Guerra, mercato, donne e guerrieri: la storia di Anna

da http://www.informationguerrilla.org/guerra-mercato-donne-e-guerrieri-la-storia-di-anna/
 

Il dibattito intorno alle guerre contemporanee, per lo più, è affrontato unicamente all’interno di retoriche geopolitiche. In tale contesto ciò che accade concretamente alle donne e agli uomini che di quelle guerre sono, volenti o meno, gli attori principali è posto velocemente tra parentesi. Con buona pace degli uomini politici, dei media e di gran parte del mondo intellettuale le guerre si riducono a una sorta di war game in grado di rendere emozionanti e interessanti le noiose e asfittiche serate alle quali le donne e gli uomini del Palazzo sono costretti in nome dei loro impegni presi nei confronti dei cittadini se non addirittura dell’intera umanità. Tranquillamente seduti sulle poltrone di salotti pubblici o privati, spostano truppe, mezzi corazzati, aerei e navi da guerra insieme all’inevitabile corollario di altrettante “missioni civili” e, senza animosità eccessiva, discutono se, ed entro quali limiti, la tortura sia legittima o quali e quanti “effetti collaterali” siano accettabili. Un dibattito che sposta per intero la questione guerra sul piano anodino della teoretica dove, la magnitudine platonica, non lascia spazio e scampo alla critica animosa e partigiana propria del sofista. Ma al di fuori dei salotti dove a dominare è la solarità del mondo delle idee a prevalere è la caverna ed è lì che vivono e sovente muoiono le donne e gli uomini reali. Per loro, la guerra, si confonde fino a dominarla e plasmarla per intero con la propria esistenza e per questo ne ricavano un’esperienza che racconta qualcosa di ben diverso.

La “storia di vita che ci prestiamo ad ascoltare fotografa il volto con il quale la guerra si presenta agli abitanti della strada. È la guerra vera, dove non vi è spazio per la civile disputa che anima i salotti del Palazzo. Si vive, si muore, si è stuprate e rese schiave concretamente e la libertà e la dignità sono (talvolta) possibili unicamente se conquistate in prima persona e, sembra il caso di rimarcarlo, con le armi in pugno. Una realtà più tragica che drammatica dove nessuna utopia o redenzione sembra profilarsi all’orizzonte. Il teatro degli eventi è l’Albania dei giorni nostri.

Per Anna, la nostra protagonista, e i suoi l’Angelo della Storia non sembra avere alcunché da offrire. Le loro spalle non sono rivolte al futuro ma, più realisticamente, attente a ciò che gli si aggira intorno perché la possibilità di cadere in una qualche imboscata, vittime di un “regolamento di conti” o diventare l’obiettivo di una qualche operazione di “polizia internazionale” sono variabili continuamente all’ordine del giorno. Per loro, nessun vento soffia dal Paradiso e se qualcosa li trascina è solo il ritmo cadenzato dei colpi delle loro armi. Precipitati dentro all’inferno hanno trovato un modo per non soccombere.

La dimensione in cui attualmente Anna vive, non è distante da quella del proscritto anche se è ben distante dall’incarnarne le suggestioni letterarie che quelle esperienze hanno suggerito. Una fine del tutto impensabile solo dieci anni prima quando, al pari di gran parte dei suoi coetanei, guardava estasiata le nostre televisioni augurandosi di toccare al più presto con mano il sogno italiano. Oggi Anna è una donna dura, decisa, implacabile, persino spietata. Le esperienze che paramilitari, imprenditori italiani ed europei prima e soldati NATO e operatori umanitari poi le hanno fatto conoscere hanno aperto ferite che si sono forse cicatrizzate ma che non potranno mai più essere dimenticate o rimosse.

L’incontro con lei avviene in una città dell’Italia del Nord grazie alla mediazione di un “clandestino” evaso qualche tempo addietro da un Cpt. In Italia Anna non è ricercata ma è pur sempre una “clandestina” e per questo ha accettato di parlare a condizione che la sua figura rimanga una semplice ombra di cui, persino la descrizione fisica, deve rimanere priva di contorni. Una condizione che non è difficile accettare, in fondo si sta parlando di una non – persona. Questo è il suo racconto.

Per quasi sei anni hai vissuto segregata. Come ha inizio la tua storia?
Sono stata rapita l’11 novembre del 1996, avevo tredici anni. Abitavo in un piccolo paese che, come molti altri, è stato preso di mira da uomini armati che arrivavano e si portavano via le persone per metterle a lavorare nelle tante piccole fabbriche aperte dagli stranieri, gran parte di queste erano proprietà di italiani.

