Le “35 ore” contro il proletariato  

1. Introduzione

La legge Aubry sulle 35 ore si inscrive con continuità nelle misure anti-operaie che si succedono da venti anni a favore delle grandi sconfitte del proletariato, conseguenti alla ristrutturazione del capitale nei settori (siderurgia, automobile, cantieri navali) nei quali la classe operaia era forte, tanto sul piano oggettivo che soggettivo. La sinistra al potere (PS, PC), all’inizio degli anni 80, ha giocato un ruolo cardine in questa offensiva del capitale, a causa della sua funzione istituzionale di rappresentante politico delle classi sfruttate e per le sue relazioni sindacali di cui dispone nel cuore della classe. Per queste ragioni era la formazione, a livello di Stato, migliore per spingere verso le contro riforme necessarie e per giocare il ruolo di sperimentatore sociale, rispondente ai bisogni generati dall’accumulazione del capitale.

Confrontato dopo quasi 25 anni alle crisi di devalorizzazione la cui ampiezza e gravità non cessa di crescere (vedi la crisi degli anni 91-92), a un rallentamento storico del tasso di accumulazione, a un declino della scena imperialista mondiale, il capitalismo francese si è lanciato in attacchi contro il proletariato di una violenza senza precedenti dalla fine delle seconda Guerra Mondiale. Flessibilità, precarietà, individualismo, furono le grandi parole d’ordine scritte sui suoi stendardi, parole d’ordine tradotte nella realtà in un mercato del lavoro che, nello spazio di 20 anni, è stato stravolto da cima a fondo.

2.La svolta del 1982

2.1 Ritorno indietro

La legge Aubry è la degna ereditaria dell’ordinamento del 16 gennaio del 1982, relativo alla diminuzione del tempo di lavoro. Oggi, la sinistra vorrebbe tenere di questa legge solo il passaggio da 40 a 39 ore senza perdita di salario e la 5° settimana di ferie pagata. La memoria di classe non ha dimenticato che all’epoca, la suddetta legge aveva previsto un’integrativo salariale, per il passaggio dalla 40° ora alla 39°, solo ai salariati pagati con lo SMIC. Quindi la “divisione del lavoro” e i salari erano già all’ordine del giorno.

Inoltre, una riorganizzazione del lavoro era preconizzata al fine di ottimizzare l’utilizzo dei macchinari, avente come chiave un rallentamento delle evoluzione del potere d’acquisto dei salari. Queste disposizioni hanno provocato, all’inizio dell’anno 82, un’ondata di conflitti e di scioperi le cui rivendicazioni essenziali erano il mantenimento integrale del salario con, dipendentemente dalla situazioni locali, un rifiuto dell’organizzazione del lavoro che si traduceva con il lavoro al sabato, e la rimessa in causa, con il pretesto dell’introduzione della 5° settimana di ferie pagata, dei giorni di ferie supplementari accordati rispetto all’anzianità e alle clausole di ogni settore. Solo davanti all’ampiezza della mobilitazione operaia (per esempio il numero di giornate perdute fu 5 volte superiore che tra il 1978 e il 1981 e due volte di più che tra il 1969 e il 1977) il governo dell’epoca rinuncerà ai suoi progetti. Della legge del 16 gennaio 82 resterà, alla fine di queste lotte, la generalizzazione degli orari variabili (individualizzati) con modulazione dei tempi di lavoro da una settimana all’altra, senza il pagamento di ore straordinarie in caso di superamento della durata settimanale, delle derogazioni alla regolamentazione del riposo domenicale per permettere l’istituzione di squadre per il fine settimana, la possibilità nell’industria di far lavorare le donne fino a mezzanotte, orario limitato precedentemente alle 22.00.

Quello che il governo GISCAR-BARRE aveva inutilmente tentato di istituire alla fine degli anni ‘70, a causa dell’intransigenza sindacale interamente al servizio del Programma Comune, si trovava allora realizzato in qualche settimana dalla sinistra e dai sindacati diventati immediatamente più “comprensivi”. Se l’introduzione di un’accresciuta flessibilità era passata, restava per il governo da trattare la questione del salario, che gli operai avevano rifiutato di vedersi abbassare a favore di una riduzione del tempo di lavoro, cosa che fu risolta al momento della famosa “svolta del rigore” nel corso della quale fu istituito dalla legge del 22 giugno del 1982, votata dagli stalinisti e dai socialdemocratici, il blocco dei prezzi e dei salari...

