che passa inosservato.

Anche in questo punto la sentenza non è ne’ giuridicamente ne’ moralmente corretta, perché non permette, a chiunque la legga, di comprendere l’effettivo ridimensionamento dei fatti contestati. Gli imputati rimangono sempre colpevoli di essere un’associazione a delinquere che da sopporto ad un’altra associazione a delinquere di cui anch’essi sembrerebbero far parte attiva e cosciente, dedita al terrorismo.

A questo punto non è dato capire se le associazioni sono due con due distinti scopi o è una unica di cui quella dedita alla contraffazione è solo un ramo periferico ed un prolungamento logistico.

Tuttavia, all’esito del processo e della sentenza, tra la condanna inflitta e la contestazione mossa nel capo “A” non risulta dimostrato alcun reale collegamento, pur perdurando tuttavia l’ambigua ed infamante formulazione riferita al capo “A”.

La sentenza vorrebbe dare al P.M. la soddisfazione di aver dimostrato il suo assunto, e cioè, che in Italia esisteva una cellula terroristica pronta a colpire e che è stata fermata in tempo nella fase di supporto logistico ad membri in procinto di prepararsi alle azioni terroristiche da compiere.  E’ esattamente questo che nel suo libro afferma del resto il dr. Dambruoso.

Ed invece no, signori della Corte, quale che sia l’impressione che si vuole tentare di dare, questa non è affatto una sentenza di condanna per terrorismo islamico! Questa non è una sentenza che prova che esiste una struttura “terroristica” in procinto di colpire in Italia o altrove. Questo non è un successo dell’antiterrorismo. Gli imputati non sono “terroristi” ne’ fiancheggiatori di terroristi. 

Non è stato affatto dimostrato che gli imputati, e nel caso specifico il Benattia, fanno parte di un’associazione terroristica; che progettavano, supportavano o anche soltanto condividevano il progetto di un qualche atto terroristico. Anche se si volesse dare per pura ipotesi e senza nessuna concessione, per raggiunta la prova della commissione di reati, non si potrà mai andare oltre i fatti specifici e le contestazioni specifiche. A voler ammettere raggiunta la prova contro il Benattia, a lui non potrà contestarsi altro che di aver prodotto o procurato un documento falso; a voler ammettere ad ogni costo raggiunta la prova contro Es Sayed, non potrà constatarsi altro che una ricettazione o una falsificazione. TUTTO QUI! L’estensione ulteriore di una presunta responsabilità di aver costituito o di far parte di un’associazione formata allo scopo di fare queste operazioni per finalità di supporto logistico ad un’Associazione terroristica di cui farebbero parte, è un balzo di fantasia che non ha serio e severo riscontro ma poggia su congetture e deduzioni fragili.

SPACCIARE PER CONDANNE CONTRO SOGGETTI ISLAMICI, CERTE SENTENZE, E PER SODALI UNIFICATI DA UN PROGETTO DI TERRORISMO ISLAMICO CERTE INIZIATIVE INDIVIDUALI, è una cosa che a noi appare addirittura vergognosa e che, a nostro avviso, può ben definirsi “progetto” politico se non addirittura da propaganda militare in tempi bellici.

La sentenza attribuisce ai vari imputati, contestazioni relative a piccoli reati di delinquenza comune che, anche a voler dare per provate in altri processi o in questo stesso, non trovano nessun valido supporto che le colleghi in modo solidale agli imputati unitariamente considerati, o che le riconduca ad un unico disegno criminoso, organizzato e precisamente finalizzato.

La “solidarietà” deve avere tratti concreti, consapevoli, fattivi, attivi e ricorrenti, e non può essere meramente “ideale” o desunta da atteggiamenti mentali.  Che Benattia Nabil sia mussulmano e che i mussulmani conducano nei loro vari paesi di origine una loro lotta più o meno politica o più o meno religiosa, non può costituire un presupposto per dedurre che, ogni volta che qualcuno di loro offra un aiuto solidale ad un connazionale, si tratti di un “supporto logistico mirato a finalità di terrorismo o rientri nel contesto di un’attività criminale organizzata, svolta dal soggetto.

L’analisi delle singole posizioni dei vari imputati, non consente ne’ di stabilire un rapporto diretto, associativo, tra di loro, ne’ tra essi collettivamente o singolarmente considerati ed una presunta organizzazione che li superi e li subordini.

A parte la nebulosità dei fatti stessi che, con molta forzatura, nel caso soprattutto del Benattia Nabil, possono rientrare nelle contestazioni specifiche, resta l’insormontabile ostacolo della prova “associativa”, intesa come intenzionalità e consapevolezza di un diverso e più ampio scopo, che superi lo specifico atto criminoso eventualmente compiuto.

La sentenza non riesce a dare un legame che costituisca veramente il collante logico che leghi le singole individualità ed i singoli episodi ad un concerto unico, sia pure limitato al solo sodale della falsificazione o della ricettazione dei documenti.

Quanto poi alla finalità più generale del compimento di attentati e stragi, siamo in pura fantascienza e congetturalità riferendosi, i comportamenti, ad altri soggetti, estranei, e non agli imputati; ma anche per il fatto di rimanere puri e semplici riferimenti, del tutto teorici e privi di riscontri oggettivi.

Che ci siano gruppi che compiono attentati è notorio; ma il fatto che un individuo specifico sia stato condannato per aver compiuto un attentato è già qualcosa di molto raro.  Non è dunque lecito sospettare fortemente della pretesa di chi ritiene che, il fatto di aver finalmente individuato, magari oltre oceano, un terrorista e di averlo persino processato e riconosciuto colpevole di strage (cosa già molto rara rispetto invece alle tante accuse contro tanti rimaste prive di riscontri), costituisca prova di colpevolezza contro chiunque abbia avuto contatti di qualunque genere con lui, quasi si trattasse di una sorta di contaminazione virale da contatto?

Eppure su questa logica si tenta di imbastire molti processi di “terrorismo islamico”. E’ il sistema della “colpevolezza per raffronto” o delle “referenze negative” che vale soltanto per i casi di sospetto “terrorismo islamico”.

E’ vero che la Pubblica Accusa non fa altro che sbandierare l’unica sentenza di condanna che in tutta Italia si è riusciti ad ottenere durante questo clima di “terrore repressivo”; e questo evidenzia letteralmente la “fame” che c’è di sentenze che diano un senso a tutte le guerre e le restrizioni libertarie attuate in quattro anni nel mondo; ma non sarà il caso di affiungere che quella sentenza è il prodotto di un “giudizio abbreviato”  di cui gli imputati non avevano la minima nozione “tecnica” sui limiti e sui pericoli di un simile rito? Questo soprattutto in tempi di maggior ingenuità nei giudicanti, circa la reale portata del fenomeno e del genere di reati che si andavano contestando in quei primi momenti. 

 

Ci rendiamo conto che una riforma della sentenza nel verso di un travolgimento del 416 come sarebbe giusto, arrecherebbe all’immagine delle operazioni in Lombardia un danno. Soprattutto ne uscirebbe sminuito il ruolo definito “eroico” del dr. Dambruoso. Eppure noi siamo certi che egli non ne ricaverebbe alcun danno. Se voi pensate che l’ufficiale ed il sottufficiale che hanno diretto l’operazione dei tre presunti kamikaze di Anzio, che hanno dovuto ritrattare nel dibattimento la loro stessa deposizione e che la sentenza riconosce aver mentito in alcuni decisivi punti, prima dello stesso processo hanno lasciato l’Arma per salire verso vertici riservati più alti, grazie all’operazione che avevano compiuto.

Che cosa è realmente premiato in questi casi? L’eccellenza dell’operazione ed il servizio della verità o l’aver assolto ad un compito non agevole ma utile in un senso molto più generale?

 

Ma tornando all’argomento centrale e traendo le conseguenze da quanto abbiamo da ultimo osservato sulla sentenza, ci viene da convincerci ancor più che abbiamo ragione, cioè, “qualcuno” e “qualcosa”, hanno agito in tutti questi casi, prima delle operazioni, con la strategia e la regia di chi ben conosce la nostra psicologia, il nostro sistema giudiziario, il nostro metodo di giudicare, il nostro attaccamento ai valori giuridici ed alle garanzie; la nostra esigenza di certezza.  E se quel “qualcuno” aveva già preventivato e previsto che a Roma dovessero essere trattati casi che potessero rientrare nella fattispecie del neonato art. 270 bis nella sua nuova formulazione e supportati dal riscontro effettivo di materiale di sicura incriminazione affinché si avesse la certezza di condanne mentre, aveva anche preventivato che a Milano dovesse operarsi attraverso il 416 c.p. e che non vi fosse bisogno di rischiare una qualche alterazione sensibile della realtà fisica.

La ragione della diversa scelta? Dovremmo chiederla agli strateghi della guerra psicologica, agli apparati più riservati ed interni degli stessi servizi; forse a chi di essi si serve collocandosi addirittura ancor più dietro di loro.  Ma forse possiamo anche presentirla:  Roma è obiettivo di maggior sensibilità: è la sede centrale della Cristianità, è universalmente conosciuta ed amata, è una capitale; tutto avrebbe avuto una risonanza maggiore. Inoltre, a Roma non c’è un clima di ostilità verso gli extracomunitari; c’è una convivenza quasi simpatica. Per andare oltre questo, bisogna veramente che l’accusa abbia riscontri gravi ed evidenti: la presenza di tritolo e così via.

Nel Nord, invece, almeno in una certa frangia numerosa c’è una sensibile palpabile ostilità. Questo è noto ed innegabile. Basta dunque molto meno per convincere quanto siano pericolosi e bastardi questi extracomunitari, così fanatici da fare cinque preghiere al giorno invece di lavorare e da fare digiuni invece di consumare.