Un modo non proprio ortodosso per reperire forza lavora. Perché le imprese scelgono questa strada?
Perché dalle fabbriche la gente comincia a scappare. All’inizio, questi sono i racconti di quelle un po’ più grandi di me e che erano andate nelle fabbriche prima, volontariamente, quando reclutavano la gente per fare un lavoro che sembrava normale. Per questo, molte, andavano nelle fabbriche anche con entusiasmo. Era l’epoca in cui noi pensavamo che il mondo fosse quello che si vedeva in televisione. In Albania si prendono tutti i canali italiani e noi ci siamo immaginati che il mondo vero fosse quello che vedevamo alla televisione. Vestiti, auto, locali, divertimento, uomini bellissimi insomma tutte queste cose qua. Per noi l’Italia era questa e, con non poca ingenuità, pensavamo che andare a lavorare per gli italiani era un po’ come entrare a far parte di quel mondo lì. Poi moltissime vedevano in quel lavoro un modo per staccarsi ed emanciparsi dalla famiglia. Da noi il peso della famiglia o di chi era più grande è sempre stato molto forte e quindi vedere alla televisione tutte quelle ragazze molto libere, belle, ricche e che vivevano un po’ come gli pareva era un modello molto forte, che tutte volevano imitare. Questo è un aspetto del discorso al quale se ne aggiunge un altro. In Albania c’era un forte orgoglio nazionalista e, specialmente per le generazioni più anziane, un certo attaccamento verso l’epoca comunista. È difficile dirti se questo attaccamento verso il passato fosse più una questione ideologica, cioè una forte convinzione verso il comunismo, oppure il legame che molti mantenevano con Enver era forse dovuto all’indipendenza che lui e i suoi partigiani avevano conquistato e garantito all’Albania. Nelle case, un po’ in tutte, l’arrivo degli italiani e delle fabbriche produce delle continue rotture tra giovani, soprattutto i giovanissimi come me, e i più grandi e più si ha a che fare con persone anziane maggiore è il conflitto che nasce. Per i vecchi, gli italiani, non sono quelli che si vedono alla televisione ma quelli che hanno occupato l’Albania nel 1939. Per loro gli italiani sono i fascisti e l’ostilità nei loro confronti è rimasta la stessa. Anche chi non è mai stato molto allineato con Enver e i suoi uomini, in casa nostra c’era uno zio che era stato in prigione perché, pur essendo membro del partito, ne aveva criticato la politica ed era stato condannato per revisionismo, nei confronti degli italiani non aveva idee diverse. Tra le generazioni più anziane il ricordo e lo spettro della conquista era ancora molto presente. Il loro discorso, in poche parole, era questo: Una volta sono arrivati con le armi e poi si sono presi tutto. Adesso arrivano con le industrie, si prenderanno tutto e poi manderanno anche i soldati. Per noi più giovani queste sono solo fantasie e paure ingiustificati di persone che non vogliono cambiare e che, soprattutto, non sanno cogliere la grande occasione che abbiamo a portata di mano. Andare a lavorare per voi molti lo considerano come una rivincita dei giovani sugli anziani. Noi venivamo da una società molto incentrata sulle figure dei grandi mentre i giovani contavano poco. Da voi, invece, sembra essere tutto il contrario. Si sente in continuazione dire che il mondo deve essere dei giovani, i più sono attratti da questi discorsi. Così, per fartela breve, all’inizio molti vanno a lavorare spontaneamente e con entusiasmo nelle lavorazioni che gli italiani aprono in continuazione e lo vedono anche come un modo per liberarsi dal peso del potere familiare. Tutto questo ha vita breve ed è a quel punto che inizia il reclutamento coatto attraverso i rapimenti e le deportazioni.

