Il dibattito intorno alle guerre contemporanee, per lo più, è affrontato unicamente all’interno di retoriche geopolitiche. In tale contesto ciò che accade concretamente alle donne e agli uomini che di quelle guerre sono, volenti o meno, gli attori principali è posto velocemente tra parentesi. Con buona pace degli uomini politici, dei media e di gran parte del mondo intellettuale le guerre si riducono a una sorta di war game in grado di rendere emozionanti e interessanti le noiose e asfittiche serate alle quali le donne e gli uomini del Palazzo sono costretti in nome dei loro impegni presi nei confronti dei cittadini se non addirittura dell’intera umanità. Tranquillamente seduti sulle poltrone di salotti pubblici o privati, spostano truppe, mezzi corazzati, aerei e navi da guerra insieme all’inevitabile corollario di altrettante “missioni civili” e, senza animosità eccessiva, discutono se, ed entro quali limiti, la tortura sia legittima o quali e quanti “effetti collaterali” siano accettabili. Un dibattito che sposta per intero la questione guerra sul piano anodino della teoretica dove, la magnitudine platonica, non lascia spazio e scampo alla critica animosa e partigiana propria del sofista. Ma al di fuori dei salotti dove a dominare è la solarità del mondo delle idee a prevalere è la caverna ed è lì che vivono e sovente muoiono le donne e gli uomini reali. Per loro, la guerra, si confonde fino a dominarla e plasmarla per intero con la propria esistenza e per questo ne ricavano un’esperienza che racconta qualcosa di ben diverso.
La “storia di vita che ci prestiamo ad ascoltare fotografa il volto con il quale la guerra si presenta agli abitanti della strada. È la guerra vera, dove non vi è spazio per la civile disputa che anima i salotti del Palazzo. Si vive, si muore, si è stuprate e rese schiave concretamente e la libertà e la dignità sono (talvolta) possibili unicamente se conquistate in prima persona e, sembra il caso di rimarcarlo, con le armi in pugno. Una realtà più tragica che drammatica dove nessuna utopia o redenzione sembra profilarsi all’orizzonte. Il teatro degli eventi è l’Albania dei giorni nostri.
Per Anna, la nostra protagonista, e i suoi l’Angelo della Storia non sembra avere alcunché da offrire. Le loro spalle non sono rivolte al futuro ma, più realisticamente, attente a ciò che gli si aggira intorno perché la possibilità di cadere in una qualche imboscata, vittime di un “regolamento di conti” o diventare l’obiettivo di una qualche operazione di “polizia internazionale” sono variabili continuamente all’ordine del giorno. Per loro, nessun vento soffia dal Paradiso e se qualcosa li trascina è solo il ritmo cadenzato dei colpi delle loro armi. Precipitati dentro all’inferno hanno trovato un modo per non soccombere.
La dimensione in cui attualmente Anna vive, non è distante da quella del proscritto anche se è ben distante dall’incarnarne le suggestioni letterarie che quelle esperienze hanno suggerito. Una fine del tutto impensabile solo dieci anni prima quando, al pari di gran parte dei suoi coetanei, guardava estasiata le nostre televisioni augurandosi di toccare al più presto con mano il sogno italiano. Oggi Anna è una donna dura, decisa, implacabile, persino spietata. Le esperienze che paramilitari, imprenditori italiani ed europei prima e soldati NATO e operatori umanitari poi le hanno fatto conoscere hanno aperto ferite che si sono forse cicatrizzate ma che non potranno mai più essere dimenticate o rimosse.
L’incontro con lei avviene in una città dell’Italia del Nord grazie alla mediazione di un “clandestino” evaso qualche tempo addietro da un Cpt. In Italia Anna non è ricercata ma è pur sempre una “clandestina” e per questo ha accettato di parlare a condizione che la sua figura rimanga una semplice ombra di cui, persino la descrizione fisica, deve rimanere priva di contorni. Una condizione che non è difficile accettare, in fondo si sta parlando di una non – persona. Questo è il suo racconto.
Per quasi sei 
  anni hai vissuto segregata. Come ha inizio la tua storia?
  Sono stata rapita l’11 novembre del 1996, avevo 
  tredici anni. Abitavo in un piccolo paese che, come molti altri, è stato preso 
  di mira da uomini armati che arrivavano e si portavano via le persone per 
  metterle a lavorare nelle tante piccole fabbriche aperte dagli stranieri, gran 
  parte di queste erano proprietà di italiani.
Un modo non 
  proprio ortodosso per reperire forza lavora. Perché le imprese scelgono questa 
  strada?