 

Ma quel “qualcuno” aveva infine previsto anche la terza e penultima fase della strategia complessiva: l’approdo anche a Milano,  della scelta dell’art. 270 bis =    Infatti, finalmente,  sono stati impiantati almeno quattro casi (sono quelli che ci sono cogniti e nei quali siamo presenti) di gruppi sui quali grava questa accusa. I riscontri in quei gruppi?  Niente tritolo, niente cinte da kamikaze, niente pistole e bombe: solo intercettazioni tutte ancora da verificare nelle quali si parla di gente che vuole andare a morire nei campi dell’Afganistan e dell’Iraq, per difendere quelle terre da quella che è sentita nel Medio Oriente, a torto o a ragione, come un’invasione da parte dell’Occidente.

MA si osservi bene: Ove tutto negli atti di quel processo fosse vero, si tratta comunque di gente che vuole andare a morire lì; che chiede come arrivarci, scegliendo dunque una trincea anziché l’altra, MA NON SI TRATTA AFFATTO DI GENTE CHE VUOLE VENIRE DA LI’ A QUI, per compiere attentati contro le nostre popolazioni!

Questo punto sembra essere stato molto ben artatamente posto in ombra o confuso.

 

Contando su questa confusione e sul fatto che ormai “terrorismo” è stato identificato ad ogni sorta di resistenza o di ostilità contro gli eserciti di invasione; che sono successi fuori di quelle aree di guerra, cioè in Occidente, misteriosi atti di terrorismo ancora tutti da capire, chiarire, qualificare ed interpretare; che compaiono e scompaiono misteriosi barbuti ed arrabbiati personaggi-guida, però guarda caso ambiguamente coinvolti in un modo o nell’altro con i servizi occidentali, che rivendicano all’occorrenza ma del resto mai chiaramente quelle stragi, chi ha programmato tutto ha buona ragione di poter sperare che finalmente bastino le sole parole ad ottenere condanne per “terrorismo”.

Così non ci sarà più bisogno ne’ di alterare le cose ne’ di ricorrere ad espedienti tecnicamente deboli come il 416.

Non ci sarà più bisogno ne’ delle intenzioni espresse o meno, ne’ delle idee eversive. Tanto meno ci sarà bisogno di concrete attività che possano rendere possibile o attuabile un presunto scopo eversivo prefissato o desiderato; basterà lo sfogo incontenuto di qualcuno fatto durante una conversazione, mosso da un’esasperazione di qualunque genere, per imputarlo di finalità eversive e per ritenerlo comunque pericoloso e suscettibile di passare dallo sfogo rabbiosi ai fatti.

Certo l’ideale per una civiltà sorretta dall’esiguo gruppo di mille faraonici inamovibili padroni, fissati ormai per dinastie familiari, sarebbe, più che di individuare tutti i potenziali pericolosi soggetti del mondo che sono restii a rimanere imbalsamati davanti alla televisione rapiti nella pubblicità dei biscotti, quello di dare preventivamente a tutti un sonnifero o il Prozac; ma questo obiettivo è ancora evidentemente prematuro.

 

Abbiamo visto le tre strategie giudiziarie che nei diversi luoghi e nei diversi tempi sono scaturite dalle operazioni dell’antiterrorismo.  Manca l’ultima: quella sulla quale si è pensato di poter ripiegare ove fossero fallite tutte le altre. E’ il ripiego estremo:  qualche “pentito”.

Vedete, questa memoria conclusiva io l’avevo già predisposta per l’udienza del 23.9.2004 perché sapevo che poteva essere anche l’unica udienza dove avremmo dovuto parlare e concludere.  PUNTUALMENTE, ha fatto la sua comparsa, a sopresa, questa figura.

Nella comparsa finale che ho dovuto ovviamente modificare su questo punto, dicevo che c’era stato ancora soltanto un caso, proprio qui a Milano, davanti alla Corte di Assise ed affermavo che sembrava il caso decisivo; invece il “pentito” ha rivelato tutta la sua miseria di poveraccio letteralmente stracciato da chi lo aveva preparato.

Concludevo poi l’argomento specifico aggiungendo: vedrete, infine, che questa sarà la strategia di ripiego di questi casi, allorché tutti dovessero franare.  Però, aggiungevo che la verità, quando si ha a che fare con mistificazioni che investono troppo da vicino i sentimenti più profondi dell’uomo e che vorrebbero piegare ogni cosa agli interessi più biecamente materiali, viene sempre a galla.

Sulle dichiarazioni del pentito in questo processo mi soffermerò nella parte finale della difesa perché è un argomento diciamo così “sopraggiunto”, ed all’ultimo momento, in questo processo, per cui non perdiamo lo svluppo logico degli argomenti.

TORNIAMO DUNQUE ALLA SENTENZA:

Alla luce dell’esame generale che abbiamo svolto, la sentenza impugnata appare in tutta la sua “dipendenza” dalle suggestioni del teste Mengale che riporta a sua volta tutte le informazione tratte dalla Relazione Generale dell’F.B.I. di cui abbiamo ampiamente parlato.

Da qualche tempo, si è assunta l’attitudine a svolgere certi processi per terrorismo sulla base di riferimenti e di “referenze” se così possiamo esprimerci. Una sorta di “regime delle referenze negative”.

La qualità delle referenze, poi, vengono stabilite dalle Relazioni dei “servizi segreti”, specie americani.

Un risultato quelle Relazioni, a sfondo più politico che a finalità di sicurezza pubblica, lo hanno ottenuto: porsi come dei “giudicati”.

Se dobbiamo giudicare un ladro di galline, nei nostri Tribunali siamo ben accorti a chiedere prove testimoniali, a valutare la miopia del teste oculare, a fornire tutte le garanzie processuali che tutto si sia svolto secondo le regole.  Qui No. Se una persona ha la ventura di essere inserita in una di quelle Relazioni informative o qualcuno ha associati accanto ai nomi degli Arabi sospettati di aver partecipate all’attentato delle Torri Gemelle, il nome di altri cinquanta presunti conoscenti; è la fine per tutti quelli che hanno avuto l’occasione di avere un incontro fortuito in una Moschea, in un pellegrinaggio, in una telefonata, in una città.

La semplice conoscenza è la referenza negativa che “prova” una solidarietà; soprattutto se i due pregano entrambi! Abbiamo visto nelle aule giudiziarie, nei casi di “terrorismo islamico” valutare l’attendibilità di testi o imputati, sulla base di domande sul genere: “Lei ha conosciuto questo”? Conosce quest’altro?

Ma quel “questo” o “quell'altro”, erano spesso i nomi dei dissidenti che i vari governi locali hanno avuto buona occasione dalla coalizione antiterroristica, di fornire ai paesi occidentali per avere occasione di sbarazzarsene.  Un’occasione che, purtroppo, i paesi occidentali hanno afferrata perché al momento “solidale” con il loro interesse a giustificare il clima di restrizione delle garanzie e di belligeranza. 

Noi capiamo le esigenze politiche di avere sentenze di condanna che confermino nella gente la paura di un terrorismo islamico che stimoli e motivi guerre, sulla cui necessità o meno non ci interessa esprimerci potendo benissimo prescindersi dal punto in questione; ma questo deve pur sempre trovare un limite nella legalità, nella giustizia e soprattutto nella verità.

Troppo spesso nella Relazioni della F.B.I. della C.I.A. e dei servizi stranieri, recepite pedissequamente dai servizi italiani, si trovano riferimenti a questo o quel personaggio “pericoloso”; a questo o quel personaggio trovato morto in questo o quel campo di battaglia;  a questo o quel personaggio condannato in questo o quel paese; ed altrettanto spesso, questi riferimenti.

All’esito di una riflessione complessiva sulla sentenza, a noi sembra di poter rilevare che, al di la delle motivazioni “tecniche” e giuridiche assolutamente carenti, nel motivare l’associazione, il senso sia riassumibile in poche parole riassunte nel seguente modo paradossale:

quando un Arabo, soprattutto un mussulmano, è dedito alla falsificazione di documenti, allo spaccio di droga o al trasferimento di denaro, non può farlo per altra ragione che per finanziare la “Jihad”, la “guerra santa” ed il terrorismo islamico.  L’elemento discriminante tra una possibile quanto improbabile iniziativa criminosa tutta personale ed egoistica, potrebbe essere rappresentato unicamente dal fatto che “non prega” e non frequenta la Moschea.  E tuttavia anche qui, secondo questa prospettiva, occorre distinguere, perché, secondo le indicazioni offerte da “super esperti” sul genere di Magdi Allam e dai servizi segreti americani “… alcuni sodali avrebbero ricevuto una dispensa potendo bere alcol, andare con donne e non pregare, di modo che possano occultarsi meglio. Altri poi possono nascondersi sotto l’aspetto di una rispettabilità e cordialità irreprensibili, per la stessa ragione, costituendo tutti, “cellule in sonno” in attesa di ordini”!

Insomma, sotto qualunque veste si presentino, i mussulmani sono terroristi! Qualunque cosa facciano e come si presentino, ogni eventuale espressione di criminalità comune nasconde una “missione” ed una finalità terroristica.

Siamo sicuri che a Napoli la concorrenza ringrazia quando qualche sentenza obbedisce a questa suggestione.

Per quanto ci riguarda non riusciamo a credere affatto che, allorché iniziative di questo genere siano attivate a Napoli (noto e tradizionale centro di falsificazioni di ogni genere) possa parlarsi di criminalità comune mentre nel caso di mussulmani, questo deve essere escluso sol perché, due o più tra soggetti dediti a simili iniziative, vanno a fare le preghiere nella Moschea ed hanno avuto occasione di conoscersi.

Non riusciamo ulteriormente a capire perché, infine, ammesso e non concesso che queste individualità giungessero ad associarsi per meglio lucrare e “perfezionare il servizio”, nel loro caso non si tratta di un’associazione a delinquere comune, ma a scopo terroristico.