Cos’è che fa saltare il clima idilliaco che inizialmente si era creato tra imprenditori italiani e forza lavoro albanese?
Le condizioni in cui le operaie e gli operai sono costretti a lavorare. Una situazione che per le donne, in base ai racconti che ho sentito, sono ancora più duri perché sono spesso vittime di abusi sessuali da parte degli agenti della sicurezza. In ogni caso, abusi o meno, è come si svolge il lavoro che rende quella vita insopportabile. Agli orari interminabili, ai ritmi da incubo e a tutto il resto devi aggiungere l’impressionante numero di infortuni che ci sono. Se i morti non sono tantissimi, le menomazioni permanenti, invece, sono all’ordine del giorno. Questo vuol dire tornare a casa e diventare un peso per la famiglia perché se hai perso una mano o anche solo tre dita non è che poi puoi essere tanto utile. Ma tante, dopo un po’, vengono anche mandate via perché sono troppo debilitate per continuare a lavorare con i ritmi che loro vogliono e difficilmente riescono a riprendersi in seguito. Molte, per la scarsa alimentazione, cominciano ad avere carenze di ferro e questo a sua volta gli provoca altri problemi ben più gravi. Oppure in molte si ammalano ai polmoni e questa cosa li rende malaticce per sempre anche perché, una volta tornate a casa, non hanno i mezzi per potersi curare. C’è un’intera generazione, specialmente di donne, rese permanentemente invalide a causa del lavoro in fabbrica. Così diventi un’invalida e hai magari solo vent’anni. Per questo dalle fabbriche molte e molti cominciano a scappare. All’inizio non è molto difficile perché i dormitori non sono cintati e non c’è una vigilanza armata. L’idea che le operaie si ribellassero probabilmente non era stata presa in considerazione al pari di altri aspetti. Infatti, in contemporanea alla fuga dalla fabbrica, iniziano anche gli assalti alle fabbriche, ai magazzini o alle residenze degli imprenditori da parte di bande che si sono organizzate alcune con fini politici altre semplicemente per denaro. Per molti proprietari il clima diventa pesante e loro stessi iniziano a girare abitualmente armati, vivendo una situazione da assediati. Per un breve periodo, a parte le aree della fabbrica, che sono le uniche che tengono abbastanza sotto controllo, hanno difficoltà a muoversi liberamente all’esterno. Per questo, quando si spostano, lo fanno portandosi dietro il fucile e la pistola. L’arma più diffusa è il fucile Winchester calibro 30/30 e la Beretta calibro 9 ma girano anche parecchi mitra M12 o fucili mitragliatori americani. Molte bande controllano, oppure riescono a comparire all’improvviso un po’ ovunque, le vie di comunicazione e per questo il trasporto del prodotto finito spesso diventa un problema perché i carichi sono assaltati da questi gruppi. Quindi gli imprenditori hanno il problema di far viaggiare i carichi con una scorta in grado di reggere o scoraggiare gli assalti. In alcuni casi, però, anche le zone delle fabbriche non sono troppo sicure. Ci sono stati episodi in cui qualche banda ha neutralizzato la vigilanza armata dei paramilitari arrivando fino alle abitazioni dei proprietari. In alcuni casi questi, insieme a un po’ dei loro uomini, si sono barricati nelle ville e hanno dovuto sostenere dei conflitti a fuoco fino all’arrivo della polizia. Questo clima favoriva anche una certa iniziativa dentro alle fabbriche dove iniziavano a essere sempre più frequenti i sabotaggi insieme alle richieste di migliori condizioni di lavoro, soprattutto una riduzione della giornata lavorativa e una diminuzione dei ritmi oltre a una quantità e una qualità del cibo maggiore. È a questo punto che inizia ad aumentare il numero di miliziani assunti dagli imprenditori e il loro ruolo diventa sempre più importante. Questi hanno diverse mansioni. Proteggere le proprietà dagli assalti, impedire la fuga del personale, mantenere l’ordine e la disciplina sul lavoro ma anche procurare in continuazioni nuovo personale. Questo per due motivi. Da una parte devono colmare i vuoti lasciati dalle fuggiasche, dall’altra aumentare il numero delle operaie perché c’è un vero e proprio boom di richieste e quindi hanno tutto l’interesse ad aumentare la produzione.

Da chi sono formati questi corpi privati di miliziani?
C’è gente che viene un po’ dappertutto. Ci sono tedeschi, belgi, italiani, inglesi, americani e anche dei sudafricani. Almeno questi sono quelli che ho avuto modo di vedere io. Quelli che mi hanno rapita erano italiani e belgi.

Ma potevano muoversi liberamente, come paramilitari, dentro il territorio albanese?
Sì. In realtà in Albania dopo il crollo del vecchio regime non c’era più un vero e proprio stato. C’erano vari gruppi che governavano a loro convenienza dei pezzi di territorio e il governo centrale era un po’ una finta. Le forze paramilitari straniere erano autorizzate a muoversi come volevano perché tutti, governo centrale e i vari poteri locali, ne avevano dei benefici. Formalmente c’era lo stato albanese ma in realtà chi comandava sul serio erano questi che avevano impiantato le loro fabbriche in Albania insieme alle loro milizie private.