  Perché dalle fabbriche la gente comincia a scappare. All’inizio, questi sono i 
  racconti di quelle un po’ più grandi di me e che erano andate nelle fabbriche 
  prima, volontariamente, quando reclutavano la gente per fare un lavoro che 
  sembrava normale. Per questo, molte, andavano nelle fabbriche anche con 
  entusiasmo. Era l’epoca in cui noi pensavamo che il mondo fosse quello che si 
  vedeva in televisione. In Albania si prendono tutti i canali italiani e noi ci 
  siamo immaginati che il mondo vero fosse quello che vedevamo alla televisione. 
  Vestiti, auto, locali, divertimento, uomini bellissimi insomma tutte queste 
  cose qua. Per noi l’Italia era questa e, con non poca ingenuità, pensavamo che 
  andare a lavorare per gli italiani era un po’ come entrare a far parte di quel 
  mondo lì. Poi moltissime vedevano in quel lavoro un modo per staccarsi ed 
  emanciparsi dalla famiglia. Da noi il peso della famiglia o di chi era più 
  grande è sempre stato molto forte e quindi vedere alla televisione tutte 
  quelle ragazze molto libere, belle, ricche e che vivevano un po’ come gli 
  pareva era un modello molto forte, che tutte volevano imitare. Questo è un 
  aspetto del discorso al quale se ne aggiunge un altro. In Albania c’era un 
  forte orgoglio nazionalista e, specialmente per le generazioni più anziane, un 
  certo attaccamento verso l’epoca comunista. È difficile dirti se questo 
  attaccamento verso il passato fosse più una questione ideologica, cioè una 
  forte convinzione verso il comunismo, oppure il legame che molti mantenevano 
  con Enver era forse dovuto all’indipendenza che lui e i suoi partigiani 
  avevano conquistato e garantito all’Albania. Nelle case, un po’ in tutte, 
  l’arrivo degli italiani e delle fabbriche produce delle continue rotture tra 
  giovani, soprattutto i giovanissimi come me, e i più grandi e più si ha a che 
  fare con persone anziane maggiore è il conflitto che nasce. Per i vecchi, gli 
  italiani, non sono quelli che si vedono alla televisione ma quelli che hanno 
  occupato l’Albania nel 1939. Per loro gli italiani sono i fascisti e 
  l’ostilità nei loro confronti è rimasta la stessa. Anche chi non è mai stato 
  molto allineato con Enver e i suoi uomini, in casa nostra c’era uno zio che 
  era stato in prigione perché, pur essendo membro del partito, ne aveva 
  criticato la politica ed era stato condannato per revisionismo, nei confronti 
  degli italiani non aveva idee diverse. Tra le generazioni più anziane il 
  ricordo e lo spettro della conquista era ancora molto presente. Il loro 
  discorso, in poche parole, era questo: Una volta sono arrivati con le armi e 
  poi si sono presi tutto. Adesso arrivano con le industrie, si prenderanno 
  tutto e poi manderanno anche i soldati. Per noi più giovani queste sono solo 
  fantasie e paure ingiustificati di persone che non vogliono cambiare e che, 
  soprattutto, non sanno cogliere la grande occasione che abbiamo a portata di 
  mano. Andare a lavorare per voi molti lo considerano come una rivincita dei 
  giovani sugli anziani. Noi venivamo da una società molto incentrata sulle 
  figure dei grandi mentre i giovani contavano poco. Da voi, invece, sembra 
  essere tutto il contrario. Si sente in continuazione dire che il mondo deve 
  essere dei giovani, i più sono attratti da questi discorsi. Così, per fartela 
  breve, all’inizio molti vanno a lavorare spontaneamente e con entusiasmo nelle 
  lavorazioni che gli italiani aprono in continuazione e lo vedono anche come un 
  modo per liberarsi dal peso del potere familiare. Tutto questo ha vita breve 
  ed è a quel punto che inizia il reclutamento coatto attraverso i rapimenti e 
  le deportazioni.
Cos’è che fa 
  saltare il clima idilliaco che inizialmente si era creato tra imprenditori 
  italiani e forza lavoro albanese?
  Le condizioni in cui le operaie e gli operai 
  sono costretti a lavorare. Una situazione che per le donne, in base ai 
  racconti che ho sentito, sono ancora più duri perché sono spesso vittime di 
  abusi sessuali da parte degli agenti della sicurezza. In ogni caso, abusi o 
  meno, è come si svolge il lavoro che rende quella vita insopportabile. Agli 
  orari interminabili, ai ritmi da incubo e a tutto il resto devi aggiungere 
  l’impressionante numero di infortuni che ci sono. Se i morti non sono 
  tantissimi, le menomazioni permanenti, invece, sono all’ordine del giorno. 