Capiremmo se la logica accusatoria, esprimendosi in termini razionali volesse significare che, certe iniziative, finiscono DI FATTO per rendersi utili e funzionali anche a gruppi terroristici in cerca di coperture varie.  Allora però il discorso sarebbe immensamente diverso, persino accettabile, e, soprattutto, non discriminatorio.

In più non desterebbe il sospetto che le motivazioni di un simile pregiudizio siano… altre.  Altre a contenuto più politico che giudiziario!  “Altre” mirate ad offrire (o inconsapevolmente destinate a farlo) “supporto logistico” ad una politica che deve coinvolgere l’opinione pubblica occidentale in una forma di partecipazione attiva alla politica interventistica, all’accettazione dei sacrifici che vi si accompagnano e al progetto economico espansionistico, verso i paesi del Medio Oriente; meta ormai necessaria per l’approvvigionamento energetico dei prossimi 20 anni.

Il discorso non esula dal campo giudiziario anche se apparentemente sembri spostarsi in un altro terreno.

Non vi esula perché, proprio seguendo quella politica che gli Stati Uniti hanno suggerito agli alleati, c’è stato un mutamento di atteggiamento nei confronti di certi fenomeni, abbastanza inquietante, anche in campo giudiziario.  Pensiamo a tutta una serie di iniziative fino a tre anni fa considerate lecite e tollerate, come il caso del trasferimento di denaro fatto ad esempio da molti somali al servizio della loro comunità.  Nella mattinata, una persona consegnava una somma ad un suo paesano e la sera stessa, nell’altro capo del mondo, la madre, o il padre ricevevano la somma.  Oppure pensiamo alle fiorenti attività di bigiotteria all’ingrosso attivate dalla comunità Bengladesci. Attività che sfamavano migliaia di immigrati ed offrivano servizi a prezzi incredibilmente bassi.  Forse pochi, tra gli stessi  magistrati che non hanno trattato casi di terrorismo islamico sanno che le Relazioni della C.I.A. indicavano, dopo l’11 Settembre, tutte queste iniziative come fonti di finanziamento di Al Qaeda.  Con questo riuscivano a far inasprire la legislazione, a limitare, fino a vietarle altre forme di arrangiamento personale e… soprattutto, a far aprire i vari “Money Gram”, “Western Yunior”, e via dicendo, che erano da tempo in attesa.  Si è colta l’occasione per gettare dentro il “pacchetto” persino una serie di inasprimenti giudiziari collegati alla tutela dei marchi perché anche gli ambulanti che vendevano C.D. falsi, erano indicati nelle Relazioni della F.B.I. e della C.I.A. come “fonti indirette” di finanziamento di Al Qaeda!

Unire l’utile al dilettevole e riuscire a fare di tutto un business è un’arte speciale nella quale gli Stati Uniti sono maestro; buon per loro. 

Ma osservate ora, a questo proposito, un equivoco impressionante nel quale la sentenza impugnata è caduta: Se il P.M. vi avesse portato in udienza la Relazione dell’F.B.I. e della C.I.A. con le sue oltre 25.000 pagine e ve l’avesse prodotta a prova della colpevolezza degli imputati di questo processo, dei loro legami, degli altri processi in Europa e di tutte le operazioni in corso, Voi non avreste potuto acquisirla ne’ le avreste dato un’importanza probatoria.  Sarebbe stata alla stregua di una qualunque altra Relazione che attende conferme specifiche in ogni singolo processo.

Invece che cosa ha fatto il P.M.?  Vi ha portato un testimone, l’agente speciale Mengale, il quale ha fatto sue, come fossero notizie a lui cognite, fatto assodati consacrati con sentenze di condanna ed accertamenti storici, accuse e deduzioni dei servizi segreti americani.  Però, poiché è un testimone a riferire quei fatti che lui ha letto nella Relazione, che gli sono stati riferiti dai contatti con quelli che l’hanno redatta o con altri che si qualificano come informati sui fatti, egli acquista valore di teste. Quello che ha detto, lo ha detto un teste! Quello che ha riferito, lo ha riferito non un libro di storia o una Relazione ma lo ha riferito un teste!

I riscontri generali sono dati per presupposti assodati e scontati mentre i singoli episodi contestati riguardanti il processo, sono dati per conferme dell’accusa più generale e della validità di quei presupposti.  Così non si deve provare altro.

Si vedano le affermazioni apodittiche e prive di riscontri, alla pag. 85 della sentenza, alla pag. 93, alla pag.100, alla pag. 107, 109 1 110, alla pag. 123, 153, 183, 184 1 185 =

Non ve le riporto perché lo farà senz’altro l’avv. Giovanni Levoni che le ha dettagliate nei suoi Motivi di Appello.

Io vi aggiungerò soltanto ciò che il collega giustamente non sa e che vi da la misura delle affermazioni rese da Mengale e recepite dalla sentenza.

Alla pag. 85 la sentenza riferisce di un’indagine statunitense per un progetto di attentati all’Ambasciata Americana a Roma nel 2001!!  Giustamente il collega osserva: Che significa “progetto”? E’ mai avvenuto questo attentato?

Signori della Corte!!!  Signori della Corte!! SI TRATTA di uno dei processi di Roma di cui vi ho parlato finora, da me trattati!

Si tratta di una di quelle sentenze CHE VI PRODUCO, che danno atto della montatura, degli incredibili retroscena che sono dietro a quella operazione. Si tratta di uno dei vari casi che ho trattato nel Libro che scrissi, prima delle sentenze!

E’ allora? Che attendibilità hanno quelle notizie buttate lì; quelle Relazioni riassunto della Relazione-madre; quella testimonianza del Mengale!

E’ questo un esempio fra tutti, per rilevare l’assoluta inutilizzabilità di quelle Fonti di prova che hanno assunto a valore di “prova testimoniale” sol perché riferite da una persona che vi evidenzia tutta la portata suggestiva ed inconcludente, della romanzesca narrazione resa dal teste Megale.

 

 

 

MA ORA INTRODUCIAMOCI, FINALMENTE, NEL NOSTRO CASO SPECIFICO :

La posizione di Benattia Nabil

 

 

Abbiamo tardato un po’, è vero, ma sinceramente non ci sentivamo, ne’ lo ritenevamo tecnicamente opportuno e possibile, conoscendo troppo a fondo il fenomeno, ridurre questo processo ad un gioco a nascondino nel quale tutto doveva svolgersi nel tentativo patetico di dire: “questa frase è vera”, “quest’altra è falsa”; “questo episodio è vero”, “quest’altro è falso”, seguendo così la logica dell’avversario e dando per scontato che la scelta operata è giusta; che il fenomeno come qualificato esiste e che, soltanto, il nostro assistito non vi è implicato o vi è implicato in questa o quella minore misura.

Dovevamo evidenziare che non vogliamo essere presi per stupidi; che molti ormai hanno compreso i giochi politici che si celano dietro questi casi.

Sulla posizione del Benattia in ordine al 416 c.p. ci siamo sufficientemente estesi, in quanto non solo abbiamo contestato la scelta tecnica di questa imputazione, ma ne abbiamo rilevato la natura “politica”, “mediatica”, strumentale, che l’ha determinata.

Con una condanna per singoli reati comuni si vuole supportare una condanna per “associazione a delinquere semplice” e con quest’ultima si vorrebbe poi dare per provato il legame solidale di supporto logistico con una più grande Organizzazione che sarebbe quella del “terrorismo islamico”. 

Appare troppo evidente come, partendo dalla presunzione di un’organizzazione a delinquere finalizzata al confezionamento di documenti falsi, l’accusa miri ad ottenere una declaratoria di contenuto e di valore “politico” che convinca l’opinione pubblica, attraverso una serie di equivoci verbali e di formule ambigue, che il sodalizio sarebbe mirato a fornire supporti logistici a gruppi di terroristi islamici affinché gli stessi possano entrare in Europa ed in Occidente in genere dai loro paesi, sotto varie coperture, al fine di fare stragi, uccidere, compiere attentati dei ogni genere, contro i cittadini dei paesi ritenuti nemici.

Questa è la vera contestazione, alla lettura del capo “A”.  Però si tratta di una contestazione che definiremmo “a trappola ideologica”, sin all’inizio, perché, nel momento in cui venisse dimostrata una effettiva associazione degli imputati rivolta al fine di fornire documenti falsi a chi ne faccia richiesta, con ciò non verrebbe riconosciuta soltanto la loro colpevolezza come “delinquenti” comuni e neppure soltanto come “associato in uno scopo a delinquere semplice” ma si raggiungerebbe quello che è il vero obiettivo: la colpevolizzazione dell’idea islamica attraverso un’abusiva estensione di responsabilità molto più limitate ed un artifizio di natura e di finalità mediatica.

Attraverso la prova limitata e ristretta di un sodalizio criminale tra piccoli truffatori che per finalità di lucro personale si organizzano per fornire quel che il mercato richiede, viene ad assecondarsi l’utile pregiudizio politico, tanto cercato da una certa politica, che esiste un “terrorismo islamico” capillarmente organizzato e pericoloso. In tal modo la condanna ai piccoli criminali equivale ad una condanna e ad una conferma del presupposto “politico” da sbandierare all’opinione pubblica occidentale. 

Però questo modo di procedere, non sarebbe diverso da quello di chi pretendesse che un’ impresa americana produttrice di armi venisse processata per terrorismo islamico e con l’accusa di aver programmato attentati contro ebrei e cristiani, per il solo fatto di aver venduto a Saddam Hussen, armi.

Di certo una cosa simile non si farà mai, però è apparso del tutto normale applicare questa logica ai cinque imputati.

