18/07/2003: Riflettendo, non troppo a caldo, sull?esito del referendum


Bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? Sconfitta che lascerà il segno o, ciononostante, partecipazione da valorizzare contro il fronte unito dell?astensione? Tirare avanti -in fondo il punto in più totalizzato dal capitale non cambia di molto il risultato finale- oppure fissare sconsolati lo svantaggio, che pare oramai incolmabile, accumulato dal lavoro? Queste, e altre, le domande che si incrociano nelle nostre teste, anche a un po? di distanza dal referendum sull?estensione dell?articolo 18. Se è così, va bene. Peggio sarebbe archiviare il tutto senza riflettere sul dato di realtà e sui problemi che il voto ci rimanda, senza utilizzarlo cioè come una lente su quello che è (diventato) il lavoro. Lente parziale quanto si vuole, ma che qualche riflesso lo ha comunque captato.


Il dato


Forse più seccamente di quanto molti si aspettavano, fatto sta che il 25% dei partecipanti -assai distante da quel 35-40% necessario per guardare non sconfortati all?offensiva che non si ferma di governo e padronato- disegna una fotografia dai contorni non proprio luminosi.

Se ci si ferma al voto dei "cittadini" genericamente intesi, è indubbio che il Sì è rimasto in gran parte limitato alla base elettorale della sinistra e del centro-sinistra. Certo, è significativo che una buona fetta dell?elettorato diessino ha disatteso l?interessato suggerimento venuto dai propri leader, Cofferati compreso. Del resto, e lo si è visto dalla scelta della Cgil, il referendum -pensato un anno fa dai promotori come strumento (lasciamo qui stare quanto, alla prova dei fatti, insufficiente) che desse una prospettiva politica al movimento sull?articolo 18- aveva acquisito per questa area un significato più generale: un voto pro o contro la precarizzazione (già realizzata o solo minacciata) del lavoro e, in qualche modo, anche pro o contro il governo Berlusconi, con annesso "monito" ai partiti di un?"opposizione" sempre più moscia ed evanescente.

Ma, appunto, solo per questa area. Mentre non si è dato nessun significativo travaso dai settori sociali popolari che, pur avendo votato centro-destra (e oggi parzialmente delusi dalla sua politica, a considerare il test delle amministrative, ad es., per An nelle periferie romane), si pensava fossero interessati, materialmente se non "idealmente", all?estensione dei diritti dei lavoratori.

Guardiamo, più correttamente, al voto di chi vive o vorrebbe vivere del proprio lavoro -dipendente di "prima generazione", formalmente autonomo, atipico e via diversificando- e in particolare dei giovani. Qui viene fuori che più di metà dei, diciamo, venti milioni e qualcosa non ha votato. (Più di metà perché tra chi è andato alle urne si sono contati anche molti pensionati). La partecipazione, pur con interessanti eccezioni qui e lì, è stata fondamentalmente da "vecchio" movimento dei lavoratori, memore di altre lotte e conquiste in altre condizioni, disorientato ancorché non disposto a piegarsi del tutto agli attuali rapporti di forza sfavorevoli. Mentre, in sostanza, c?è stato un flop rispetto al precariato giovanile, diffuso oramai su tutto il territorio, al lavoratore della piccola e piccolissima impresa e al Sud "sociale" del sommerso e dell?atipico strutturali nonché, sembra, dello stesso pubblico impiego già utilizzato in passate stagioni anche come stanza di compensazione, clientelarmente mediata, di situazioni sociali difficili.

Il referendum, insomma, non ha coinvolto il coinvolgibile. E, attenzione, ha coinvolto meno, per non dire assai poco, i "nuovi" lavoratori, cioè una parte essenziale della società che a ben vedere non è meno, ma più proletarizzata di prima, e che è essenziale per l?oggi e il domani dell?antagonismo reale.


Questo voto non cade dal cielo (neanche da quello della politica)?