Così, dunque, la legge del 1982 apriva la strada alla flessibilità, all’annualizzazione, all’individualizzazione del lavoro. Per Jaques Rigaudat, vecchio consigliere “sociale” di Michel Rocard, al di là della spacconata del tempo libero e della riduzione della disoccupazione, questo era il suo merito principale: “La legge del 1982 aveva introdotto una nuova nozione nel Codice del lavoro, quella di modulazione degli orari [...] per la prima volta in effetti da quando era stato istituito, il Codice del lavoro prevedeva che, a partire dal momento in cui si aveva avuto negoziazione e accordo, era possibile derogare a regole comuni.”. Questa tendenza è stata confermata dai successivi governi di sinistra e destra, e amplificata durante gli anni da batterie di testi legislativi a favore del tempo parziale, del lavoro interinale, del lavoro atipico (TUC, SIVP, CES, CRE, impieghi giovani), lo sviluppo dell’ annualizzazione (Delebarre, Séguin), il ripristino del lavoro di notte delle donne nell’industria, la riduzione degli oneri sociali (ovvero la diminuzione dei salari differiti)ecc. La legge Aubry si situa dunque pienamente in questa continuità e apporta un tocco di originalità alla grande opera del capitale con, tra l’altro, l’istituzione dell’impresa come luogo di formazione del diritto, la fine di una legislazione sociale uniforme da applicare all’insieme dei salari, l’introduzione di due SMICS, lo sviluppo accelerato dell’annualizzazione del tempo di lavoro con, come corollario, la fine del pagamento delle ore di straordinario.

2.3 Un esempio di lotta

In Liberation del 19.2.82 si trova una delle rare tracce che il movimento degli scioperi del 1982 ha lasciato. Sotto il titolo “130 impieghi non valgono un sabato senza rugby” e il sottotitolo “per il PDG di Roudière la settimana di lavoro a 36 ore permetterebbe di impiegare 130 persone. I salariati rifiutano questa nuova organizzazione poiché sarebbe necessario lavorare il sabato”, si può leggere: “Sono degli egoisti, se ne fregano dei disoccupati”, mormora la popolazione del Pays d’Olmes nell’ Ariège (1600 disoccupati stimati). “Il loro rifiuto è scandaloso”, gemono gli eletti locali e i membri del Comitato locale per l’impiego. “Gli arcaismi hanno la vita dura” filosofa per parte sua Jean Arpentinier, PDG di Roudière, la più importante impresa tessile della regione con i suoi 1587 dipendenti...

La tensione cominciò a salire l’11 febbraio. La riorganizzazione del lavoro prevedeva una riduzione del tempo di lavoro a 36 ore per i dipendenti, la creazione di una terza squadra di giorno e l’assunzione di 130 persone e infine il passaggio di una ventina di dipendenti con contratto a tempo determinato a tempo indeterminato.

Per due mesi piove rabbia e gli operai si dichiarano pronti allo sciopero, se un tale contratto venisse firmato. Non vogliono lavorare il sabato dopo mezzo giorno come lo prevede la nuova organizzazione del lavoro. “ Ci siamo già fatti fregare nel 1978 con il sabato mattina, non ci ricadremo” dice Gilbert, orditore. L’opposizione è ancora più viva tra le donne, che rappresentano la metà dei lavoratori. “Non viviamo più se lavoriamo anche di sabato, saremo le sole in questa città a non riposare il fine settimana. Già per i bambini, le coppie fanno le contro squadre(quando uno dei due inizia alle 5 l’altro inizia alle 13) e non si vedono più. Così saremmo, in più, tagliate fuori da tutto.” La nuova organizzazione del lavoro prevede, in effetti, che sei sabati su otto siano lavorativi fino a 20 ore. In cambio offrono 2 giorni di ferie consecutivi presi durante la settimana e due week-end di tre giorni ogni 8 settimane. Ma non c’è niente da fare. I lavoratori vogliono tenersi i loro sabati... E lavorare il sabato “è anche accettare di lavorare la domenica. Siamo nel tessile e non nella siderurgia. Nessun impedimento tecnico ci obbliga a far girare le macchine 24 ore su 24” dice Jean Pierre, orditore. La direzione durante tutti questi mesi di febbraio e di marzo migliora gli integrativi salariali proponendo di pagare 40 ore le 36 ore, un 13° mese completo alla fine del 1984 e dichiara che “non se ne parla proprio di far lavorare le persone la domenica”. 

Un giornale locale si poneva la domanda: gli operai sono reazionari? Alcuni lavoratori dell’impresa Rudière fecero circolare un testo di cui citiamo degli estratti: “500 lavoratori rifiutano il progetto di un PDG che creerebbe 200 impieghi. Questi operai sono dei reazionari? Cosa è che motiva la loro opposizione ad un dirigente del CNPF che “gioca il gioco” di un potere oggi di sinistra? Quale è questo progetto? Passaggio alle 36 ore con riduzione del salario programmato su più mesi e un prolungamento della durata di utilizzazione delle macchine fino al sabato sera. Conseguenza in cifre per lui: creazione di 200 impieghi. Rifiuto degli operai: 36 ore va bene, ma dipende come! La riduzione del salario, con il potere di acquisto che ha, è inaccettabile. Il prolungamento della settimana di lavoro per avere solo un sabato ogni 2 mesi è intollerabile poiché contribuisce a rinforzare la disarmonia delle loro vite con il resto della società. Il ricatto della disoccupazione è indecente: gli operai non si sentono responsabili di questa “indegnità”, bensì le principali vittime. La stampa locale apporta il suo contributo nel conflitto d’opinione senza dire nulla delle motivazioni della “reazione”. Nulla di tutto questo prende in considerazione e esprime il vissuto particolare di questi operai che sanno che il delirio economico tronca le loro vite, che un giorno qualsiasi della settimana non è così ricco di possibilità di piacere e di incontri come il sabato. Situazione locale, conflitto parziale, che al di là delle strategie sindacali e delle manovre padronali pone il problema dell’espressione e della riconoscenza del vissuto operaio non nelle tabelle statistiche dell’economia di un mondo che fa l’economia della loro vita.”.