E’ necessario che i cinque imputati vengano riconosciuti colpevoli dei singoli fatti ad essi contestati, perché è necessario che ad essi possa poi applicarsi l’accusa di “associazione per delinquere”; ma diciamo che è ancor più necessario che venga ad essi riconosciuta la condanna per associazione a delinquere, perché, come conseguenza inavvertitamente automatica,  questo conduce a riconoscere, a dare per scontato e come giudizialmente accertato, che esistono sodali in attesa di compiere stragi in Occidente.

La prova che esiste un sodalizio unificato al fine di falsificare documenti, diventa dunque strumentale al fine di dare per scontato e di far pervenire alla conseguenza che esiste un sodale che compie attentati.  E’ evidente che, da un’idea vuole condursi strumentalmente, quanto abusivamente, all’altra.

Questa è l’associazione di idee alla quale, volontariamente o meno, sembrerebbe volersi condurre chi si avvicini a questa sentenza senza essere un “tecnico” del diritto o senza approfondirne la lettura.

Se l’esigenza è questa, è logico che diventa necessario che i cinque imputati siano colpevoli di associazione per delinquere in quanto lo scopo non è di identificarli con un’associazione di “falsari” ma con quella di “eversivi”.

Però, l’esigenza “politica” di un simile accostamento urta con i principi giuridici e con i presupposti di legittimità.

Basterebbe osservare la sproporzione e la contraddittorietà intrinseca del capo di imputazione: se il sodale a delinquere che falsifica i documenti, lo fa al fine di offrire una copertura cosciente ai criminali addetti alle operazioni terroristiche, allora l’associazione è più vasta, e coloro che svolgono l’attività di falsificazione sono in una doppia “associazione”: quella che altera i documenti e quella, più vasta, che contiene la prima e la utilizza logisticamente, cioè, che attua il vero scopo dell’organizzazione: le stragi.

Allora l’accusa, per essere giuridicamente coerente e corretta, deve essere per terrorismo con finalità di STRAGE, cioè, appunto il 270 bis nel quale sarebbe stato ben più difficile far passare certi comportamenti come concludenti ai fini di un’intenzionalità e di una natura terroristica!!

Come mai il P.M. pur mirando ad ottenere questa associazione di idee ed un simile effetto pratico sul piano mediatico, non ha voluto formularla chiaramente?

L’accusa di associazione per delinquere che non specifichi la finalità e si limiti all’attività accessoria non ha senso; ed infatti il capo “A” evidenzia ben troppo chiaramente  le presunte finalità ultime dell’associazione.

Ed allora se tali finalità sono coscienti e consapevoli, gli imputati devono essere processati per terrorismo!

Ma in tal modo sarebbe emerso in tutto il suo grottesco, il tentativo; così passato invece inosservato e coronato da parziale successo.

Così come voleva che fosse e come ancora vuole che sia nei paesi satelliti, la legislazione speciale statunitense, dopo i fatti dell’11 Settembre.

Nella formulazione dell’imputazione, ben si comprende affatto dove voglia arrivare l’accusa ma si evidenzia comunque uno stridente contrasto se ci si attiene agli aspetti prettamente “tecnici”.

Se si tratta soltanto di un’associazione tra delinquenti comuni che, insieme, si adoperano per fornire il mercato di documenti falsi lucrandovi, allora tutte le esagerate fantasie riportate nel capo “A” dell’imputazione sono propaganda pura, fatta per accontentare chi ha interesse a spaventare la gente ed a convincere che bisogna fare la guerra ed accettare le restrizione libertarie che seguiranno il nuovo corso.

 

MA perché possa parlarsi di “associazione a delinquere” nel senso che pretende il capo di imputazione e che la sentenza recepisce, vale a dire che occorre:

·        Che sia provato che gli imputati abbiano effettivamente costituito, come dice il capo di imputazione, un’associazione criminale in Italia;

·        Che sia provato che, come vuole il capo di imputazione, tale “associazione minore” sia articolazione di una più grande associazione internazionale (Gruppo Salafita di Predicazione e Combattimento) e risulti dunque, da atti e fatti certi, che gli imputati sono collegati effettivamente a quella. Collegati con comunanza di intenti, di azioni e di interessi. Siano gerarchicamente inquadrati all’interno di quella o comunque orizzontalmente associati ad essa;

·        Che sia provato che l’Associazione maggiore di cui quella minore e locale si asserisce essere articolazione, effettivamente esiste e gli imputati ne facciano effettivamente parte non limitandosi a rendere servizi accessori alla stessa stregua di come li renderebbero ad altre persone. Vogliamo dire che ad un falsario napoletano non si contesterà di certo di far parte di Al Qaeda perhè procura carte di identità false anche ad alcuni membri di tale Organizzazione, disinteressandosi completamente della qualità dei suoi clienti.  Occorre poi che quella più grande Associazione, ove esistente, sia effettivamente un’associazione a delinquere, e che si propone, effettivamente attua e progetta, reati ed in particolare quegli atti di violenza eversiva e commissione di attentati che gli viene attribuita, troppo spesso solo sulla base di ambigue rivendicazioni “via internet”.  Quanto meno è necessario che compia ed abbia compiuto atti e reati che risultano provati da sentenze non da interessate attribuzioni politiche o militari.  Infatti, se l’associazione a delinquere è quella principale, deve essere prima dimostrato, come già detto, che essa effettivamente esiste; che compie o ha compiuto i delitti che asserisce essa si proporrebbe o che le vengono attribuiti.  Qui non siamo di fronte ad una struttura classica di tipo mafioso o politico come le Brigate Rosse, con chiari connotati, una sua storia e specifiche rivendicazioni sempre dirette e personali.

·        Che sia provato che gli imputati sono collegati tra di loro nello svolgimento di precise funzioni strettamente connesse ad un fine comune, ad un ideale comune, ad un interesse comune che supera le loro individualità ed i loro interessi personali e che, effettivamente, questo risulti da una compartecipazione ai singoli reati che vengono loro singolarmente contestati ed agli utili che ne derivano.

·        Che sia provato che essi imputati siano poi a loro volta collegati ad altri membri della presunta più grande Organizzazione o Associazione terroristica la quale soltanto costituisce, allora, “la vera associazione a delinquere”.

·        Che sia provato che gli imputati siano consapevoli di far parte di questa più ampia “organizzazione”; ne siano membri attivi e non strumenti occasionali di soddisfacimento occasionale o di approvvigionamento di questa o quella necessità.  Costituiscano, anzi, anelli intermedi investiti di una precisa funzione, nell’ambito di quella stessa più grande Associazione.

Deve trattarsi di una funzione di supporto attivo, di condivisione degli sforzi, di ripartizione di compiti. 

·        Che sia provato che essi imputati sono consapevoli dei fini e dei programmi che si propongono i soggetti che essi hanno favorito con le loro rispettive azioni e servizi; che ne condividono gli ideali, i programmi ed i metodi; ed anzi che hanno partecipato o partecipano consapevolmente, alla realizzazione di quegli stessi fini adottando e condividendo essi stessi quei medesimi metodi, giustificandosi, la loro azione, proprio nella condivisione ideologica e pratica di essi.

·        Che sia provato che la “associazione” filiera asseritamente costituita dagli imputati in Italia, abbia gli stessi fini eversivi, adotti gli stessi metodi, condivida la stessa ideologia, dell’Associazione della quale si asserisce essere articolazione; partecipi attivamente o abbia partecipato effettivamente, alla commissione di qualche reato attribuito alla più grande Associazione o da essa compiuto.

·        Che l’associazione filiera sia effettivamente e consapevolmente funzionale, alla finalità di far compiere  all’Associazione principale, quei delitti che essa si propone e trovi proprio  questo la sua “locale” ragion d’essere.

 

C’è un solo punto in questo processo tra quelli indicati che viene soddisfatto?

 

E’ vero che potrebbe osservarsi che, se è pur ammissibile che non è possibile ricondurre la responsabilità per i singoli fatti contestati agli imputati ed anche la loro organizzazione al più grande sodalizio di natura terroristica, resta pur tuttavia provato o quanto meno ben suscettibile di poter essere provata, un’associazione degli imputati tra loro, mirata al raggiungimento dei reati minori contestati, cioè, delle falsificazioni dei documenti, ricettazione, ecc.

Ma in questo modo, apparte il fatto che cadrebbe innanzi tutto il capo “A” così come formulato perché in esso l’associazione non viene individuata negli imputati tra loro, ma tra essi e presunti altri che costituirebbero la Matrice di cui il gruppo degli imputati sarebbe “filiera” o “articolazione” come recita il capo di imputazione, andrebbe allora provata un’altra serie di circostanze che formano presupposti dell’imputazione.

Infatti, anche a voler ridurre e ridimensionare l’idea di “associazione” al compimento dei vari reati minori specificatamente contestati agli imputati, ed ammesso per ora, ma non concesso, che vi sia la prova di questi reati accessori e strumentali, sarebbe allora necessario che concorressero tutti questi altri elementi:

·        Dovrebbe provarsi innanzi tutto l’esistenza di un sodalizio effettivo tra i membri di questo processo, tra loro, univoca e finalizzata, sodalizio nel quale ognuno svolge precisi compiti esecutivi e direttivi, finalizzati al preciso scopo di realizzare i singoli reati loro contestati, cioè, la ricettazione, la falsificazione, ecc. dovendosi ovviamente escludere, in questo caso, i reati presuntivamente attribuiti alla più grande Organizzazione della quale essi sarebbero “articolazione”.

Vale a dire che in ogni reato loro contestato, tutti gli imputati debbono aver messo la loro parte, ognuno per le sue rispettive funzioni.

Dovrebbe provarsi, ad esempio, che nella ricettazione contestata ad Es Sayed Abdelkader, hanno concorso, ognuno con un apporto di funzioni e di competenze, pratiche, tecniche o gerarchiche, gli altri imputati e che, nella falsificazione di documenti contestata ad esempio al Benattia, che tutti hanno posto la loro opera, ognuno in un passaggio preciso della consumazione del reato.