E? poco convincente una lettura -che pure diventa in certa misura un riflesso condizionato anche per gli attivisti nel movimento e/o nel sindacato- solo o prevalentemente "politicista" di questi elementi. Ne prendiamo ad esempio due versioni opposte, che pure partono da elementi di realtà non facilmente aggirabili.

La prima è quella "realpolitik". Il ragionamento, che rischia di risultare plausibile proprio nel suo stare coi piedi per terra, suona più o meno così: si è perso perché non si è stati unitari, si è voluto correre da soli rompendo quel vasto fronte costruito durante la mobilitazione sull?articolo 18 e contro la guerra all?Irak (ma già qui ci sarebbe da osservare che il fronte di mobilitazione, nei due casi, non ha mai collimato precisamente con quello politico ulivista!). A questo ragionamento segue spesso un?aggiunta che anticipa le conclusioni: si è puntato troppo in alto, verso un?estensione dei diritti, a discapito del fattibile, che è oggi molto meno. E il passo è breve -anche tra quanti hanno profuso uno sforzo non indifferente nella propaganda per il Sì- da una riedizione, revisited quanto si vuole, ma già vista nei presupposti e nei risultati, del fronte elettorale ulivista "tutti insieme per battere il Berluska".

La seconda versione, opposta alla prima quanto a giudizio e conclusioni, punta però anch?essa prioritariamente il dito verso l?alto. Con la non partecipazione al voto referendario da parte di larghi strati di lavoratori la sinistra, politica e sindacale, raccoglierebbe quanto ha seminato in anni di sottomissione al mercato che hanno portato a quella precarizzazione del lavoro che ora rende difficile una controffensiva o anche solo una resistenza di massa. E questo vale per l?appoggio dato da Rifondazione al governo Prodi come per la condivisione Fiom e Cgil della politica della concertazione. Ora, questa analisi ha dalla sua un nocciolo duro di verità incontestabile che va senz?altro ripreso. Solo un problema resta, anche a voler evitare accentuazioni difficilmente sostenibili tipo "la massa profonda è più avanti delle organizzazioni della sinistra, non si è fatta trascinare su un terreno "vecchio" e perdente come quello di un referendum a difesa di una composizione di classe superata". E? il problema di come mai anche di fronte ad una limitata, ma innegabile "svolta" a sinistra dell?azione della Fiom il grosso dei lavoratori resta titubante quasi temesse di imbarcarsi in uno scontro troppo duro con la controparte.

La questione evidentemente è più complicata. E anche per questo non sembra plausibile che l?esito del voto possa spiegarsi esclusivamente (non che non incidano, è ovvio) con quelli che una volta si chiamavano i "tradimenti" della sinistra.


Provando ad andare un po? più a fondo della questione


Chi tra quanti lavorano non ha votato non lo ha fatto sicuramente perché è dislocato più avanti, ma fondamentalmente perché è un lavoratore solo, nella sua condizione materiale in azienda e nella sua posizione all?interno della società, e ha interiorizzato una profonda sfiducia nell?azione collettiva come mezzo per cambiare effettivamente la situazione. Ed è portato a declinare individualmente anche le potenzialità/possibilità che pensa di avere o ha effettivamente (ché i lavoratori di oggi sono qualcosa di un po? diverso dal proletariato ottocentesco che metteva a disposizione la mera forza delle braccia? a là Germinal!).

In un editoriale sul Manifesto del venti giugno la Rossanda ha invitato a non perdere di vista il "dato sociale oggettivo" che sta dietro l?esito referendario: la metà di lavoratori che non ha votato non lo ha fatto perché si sente tranquilla, ma perché "ritiene che oggi come oggi i padroni sono vincenti e non resta che affidarsi al mercato e all?impresa. Questa è la vera vittoria della controffensiva che si è delineata su scala mondiale negli anni Settanta".