  Questo vuol dire tornare a casa e diventare un peso per la famiglia perché se 
  hai perso una mano o anche solo tre dita non è che poi puoi essere tanto 
  utile. Ma tante, dopo un po’, vengono anche mandate via perché sono troppo 
  debilitate per continuare a lavorare con i ritmi che loro vogliono e 
  difficilmente riescono a riprendersi in seguito. Molte, per la scarsa 
  alimentazione, cominciano ad avere carenze di ferro e questo a sua volta gli 
  provoca altri problemi ben più gravi. Oppure in molte si ammalano ai polmoni e 
  questa cosa li rende malaticce per sempre anche perché, una volta tornate a 
  casa, non hanno i mezzi per potersi curare. C’è un’intera generazione, 
  specialmente di donne, rese permanentemente invalide a causa del lavoro in 
  fabbrica. Così diventi un’invalida e hai magari solo vent’anni. Per questo 
  dalle fabbriche molte e molti cominciano a scappare. All’inizio non è molto 
  difficile perché i dormitori non sono cintati e non c’è una vigilanza armata. 
  L’idea che le operaie si ribellassero probabilmente non era stata presa in 
  considerazione al pari di altri aspetti. Infatti, in contemporanea alla fuga 
  dalla fabbrica, iniziano anche gli assalti alle fabbriche, ai magazzini o alle 
  residenze degli imprenditori da parte di bande che si sono organizzate alcune 
  con fini politici altre semplicemente per denaro. Per molti proprietari il 
  clima diventa pesante e loro stessi iniziano a girare abitualmente armati, 
  vivendo una situazione da assediati. Per un breve periodo, a parte le aree 
  della fabbrica, che sono le uniche che tengono abbastanza sotto controllo, 
  hanno difficoltà a muoversi liberamente all’esterno. Per questo, quando si 
  spostano, lo fanno portandosi dietro il fucile e la pistola. L’arma più 
  diffusa è il fucile Winchester calibro 30/30 e la Beretta calibro 9 ma girano 
  anche parecchi mitra M12 o fucili mitragliatori americani. Molte bande 
  controllano, oppure riescono a comparire all’improvviso un po’ ovunque, le vie 
  di comunicazione e per questo il trasporto del prodotto finito spesso diventa 
  un problema perché i carichi sono assaltati da questi gruppi. Quindi gli 
  imprenditori hanno il problema di far viaggiare i carichi con una scorta in 
  grado di reggere o scoraggiare gli assalti. In alcuni casi, però, anche le 
  zone delle fabbriche non sono troppo sicure. Ci sono stati episodi in cui 
  qualche banda ha neutralizzato la vigilanza armata dei paramilitari arrivando 
  fino alle abitazioni dei proprietari. In alcuni casi questi, insieme a un po’ 
  dei loro uomini, si sono barricati nelle ville e hanno dovuto sostenere dei 
  conflitti a fuoco fino all’arrivo della polizia. Questo clima favoriva anche 
  una certa iniziativa dentro alle fabbriche dove iniziavano a essere sempre più 
  frequenti i sabotaggi insieme alle richieste di migliori condizioni di lavoro, 
  soprattutto una riduzione della giornata lavorativa e una diminuzione dei 
  ritmi oltre a una quantità e una qualità del cibo maggiore. È a questo punto 
  che inizia ad aumentare il numero di miliziani assunti dagli imprenditori e il 
  loro ruolo diventa sempre più importante. Questi hanno diverse mansioni. 
  Proteggere le proprietà dagli assalti, impedire la fuga del personale, 
  mantenere l’ordine e la disciplina sul lavoro ma anche procurare in 
  continuazioni nuovo personale. Questo per due motivi. Da una parte devono 
  colmare i vuoti lasciati dalle fuggiasche, dall’altra aumentare il numero 
  delle operaie perché c’è un vero e proprio boom di richieste e quindi hanno 
  tutto l’interesse ad aumentare la produzione. 
Da chi sono 
  formati questi corpi privati di miliziani?
  C’è gente che viene un po’ dappertutto. Ci sono 
  tedeschi, belgi, italiani, inglesi, americani e anche dei sudafricani. Almeno 
  questi sono quelli che ho avuto modo di vedere io. Quelli che mi hanno rapita 
  erano italiani e belgi. 
Ma potevano 
  muoversi liberamente, come paramilitari, dentro il territorio albanese?
  Sì. In realtà in Albania dopo il crollo del vecchio regime non c’era più un 
  vero e proprio stato. C’erano vari gruppi che governavano a loro convenienza 
  dei pezzi di territorio e il governo centrale era un po’ una finta. Le forze 
  paramilitari straniere erano autorizzate a muoversi come volevano perché 
  tutti, governo centrale e i vari poteri locali, ne avevano dei benefici. 
  Formalmente c’era lo stato albanese ma in realtà chi comandava sul serio erano 
  questi che avevano impiantato le loro fabbriche in Albania insieme alle loro 
  milizie private.
A un certo 
  punto, insieme alle operaie più giovani, sei prelevata dalla fabbrica e 
  destinata in un bordello. Quando avviene e perché?