A un certo punto, insieme alle operaie più giovani, sei prelevata dalla fabbrica e destinata in un bordello. Quando avviene e perché?
Nel 1998 quando arrivano i soldati italiani in missione in Albania. A quel punto molti imprenditori iniziano a guardare al business del sesso, se arrivano i soldati c’è bisogno di donne e così iniziano a selezionare nelle fabbriche le più giovani. Subito c’è un miglioramento nelle nostre condizioni di vita. Per un mese veniamo esentate dal lavoro, ci danno da mangiare di più e roba di migliore qualità e si preoccupano di far rifiorire i nostri visi e le nostre mani che, specialmente queste ultime, sono martoriate a causa del lavoro. Ci portano anche creme e prodotti di bellezza. Non ci dicono niente, ma non ci vuole molto a capire che quel cambiamento non prelude a nulla di buono. Se fino al giorno prima ci trattavano come animali da soma terrorizzandoci e dandoci il minimo indispensabile per sopravvivere all’improvviso non possono certo essere diventati dei santi, capiamo in fretta che ci porteranno da qualche parte a fare le puttane. Probabilmente perché siamo tutte molto giovani, quelle prescelte hanno tra i tredici e i diciotto anni, facciamo in fretta a riprenderci, i segni della fatica e dell’abbrutimento spariscono e vengono a imbarcarci. Siamo trentasette ragazze, ci fanno salire su un autobus con i vetri oscurati, insieme a noi salgono sei uomini armati, quattro italiani e due belgi. Davanti e dietro all’autobus ci sono le jeep con gli uomini armati che ci scortano. Non hanno certo paura di noi ma, come vengo a sapere in seguito, le ragazze giovani e anche i ragazzini stanno per diventare una merce preziosa e molto richiesta e per questo il rischio di essere assaliti per strada da qualcuno che si vuole impossessare del carico non è da scartare. Episodi simili ho saputo che ne sono successi parecchi.

In che modo vi convincono a diventare delle prostitute?
Con il terrore. Veniamo portate in questo posto che diventerà la nostra dimora dalla quale non è possibile allontanarsi e alcune di noi prese a caso, sotto gli occhi di tutte vengono violentate da una quindicina di paramilitari. Subito dopo ci spogliano nude e ci ammassano in un cortile, quindi vanno a prendere i cani e ce li aizzano contro. Non ci fanno mordere perché stanno attenti che i denti non si avvicinino troppo, ma ci dicono molto chiaramente che se non facciamo bene il nostro lavoro non ci penseranno un momento a buttarci in pasto ai cani. Ci dicono chiaramente che non dobbiamo fare storie e mostrarci disponibili ed entusiaste verso qualunque richiesta. Una frase che ci viene detta poco dopo rende tutto molto chiaro: “Voi non siete qua per fare le troie, voi siete qua perché siete delle troie e come tali dovete comportarvi. Dovete far divertire i soldati come se anche voi vi divertiste. Come farlo sono cazzi vostri ma trovate il modo perché i cani hanno fame e la carne cruda gli piace parecchio.” Per tutte noi inizia un periodo di totale abbrutimento. Qualcuna non regge e finisce con il togliersi la vita. Un paio, invece, muore nelle orge. Non ci sono limiti. Su e con noi tutti possono fare quello che gli pare. Ti può bastare quello che succede in seguito alle ragazze che, per il troppo lavoro o perché non più giovani, per non più giovani si intende quelle sopra i venticinque anni, vengono spedite nei bordelli speciali. Sono posti frequentati solo da sadici dove le ragazze sono sottoposte a torture e supplizi di ogni tipo. Periodicamente, nei bordelli, c’è un’ispezione e quelle che sono un po’ troppo sciupate vengono mandate a quello che è detto il capolinea. Chi esce da lì non potrà mai dimenticare, neppure volendolo. Le ferite, le piaghe e le bruciature ricevute nei giochetti se li porteranno dietro finché campano.