E? su questo "dato oggettivo" -che comprende le relazioni tra classi nella società (globale) e fin dentro il mondo del lavoro nonché la percezione di esse da parte dei soggetti a misura che questi non si esprimono (ancora) su un terreno antagonista allo stato di cose presenti- su questo varrebbe la pena di soffermarsi. Non per intonare il de profundis, al contrario per evidenziare le crepe di questa società da cui l?antagonismo dovrà ripartire, sta già faticosamente ripartendo. Non essendo questo un obiettivo alla portata di singoli, quand?anche "illuminati", ma solo di movimenti reali, proviamo qui semplicemente a socializzare qualche riflessione.

Quello che ci si presenta è un lavoratore, un insieme di singoli lavoratori isolati e frammentati, dopo qualche decennio di offensiva capitalistica che ha scomposto e frantumato il lavoro lungo linee "flessibili" che convergono incrociandosi e scontrandosi sul terreno della competizione sfrenata del mercato. Tutti contro tutti, non solo tra aziende, ma sul posto e, prima ancora, sul mercato del lavoro. Qui poi la diffusione capillare della precarietà è tale da far sentire il fiato sul collo anche nei settori parzialmente "protetti". Quasi due milioni e mezzo di co.co.co., più di due milioni tra contratti a termine e part-time molto poco "volontari", e ancora interinali, altre figure "atipiche" e autonomi rigidamente dipendenti dal mercato. Oltre il 50% di giovani, numerosissime le donne, letteralmente travolti da questa permanente precarietà che solo oggi inizia a imporsi alla percezione della massa per quello che effettivamente è, essendo più visibile e arrivando a prendere la parola.

E? questa una realtà di fronte alla quale sarebbe inutilmente consolatorio aspettarsi una ricomposizione spontaneamente indotta dall?omogeneizzazione al ribasso, una sorta di uniformazione nella precarietà. Non è così, di fatto, perché la precarietà non è in contraddizione con la diversificazione dei lavori e perché sempre di meno c?è un luogo come la grande fabbrica a mettere insieme, per lo meno fisicamente, ciò che il capitale costruisce come costitutivamente disunito.

Ma neanche soggettivamente vale quella semplicistica equazione. Forse non è inutile ricordare che le nuove generazioni, di fronte alla prospettiva seppur "garantita" di una attività monotona ripetuta per tutta la vita lavorativa dai propri padri, spesso e volentieri hanno approcciato e approcciano la flessibilità del lavoro con l?idea di riuscire ad usarla per sé, per realizzare le aspettative di crescita personale e di relazioni sociali arricchenti perché variegate. Con in più le ricadute non lineari di un aspetto strettamente legato alla socializzazione capitalistica dei rapporti sociali che sta raggiungendo il suo zenith, ovvero la connessione sempre più stretta tra tempo di lavoro e tempo di vita, produzione e riproduzione, lavoro e formazione. Il che significa da un lato la possibilità per il capitale di utilizzare -nonostante la crescente alienazione anche negli ambiti non lavorativi- il tempo di vita come "stanza di compensazione" (dai tratti non sempre esclusivamente abbrutenti o comunque non ancora percepiti come tali in maniera significativa) di contro alla merda di lavoro che svolgiamo. E dall?altro il fatto che sempre più il mio tempo di vita e riproduzione diventa il tuo tempo di lavoro nei settori corrispondenti, con un intreccio sì più stretto tra la mia e la tua attività, ma non nel senso di una loro ricomposizione lineare.

Altri "esperti" nel campo, ben più bravi, potrebbero continuare. Noi ci fermiamo qui precisando solo che le discontinuità reali che stanno sotto gli occhi di tutti ci interessano nell?ottica della ricomposizione della conflittualità sociale di classe, e non dell?accettazione passiva di una frammentarietà "postmoderna" dei soggetti. Tanto più che il capitale dimostra di essere, contro il lavoro, sempre più aggressivamente unitario?