  Nel 1998 quando arrivano i soldati italiani in 
  missione in Albania. A quel punto molti imprenditori iniziano a guardare al 
  business del sesso, se arrivano i soldati c’è bisogno di donne e così iniziano 
  a selezionare nelle fabbriche le più giovani. Subito c’è un miglioramento 
  nelle nostre condizioni di vita. Per un mese veniamo esentate dal lavoro, ci 
  danno da mangiare di più e roba di migliore qualità e si preoccupano di far 
  rifiorire i nostri visi e le nostre mani che, specialmente queste ultime, sono 
  martoriate a causa del lavoro. Ci portano anche creme e prodotti di bellezza. 
  Non ci dicono niente, ma non ci vuole molto a capire che quel cambiamento non 
  prelude a nulla di buono. Se fino al giorno prima ci trattavano come animali 
  da soma terrorizzandoci e dandoci il minimo indispensabile per sopravvivere 
  all’improvviso non possono certo essere diventati dei santi, capiamo in fretta 
  che ci porteranno da qualche parte a fare le puttane. Probabilmente perché 
  siamo tutte molto giovani, quelle prescelte hanno tra i tredici e i diciotto 
  anni, facciamo in fretta a riprenderci, i segni della fatica e 
  dell’abbrutimento spariscono e vengono a imbarcarci. Siamo trentasette 
  ragazze, ci fanno salire su un autobus con i vetri oscurati, insieme a noi 
  salgono sei uomini armati, quattro italiani e due belgi. Davanti e dietro 
  all’autobus ci sono le jeep con gli uomini armati che ci scortano. Non hanno 
  certo paura di noi ma, come vengo a sapere in seguito, le ragazze giovani e 
  anche i ragazzini stanno per diventare una merce preziosa e molto richiesta e 
  per questo il rischio di essere assaliti per strada da qualcuno che si vuole 
  impossessare del carico non è da scartare. Episodi simili ho saputo che ne 
  sono successi parecchi.
In che modo vi 
  convincono a diventare delle prostitute?
  Con il terrore. Veniamo portate in questo posto che diventerà la nostra dimora 
  dalla quale non è possibile allontanarsi e alcune di noi prese a caso, sotto 
  gli occhi di tutte vengono violentate da una quindicina di paramilitari. 
  Subito dopo ci spogliano nude e ci ammassano in un cortile, quindi vanno a 
  prendere i cani e ce li aizzano contro. Non ci fanno mordere perché stanno 
  attenti che i denti non si avvicinino troppo, ma ci dicono molto chiaramente 
  che se non facciamo bene il nostro lavoro non ci penseranno un momento a 
  buttarci in pasto ai cani. Ci dicono chiaramente che non dobbiamo fare storie 
  e mostrarci disponibili ed entusiaste verso qualunque richiesta. Una frase che 
  ci viene detta poco dopo rende tutto molto chiaro: “Voi non siete qua per fare 
  le troie, voi siete qua perché siete delle troie e come tali dovete 
  comportarvi. Dovete far divertire i soldati come se anche voi vi divertiste. 
  Come farlo sono cazzi vostri ma trovate il modo perché i cani hanno fame e la 
  carne cruda gli piace parecchio.” Per tutte noi inizia un periodo di totale 
  abbrutimento. Qualcuna non regge e finisce con il togliersi la vita. Un paio, 
  invece, muore nelle orge. Non ci sono limiti. Su e con noi tutti possono fare 
  quello che gli pare. Ti può bastare quello che succede in seguito alle ragazze 
  che, per il troppo lavoro o perché non più giovani, per non più giovani si 
  intende quelle sopra i venticinque anni, vengono spedite nei bordelli 
  speciali. Sono posti frequentati solo da sadici dove le ragazze sono 
  sottoposte a torture e supplizi di ogni tipo. Periodicamente, nei bordelli, 
  c’è un’ispezione e quelle che sono un po’ troppo sciupate vengono mandate a 
  quello che è detto il capolinea. Chi esce da lì non potrà mai dimenticare, 
  neppure volendolo. Le ferite, le piaghe e le bruciature ricevute nei giochetti 
  se li porteranno dietro finché campano. 
La tua storia 
  nei bordelli per militari continua nonostante la fine della “missione 
  italiana”. Cosa succede?
  Intanto la missione finisce ma la presenza 
  militare, anche se ridotta continua e poi a quel punto il giro dei bordelli 
  funziona talmente bene che iniziano a essere frequentati anche da civili. Sono 
  turisti, per lo più europei ma ci sono anche degli americani e molti arabi che 
  arrivano con dei viaggi appositamente organizzati. La possibilità di praticare 
  sesso estremo senza problemi attira un pubblico internazionale. Prima per 
  avere occasioni del genere dovevano spostarsi fino in Asia o in Sud America 
  mentre adesso, per gli europei, è possibile addirittura organizzarsi un week 
  end di sesso senza regole senza troppi sbattimenti. Quindi, per un certo 
  periodo, si passa da un pubblico prevalentemente di militari a uno di civili. 