2.3 Modernità = aumento della produttività

“Situazione locale, conflitto parziale”, migliaia di conflitti, tutti diretti contro l’introduzione a livello aziendale delle legge sulla “riduzione del tempo di lavoro”, furono vissuti così. I giornali locali ne resero conto. La stampa nazionale parlò solo di una manciata fra loro.

Le organizzazioni sindacali negoziarono caso per caso l’applicazione della legge, evitando di informare i lavoratori di ogni impresa che i loro problemi non erano poi così locali, specifici, peculiari, per la semplice ragione che erano favorevoli alla legge, in un quadro generale, nel quale la sinistra gli permetteva di essere associati più strettamente alla gestione delle imprese. I salariati, si sono opposti alla legge fondamentale dell’industria “moderna”: l’aumento della produttività. In cambio della diminuzione di un’ora della durata del lavoro, si doveva ottenere come prima cosa da parte dei salariati una riorganizzazione del lavoro, che avrebbe permesso un allungamento del tempo di utilizzazione delle macchine sia nella giornata, che nella settimana. Le leggi sulla diminuzione del tempo di lavoro sono presentate dalla sinistra come misure per la riduzione della disoccupazione. Lo studio delle loro logiche interne mostra al contrario che l’aumento della produttività è il loro scopo essenziale, cioè la produzione delle stesse merci con meno salariati. La terza posta in gioco per le leggi sulla riduzione del tempo di lavoro è passata ancor più inosservata: la durata legale del lavoro a 39 ore è stata utilizzata nei settori dove la durata era inferiore a 39 ore per aumentare il tempo di lavoro. E’ stato in particolare il caso degli statali. Ci sono stati anche nella stampa degli echi dei conflitti, nei quali la stampa ironizzava sui “privilegi” degli statali, dimenticando che le condizioni specifiche in materia di orario di lavoro servivano precedentemente a giustificare il basso livello dei loro salari.

Ma ciò che è stato ancor meno capito a proposito della legge sulle 39 ore, è che permetteva in realtà tramite la riorganizzazione del processo di produzione un immediato aumento del tempo di lavoro. Poiché se il tempo formale di lavoro è di 40 ore, il tempo reale svolto è minore. La resistenza alla dominazione del capitale non si riduce a periodi di lotte aperte, ma è quotidiana. E’ una lotta che può essere collettiva e\o individuale e che mira a allungare i tempi di pausa in tutti i modi possibili[1]. Ci sono in particolare delle pause collettive, legate ai pasti ecc che via via si allungano senza che i rapporti di forza permettano all’organizzazione di ridurle. La rinegoziazione degli orari di lavoro è sempre il momento scelto dalle direzioni per rimettere in causa queste pause. E’ stata forse questa una delle motivazioni meno riconosciute del movimento dell’82 e degli anni seguenti contro le applicazioni della legge sulla riduzione del “tempo di lavoro”.

3 Misure governative

3.1 L’impresa come fonte di diritto

Si tratta di una svolta nel rapporto tra lo Stato, le imprese, e la classe operaia, poiché la legge AUBRY segna la fine di un’epoca: quella dello Stato regolatore, che impone dall’alto le regole del gioco sociale sia ai padroni che alla classe operaia. Così, contrariamente alle leggi del 1936 e del 1982 che prevedevano dei decreti di applicazione, l’introduzione della riduzione del tempo di lavoro (RTT) è rimandata alla negoziazione nei vari settori e nelle imprese. La legge si accontenta di fissare una data come termine, le modalità verranno negoziate settore per settore, e soprattutto azienda per azienda, in funzione delle situazioni specifiche.

Come ha dichiarato, all’assemblea nazionale, Martine Aubry, ministro del lavoro, “il testo preconizza un ricorso alla negoziazione collettiva la più decentralizzata possibile e una grande duttilità nelle modalità di riduzione del tempo di lavoro, che permetterebbe di migliorare la competitività delle imprese”. Questo si tradurrà in un’accresciuta disparità delle condizioni di sfruttamento del proletariato e quindi in un inasprimento delle divisioni al suo interno: da una parte l’annualizzazione, dall’altra l’impiego di lavoratori a tempo parziale; da un lato una riduzione dei salari, dall’altro una individualizzazione degli aumenti ecc.