Questo quadro di rapporti di forza sfavorevoli al lavoro non si limita alle profonde trasformazioni della composizione del capitale, del lavoro e dei rapporti reciproci. Queste si intrecciano con quell?insieme di fattori, complessi e non di oggi, che hanno portato alla fine del "socialismo reale" (e fin qui nulla da rimpiangere visto che di realmente antagonistico al capitalismo in quanto tale non aveva nulla) vissuto, però, nella percezione collettiva come l?unico socialismo possibile. Ragion per cui di alternative credibili all?organizzazione sociale basata sul mercato, nonostante tutti i disastri che vanno accumulandosi, a livello di massa non se ne vedono ancora. E anche il movimento no-global ha potuto, per ora, solo scalfire questo stato di cose (il che comunque non è poco).

Il mercato è entrato profondamente nelle teste, allora, perché effettivamente ha vinto nella realtà. Qui rientrano le responsabilità della sinistra ufficiale o meglio delle sinistre. Che hanno assunto, in un modo o nell?altro, l?orizzonte dato come invalicabile. E, in più di un caso, hanno sposato e/o portato avanti in prima persona le politiche del capitale globalizzato, giusto riverniciandole di tinte soft (a volte neanche, vedi bombardamenti sulla ex Jugoslavia). L?effetto sulla gran massa dei proletari, vecchi e nuovi, non può che essere di profondo disorientamento e/o disaffezione tra chi alla sinistra è/era ancora legato, e di estraneità e ostilità da parte di chi già ne era distante. Il sedimento materiale, nei rapporti di classe e nella condizione lavorativa, p. es. delle misure di precarizzazione dei governi di centro-sinistra hanno così contribuito alla situazione attuale. Un cosa è certa: senza una lotta a fondo contro queste politiche -cosa non facile, ma che qualunque governo di centro-sinistra non farà mai- quello scollamento non potrà essere sanato.

Questo insieme di processi e la frammentazione che ne deriva rendono dunque allo stato più difficile l?azione collettiva sul terreno del lavoro nonostante quel senso di insicurezza che va facendosi esperienza quotidiana e diffusa. Ci stupiamo allora un po? di meno degli effetti soprattutto sulle fasce di lavoro più investito da questi meccanismi: senso di sfiducia e di impotenza, ma anche in più casi una sorta di identificazione con l?aggressore -il mercato- vista come unica via d?uscita. Ecco allora che il referendum non è stato percepito come una battaglia generale in grado di spostare effettivamente i rapporti di forza.


Si prepara la "svolta ulivista"?


E? questo il giudizio dato a caldo anche da Bertinotti. Peccato che sia stato subito piegato in direzione di un approccio all?Ulivo in vista di un?alleanza di governo (le stesse forze che avrebbero fatto mancare i voti utili!).

I "realisti" possono anche gongolare, ma dovrebbero prima spiegarci come mai la prima stagione ulivista è finita miseramente, sia dal punto di vista dei risultati concreti per il mondo del lavoro sia da quello dello scollamento di larghi settori proletari e popolari di cui poi ha prontamente usufruito proprio il centro-destra per affermarsi socialmente prima che elettoralmente. Ora ci si vorrebbe servire la vecchia pappa, con un tocco di apertura ai "movimenti", per un?alternanza che, questo sì realisticamente, al più farebbe scendere di un gradino, invece dei due-tre del centro-destra, ma pur sempre verso l?abisso.

Con ciò il problema reale della costruzione, faticosa ma non per questo meno urgente, di un ampio fronte sociale che dia battaglia al mercato e alla globalizzazione dandosi una sua politica "altra", non sarebbe affatto risolto. Anzi, pur tra i mal di pancia di molti/e compagni/e di Rifondazione e del movimento, si andrebbe inesorabilmente verso un moderatismo di fatto che taglierebbe alla radice ogni possibilità di afferrare il nodo del precariato e le cento altre questioni sul campo. Non ultima quella del legame sempre più stretto tra livello locale, nazionale e globale che è merito del movimento no-global aver contribuito a rendere visibile e, seppur con mille limiti, praticabile.