La tua storia nei bordelli per militari continua nonostante la fine della “missione italiana”. Cosa succede?
Intanto la missione finisce ma la presenza militare, anche se ridotta continua e poi a quel punto il giro dei bordelli funziona talmente bene che iniziano a essere frequentati anche da civili. Sono turisti, per lo più europei ma ci sono anche degli americani e molti arabi che arrivano con dei viaggi appositamente organizzati. La possibilità di praticare sesso estremo senza problemi attira un pubblico internazionale. Prima per avere occasioni del genere dovevano spostarsi fino in Asia o in Sud America mentre adesso, per gli europei, è possibile addirittura organizzarsi un week end di sesso senza regole senza troppi sbattimenti. Quindi, per un certo periodo, si passa da un pubblico prevalentemente di militari a uno di civili. L’Albania è una terra di conquista per tutti e ognuno viene a farci quello che vuole soprattutto quello che nel suo paese è considerato addirittura un crimine. Con l’arrivo dei civili aumenta la richiesta di ragazze e ragazzi giovani. Noi, anche se siamo quasi tutte sotto i diciotto anni, cominciamo a essere considerate vecchie perché i civili vogliono soprattutto ragazzini e ragazzine tra i dieci e i tredici anni. Per questo noi che siamo più grandi continuiamo a essere offerte ai militari che ci preferiscono. Poi scoppia la guerra del Kosovo e i bordelli per militari hanno una grossa impennata infatti noi veniamo trasferite vicino a una base della NATO.

Quando la guerra finisce cambia qualcosa per voi?
No perché, a quel punto, ai militari si sommano un numero enorme di funzionari e operatori civili e quindi la richiesta di prestazioni sessuali non diminuisce ma aumenta. Il business si allarga sia perché la richiesta è maggiore, sia perché qualcuno inizia a prendere le ragazze e i ragazzi da lì e spedirli in giro per il mondo. Questo succede soprattutto con i più giovani. Ragazzini e ragazzine, l’età media è sui dodici anni. Nei villaggi e nelle zone povere delle città iniziano i rastrellamenti. Le informazioni che ho, avute dai miei guardiani, sono che molti di questi finivano in alcuni paesi arabi, specialmente Arabia Saudita, Kuwait, Emirati del Golfo ma anche in zone come le Filippine e la Tailandia. A me e alle altre ripetevano che a noi andava bene perché ormai eravamo troppo vecchie per quel genere di business. Nelle vicinanze di uno dei bordelli in cui sono stata c’era, in un capannone separato, lo smistamento di questi. Li tenevano lì una quindicina di giorni in attesa di imbarcarli per le loro destinazioni. In quel periodo venivano continuamente violentati e torturati. Questo sia per piegare ogni forma possibile di resistenza, sia perché tra i miliziani ci sono parecchi sadici che si eccitano e godono solo in questo modo. Anche molte di noi, prima di essere messe al lavoro, hanno subito trattamenti analoghi.

Vuoi parlarne?
No. Su queste cose non mi va di tornarci. Anche se sono passati degli anni le mie notti sono piene di incubi e paure, non riesco neppure più a pensare di poter stare con un uomo, da quel punto di vista lì la mia vita è definitivamente chiusa. La sola idea di sentirmi le mani di un uomo addosso mi fa schifo e paura allo stesso tempo. Per quanto razionalmente so che è una cosa sbagliata e priva di senso quando mi ritrovo a sparare e vedo l’uomo o gli uomini davanti a me cadere non posso fare altro che provare piacere. Lo so che non tutti gli uomini sono colpevoli e maiali come quelli che ho trovato sulla mia strada ma non posso farci nulla, ucciderli mi dà piacere. Sai le persone non sono diverse dagli animali. Una bestia che è stata terrorizzata ha solo due possibilità o soccombe come una cavia da laboratorio o si trasforma in belva, meglio la seconda ipotesi. Dopo la mia liberazione ho fatto un periodo di addestramento con il gruppo e ho partecipato e partecipo tutt’ora alle storie che ci facciamo. Se, come a volte è capitato, c’era da neutralizzare qualche soldato o paramilitare e per motivi di opportunità si doveva usare il coltello o la baionetta, io ho sempre fatto in modo di essere in quel nucleo operativo. Affondare la lama nelle carni di uno di quei maiali è uno dei pochi piaceri che riesco ancora ad avere. Molto meglio che buttargli un caricatore in corpo, ti dà molta più soddisfazione sentire direttamente con le tue mani che la vita se ne sta andando dal corpo di quel bastardo, leggere nei suoi occhi la paura e il terrore perché in quel momento ti ricordi di quando, i porci come lui, ti usavano peggio di una bambola di pezza e più avevi paura ed eri terrorizzata più loro si accanivano e ci provavano gusto. Quindi, anche se non mi va di dilungarmi troppo in particolari, ma solo per motivi di sicurezza, preferisco parlare del dopo liberazione ma non chiedermi i dettagli della segregazione, quegli incubi li ho rinchiusi da qualche parte e sono già costretta a conviverci quando di notte mi escono fuori all’improvviso. E poi non cerco pietà o comprensione. Ho vissuto prima e visto in diretta dopo di che cosa sono capaci tutti questi che sono arrivati per portarci aiuti, benessere e tutte le cazzate con le quali si fanno belli. Rubano, stuprano, opprimono tanto quanto i soldati, i poliziotti e i paramilitari. La mia esperienza mi dice che tutti questi amorevoli personaggi diventano comprensivi e umani solo quando si trovano nel mirino del mio fucile mitragliatore o con la gola alle prese con la lama seghettata del mio coltello. Perciò basta con queste cazzate.