3.2 Fine di una legislazione unificata

Al di là delle modalità particolari di applicazione, la legge inasprisce due grandi divisioni, quella tra i lavoratori del pubblico e del privato, poiché la riduzione del tempo di lavoro concerne solo le imprese del settore privato, e quelle tra i lavoratori che esercitano la loro professione in aziende con più di 20 dipendenti, che passeranno alle 35 ore dal 1 gennaio del 2000, e le altre che aspetteranno fino al 2002. Il governo prevede anche delle pianificazioni particolari per le ditte molto piccole. E’ quindi la fine di una legislazione unificata per tutti i lavoratori.

3.3 L’introduzione di 2 SMICS

Uno SMIC orario mantenuto per i salariati che lavorano 39 ore (per evitare un aumento del costo orario dell’11,4%) e un SMIC mensile per i “fortunelli” la cui impresa passerà alle 35 ore. Tuttavia questi ultimi pagheranno molto caro,5240 franchi al mese, il loro tempo libero. Il loro salario sarà definitivamente congelato, la remunerazione mensile minimale (RMM)- denominazione della nuova cosa - non avrà diritto alle eventuali spinte in avanti dello SMIC orario: “[...] una rivalorizzazione modesta del nuovo SMIC mensile decisa dallo Stato darebbe un segno di rigore supplementare a quei capi d’impresa, che la settimana di 35 ore rischia di incitare a mostrarsi ancora più rigorosi sui salari.”

3.4 Sviluppo dell’annualizzazione del tempo di lavoro

L’annualizzazione del tempo di lavoro è il cuore del progetto governativo, in linea con le leggi Séguin e Giraud che permettevano alle imprese di derogare disposizioni legali in materia di durata del lavoro e di instaurare il tempo parziale annualizzato. Rispondendo agli interrogativi di un padroncino dell’edilizia, inquietato dalle nuove misure, nel Parisien di martedì del 27 gennaio del 1998, il ministro del lavoro dichiarava: “perché dite che non potete passare alle 35 ore? Nessuno vi dirà come organizzare la vostra azienda, potete lavorare di più quando avete un cantiere da finire e gli operai recupereranno quando ci sarà meno lavoro. Si farà una media: per settimana, per mese, per anno dipende. Non imporremo una durata giornaliera di 7 ore”. All’Assemblea Nazionale Martine Aubry, confermava il 29 gennaio 1998: “La modulazione sull’anno può essere equilibrata se è negoziata e se non ricade sulle garanzie maggiori. Noi siamo per questa modulazione”. L’annualizzazione del tempo di lavoro permette ai padroni di non pagare le ore di straordinario. In effetti, se la durata del lavoro è calcolata sull’anno, alcune settimane quando la produzione lo esigerà saranno di 42, 44 o 48 ore, le ore di straordinario (maggiorate del 25%, del 50% nel lavoro notturno, in rapporto al normale ) non saranno pagate con il pretesto che, durante le settimane di calma, la durata settimanale potrà scendere al di sotto delle 35 ore. Il numero settimanale di ore di lavoro, al di là delle quali le ore straordinarie danno diritto ad un riposo compensativo del 50% (nelle aziende con più di 10 dipendenti), passerà a 41 ore nel 1999 contro le 42 attuali, al posto delle 38 ore che si aspettavano i lavoratori: il governo di sinistra non resiste a dare dei piccoli regali al padronato. Sappiamo che per un buon numero di proletari, le ore supplementari, in assenza di lotte per il salario, sono il solo modo per mantenere il loro potere di acquisto[2].

L’annualizzazione si tradurrà, dunque, in un abbassamento del salario. Questo abbassamento è l’obiettivo della legge Aubry, anche se evidentemente questo non è strombazzato dai cantori della riduzione del tempo di lavoro, se non nell’atmosfera più discreta dell’Assemblea Nazionale. Jean Le Garrec, portavoce per il PS della legge all’Assemblea, dopo “un saluto” al deputato UDF Gilles de Robien[3], dichiara apertamente: “tutto può essere messo sul tavolo per quanto riguarda la duttilità dall’organizzazione. Niente impedisce di avere una visione per ciclo o per anno: in molti accordi troviamo l’idea dell’annualizzazione. Uno degli obiettivi perseguiti negli accordi è il controllo della massa salariale”.

La logica della divisione del lavoro giocata in pieno costringerà i salariati ad accettare in cambio della riduzione del tempo di lavoro un’austerità salariale, che è la sola garanzia, secondo gli esperti al soldo del governo, per la riuscita del progetto e del suo obiettivo annesso, ma mistificatore, di riassorbire la disoccupazione: “Sta ai datori di lavoro e ai rappresentanti dei salariati determinare le giuste evoluzioni per i dipendenti e coerenti con le prospettive economiche dell’impresa” - insiste Martine Aubry- “Nel futuro le evoluzioni salariali dovranno tener conto dell’abbassamento della durata del lavoro[...]. Ne sono sicuro, i salariati faranno la loro parte perché domani gli impieghi siano più numerosi nelle loro imprese”. Congelamento dei salari contro riduzione del tempo di lavoro con in cambio la creazione di impieghi questa è la lezione che il governo ha tratto dallo scacco della legge delle 39 ore (70mila impieghi supplementari, creati o preservati, nel primo semestre 1982, nei settori commerciali non agricoli), gli scioperi dell’82 portati avanti da operai egoisti avevano fatto fallire il magnifico dispositivo previsto in origine.