·        Dovrebbe provarsi quanto meno che TRA gli imputati di QUESTO processo esiste una solidarietà associativa nel compimento dei reati contestati ed eventualmente riscontrati, non essendo più necessario in questa ipotesi ridimensionata, provare un’associazione TRA gli imputati E presunte altre persone rimaste sconosciute, cui essi ubbidirebbero o ai quali renderebbero gerarchicamente servizio, e che farebbero presuntivamente parte della presunta più grande Organizzazione o Associazione terroristica islamica. In assenza di questo, ritorneremmo alla prima equivoca ipotesi di contestazione.

·        Sempre rimanendo nell’ambito di quest’ottica accusatoria più ristretta e ridimensionando l’estensione dell’accusa di “associazione”, dovrebbe provarsi l’utile  che essi imputati hanno colto, in comune e singolarmente, dalla commissione dei singoli reati contestati.

 

E questo per tutti gli imputati oltre che per il Benattia.

 

Ma per quest’ultimo, anche la sua posizione in ordine ai singoli capi di imputazione contestatigli, appare addirittura completamente priva di effettivi riscontri.

 

Sarà allora il caso che vengano riassunti tutti i punti sui quali la sentenza fonda il convincimento che Benattia HA COMMESSO una serie di reati di falsificazione di ducumenti e LI HA COMMESSI per favorire la causa della più grande Organizzazione: Al Qaeda o il Gruppo Salafita che voglia considerarsi, di cui egli sarebbe dunque membro.

La prova che Benattia è incaricato di reperire documenti falsi per i membri della più grande Associazione e che egli stesso èparte attiva e dirigente di quell’Otganizzazione sarebbe fornita da queste circostanze:

 

 

1)

Benattia Nabil sarebbe colui presso il quale, Es Sayed, al suo primo arrivo a Milano, sarebbe immediatamente andato per essere ospitato ed aiutato.  E sarebbe poi presso di lui che egli avrebbe abitato =

Ma innanzi tutto: perché la circostanza sarebbe oggettivamente importante e perché lo è secondo il P.M. ed il Tribunale?

*Perché, secondo l’accusa e la Relazione riassuntiva dell’agente speciale Mengale, Es Sayed sarebbe (“verosimilmente collocato a livello verticistico” come dice il capo di imputazione al termine del capo “A”.)

*Inoltre egli è l’unico irreperibile da molti anni.

*Infine, sembrerebbe comunque già provato che costui ha o ricettato o comunque falsificato i suoi documenti.

Queste sarebbero le referenze che caratterizzano “la statura criminale e l’importanza nell’associazione di Es Sayed” secondo quanto riporta il P.M. nei Motivi di Appello a pag. 18 ed il “grosso calibro” dello stesso, secondo la sentenza.

Il resto che lo riguarda si fonda sui… “si dice”, sui… “sembrerebbe”; e sui… “secondo le informazioni americane…”.

La sentenza infatti alla pag. 12 evidenzia come ha preso a testimonianza diretta, quelle che sono le generiche informazioni del Mengale. Dice la sentenza…”L’indagine ha dato modo di appurare che Es Sayied, aveva rapporti con un funzionario (pare vicino ad Osama Bin Laden) dei servizi di sicurezza yemeniti.

In ogni caso, sia quel che sia, questa è la ragione per la quale sarebbe determinante, secondo l’accusa e la sntenza, che Es Sayed, al suo primo arrivo in Italia, si sia rivolto a Benattia Nabil.  Significherebbe, nell’ottica assunta dal Tribunale, che quest’ultimo è il referente principale dell’Organizzazione e che i due si conoscono.

2)

Benattia Nabil accompagna Es sayed dal fotografo per realizzare e sviluppare fotografie destinate ad essere utilizzate per il rilascio del permesso di soggiorno.

L’eccessivo numero di fotografie stampate, sarebbe altra prova del sicuro coinvolgimento di Benattia Nabil nella contraffazione di documenti, in particolare di quelli rinvenuti nella disponibilità dell’altri imputato Remadna Abdelkarim.

3)

Benattia Nabil viene intercettato in una telefonata nella quale fa riferimento a “qualcosa” in arrivo dal Barhein.

Il Tribunale ritiene che si tratti di un linguaggio criptico per indicare documenti falsi o da falsificare.

4)

Benattia Nabil ha avuto rapporti di conoscenza con i fratelli Kazdari, condannati, questi ultimi in un altro processo, con sentenza definitiva, per “falso”;

5)

Il testimone Ceresa, condannato per possesso di una Carta di identità contraffatta, ha dichiarato essergli stati forniti i moduli dal Benattia;

6)

As Sayed, in una telefonata, esprime la sua viva preoccupazione di non coinvolgere Benattia nelle indagini di polizia, il Tribunale evidenzia, per non essere a sua volta scoperto;

7)

In un’intercettazione telefonica del 6.2.2001, sull’utenza dell’ICI, un tale Mourad dice a Ramadna di consegnare una busta contenente il passaporto con due assegni.  Si parla di NABIL e viene chiesto il costo. Il Tribunale pensa che si tratti del costo di un documento falso

8)

In una intercettazione telefonica del 21.11.00 tra Es Sayed e Benattia, il primo chiederebbe al secondo se “l’uomo ha approntato le foto”;

9)

Risulta una telefonata effettuata da un certo Buochucha Moktar, fatta dal cellulare del Benattia ad un interlocutore sconosciuto, nella quale si parla di documenti da consegnare a qualcuno proveniente da Varese, con cui concordare il prezzo.

10)

In Spagna, molti personaggi ed anche altrove, possedevano il numero di telefono di Benattia.

11)

Le telefonate di Benattia apparirebbero caratterizzate dall’uso di un linguaggio criptico, riferito all’attività di reperimento di documenti falsi;

 

12)

In una telefonata del 12.11.2001, Benattia e Remadna parlano di “qualcosa” che destinato ad essere consegnato dal primo al secondo, “avvolto in una carta”. La precisazione insospettisce il Tribunale che ritiene si tratti di documenti falsi da occultare.

13)

Benattia Nabil dimostrerebbe un accentuato fondamentalismo che si estrinseca ad esempio nel rifiuto di dare il nome alla figlia femmina e nella soddisfazione che avrebbe espresso alla notizia della morte di quattro soldati russi.

E’ vero?  Vediamo i punti uno per uno:

L’imputato ha fornito sempre puntuali giustificazioni, razionali e coerenti, a tutte queste contestazioni.

 

PUNTO 1)

Il Tribunale, nella motivazione della condanna di Benattia, dà per scontato un punto che la sentenza ritiene determinante e come presupposto di tutto il resto:  si dà per certa ed acquista agli atti una circostanza che, secondo la sentenza stessa, priverebbe di credito la giustificazione dell’imputato, su un punto definito “decisivo” e “determinante”, dalla sentenza stessa.

Di che si tratta? La sentenza da per certo che il primo contatto che Es Sayed avrebbe cercato ed ottenuto, sarebbe stato quello con Benattia Nabil; dal che, si desumerebbe la referenza negativa che contamina il Benattia e lo inserisce in un contesto associativo ed organizzativo.

Ecco cosa dice la sentenza: “Il ruolo di Benattia nell’associazione va desunto dall’importanza del personaggio ES Sayed all’interno di essa. E’ proprio il calibro di Es Sayed, infatti, che rende evidente che l’associazione, alle cui disposizioni lo stesso deve sottostare, non poteva che individuare in un uomo di fiducia della stessa, il diretto referente di Es Sayed a Milano”.

Ne è così convinto il giudicante che aggiunge, alla pag. 144 capoverso quattro della sentenza, che questa circostanza contrasterebbe in maniera evidente con la difesa del Benattia che riferisce di aver conosciuto Es Sayed, soltanto intorno alla seconda metà del 2000.

La convinzione del Tribunale, come rileva la sentenza, si fonda sulla richiamata interecettazione del 18.3.2000 (pag. 239 degli atti) nella quale, dice la sentenza”, “… Es Sayed afferma esplicitamente di essere andato direttamente da Benattia al suo arrivo a Milano”.

Alla lettura della sentenza in udienza, balzò immediatamente evidente che il Tribunale, relativamente alla posizione dell’appellante Benattia Nabil, aveva equivocato su un fatto storico.  Una sorpresa che in qualche modo “sgomentò” lo stesso P.M. sul momento, perché probabilmente intuì che questo semplice fatto sarebbe stato sufficiente a far dedurre, in Appello, che il Tribunale aveva equivocato su un punto che poteva segnare tutta l’attendibilità della sentenza e, dunque, minare la soddisfazione dell’accusa per il successo, finalmente ottenuto, almeno in uno dei tanti ostentati casi di terrorismo islamico in Italia, tutti risoltisi con significative assoluzioni.

Il punto riguarda, come detto, l’asserita conoscenza da parte del Benattia, del coimputato Es Sayed, al momento stesso in cui, quest’ ultimo, avrebbe messo piede a Milano.

ORBENE, gli atti, l’accusa ed il Rapporto della Digos, smentiscono clamorosamente questa erronea assimilazione fatta per pura confusione e non per una ragionata convinzione e deduzione.

Infatti: la Relazione Digos, l’accusa, e l’imputato Esayed, qui richiamato, non hanno mai parlato, relativamente a questa telefonata, di BENATTIA.

La sentenza fa un clamoroso errore di confusione e di falsa assimilazione dicendo che “…Es Sayed ha dichiarato di essere andato direttamente da Benattia”.

Si leggano gli atti e si vedrà che ovunque è detto che Es Sayed

Non ha mai detto (ne si troverà mai contestata ed attribuita questa circostanza al Benattia) di essere andato da BENATTIA; egli parla invece soltanto di un certo Nabil.