  L’Albania è una terra di conquista per tutti e ognuno viene a farci quello che 
  vuole soprattutto quello che nel suo paese è considerato addirittura un 
  crimine. Con l’arrivo dei civili aumenta la richiesta di ragazze e ragazzi 
  giovani. Noi, anche se siamo quasi tutte sotto i diciotto anni, cominciamo a 
  essere considerate vecchie perché i civili vogliono soprattutto ragazzini e 
  ragazzine tra i dieci e i tredici anni. Per questo noi che siamo più grandi 
  continuiamo a essere offerte ai militari che ci preferiscono. Poi scoppia la 
  guerra del Kosovo e i bordelli per militari hanno una grossa impennata infatti 
  noi veniamo trasferite vicino a una base della NATO. 
Quando la 
  guerra finisce cambia qualcosa per voi?
  No perché, a quel punto, ai militari si sommano un numero enorme di funzionari 
  e operatori civili e quindi la richiesta di prestazioni sessuali non 
  diminuisce ma aumenta. Il business si allarga sia perché la richiesta è 
  maggiore, sia perché qualcuno inizia a prendere le ragazze e i ragazzi da lì e 
  spedirli in giro per il mondo. Questo succede soprattutto con i più giovani. 
  Ragazzini e ragazzine, l’età media è sui dodici anni. Nei villaggi e nelle 
  zone povere delle città iniziano i rastrellamenti. Le informazioni che ho, 
  avute dai miei guardiani, sono che molti di questi finivano in alcuni paesi 
  arabi, specialmente Arabia Saudita, Kuwait, Emirati del Golfo ma anche in zone 
  come le Filippine e la Tailandia. A me e alle altre ripetevano che a noi 
  andava bene perché ormai eravamo troppo vecchie per quel genere di business. 
  Nelle vicinanze di uno dei bordelli in cui sono stata c’era, in un capannone 
  separato, lo smistamento di questi. Li tenevano lì una quindicina di giorni in 
  attesa di imbarcarli per le loro destinazioni. In quel periodo venivano 
  continuamente violentati e torturati. Questo sia per piegare ogni forma 
  possibile di resistenza, sia perché tra i miliziani ci sono parecchi sadici 
  che si eccitano e godono solo in questo modo. Anche molte di noi, prima di 
  essere messe al lavoro, hanno subito trattamenti analoghi.
Vuoi parlarne?
  No. Su queste cose non mi va di tornarci. Anche 
  se sono passati degli anni le mie notti sono piene di incubi e paure, non 
  riesco neppure più a pensare di poter stare con un uomo, da quel punto di 
  vista lì la mia vita è definitivamente chiusa. La sola idea di sentirmi le 
  mani di un uomo addosso mi fa schifo e paura allo stesso tempo. Per quanto 
  razionalmente so che è una cosa sbagliata e priva di senso quando mi ritrovo a 
  sparare e vedo l’uomo o gli uomini davanti a me cadere non posso fare altro 
  che provare piacere. Lo so che non tutti gli uomini sono colpevoli e maiali 
  come quelli che ho trovato sulla mia strada ma non posso farci nulla, 
  ucciderli mi dà piacere. Sai le persone non sono diverse dagli animali. Una 
  bestia che è stata terrorizzata ha solo due possibilità o soccombe come una 
  cavia da laboratorio o si trasforma in belva, meglio la seconda ipotesi. Dopo 
  la mia liberazione ho fatto un periodo di addestramento con il gruppo e ho 
  partecipato e partecipo tutt’ora alle storie che ci facciamo. Se, come a volte 
  è capitato, c’era da neutralizzare qualche soldato o paramilitare e per motivi 
  di opportunità si doveva usare il coltello o la baionetta, io ho sempre fatto 
  in modo di essere in quel nucleo operativo. Affondare la lama nelle carni di 
  uno di quei maiali è uno dei pochi piaceri che riesco ancora ad avere. Molto 
  meglio che buttargli un caricatore in corpo, ti dà molta più soddisfazione 
  sentire direttamente con le tue mani che la vita se ne sta andando dal corpo 
  di quel bastardo, leggere nei suoi occhi la paura e il terrore perché in quel 
  momento ti ricordi di quando, i porci come lui, ti usavano peggio di una 
  bambola di pezza e più avevi paura ed eri terrorizzata più loro si accanivano 
  e ci provavano gusto. Quindi, anche se non mi va di dilungarmi troppo in 
  particolari, ma solo per motivi di sicurezza, preferisco parlare del dopo 
  liberazione ma non chiedermi i dettagli della segregazione, quegli incubi li 
  ho rinchiusi da qualche parte e sono già costretta a conviverci quando di 
  notte mi escono fuori all’improvviso. E poi non cerco pietà o comprensione. Ho 
  vissuto prima e visto in diretta dopo di che cosa sono capaci tutti questi che 
  sono arrivati per portarci aiuti, benessere e tutte le cazzate con le quali si 
  fanno belli. Rubano, stuprano, opprimono tanto quanto i soldati, i poliziotti 
  e i paramilitari. La mia esperienza mi dice che tutti questi amorevoli 
  personaggi diventano comprensivi e umani solo quando si trovano nel mirino del 
  mio fucile mitragliatore o con la gola alle prese con la lama seghettata del 
  mio coltello. Perciò basta con queste cazzate.