Come avviene la tua liberazione?
Grazie a mio fratello e al suo gruppo. Quando io sono stata rapita lui non era in casa e così si è salvato. Non ci siamo più visti per più di cinque anni fino a quando non è riuscito liberarmi. Per non rischiare di fare la mia fine, insieme ad altri ragazzi, ha vissuto per un po’ nelle campagne. Lì è stato accolto da uno dei tanti gruppi armati che si sono formati in Albania per difendersi dagli stranieri, dal governo e dalla polizia. Ha imparato a usare le armi, perché molti di questi gruppi sono formati da ex militari, e a combattere. Con questo gruppo faceva incursioni nelle città dove assaltavano i magazzini, i depositi di armi o sequestravano qualche ricco. L’unico modo per avere a disposizione i marchi era quello. La moneta albanese non valeva più niente ed era inutile rapinarla perché era come rubare aria. Dopo si è dedicato soprattutto al traffico di armi è grazie a quel traffico che è riuscito a rintracciarmi. I nostri guardiani erano italiani e belgi che lavoravano come dipendenti nei bordelli e in proprio come trafficanti d’armi. Fino a poco tempo prima, sono cose che ho saputo dopo da mio fratello, avevano un canale diretto con le forze NATO che li rifornivano direttamente però, a un certo punto, quel traffico è stato preso in mano direttamente da dei soldati regolari che li hanno estromessi dal business e loro si sono dovuti cercare un’altra strada. Per questo si sono rivolti a un giro dell’UCK con il quale mio fratello e il suo gruppo avevano fatto degli affari. In questo modo mio fratello è entrato in contatto con i nostri carcerieri. Hanno contattato una partita di fucili mitragliatori, pistole, razzi anticarro e esplosivo e, dopo una trattativa abbastanza lunga fatta attraverso una serie di intermediari, hanno raggiunto un accordo e si sono incontrati. Come succede abitualmente in questi casi, quando si apre un canale nuovo, il primo scambio è sempre un po’ di prova. Chi compra vuole avere garanzie sulla qualità del prodotto che acquista e chi vende essere sicuro della solvibilità dell’altro. Oltre a questo entrambi vogliono essere sicuri che nessuno faccia il furbo o giochi sporco. Così il primo scambio è più che altro un modo per mostrare il campionario e per prendersi reciprocamente le misure. Gli uomini che vi partecipano è abbastanza limitato. Se mio fratello avesse agito in quel momento avrebbe potuto sequestrare solo una piccola parte del gruppo che mi teneva prigioniera e poi avrebbe dovuto probabilmente fare la guerra per venirmi a liberare, con scarse possibilità di successo. Il primo appuntamento fila liscio. A questo ne segue un secondo perché, i miei carcerieri, vogliono verificare alcune cose sull’esplosivo che stanno trattando e avere maggiori ragguagli sui tempi per la consegna degli anticarro. Nel primo incontro, inoltre, mio fratello per rendere le cose il più lisce e interessanti possibili gli aveva parlato della possibilità di acquistare anche un certo numero di mitragliatrici leggere che sono molto richieste e possono essere vendute con enormi profitti. Sono armi serbe e per questo i miei carcerieri prima di trattarle vogliono prenderle in visione e verificarne la funzionalità e l’efficacia. Si arriva così a un terzo appuntamento dove sarà consegnato l’intero carico precedentemente stabilito e un paio di mitragliatrici in prova. Il primo stock di un carico che, se l’acquirente troverà di suo gradimento, sarà regolato in un successivo incontro. Si arriva così alla consegna del carico. Il posto scelto è in una zona aperta di campagna dove la visuale è ottima e tutti possono rendersi conto che nessuno sta giocando sporco. Il posto lo avevano scelto i miei carcerieri e mio fratello lo aveva accettato senza problemi. Subito dopo l’accordo però, mio fratello e il suo gruppo, avevano scavato dei tunnel in zona dentro i quali, tre giorni prima della consegna molti di loro si erano nascosti, rimanendo del tutto invisibili. Due giorni prima della consegna alcuni dei miei carcerieri fanno un sopraluogo e lo ripetono il giorno successivo mentre, per tutta la notte che precede l’incontro, alcuni di loro presidiano il posto. Quando arriva l’ora della consegna, anche se sempre vigili, sono completamente rilassati. Tutta lascia presupporre che non vi saranno sorprese. Mio fratello arriva con i furgoni carichi di armi, munizioni