ORA, poiché non è ignorato che quasi tutti gli Arabi si chiamano “Muhammad”, come una volta quasi tutti gli italiani si chiamavano “Antonio” o “Giuseppe”, qui ciò che rileva è il cognome che distingue e qualifica e, a secondo della famiglia, un “nome” diventa il cognome del ceppo secondo come si chiama il padre.

BENATTIA non è qualificato con il nome NABIL  ma con il primo nome che funge da cognome identificativo, rispetto al quale il secondo è soltanto il nome.  In altri casi, se il padre è NABIL, il nome qualificativo della famiglia sarà NABIL ed il nome individuale, sarà BENATTIA.

Ben consapevoli di questo, l’accusa e la Digos non hanno mai affermato che il Nabil cui fa riferimento nella telefonata Es Sayed è BENATTIA; è il Tribunale che, per la prima volta, cade in questo errore, peraltro sostituendo “motu proprio” il nome e ponendo in bocca ad Esayed una frase diversa.

Infatti Es Sayed ha detto di essere andato “direttamente da Nabil”, non già “da Benattia”, come dice la sentenza!

Ma non si creda che questa sia una giustificazione fondata sull’equivoco di uno scambio di nomi sui quali la difesa intende giocare:  L’altro NABIL esiste ed è cognito all’accusa e agli ispettori, ecco perché la circostanza non è mai stata contestata a Benattia.  Si tratta di NABIL  EL  FEKHI che è il numero due della Moschea di Via Jenner.

Nel corso delle indagini era emerso chiaramente che BENATTIA non era “quel” Nabil al quale, se i giudici avessero letto tutti gli atti e con la dovuta attenzione, avrebbero scoperto che sono state contestate ben altre più gravi circostanze quali, ad esempio, “numerosi contatti telefonici con il leader carismatico della “Jamaa Islamia Agiziana”, prima del suo arresto negli U.S.A.

Il Tribunale dunque afferma, in contrasto con gli stessi inquirenti, portandosi oltre le loro stesse ricostruzioni, ed attribuendo contatti e ruoli che gli inquierenbti stessi hanno anzi escluso, che il Benattia Nabil accoglie nella sua abitazione As Sayed (detto anche Abusaleh) al momento del suo arrivo a Milano e che soltanto in un secondo momento gli sarebbe stato concesso l’utilizzo di un appartamento in uso alla Moschea di Viale Janner.

La telefonata di Es Sayed è del 18.3.2000 e riferisce che il suo arrivo in Italia era almeno di un anno prima (cioè il 1999); orbene, Benattia Nabil lo conosce soltanto nella metà dell’anno 2000 in Via Quaranta. Non esiste traccia da nessuna parte di un incontro tra i due, precedente a questa data, proprio perché non si conoscevano.

Lo dice chiaramente il teste Mengale allorchè riferisce che Benattia Nabil fornisce (ai fini del domicilio) l’indirizzo di Via Val Bavona n. 1 al Es Sayed, il 24.11.2000, precisando peraltro, che quest’ ultimo aveva tuttavia continuato ad abitare effettivamente in Via Conte Verde, appartamento della Moschea di Viale Janner.

Non è dunque vero che “Benattia Nabil accoglie nella sua abitazione Es Sayed”, come continua a recitare la sentenza impugnata.

Si indichi solo una prova o un indizio che confermano questa apodittica affermazione.

Esiste invece, proprio la prova contraria che Es Sayed non ebbe affatto il supporto del Benattia Nabil al suo arrivo a Milano nel 1999 e non lo ebbe neppure dopo, visto che il favore al quale si limitò il Benattia, non fu altro che quello di fornirgli, soltanto il 24.11.2000 l’indirizzo della propria abitazione al fine di potergli far ottenere un appoggio per ottenere il permesso di soggiorno.  E’ un servizio che quasi tutti gli stranieri si sono offerti l’un l’altro senza doppie finalità.  La finalità di far ottenere un regolare soggiorno ad una compaesano di cui si ha fiducia realizza già per se stesso lo scopo; che cosa rende lecito attribuire un secondo scopo a questo “soggiorno”?  Perché mai alla finalità di regolarizzare una posizione amministrativa dovrebbe aggiungersi l’attribuzione che questa regolarizzazione viene effettuata al fine di far compiere “al coperto”, altri generi di reati, addirittura terroristici?

Questo balzo pindarico su quale base trova giustificazione? Come può, dalla semplice intenzionalità ad aiutare a regolarizzare la posizione giuridica di un conoscente clandestino, attribuirsi una ulteriore, addirittura principale intenzionalità, di averlo fatto al fine di “pulire la posizione” del clandestino onde potergli far compiere (o addirittura compiere insieme e a lui) reati. Ma una simile abusiva estensione, oltre che nella interessata fantasia di qualche politico che deve giustificare con la paura la necessità di aderire a guerre e sacrifici  “lunghi e difficili”, da quale altra fonte trae supporto?

*Ma bisognerà ricordare che quello di Benattia Nabil non è neppure il caso di un (occasionale) aiuto ad una persona della quale aveva acquisito stima ma che era tuttavia clandestina! Lo Es Sayed, non era affatto clandestino ma un rifugiato politico accettato dall’Italia, con tutta la sua famiglia e che aveva tutti i suoi documenti in regola.

*Sullo stesso punto, bisognerà altresì ricordare l’altro errore della sentenza ove la stessa ritiene che il documento che Es Sayd doveva richiedere con le foto che aveva portato a sviluppare non è affatto il permesso di soggiorno ma il RINNOVO dello stesso.  La circostanza è importante perché questo evidenza che allorchè io Benattia conobbe Esayd, successivamente e non quando arrivò a Milano o addirittura prima, Es Sayd ERA GIA’ IN REGOLA e non si aveva ragione di evitarlo o ritenerlo inquinato ed inquinante. Aveva un regolare asilo politico e non era ignorato che aveva una condanna in Tunisia perché  accusato pretestuosamente di terrorismo; anzi era proprio questa la ragione del concesso asilo politico.

E’ dunque altresì completamente viziata da questo errore di partenza e di base, l’ulteriore conclusione cui perviene la sentenza allorché afferma erroneamente: “Benattia fornisce, sin dall’inizio, un supporto logistico ad Es Sayed e lo continua ad aiutare, consentendogli di utilizzare il proprio domicilio, per ottenere il permesso di soggiorno”.

Quello nel quale è caduto il Tribunale è dunque un equivoco estremamente grave e condizionante perché è proprio l’elemento sul quale si fonderebbe la presunta preconoscenza tra i due che è alla base dell’accusa di “associazione”.

Trovandomi in questa udienza a sostituire anche l’avv. Simona Carolo, sono obbligato a riportaVi anche le sue argomentazioni in proposito. Esse sono sviluppate al Motivo 1 e alle pagg. 2-3-4- e 5

 

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PUNTO 2

Benattia Nabil, in occasione della domanda di rinnovo del permesso di soggiorno di Es Sayed, lo accompagna da un fotografo ove realizzare le fotografie destinate ad essere utilizzate per il rinnovo dei permessi di sggiorno suo e della sua famiglia. Al Tribunale appare strano che As Sayed, pur con una famiglia numerosa, avrebbe fatto sviluppare 150 foto tessera.  Appare strano anche se riconosce accettabile l’idea che è uso delle famiglie arabe fare in un’unica occasione più foto per evitare di scoprire il volto più di una volta.

Pare più verosimile al Tribunale ritenere che tutte quelle foto servissero per fare più documenti falsi e più volte.

Perché mai?  Le foto non servono comunque per fare sia documenti veri che falsi?  E se per fare un documento vero servono tre foto, forse per farne uno falso ne servono trenta?

Perché il numero maggiore sarebbe indicativo che i documenti saranno falsi e saranno numerosi? Forse che un documento falso non è comunque un documento che deve essere utilizzato come vero?  Forse che possedere dieci documenti falsi è meno compromettente che possederne uno ben fatto?  Su quale logica il Tribunale preferisce l’ipotesi dell’uso illecito a quello dell’uso lecito? O bisogna presumere che la famiglia di Es Sayed dovesse fare almeno 10 passaporti diversi, e dunque falsi, per ciascun membro?

Poiché al fotografo viene lasciato il nome di Benattia; anzi l’espressione “Benattia moglie”, e non di Es Sayed, il Tribunale deduce che Es Sayed volese nascondersi e che Benattia lo abbia voluto coprire.

MA RIFLETTIAMO:

*Es Sayed non era clandestino; era regolare, era conosciuto

  e non aveva ragione di nascondersi.

 *Se Es Sayed avesse voluto nascondersi e Benattia coprirlo, non si sarebbe dato il nome esatto di Benattia!  Il fotografo non è la Questura; al fotografo può essere anche dato il nome “Pinocchio”.  Si tratta forse di unh’operzione bancaria o notarile?

Ma come fanno il P.M. ed il Tribunale a non cogliere qusta eidenza? Che cosa si deve pensare?  Perché rovesciare la logica?

 

PUNTO 3)

Nella intercettazione della telefonata del 12.12.2000, il Tribunale rilevando il linguaggio criptico della stessa, conclude che si parlava sicuramente di documenti falsi.

L’imputato ha dato una spiegazione plausibile. Ha detto che stava trattando l’acquisto di valuta dello stato arabo del Barhein (come in effetti appare nelle telefonata) ad un prezzo bassissimo. Non si è nascosto dietro la precisazione o la giustificazione che riteneva che si trattasse di un’operazione legale; anzi sicuramente riteneva di no e questo spiega la reticenza nel parlare, il senso dell’espressione “come due gocce d’acqua” che, come la cifra 83, può più riferisi all’emissione di quella valuta andata fuori corso ma tuttavia apparentemente simile a quella in corso, per chi non la conosce sufficientemente) Perché dover ad ogni costo interpretare sempre, anche qui, i riferimenti, a documenti falsi?