Come avviene la 
  tua liberazione?
  Grazie a mio fratello e al suo gruppo. Quando 
  io sono stata rapita lui non era in casa e così si è salvato. Non ci siamo più 
  visti per più di cinque anni fino a quando non è riuscito liberarmi. Per non 
  rischiare di fare la mia fine, insieme ad altri ragazzi, ha vissuto per un po’ 
  nelle campagne. Lì è stato accolto da uno dei tanti gruppi armati che si sono 
  formati in Albania per difendersi dagli stranieri, dal governo e dalla 
  polizia. Ha imparato a usare le armi, perché molti di questi gruppi sono 
  formati da ex militari, e a combattere. Con questo gruppo faceva incursioni 
  nelle città dove assaltavano i magazzini, i depositi di armi o sequestravano 
  qualche ricco. L’unico modo per avere a disposizione i marchi era quello. La 
  moneta albanese non valeva più niente ed era inutile rapinarla perché era come 
  rubare aria. Dopo si è dedicato soprattutto al traffico di armi è grazie a 
  quel traffico che è riuscito a rintracciarmi. I nostri guardiani erano 
  italiani e belgi che lavoravano come dipendenti nei bordelli e in proprio come 
  trafficanti d’armi. Fino a poco tempo prima, sono cose che ho saputo dopo da 
  mio fratello, avevano un canale diretto con le forze NATO che li rifornivano 
  direttamente però, a un certo punto, quel traffico è stato preso in mano 
  direttamente da dei soldati regolari che li hanno estromessi dal business e 
  loro si sono dovuti cercare un’altra strada. Per questo si sono rivolti a un 
  giro dell’UCK con il quale mio fratello e il suo gruppo avevano fatto degli 
  affari. In questo modo mio fratello è entrato in contatto con i nostri 
  carcerieri. Hanno contattato una partita di fucili mitragliatori, pistole, 
  razzi anticarro e esplosivo e, dopo una trattativa abbastanza lunga fatta 
  attraverso una serie di intermediari, hanno raggiunto un accordo e si sono 
  incontrati. Come succede abitualmente in questi casi, quando si apre un canale 
  nuovo, il primo scambio è sempre un po’ di prova. Chi compra vuole avere 
  garanzie sulla qualità del prodotto che acquista e chi vende essere sicuro 
  della solvibilità dell’altro. Oltre a questo entrambi vogliono essere sicuri 
  che nessuno faccia il furbo o giochi sporco. Così il primo scambio è più che 
  altro un modo per mostrare il campionario e per prendersi reciprocamente le 
  misure. Gli uomini che vi partecipano è abbastanza limitato. Se mio fratello 
  avesse agito in quel momento avrebbe potuto sequestrare solo una piccola parte 
  del gruppo che mi teneva prigioniera e poi avrebbe dovuto probabilmente fare 
  la guerra per venirmi a liberare, con scarse possibilità di successo. Il primo 
  appuntamento fila liscio. A questo ne segue un secondo perché, i miei 
  carcerieri, vogliono verificare alcune cose sull’esplosivo che stanno 
  trattando e avere maggiori ragguagli sui tempi per la consegna degli 
  anticarro. Nel primo incontro, inoltre, mio fratello per rendere le cose il 
  più lisce e interessanti possibili gli aveva parlato della possibilità di 
  acquistare anche un certo numero di mitragliatrici leggere che sono molto 
  richieste e possono essere vendute con enormi profitti. Sono armi serbe e per 
  questo i miei carcerieri prima di trattarle vogliono prenderle in visione e 
  verificarne la funzionalità e l’efficacia. Si arriva così a un terzo 
  appuntamento dove sarà consegnato l’intero carico precedentemente stabilito e 
  un paio di mitragliatrici in prova. Il primo stock di un carico che, se 
  l’acquirente troverà di suo gradimento, sarà regolato in un successivo 
  incontro. Si arriva così alla consegna del carico. Il posto scelto è in una 
  zona aperta di campagna dove la visuale è ottima e tutti possono rendersi 
  conto che nessuno sta giocando sporco. Il posto lo avevano scelto i miei 
  carcerieri e mio fratello lo aveva accettato senza problemi. Subito dopo 
  l’accordo però, mio fratello e il suo gruppo, avevano scavato dei tunnel in 