Il movimento e le sue difficoltà


La radicalità della questione sociale ha bisogno di altre risposte. Che però, come dimostrano anche le difficoltà del movimento all?indomani della guerra, non sono semplicememte lì a portata di mano. E? bene allora ripartire da queste. Non per ributtare sul no-global le responsabilità della situazione (sport assai praticato, spesso senza adeguato? allenamento). Al contrario, perché la ripresa del conflitto sociale molto probabilmente non si darà per piani e contenitori rigidamente separati -il sociale, il sindacale, il politico, il culturale- come ancora è stato per le passate stagioni. E può forse risultare utile, provvisoriamente, chiamare movimento anche l?intreccio di questi piani.

Le difficoltà, dunque.

Partiamo dalla mobilitazione dell?anno scorso a difesa dell?articolo diciotto. Questa lotta ha coinvolto non solo una massa imponente di lavoratori, ma ha fatto incontrare fisicamente vecchia e nuova generazione, lavoro e lotta alla globalizzazione. La sua criticità è stata però quella di non esser riuscita a portare il conflitto nei posti di lavoro, nel rapporto diretto con il padrone, "scoprendo" in questo scontro la necessità di organizzare il precariato. Senza fare sconto alcun alla conduzione cofferatiana, il ritardo e le remore nell?affrontare questo nodo decisivo per il radicamento e la diffusione del conflitto non sono attribuibili esclusivamente alla Cgil. Sono un tassello delle difficoltà interne alla classe.

Lo si è visto anche nella vicenda Fiat. Qui le ricadute della globalizzazione dei mercati sono diventate visibili e pesanti per la conservazione stessa del posto di lavoro. Eppure, nonostante le prove di trasmissione tra operai e movimento anti-globalizzazione, l?incontro non è avvenuto né si è affermata l?esigenza di "far male" all?azienda con una lotta più dura. Quasi che la percezione della globalizzazione crei più una reazione di smarrimento che la ricerca di una risposta all?altezza. Essendo quest?ultima parecchio complicata, senza ricette già disponibili.

Sul versante no-global e no-war i problemi sono in qualche modo speculari: difficoltà a investire il terreno del lavoro, del conflitto sociale; difficoltà a rendere questo terreno pienamente interno all?intreccio locale-globale. E, dunque, a valorizzare la presenza consistente nelle mobilitazioni da Genova in poi di una massa giovanile che è il principale destinatario della precarizzazione lavorativa. Ma è anche il potenziale soggetto di un incontro di tematiche ben al di là della visione statica di un rapporto tra contenitori delimitati e separati (ad esempio, tra sindacato e social forum).

Si parla spesso del limite "etico" delle mobilitazioni no-global. Che lo si voglia definire così o in altro modo, il limite è reale. Ma quanto ha pesato su tutto ciò la presenza nel movimento di soggetti sì proletari, ma che difficilmente si riconoscerebbero (almeno prioritariamente) come tali? Responsabilità, semplicemente, del movimento e delle sue rappresentanze attuali oppure nodo complesso che rimanda ai fattori materiali di cui sopra? Lo diciamo senza alcuna nostalgia per una mitica classe operaia-soggetto forte di cui basterebbe l?ingresso in scena (anche visto che poi, alla prova dei fatti, tanto forte non si è dimostrata)?


Segnali di dinamiche future per problemi e compiti attuali


Il punto, piuttosto, è come rendere esplicita e praticabile una presenza proletaria, giovanile, precaria che dentro le mobilitazioni (di movimento, intorno ad esso e oltre) si è data. Obiettivo non perseguibile semplicemente a colpi di slogan, con accorgimenti organizzativi e ancor meno con la "giusta politica" (che pure ne è ingrediente essenziale). Ma che va posto in relazione all?infittirsi di segnali reali che indicano che qualcosa si sta muovendo sotto la superficie di una società che fino a poco tempo fa sembrava normalizzata.