 

4)

Non si capisce perché la semplice conoscenza con i fratelli Kazdari, rei confessi di falsificazione ma che non fanno alcun riferimento al Benattia, debba essere referenza negativa dal valore di prova.

 

5)

All’udienza del 12.2.2003 il teste Cereza, ha affermato di aver avuto dei moduli di carte di identità direttamente da Benattia. Il teste non potè meglio specificare che intendeva il fratello di Benattia Nabil, perché in quell’udienza il Benattia era disgraziatamente assente; però il teste ha altrove indicato il fratello dello stesso, come fornitore di documenti falsi e non il Benattia Nabil. Ciò del resto è confermato anche dall’altro teste Landi.

Sul punto la sentenza tace completamente ed anzi conclude come se i due testi avessero parlato del Benattia Nabil anziché del di lui fratello.  Soprattutto dimentica il Tribunale che, all’udienza del 17.12.2003, su consenso delle parti è stato acquisito agli atti del processo un atto delle indagini preliminari costituito da un’annotzione del 15.9.1999 relativa al sequestro di banconote false, carte di identità rubate, della guerdia di frontiera elvetica a carico di Benattia Nabil (pag. 7 verbale udienza 17.12.2003) = In detto verbale si legge che Ceresa Lorenzo, in periodo non sospetto e addirittura nell’immediatezza dei fatti, ha fornito, suffragando dunque la versione dell’imputato Benattia Nabil, la propria vera versione. Nell’ultima pagina del citato documento infatti si legge: “..sono stato coinvolto dal fratello di Benattia Nabil, il quale viene da me identificato come soggetto che si chiama “Nino” “.

Se è consentita anche un’ulteriore considerazione, quel riferimento a valuta falsa, non conferma in qualche modo la versione data dall’imputato che nell’intercettazione stava parlando di valuta e non di documenti falsi?

Tutti gli altri punti sono stati ampliamente spiegati dall’imputato e comunque sui singoli casi torneremo nei motivi aggiunti e nel dibattimento orale.

6)

Riferendosi all’intercettazione ambientale del 20.11.2000, Es Sayed, parlando con Adel Ben Soltane, avrebbe manifestato preoccupazione di coinvolgere Benattia Nabil nella contraffazione di documenti, in quanto una “scopertura” avanti le Forze dell’Ordine di Benattia, avrebbe consentito un collegamento con la sua persona.  E’ una cervellotica interpretazione che contrasta con le risultanze processuali e con la logica.

Per capire il reale senso della preoccupazione basta rifarsi al momento temporale. La lettura intergale dell’intercettazione consente di comprendere l’oggetto della conversazione.

Si tratta del 20.11.2000 alle ore 15,31, data antecedente al ritiro delle famose foto dal fotografo ed altrettanto antecedente alla domanda di rinnovo del permesso di soggiorno di Es Sayed (acquisito agli atti del processo) che è scaduto da due giorni.  Es Sayed, come risulta dalla intercettazione vorrebbe rinnovarlo a Milano ma si pone il problema di come radicare la competenza di simile organo. Es Sayed acquisisce informazioni preso Adel in ordine alla procedura per il rinnovo del soggiorno; si pone il problema se presentare la domanda a Roma, luogo di rilascio originario, ovvero a Milano e se è ncessario portate anche la moglie in Questura.  Es Sayed vorrebbe rinnovarlo a Milano ma si pone il problema della competenza come si è detto.

Gli scrupoli di Es Sayed (alias Abu Saleh) attengono più alla possibilità di essere sottoposto a controlli delle forze dell’ordine o… dei servizi segreti, piuttosto che alla possibilità di essere scoperto a seguito di controlli su Benattia Nabil.   Vero è invece io contrario!  Es Sayed non vuole creare problemi a Benattia Nabil che non ne ha,  tanto da rendersi disponibile ad accomagnarlo in Questura a Milano (vedasi pag. 189 delle intercettazioni), perché in un eventuale permesso di soggiorno contraffatto, le Forze dell’Ordine a lui risalirebbero tramite l’indirizzo indicato quale domicilio, provocandogli ovviamente guai.

7)

Ancora una volta, la persona cui si fa riferimento nell’intercettazione non è BENATTIA NABIL  ma sempre di NABIL EL FEKHI che ha anche testimoniato nel processo, aiutante dell’Imam Abou Imad.

La telefonata poi ha un senso normale anche se non riguarda Benattia e non allude a nessun costo di documenti falsi.  Riferisce  invece all’organizzazione del pellegrinaggio che le Moschee ogni anno organizzano. L’Ambsciata dell’Arabia Saudita concede il visto solo ai viaggi organizzati in gruppo e dietro la produzione di due assegni; uno di 200 dollari ed uno di 300 = Nella telefonata Muorad chiede a Remadna quale sia l’importo da pagare, riferendosi al costo del biglietto da prenotare con la Saudi Arabia.  La versione è stata compresa anche dallo stesso P.M. che difatti non l’ha contestata ne’ a Benattia Nabil ne’ ad altri; ma non è stata capita dal Tribunale.

Ma guardate in questo pnto come si raggiunge il paradosso:

Il P.M. rispondendo all’obiezione di questa difesa che semmai le ragioni di certe falsificazini di documenti hanno la loro ragione in un utile economico ed in un’attività di piccola criminalità cmune e non già nel terrorismo, risponde che neppure un caso è dato di osservare nel nostro processo.

Ciò non di meno, quando si tratta di portare prova dell’attività di presunta falsificazione svolta dal Benattia, riferisce proprio questa telefonata!

Ma qui bisogna mettersi d’accordo: non si può usare una stessa cosa per provare due cose contrastanti! Quando torna comodo provare l’associazione di natura terroristica, questa telefonata è sottaciuta come non data; quando si tratta di provare che benattia falsifica i documenti, è una prova!

Ma allora è anche una prova che Benattia si fa pagare; DUNQUE, la sua motivazione non è di carattere “terroristico” ed ideale, solidale con presunti terroristi!

 

8)

la telefonata che riguarda il colloquio tra Benattia  e Abu Salah, nella quale il secondo chiede al Benattia “se le foto sono pronte”. Benattia risponde che le avrebbe consegnate il giorno dopo.

Per il P.M. ed il Tribunale si tratta di una cifratura per indicare passaporti, carte d’identità o patenti false.

Benattia aveva spiegato fin dall’inizio che Abusalah gli aveva consegnato cinque foto tessera, una sua, una della moglie e tre dei suoi bambini, chiedendogli di riprodurgliene una trentina (sei copie per ogni soggetto) per non essere soggetto a portare sempre i suoi figli e soprattutto sua mogli a scoprirsi dal fotografo.

Benattia, come risulta dall’interrogatorio del P.M., forniva al P.M. il nome e l’indirizzo del fotografo invitandolo a verificare. Aveva invitato a verificare che alcune di quelle foto erano state poi versate alla Questura per rinnovare tutti i permessi di soggiorno. NIENTE veniva verificato!

 

9) la telefonata partita dal cellulare di Benattia, fatta da un certo Bouchucha Muktar. Nella stessa si fa accenno ad una somma da pagare (300 mila lire) per un servizio che il Tribunale riferisce alla fornitura di un documento falso da parte di Benattia.

Il tribunale attribuisce la voce a Benattia mentre la perizia fonica del 21.2.2001 LO ESCLUDE. Non lo contestava neppure il P.M. contestava soltanto che era partita dal suo cellulare e che nel sottofondo della telefonata ad un certo punto si sentirebbe una voce attribuita presuntivamente a Benattia, che diceva di… “chiedere 400 mila lire” o qualcosa di simile.

Benattia ha dato una razionale spiegazione:  Era venerdì, dopo la preghiera collettiva, un fedele che non conosce ma del quale non ha ragione di pensare male gli chiede di fare una telefonata. Lui si raccomanda soltanto che non sia interurbana e questo bisbiglio all’inizio si sente e ne da atto la sentenza. Poi la voce di Benattia scompare e restano i due interlocutori che, effettivamente sembrano contrattare qualcosa di non perfettamente chiaro. Il Tribunale conclude che Benattia voleva rimanere coperto da eventuali intercettazioni e fa trattare un estraneo con l’interlocutore al quale servirebbe il documento.

ORBENE: si rifletta; come fa Benattia a  “coprirsi “, visto che la telefonata parte dalla sua utenza?

D’altra parte, il fatto che qualcuno presti il proprio cellulare per fare una telefonata può sembrare strano forse ad un borghese sospettoso, che sia sulla sessantina in su; ma tra giovani che frequentino discoteche, o allo stesso titolo per giovani che frequentino moschee e si considerino per questo “fratelli” nella religione secondo una tradizione ancora viva in oriente, non è nulla di eccezionale.

Ma a voler ad ogni costo stabilire che comunque il Benattia svolge l’attività illecita di produrre documenti falsi, si rifletta su un altro punto più generale: Se lui si fa pagare e non contatta neppure i diretti interessati, facendo addirittura mercanteggiare sul prezzo, che razza di “associazione” è la sua, con i soggetti ai quali offre servizio? Qui ritorniamo nuovamente al problema dell’ associazione.

Un’ associazione presuppone una comunanza di interessi, uno svolgimento di ruoli nel contesto di una solidarietà ideale, ideologica e/o materiale. Che associato sono quei personaggi con i quali neppure tratta, ai quali fa pagare servizi e fa tratta sui prezzi?

Non possiamo avere la botte piena e la moglie ubriaca; non possiamo pretendere di avere due risultati: Benattia falsifica documenti; e lo fa per Bin Laden. E’ veramente troppo!!

 

10)

I ricorrenti riferimenti che la sentenza fa al fatto  che il nome di Benattia compaia in alcune agendine di personaggi inquisiti in altri procedimenti in Italia o in Europa; che sia conosciuto in Spagna; che diverse persone avevano il suo numero, CHE RILIEVO HA come prova, nel contesto accusatorio?