4 Nelle imprese

I padroni non hanno aspettato la legge Aubry per ridurre la durata del lavoro nelle imprese, poiché questa riduzione costituiva il cavallo di Troia della riorganizzazione del processo di lavoro con un abbassamento o un blocco del salario. Tutti i dispositivi legislativi elaborati negli ultimi vent’anni hanno permesso alle imprese di far passare degli accordi locali per la riduzione del tempo di lavoro. Ricordiamo in effetti ai fanatici dalla RTT che questo non costituisce una cosa positiva in sé per il proletariato. La sua applicazione e i suoi effetti sulla “situazione della classe lavoratrice” dipenderanno essenzialmente dai rapporti di forza fra le classi.

Sappiamo che da quindici anni, questo rapporto di forza, a causa dell’esistenza di un’immensa armata di riserva industriale, è ampiamente sfavorevole alla classe operaia. Niente di buono quindi in una riduzione del tempo di lavoro, se i proletari la devono pagare con la diminuzione dei salari (nominali e reali), con la flessibilità del lavoro, con l’aumento dei ritmi (intensità del lavoro), con lo sviluppo del lavoro posté (allungamento della durata dell’utilizzazione dei macchinari). L’osservazione dei passati accordi aziendali, in questi ultimi anni, tra sindacati e padroni illustrano perfettamente questo gioco ingannevole. Per la maggior parte del tempo, sotto la minaccia e il ricatto del licenziamento, il padrone attraverso i sindacati, ha potuto far accettare degli abbassamenti dei salari nominali fino al 10% in cambio di una riduzione del tempo di lavoro.

Un certo numero di esempi sono simbolici della situazione:

Questo obbiettivo sarà raggiunto solo quando i salari, a causa della perdita degli integrativi legati alla riduzione del lavoro notturno, delle domeniche e dei giorni festivi raggiungerà una diminuzione dell’1,6%.

Questo tipo di RTT compensato da una riorganizzazione del processo del lavoro e a fortiori da un abbassamento dei salari operai, risponde pienamente ai bisogni delle imprese a forte intensità capitalista. In effetti, per il capitale è vitale liberarsi dei suoi elementi fissi, per accelerare la sua rotazione, permettendo che il valore contenuto nei macchinari sia trasmesso sempre più rapidamente. Questa accelerazione della rotazione permette una diminuzione del valore delle merci prodotte, il valore del capitale fisso si divide su una quantità maggiore di merci, ponendo l’impresa che ha introdotto per prima questa organizzazione del lavoro in una situazione che le permette di avere dei super profitti abbassando il valore singolare delle merci che produce al di sotto del loro valore medio.

Così alla Hewlett Packard, la riorganizzazione del processo di lavoro ha permesso senza nuovi investimenti nel capitale fisso di triplicare la produzione e di raddoppiare la produttività, alla Renault Flins di produrre 300 auto in più. I sindacati gridano vittoria poiché per far fronte all’aumento della produzione e alla riduzione degli orari le direzioni sono costrette ad assumere (200 persone a Flins, 40 alla HP), ma questo aumento della massa salariata (giovani salariati mal pagati, una delle cause del conflitto del 1995 a Flins) è più che compensata dagli aumenti di produttività ottenuti con la nuova organizzazione del processo di lavoro e con la continua soppressione di posti di lavoro negli altri settori della produzione.

I primi accordi aziendali, che anticipano il passaggio alle 35 ore nel 2000, stanno per essere applicati e stanno per dimostrare chiaramente che per i lavoratori, la RTT si tradurrà in un abbassamento del salario. I sindacati FO e CFDT dell’impresa Eurocopter (fabbrica franco tedesca di elicotteri) hanno firmato il 1 gennaio 1999 per l’annualizzazione (alternanza di settimane di 4 giorni e di 5 giorni) e per la non compensazione con un integrativo salariale (60% per i salariati pagati più di 10000 franchi e 90% per gli altri)in cambio delle ore perse. Questo implica una perdita mensile di mille franchi per un salario nominale di 10000 franchi e di 350 franchi per un salario nominale pari allo smic.

Nei settori del commercio, delle banche e delle assicurazioni, là dove degli accordi collettivi regolano ferreamente gli orari di lavoro[4], il padronato si è subito reso conto del beneficio che poteva trarre dalla legge Aubry. Michel Freyche presidente dell’Associazione Francese delle Banche (AFB), ha dichiarato in un’intervista al quotidiano Les Echos, datato 13 febbraio 1998: “[...] quando è ragionevolmente negoziata, la riduzione del tempo di lavoro può essere utile. [...] noi non vogliamo una negoziazione di categoria sulle 35 ore. In cambio siamo pronti ad incoraggiare e facilitare le discussioni a livello aziendale, cioè ad esaminare ciò che negli accordi collettivi costituirebbe un ostacolo per la realizzazione della riduzione del tempo di lavoro”.