  zona dentro i quali, tre giorni prima della consegna molti di loro si erano 
  nascosti, rimanendo del tutto invisibili. Due giorni prima della consegna 
  alcuni dei miei carcerieri fanno un sopraluogo e lo ripetono il giorno 
  successivo mentre, per tutta la notte che precede l’incontro, alcuni di loro 
  presidiano il posto. Quando arriva l’ora della consegna, anche se sempre 
  vigili, sono completamente rilassati. Tutta lascia presupporre che non vi 
  saranno sorprese. Mio fratello arriva con i furgoni carichi di armi, munizioni 
  ed esplosivo e con fare molto tranquillo e amichevole va incontro ai 
  compratori. Controllano la merce, tutto è ok. Alcuni dei compratori salgono 
  sui furgoni per portarli a destinazione, mentre una valigia di dollari e una 
  di marchi sono consegnate a mio fratello e ai suoi uomini. Ormai tutto sembra 
  essersi concluso, mio fratello e i suoi fanno per tornare indietro quando, 
  senza che nessuno se ne rendesse conto, alle spalle dei compratori sono 
  spuntati una ventina di uomini armati che gli puntano contro oltre ai fucili 
  mitragliatori tre delle famose mitragliatrici leggere. Rapidamente mio 
  fratello e gli altri puntano le armi sugli autisti obbligandoli a scendere 
  mentre tutti gli altri non possono fare altro che arrendersi. A quel punto 
  prendono un paio di questi e li interrogano su quanti uomini armati sono 
  rimasti intorno ai bordelli e ai locali. Non impiegano molto a ricevere le 
  informazioni che gli servono. Per fortuna un po’ di tutti, gli uomini che ci 
  tenevano segregate aveva dei grossi fuoristrada con i vetri scuri perciò, da 
  fuori, non era possibile riconoscere chi c’era alla guida. Dopo averli 
  disarmati e fatti prigionieri prendono il capo e se lo portano dietro. Adesso 
  comincia la parte più difficile dell’operazione perché, dopo poco, entreranno 
  in una zona controllata dalle truppe NATO. La fortuna, come ti ho detto, sono 
  questi fuori strada con i vetri scuri che i soldati della NATO conoscono bene 
  e quindi li fanno passare senza problemi. In questo modo possono arrivare 
  tranquillamente nella zona riservata allo svago dei soldati dove io e le altre 
  siamo tenute prigioniere. Non c’è molta sorveglianza e neppure grande 
  attività. È appena mezzogiorno e la maggioranza di noi è ancora lì che dorme. 
  Qualcuna è in compagnia di qualche soldato o ufficiale NATO che si è fatto 
  tutta la nottata. Arrivano nel piazzale e scendono dalle jeep con molta 
  tranquillità. Precedentemente, con una telefonata, il capo era stato obbligato 
  a preavvertire il loro ritorno insieme al buon esito dell’operazione. Mentre 
  alcuni si dirigono all’interno, un piccolo gruppo, armato di coltelli, 
  neutralizzano le sentinelle all’ingresso. Gli altri entrano nei locali senza 
  trovare resistenza. Molto velocemente hanno il pieno controllo della 
  situazione. Dopo poco entrano nelle stanze e ci liberano. Il nostro inferno è 
  finito. Qualcuna, me compresa, prima di andarsene si prende qualche rivincita 
  sui nostri carcerieri e sugli uomini NATO trovati ancora addormentati nei 
  letti, poi ce ne andiamo. Saliamo a bordo delle jeep dei paramilitari che però 
  non bastano, quindi dobbiamo prendere anche un paio di altri mezzi che però 
  non hanno i vetri oscurati. C’è un posto di controllo NATO che dobbiamo 
  attraversare per forza di cose e che potrebbe, come infatti sarà, essere un 
  problema. È la terza volta che le jeep vanno avanti e indietro e in più adesso 
  ci sono anche i due mezzi con noi a bordo. A qualcuno del controllo viene in 
  mente che tutto quel movimento potrebbe nascondere qualcosa di strano e poi il 
  trasbordo di noi gli deve risultare strano. In giro non ci sono nuove 
  postazioni di truppe e non c’è alcun motivo logico per il nostro spostamento. 
  Così ordinano l’alt. Ma mio fratello e i suoi non erano impreparati, avevano 
  preso in considerazione una simile eventualità e si comportano di conseguenza. 