ed esplosivo e con fare molto tranquillo e amichevole va incontro ai compratori. Controllano la merce, tutto è ok. Alcuni dei compratori salgono sui furgoni per portarli a destinazione, mentre una valigia di dollari e una di marchi sono consegnate a mio fratello e ai suoi uomini. Ormai tutto sembra essersi concluso, mio fratello e i suoi fanno per tornare indietro quando, senza che nessuno se ne rendesse conto, alle spalle dei compratori sono spuntati una ventina di uomini armati che gli puntano contro oltre ai fucili mitragliatori tre delle famose mitragliatrici leggere. Rapidamente mio fratello e gli altri puntano le armi sugli autisti obbligandoli a scendere mentre tutti gli altri non possono fare altro che arrendersi. A quel punto prendono un paio di questi e li interrogano su quanti uomini armati sono rimasti intorno ai bordelli e ai locali. Non impiegano molto a ricevere le informazioni che gli servono. Per fortuna un po’ di tutti, gli uomini che ci tenevano segregate aveva dei grossi fuoristrada con i vetri scuri perciò, da fuori, non era possibile riconoscere chi c’era alla guida. Dopo averli disarmati e fatti prigionieri prendono il capo e se lo portano dietro. Adesso comincia la parte più difficile dell’operazione perché, dopo poco, entreranno in una zona controllata dalle truppe NATO. La fortuna, come ti ho detto, sono questi fuori strada con i vetri scuri che i soldati della NATO conoscono bene e quindi li fanno passare senza problemi. In questo modo possono arrivare tranquillamente nella zona riservata allo svago dei soldati dove io e le altre siamo tenute prigioniere. Non c’è molta sorveglianza e neppure grande attività. È appena mezzogiorno e la maggioranza di noi è ancora lì che dorme. Qualcuna è in compagnia di qualche soldato o ufficiale NATO che si è fatto tutta la nottata. Arrivano nel piazzale e scendono dalle jeep con molta tranquillità. Precedentemente, con una telefonata, il capo era stato obbligato a preavvertire il loro ritorno insieme al buon esito dell’operazione. Mentre alcuni si dirigono all’interno, un piccolo gruppo, armato di coltelli, neutralizzano le sentinelle all’ingresso. Gli altri entrano nei locali senza trovare resistenza. Molto velocemente hanno il pieno controllo della situazione. Dopo poco entrano nelle stanze e ci liberano. Il nostro inferno è finito. Qualcuna, me compresa, prima di andarsene si prende qualche rivincita sui nostri carcerieri e sugli uomini NATO trovati ancora addormentati nei letti, poi ce ne andiamo. Saliamo a bordo delle jeep dei paramilitari che però non bastano, quindi dobbiamo prendere anche un paio di altri mezzi che però non hanno i vetri oscurati. C’è un posto di controllo NATO che dobbiamo attraversare per forza di cose e che potrebbe, come infatti sarà, essere un problema. È la terza volta che le jeep vanno avanti e indietro e in più adesso ci sono anche i due mezzi con noi a bordo. A qualcuno del controllo viene in mente che tutto quel movimento potrebbe nascondere qualcosa di strano e poi il trasbordo di noi gli deve risultare strano. In giro non ci sono nuove postazioni di truppe e non c’è alcun motivo logico per il nostro spostamento. Così ordinano l’alt. Ma mio fratello e i suoi non erano impreparati, avevano preso in considerazione una simile eventualità e si comportano di conseguenza. Quando gli viene intimato l’alt rallentano e si dirigono verso le due piazzole utilizzate per fare i controlli. Due jeep da una parte e due dall’altra. Anche noi, insieme al resto del convoglio ci fermiamo anche se i mezzi tengono i motori accesi. Sul fondo dei nostri furgoni sono piazzate due mitragliatrici che i nostri corpi nascondono. In mezzo a noi si intravede solo un uomo mentre gli altri sono tutti acquattati a terra. I finestrini delle jeep si abbassano e iniziano a sparare. A quel punto gli autisti partono, varchiamo il controllo e subito dopo le mitragliatrici iniziano a sparare. Presi tra due fuochi i soldati della NATO scappano precipitosamente, mio fratello e gli altri scendono dalle jeep e continuano a mitragliarli, quindi ripartono. Dopo un viaggio di mezz’ora scendiamo a terra e iniziamo a camminare, per sicurezza mentre le auto vanno per strada noi e una parte del gruppo seguiamo dei sentieri per raggiungere un rifugio sicuro in un territorio che è fuori dal controllo della NATO. Siamo libere.