Il padronato delle banche e del commercio si è quindi affrettato a denunciare i contratti collettivi e in particolare il decreto del 1937 che garantiva ai salariati di questo settore due giorni di riposo consecutivi comprendenti obbligatoriamente la domenica. Lo “scambio” proposto ai lavoratori di questi settori sarà il seguente: in cambio delle 35 ore accetterete l’annualizzazione del tempo di lavoro (da 46 a 48 ore durante i periodi festivi); il lavoro al sabato (sei volte per 6 ore); lo sviluppo del lavoro in squadre (ampliamento della gamma oraria limitata a 11 ore in virtù del decreto del 1937); e ultimo, ma non per importanza, “la moderazione salariale”.

Il Presidente dell’Unione del grande commercio di centro città (UCV), Jacques Perillat, riassume perfettamente la posta in gioco: “attualmente, il 40% dei salariati a tempo pieno sono di riposo al sabato, quando questo invece è il giorno della settimana in cui si realizzano gli incassi maggiori. Sarebbe meglio che questa cifra non superasse il 20%”. Inoltre la legge Aubry gli sembra offrire il momento opportuno per introdurre l’annualizzazione del tempo di lavoro, questa “permetterebbe di far lavorare i dipendenti 48 ore alla settimana in Dicembre durante le feste; in cambio effettuerebbero delle settimane di quattro giorni in Giugno”. Settimane di 48 ore, come di 52 sono frequenti nel settore del commercio, ma le ore di straordinario sono pagate, non sarà più così con l’introduzione dell’annualizzazione.

Un’altra posta in gioco per i padroni, nell’ondata attuale di denuncia delle contrattazioni collettive: la definizione del tempo di lavoro. Nelle numerosissime contrattazioni collettive il tempo per vestirsi, per lo spuntino, per la doccia è compreso nel tempo di lavoro effettivo. Il tempo di reperibilità (quando il salariato è a disposizione del padrone senza essere sul luogo di lavoro), che non è assimilato a lavoro effettivo, è remunerato.

5. Una rivendicazione secolare

La riduzione del tempo di lavoro è una rivendicazione operaia secolare. Si può anche affermare che ha costituito una rivendicazione di ordine vitale destinata ad assicurare la sopravvivenza biologica. In effetti l’introduzione dei macchinari, lo sviluppo della dominazione reale del capitale a partire della fine del XVIII secolo, ha rotto la resistenza operaia fondata sul mestiere accrescendo il cannibalismo del nuovo ordine produttivo.

Se la sottomissione reale del lavoro al capitale fornisce le basi oggettive, dalla fantastica argomentazione della produttività del lavoro autorizzata dall’introduzione di un processo di lavoro capitalista (meccanizzazione), alla diminuzione della giornata di lavoro individuale, la sua introduzione è stata segnata in Europa da un aumento della giornata lavorativa, e dal ricorso al lavoro di donne e bambini.

Durante la fase di diffusione della grande industria (fine del XVIII inizi del XIX secolo) il capitale unisce l’estrazione di plus valore assoluto tramite l’allungamento della durata del lavoro all’aumento del plus valore relativo devalorizzando il costo della forza lavoro (crescita della produttività sociale inducendo un abbassamento del valore delle merci, che rientra nella riproduzione della forza lavoro). Non era raro, all’epoca, vedere delle giornate lavorative di 16 ore. Il movimento operaio, nel corso delle sue lotte, sostenute anche dalla frazione filantropica della borghesia spaventata dai rischi di degenerazione dell’operaio specie, imporrà dei limiti netti per una diminuzione progressiva della giornata lavorativa (12, 10, 8 ore), la proibizione del lavoro per i bambini, per il lavoro di notte delle donne[5]. Queste lotte favoriranno durante la seconda metà del XIX secolo lo sviluppo della meccanizzazione forzando il capitale a generalizzare l’estrazione di plus valore relativo: “...”.

6. Conclusioni

L’analisi del dispositivo che sta per essere adottato con la legge Aubry dimostra che la riduzione del tempo di lavoro, contrariamente a ciò che strombazzano ai quattro i venti le diverse e avariate componenti delle sinistra “pluralista”, non risponde al riassorbimento della disoccupazione, e ancor meno alla liberazione dei lavoratori dalle maledizione del lavoro salariato per concedergli più tempo “libero”. Questa legge si tradurrà effettivamente in un abbassamento dei salari nominali e reali, in una accresciuta sottomissione agli imperativi della valorizzazione del capitale e quindi a una nuova crescita del tasso di sfruttamento. In cambio, lo Stato capitalista, per ottenere la pace sociale, affina, sofistica il processo di integrazione dei sindacati per il mantenimento dell’ordine capitalista.