  Quando gli viene intimato l’alt rallentano e si dirigono verso le due piazzole 
  utilizzate per fare i controlli. Due jeep da una parte e due dall’altra. Anche 
  noi, insieme al resto del convoglio ci fermiamo anche se i mezzi tengono i 
  motori accesi. Sul fondo dei nostri furgoni sono piazzate due mitragliatrici 
  che i nostri corpi nascondono. In mezzo a noi si intravede solo un uomo mentre 
  gli altri sono tutti acquattati a terra. I finestrini delle jeep si abbassano 
  e iniziano a sparare. A quel punto gli autisti partono, varchiamo il controllo 
  e subito dopo le mitragliatrici iniziano a sparare. Presi tra due fuochi i 
  soldati della NATO scappano precipitosamente, mio fratello e gli altri 
  scendono dalle jeep e continuano a mitragliarli, quindi ripartono. Dopo un 
  viaggio di mezz’ora scendiamo a terra e iniziamo a camminare, per sicurezza 
  mentre le auto vanno per strada noi e una parte del gruppo seguiamo dei 
  sentieri per raggiungere un rifugio sicuro in un territorio che è fuori dal 
  controllo della NATO. Siamo libere. 
Come si svolge, 
  da quel momento, la tua vita e quella delle altre ragazze liberate?
  Alcune cercano di tornare a casa e di loro ho 
  perso le tracce. Io e altre rimaniamo con mio fratello e il suo gruppo ma su 
  questi aspetti della mia storia non ritengo sia il caso di raccontare nulla. 
  Posso, tutt’al più, dirti che dentro il casino che è diventata tutta questa 
  zona, abbiamo deciso di non fare né la parte delle vittime né quella dei 
  poveri e, quando ci è possibile, farvi pagare a caro prezzo le rovine che ci 
  avete portato.
In tutto 
  questo, e in ciò che fate, c’è un qualche ragionamento politico?
  No. C’è nel gruppo qualcuno che ha qualche nostalgia politica del passato, 
  qualche altro che ha un po’ di sentimento nazionale ma sono cose che si 
  tengono per loro. Certo, la nostra, volendo la puoi anche vedere come una 
  piccola guerriglia e forse lo è anche ma non abbiamo in mente alcun ideale o 
  progetto politico. Se, come in alcuni casi è capitato, abbiamo avuto a che 
  fare con qualche formazione o gruppo politico è stato solo per caso ma non è 
  nostra intenzione legarci a niente e a nessuno. Non miriamo a liberare nessuno 
  ma solo a essere liberi, indipendenti, rispettati, temuti e perché no anche 
  ricchi noi. Il resto sono solo chiacchiere. Una cosa è sicuramente certa, se 
  dobbiamo scontrarci preferiamo che nei nostri mirini finiscano i soldati della 
  NATO o i loro soci civili piuttosto che dei poveracci. 
Nella storia di Anna solo una dose di ingenuità al limite della stupidità può cogliere qualcosa di eccezionale. Se qualcosa rende anomala la sua vicenda è il finale, non certo la sorte alla quale, insieme alle parti più deboli del suo popolo, era destinata. Con ogni probabilità se il fratello non fosse riuscito a fuggire ai paramilitari in cerca di forza lavoro coatta e, nella sua fuga, non avesse incontrato un piccolo gruppo di soldati che avevano deciso di darsi alla macchia, di lei ben difficilmente avremmo avuto notizia. Più realisticamente avrebbe continuato a far parte del “logistico” dei vari eserciti posti a difesa dei “diritti umani” o degli operatori umanitari e civili che gli corrono appresso e, una volta resa inservibile per quel tipo di mansioni ricondotta, sempre in condizioni di servitù, in una qualche fabbrica liberista oppure, com’è accaduto a molte, finire sacrificata in una delle numerose performance estreme di cui i soldati e gli operatori civili occidentali sembrano essere particolarmente ghiotti.
Nella sua sconcertante banalità la storia di Anna è tuttavia in grado di raccontare qualcosa di significativo sulle guerre contemporanee. Le popolazioni, soccorse e/o liberate, agli occhi degli occidentali non sono altro che animali e in particolare uno: il maiale. Al pari di questo, di loro, non si butta via niente. La loro veloce e continua riconversione in una qualche attività utile e proficua per l’uomo bianco non sembra conoscere intoppi di qualche sorta. Alla fine rimane solo la verità vera delle guerre attuali il cui tratto neocoloniale è difficile da ignorare. Allora vale forse la pena di ricordare che è pur sempre dai nostri territori che tali operazioni prendono il via e che, a ben vedere, la differenza tra missioni militari, civili, economiche e finanziarie non sono altro che gradi e articolazioni diverse ma complementari di un unico modello di dominazione. Resta da chiedersi chi, sottigliezze teoretiche a parte, tra le donne e gli uomini del Palazzo da tutto ciò può realisticamente chiamarsi fuori.