Ecco un altro esempio di quel metodo delle referenze negative che vorrebbe assurgere a prova della colpevolezza di qualcuno.

Apparte il fatto che i soggetti considerati “cattivi compagni” o referenti negativi non appaiono da alcuna parte come noti terroristi o condannati per terrorismo.

Alla stessa stregua di come, contro quelle persone viene portata la referenza negativa che conoscono Benattia, qui viene portata la referenza negativa che Benattia conosce loro!!!

Ma dico, ci rendiamo conto a che punto di irrazionalità siamo arrivati?

Dico, volgiamo capire che c’è una bella differenza tra un “benpensante pensionato” che sta davanti al televisore e che ha passato la sua vita tra la casa e l’ufficio e profughi che vengono da uno stesso paese in cerca di fortuna, di lavoro, di quella libertà negata ai loro paesi. Sarà mai possibile chiedere loro di non informarsi sugli avvenimenti interni dei loro paesi, su quello che succede a casa loro, di non avere rapporti e conoscenze con concittadini della medesima provenienza, di non ritrovarsi nei luoghi dove la loro identità si rinnova, come le Moschee o i ritrovi caratteristici?

Cosa c’è di strano che gente andata via dal proprio paese e venuta in Occidente, non si ritrovi, non si ricerchi e; all’occorrenza non cerchi comprensibilmente anche di aiutarsi nelle difficoltà minime quotidiane, senza che questo significhi TERRORISMO o che le ragioni di questa forma di solidarietà siano di carattere terroristico!!!

Ma dico, certe cose possono forse essere fatte credere a quella massa di consumatori voraci imbambolati davanti alla televisione e che divide il suo tempo tra una telenovela e la pubblicità ma non crediamo che tutti siano disposti a crederle e a far insultare la loro intelligenza.

 

11)

il linguaggio criptico delle telefonate del Benattia. Se è criptico non capisce come possa essere chiaro che stia trattando di documenti falsi.

L’esame delle intercettazioni alla luce della spiegazioni fornite dal Benattia,  non appare più così evidente in senso accusatorio.

 

12)

la telefonata di Benattia e di Remadna dove parlerebbero di “qualcosa” che deve essere consegnata “avvolta in una carta”

anche qui Benattia ha spiegato ed il teste Nabil El Fekhi (lo stesso sul quale il Tribunale ha fatto confusione attribuendo a Benattia, riferimenti che erano diretti invece a questo testo… come il primo contatto di Es Sayed….) ha confermato,

debbo riprendere le considerazioni e la telefonata dai Motivi di Appello della collega Simona Carolo alla pag.9

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13)

Inoltre: il linguaggio eccessivamente religioso del Benattia.

Ma come si può assumere un elemento simile ad ulteriore indizio ritenendolo capace di formare una prova.

Piuttosto una cosa è vera ed inquietante. Si, il Benattia si era attivato all’inizio di questa operazione, anche con l’aiuto di avvocati e con un’ associazione per tutelare le ragioni degli arrestati, per dar loro supporto legale, per chiarire, intuendo in quale direzione si stava avviando nei confronti degli stranieri, un certo furore operativo.

Il P.M. che conduceva l’istruttoria lo invitò più volte non sempre cortesemente a “smettere”. Sicuro del suo buon diritto Benattia continuò a fare opera di sostegno morale ai detenuti, anche visitandoli e collaborando a chiarire le loro posizioni processuali, con l’aiuto di avvocati. Il tutto si risolse con il suo arresto, collocandolo insieme a quelli che difendeva.

Forse il P.M. riteneva di poter utilizzare quell’impegno morale, sociale e religioso, come ulteriore prova del “reato associativo”.

Benattia, secondo me, dovevi farti i fatti tuoi!

 

È PER DARE PROVA ULTERIORE  di queste argomentazioni difensive che furono formulate in primo grado, le richieste istruttorie che l’avv. Simona Carolo rinnova nel Motivi di Appello.

Ove la Corte ritenesse insufficienti le motivazioni difensive svolte per una eventuale carenza di prova, noi insistiamo nell’interazione della prova, attraverso l’ammissione delle istanza istruttorie formulate nei punti 1-2-3-4-5 dei Motivi di Appello del avv. Simona Carolo, che questo difensore fa proprio unitamente ai proprio Motivi, già depositati.

 

INFINE, signori della Corte, anche se volessimo dare per probabile che l’imputato fosse comunque dedito a produrre documenti falsi come sua attività lucrativa personale, perché SI VUOLE AD OGNI COSTO DIRE CHE LO FACEVA PER BIN LADEN o giù di lì? Perché FORZARE LA LOGICA, I FATTI, IL DIRITTO, PER DARE ALLA POLITICA UNA SIMILE SODDISFAZIONE, SOLO perché CERTE SCELTE LO IMPONGANO COME PRESUNTA “RAGIONE DI STATO”?

Signori, riportate equilibrio, senso di giustizia, serietà.  Non asserviamoci involontariamente ad un progetto che è politico e che non ha a che vedere con la giustizia e con la sicurezza.

 

 

MA INFINE, SIGNORI DELLA CORTE, anche se si volesse ad ogni costo riconoscere che i singoli imputati, nel nostro caso Benattia Nabil, abbiano effettivamente compiuto atti sul genere di quella occasionale falsificazione o ricettazione di documenti, questo sarebbe comunque ben lontano dal portarsi oltre mere iniziative personali e lucrative, rientranti nell’ambito della piccola criminalità comune, limitate comunque al profitto personale, senza alcuna forma di “organizzazione” concertata o di associazione; tanto meno finalizzata a scopi di un presunto terrorismo islamico o di un favoreggiamento dello stesso. 

Ma vedete come, con un’accusa così grave quale quella dell’associazione, è stata inibita anche la possibilità, ove si fosse voluto confessare e patteggiare il minor reato specifico; infatti, riconoscere una falsificazione occasionale significa qui riconoscere che la si è commessa per favoreire… Bin Laden ed Al Qaeda!

 

Insomma, il P.M. vuole farci credere ad ogni costo che ormai gli Arabi ed i musulmani ormai falsificano documenti per altra ragione che per quella del terrorismo; e che la loro presenza in Occidente non ha mai avuto altro scopo che quello di prepararere basi per minare l’Occidente stesso.

Ed invece no, Signori: l’immigrazione ha una sua ragione autenticamente sociale.  Venire in Occidente e guadagnare anche soltanto 500 Euro significa poter aiutare concretamente la propria famiglia e se stessi.  Cento Euro in Marocco, equivalgono veramente a mille Euro da noi e la ragione della presenza degli immigrati dei paesi arabi è veramente una speranza se non di fortuna, di sopravvivenza. Quanbdo poi non sia una fuga per sfuggire alla tirannia dei governi locali diventati mprovvisamente, i migliori referenti ed alleati degli Stati Uniti nella caccia ai presunti terroristi nel cui novero rientrano ormai tutti gli avversari politici di quei governi.

I documenti falsi: non c’è solo una ragione di terrorismo! Quante volte certi espedienti non sono l’effetto di una forma di ottusa burocrazia che crea situazioni paradossali da vera e propria trappola e quante volte è l’effetto di situazioni di ben più vasta portata. Guardate il caso della Somalia; un paese al cui nterno da ormai 18 anni c’è ancora una rivoluzione. Forse saranno un centinaio i Somali in tutto il mondo che hanno un documento autentico; e non solo perché non c’è più un’autorità consolare vera ma perché è diventata addirittura una  moda ringiovanire negli anni, per le donne somale; visto che si può fare!  Ma il tutto si è originbato dalla necessità della strahgrande maggioranza della popolazione di fuggire dal Paese, al momento dell’inizio delle ostilità. Ricordate che poco prima della caduta di Siad Barrek, l’ultimo presidente, la tribù del Nord, gli Awiyya avevano giurato di uccidere tutti quelli delle altre sette tribù, i Darod, di cui faceva parte il presidente stesso. Fu un esodo d portata bibblica. Chi aveva documenti? Chi poteva più qualificarsi? Qual’era l’esigenza principale se non fuggire come si poteva e dove si poteva?

Ma riflettetre infine su un punto di non poco conto:  i terroristi rivendicano con orgoglio la loro qualità; ne avete prova da processi di altra specie. I terroristi, una volta sorpresi, non fanno di tutto per negare la loro qualità, come fanno gli imputati di questo genere di processi fondati sulla forzatura dell’art. 416 c.p.

 

Sig. Presidente, Ecc.ma Corte: è vero che il momento è delicato e grave, ma dobbiamo tornare al senso del diritto.Non si può fare di episodi di piccola criminalità comune, un’abusiva estensione attribuendo intenzioni di comodo.Voi pensate soltanto a questo: se a questi imputati fosse stato contestato l’art. 270 bis nella sua nuova formulazione come sarebbe stato normale per la natura dei reati contestati, non avremmo trovato un solo elemento che avrebbe potuto motivare e consentire la loro condanna.  Questo rileva ancor più la forzatura giuridica che con la scelta del 416 c.p., si è voluta attuare.

All’esito delle istanze e delle integrazioni proposte nei Motivi di Appello, Vi chiedo:

A) In linea principale, l’assoluzione per BENATTIA  NABIL, per tutti i capi contestati, per non aver commesso il fatto o perché i fatto non sussiste.

 

B)Soltanto in linea subordinata, l’assoluzione per il 416 c.p. perché il fatto non sussiste ed il minimo della pena per la falsificazione contestata.

 

Con la concessione dei benefici di legge e l’immediata liberazione se non detenuto per altra causa.

 

Dissequestro di tutto quanto indicato nel verbale di sequestro.

 

Avv. Carlo  CORBUCCI