Certo, questa integrazione non è nuova, ma non è di  secondaria importanza che, di anno in anno, gli apparati sindacali siano sempre più legati a tutti i nuovi dispositivi che regolamentano il rapporto capitale lavoro. Favorendo le negoziazioni su scala aziendale, la legge Aubry assicura ufficialmente alla sezione sindacale dell’impresa un ruolo di un’importanza inedita[6]. In questo modo, dal Consiglio Economico e Sociale alla più piccola delle sezioni aziendali, dall’interesse generale dello Stato alla micro economia dell’impresa, il sindacato è più che mai l’istituzione in grado di cambiare a tutti i livelli della società civile le esigenze della valorizzazione del capitale in tempo di crisi.

Più che mai lo Stato capitalista ha bisogno di interlocutori. L’indifferenza per la “cosa” pubblica delle classi sfruttate suscita l’inquietudine di una classe dominante che conosce bene la debolezza, vedi ad esempio l’inesistenza di fasce intermedie. Lo Stato tratta questo “male francese”, tenendo a braccetto i sindacati la cui rappresentanza è derisoria anche creando ex nihilo le suddette rappresentanze, come ha fatto con le pretese organizzazioni di disoccupati, gruppuscoli etici che hanno rappresentato solo qualche gauchistes nel male della mediazione sociale.

Non resta che la lotta per l’aumento del salario e la diminuzione della giornata lavorativa resta all’ordine del giorno e lo resterà finché esisteranno i rapporti di produzione capitalisti.

La disoccupazione di massa, lo sviluppo delle diverse forme di precarietà del lavoro hanno, certo, relegato la rivendicazione di un abbassamento del tempo di lavoro al secondo rango delle preoccupazioni operaie. Ciò che pone un problema oggi è piuttosto la parcellizzazione e lo scoppio della giornata di lavoro con il tempo parziale annualizzato, gli orari deliranti[7], con lo sviluppo del lavoro in postazione nell’industria come negli uffici.

Ricordiamo anche che in un domani nell’ipotesi di una ripresa generalizzata della lotta di classe, una parola d’ordine come le 35, 32 ore potrebbe perfettamente apparire come timorata e meschina, il movimento reale andrebbe molto più lontano. Infine ricordiamo che la rivendicazione per la diminuzione della giornata lavorativa non è mai stata, nella tradizione del movimento operaio rivoluzionario, accompagnata dall’illusione che questa potrebbe creare degli impieghi. Si può dire lo stesso per gli aumenti salariali, che gauchistes e stalinisti rivendicano per incrementare il consumo e uscire dalla crisi ribassando la lotta operaia ad un livello medio per rilanciare l’accumulazione del capitale. Il compito dei rivoluzionari di ieri, di oggi e di domani è di contribuire alla difesa degli interessi della classe operaia indipendentemente da tutte le considerazioni per l’interesse dell’impresa o per la difesa della competitività dell’economia nazionale.

7. Un buon esempio: lo sciopero Schindler

Gli operai della manutenzione degli ascensori Schindler (3750 salariati in Francia, di cui 750 nella regione parigina) sono stati in sciopero dal 15 al 24 marzo 1999. Rifiutavano l’applicazione che voleva la direzione della legge sulle 35 ore. La direzione proponeva in cambio della riduzione del tempo di lavoro un abbassamento del salario corrispondente a 4 ore in meno, con solo un aumento dello 0,5% dei salari (l’anno scorso i salari erano stati aumentati del 2,8%) e la rimessa in causa del servizio (il lavoro si fa 24 ore su 24) attraverso trasformazioni costrette ... meno pagate e obbligatorie[8].

Le rivendicazioni degli scioperanti erano semplici:

Lo sciopero è quindi iniziato a Parigi, il 15 marzo e si è esteso in provincia. Tutti i giorni, un’assemblea generale di scioperanti ha avuto luogo (a Vélizy nella periferia parigina) e decideva riguardo al proseguimento del movimento e alle azioni da fare. Tutti i giorni, quindi, i 300 scioperanti sfilavano nelle strade della zona industriale di Vélizy per incontrare altri lavoratori e il 19 marzo, sono andati, in macchina, a sfilare sui Champs Elysees.

Gli scioperanti hanno cercato la solidarietà di altre imprese di manutenzione di ascensori (Otis, Koné, Thyssen).

La direzione di Schindler ha rifiutato di negoziare, ma ha ritirato (provvisoriamente) la maggior parte delle disposizioni. Lo sciopero non è terminato con una sconfitta come quello del 1982, che era durato 3 settimane contro l’applicazione delle 39 ore, ed era terminato in scacco!

Questo sciopero è molto importante, poiché è il primo dove dei lavoratori si oppongono apertamente, in massa e in modo significativo ai progetti governativi e padronali sulla “riduzione del tempo di lavoro” che si traduce sistematicamente in più lavoro e meno soldi. Sfortunatamente è andato in altro modo presso Peugeot Sochaux dove l’abbozzo di un conflitto è durato solo un giorno ed è rimasto circoscritto ad uno stretto quadro aziendale, e anche alle Poste, dove delle micro lotte sporadiche scoppiano allo stesso modo un po’ qua e un po’ la.