Come si svolge, da quel momento, la tua vita e quella delle altre ragazze liberate?
Alcune cercano di tornare a casa e di loro ho perso le tracce. Io e altre rimaniamo con mio fratello e il suo gruppo ma su questi aspetti della mia storia non ritengo sia il caso di raccontare nulla. Posso, tutt’al più, dirti che dentro il casino che è diventata tutta questa zona, abbiamo deciso di non fare né la parte delle vittime né quella dei poveri e, quando ci è possibile, farvi pagare a caro prezzo le rovine che ci avete portato.

In tutto questo, e in ciò che fate, c’è un qualche ragionamento politico?
No. C’è nel gruppo qualcuno che ha qualche nostalgia politica del passato, qualche altro che ha un po’ di sentimento nazionale ma sono cose che si tengono per loro. Certo, la nostra, volendo la puoi anche vedere come una piccola guerriglia e forse lo è anche ma non abbiamo in mente alcun ideale o progetto politico. Se, come in alcuni casi è capitato, abbiamo avuto a che fare con qualche formazione o gruppo politico è stato solo per caso ma non è nostra intenzione legarci a niente e a nessuno. Non miriamo a liberare nessuno ma solo a essere liberi, indipendenti, rispettati, temuti e perché no anche ricchi noi. Il resto sono solo chiacchiere. Una cosa è sicuramente certa, se dobbiamo scontrarci preferiamo che nei nostri mirini finiscano i soldati della NATO o i loro soci civili piuttosto che dei poveracci.

Nella storia di Anna solo una dose di ingenuità al limite della stupidità può cogliere qualcosa di eccezionale. Se qualcosa rende anomala la sua vicenda è il finale, non certo la sorte alla quale, insieme alle parti più deboli del suo popolo, era destinata. Con ogni probabilità se il fratello non fosse riuscito a fuggire ai paramilitari in cerca di forza lavoro coatta e, nella sua fuga, non avesse incontrato un piccolo gruppo di soldati che avevano deciso di darsi alla macchia, di lei ben difficilmente avremmo avuto notizia. Più realisticamente avrebbe continuato a far parte del “logistico” dei vari eserciti posti a difesa dei “diritti umani” o degli operatori umanitari e civili che gli corrono appresso e, una volta resa inservibile per quel tipo di mansioni ricondotta, sempre in condizioni di servitù, in una qualche fabbrica liberista oppure, com’è accaduto a molte, finire sacrificata in una delle numerose performance estreme di cui i soldati e gli operatori civili occidentali sembrano essere particolarmente ghiotti.

Nella sua sconcertante banalità la storia di Anna è tuttavia in grado di raccontare qualcosa di significativo sulle guerre contemporanee. Le popolazioni, soccorse e/o liberate, agli occhi degli occidentali non sono altro che animali e in particolare uno: il maiale. Al pari di questo, di loro, non si butta via niente. La loro veloce e continua riconversione in una qualche attività utile e proficua per l’uomo bianco non sembra conoscere intoppi di qualche sorta. Alla fine rimane solo la verità vera delle guerre attuali il cui tratto neocoloniale è difficile da ignorare. Allora vale forse la pena di ricordare che è pur sempre dai nostri territori che tali operazioni prendono il via e che, a ben vedere, la differenza tra missioni militari, civili, economiche e finanziarie non sono altro che gradi e articolazioni diverse ma complementari di un unico modello di dominazione. Resta da chiedersi chi, sottigliezze teoretiche a parte, tra le donne e gli uomini del Palazzo da tutto ciò può realisticamente chiamarsi fuori.



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