[1] E’ anche possibile che ha scatenato l’ondata di proibizioni di fumare negli USA, non sia evidentemente l’interesse dei dirigenti per la salute della popolazione, né forse i costi indotti dalla spese per la salute, ma uno studio che stima circa del 6% il tempo perduto sul lavoro per “rullarsene una”.

 

[2] Secondo l’Insee la durata reale della settimana lavorativa è in media di 41,5 ore.

 

[3] La legge Robien è stata presentata, da sinistra come da destra, come un modo miracoloso per evitare dei licenziamenti (parte “difensiva”), anzi per creare degli impieghi (parte “offensiva”)

attraverso la riduzione del tempo di lavoro contro la drastica diminuzione delle quote sociali padronali ( fino al 50%). In numerose imprese, sono stati firmati degli accordi mantenendo l’illusione per i proletari di essere ormai alla soglia del licenziamento. Cominciano a vedere la luce le prime disillusioni. Per esempio, a Nimes, nell’azienda che produce collanti Well, dopo  un anno, durante il quale, giorno per giorno, il sindacato aveva firmato gli accordi per mantenere i 776 dipendenti, il padrone annuncia la soppressione di un terzo dei posti. Motivo: il mercato non assorbe la produzione prevista (60 milioni di collanti invece di 100). Occasione crudele per ricordare che è il tasso di accumulazione e la concomitante capacità del mercato di allargarsi che determina la creazione di impieghi e che tutte le saccenti combinazioni (RTT, sgravi fiscali) non servono a niente in tempo di crisi se non a permettere ai padroni di intascarsi centinaia di milioni di franchi dello Stato.

 

[4] Il Sindacato Nazionale dei fabbricanti di zucchero di Francia, organizzazione padronale, ha appena annunciato la sua decisione di rimettere in causa la convenzione collettiva che copre i 12000 salariati del settore. In Liberation del 6 marzo scorso, un dirigente ne spiega le ragioni: “Siamo costretti alla denuncia. Siamo una delle rare categorie che possiede un accordo nazionale che fissa gli orari di lavoro”. Una volta non è costume, il commento del giornalista merita di essere riportato: “Addio giorni di permesso, scatti d’anzianità,recupero delle ore straordinarie, e altri vantaggi acquisiti, che restavano in un settore portante e corporativo, dove ci sono solo due grandi gruppi: Eridania-Begin Say, al cui consiglio di amministrazione vi è un certo Ernest- Antoine Seillière, e Générale sucrière Saint-Louis. In cambio delle 35 ore il padronato desidera inaugurare l’annualizzazione, che, per esempio, permetterebbe di far lavorare i dipendenti 46 ore durante durante la stagione, senza pagare le ore di straordinario, e 32 ore il resto dell’anno. Il sistema convenzionale francese passerebbe dal “pret a porter” al “su misura”.

 

[5] E’ evidente che questi progressi non sono mai definitivi e che la loro diffusione si è attuata con ritmi diversi dipendentemente dalle regioni e dai paesi. Ricordiamo, che oggi, sono a stimati 250 milioni i bambini che lavorano nelle prigioni del capitale, compresi, sempre più, i paesi centrali per il capitalismo, che in nome dell’uguaglianza uomo-donna, il lavoro notturno per le donne è stato ristabilito nell’industria nel 1988 e che la giornata di 10 ore è condivisa da intere porzioni del proletariato.

 

[6] Non è un piccolo regalo al sindacato. La legge stessa prevede il pagamento dei salariati delegati per negoziare con la direzione il passaggio alle 35 ore o incaricati di seguire l’applicazione degli accordinei comitati ad hoc. Liberation del 6 maggio 1998 ci informa, d’altra parte che tutti i sindacati si stanno preparando ai negoziati formando migliaia di negoziatori (6000 per la CFDT). Formazioni che sono in parte finanziate dallo Stato dopo...il maggio ’68 e gli accordi al vertice tra i bonzi sindacali e lo Stato.

 

[7] Famoso il caso delle cassiere della grande distribuzione, la cui giornata lavorativa, per maggior parte a tempo parziale, è completamente frammentata e discontinua con delle interruzioni di tre ore (10-13, pausa, 16-20) durante le quali non possono tornare a casa, sono condannate ad aspettare la ripresa del lavoro. Se consideriamo, nei grandi agglomerati, una media di due ore al giorno per il trasporto, constatiamo che il capitale ha inventato nella grande distribuzione la giornata di lavoro a tempo parziale di 12 ore.

Sulle disastrose condizioni di lavoro dei “proletari” del commercio, nella grande distribuzione, si legga Aux Carrefours de l’exploitation di Grégoire Philonenco, ed. Desclée de Brouwner, 1998.

 

[8] Dobbiamo dire che i risultati del gruppo Schindlernel nel 1998 hanno presentato un netto guadagno e una crescita del 71,5% di 244,9 M FS (153 M EUR), contro i 142,8 M FS del 1997. Il giro di affari di Schindler è aumentato del 6,3 nel 1998, fino a 6, 594 mld FS (4,12 mld EUR), rispetto ai 6,203 mld FS del 1997.