Tra questi segnali, nonostante l?esito per più versi negativo, rientra anche il referendum. Che non sarebbe stato possibile neanche proporre se il problema della precarizzazione non fosse divenuto negli ultimi anni centrale per la vita quotidiana di milioni di persone. E che ha evidenziato, seppur con grossi limiti, spunti di attivizzazione (seppur con pratiche di propaganda di vecchio stile probabilmente poco adatte a captare l?attenzione di certi settori). Anche per questa via, il precariato, nella sua pervasività, si palesa come uno dei terreni centrali di ricomposizione della resistenza al capitale globale. Non tematica settoriale, ma filo rosso che percorre trasversalmente la condizione lavorativa e umana di questo inizio secolo.

Ma dire precariato significa dire territorio perché è qui, nei suoi gangli diffusi e flessibili, che si gioca la possibilità dell?organizzazione e del conflitto di questo nuovo proletariato. Una partita non facile che però non inizia oggi se guardiamo alle prime lotte di una certa portata nella grande distribuzione, nei call center ecc. Che hanno richiamato, o anche solo abbozzato, l?esigenza di uscire e rendersi visibili fuori del posto di lavoro (dove neanche puoi nominare la parola sindacato), verso altri soggetti, organizzati o meno, spesso coinvolgibili più sul terreno della riproduzione (a partire dal consumo) che direttamente come lavoratori. Con un ruolo non secondario, spesso, dei centri sociali e dei luoghi di aggregazione, a più dimensioni, dei soggetti giovanili. Sempre con il grosso problema: come ci si aggrega oggi tra atomizzazione e dispersione?

Qui un nodo da mettere a fuoco è sicuramente l?articolazione di locale e globale e come essa può essere praticata in riferimento alla precarietà del lavoro e della vita. (E? un nodo complesso che il movimento no-global ha individuato, ma poi spesso inteso e praticato quasi fosse un settore di propria "competenza" accanto ad altri da lasciare ai soggetti ad essi deputati. Mentre si tratterebbe di agirvi come su di una contraddizione generale e trasversale su cui possono convergere soggetti sociali diversi e incontrarsi tematiche di sfruttamento e oppressione apparentemente distanti. Sotto questa luce sarebbe forse utile tornare su alcune esperienze della mobilitazione contro la guerra all?Iraq -tipo il trainstopping- per vedere di tirarne fuori una valenza più generale in merito al problema di come costruire consenso senza perdere in radicalità).

Questo insieme di problemi investe in pieno il sindacato, la Fiom, parte della Cgil, l?autorganizzazione. L?alternativa qui non è tra resistenza e tenuta da un lato o strategia che "alzano il tiro" dall?altro. Il punto è che oggi, anche solo per resistere, devi mettere in campo pratiche, e non solo obiettivi e programmi, includenti i nuovi soggetti proletari, cercare agganci (ancorché problematici) sul loro terreno, sviluppare o partecipare anche a iniziative che si collocano oltre lo steccato classico dell?organizzazione sindacale. Quanto sta pesando, anche, sull?isolamento della Fiom oggi il non essersi spesa con più convinzione nel movimento no-war, anche scontando una refrattarietà di fondo della propria stessa base operaia sul tema? (Stesso discorso vale per la battaglia contro la Bossi-Fini e per i diritti dei migranti).

Per un verso o per l?altro si torna alla complessità di una situazione che vede processi molecolari di organizzazione e conflitto, un intreccio per certi versi inedito di sociale, sindacale, politico, e però a tutt?oggi la difficoltà di nuovi e vecchi soggetti a quella autoattivizzazione piena senza la quale -qui il nodo- il tutto non può amalgamarsi. Visto sotto questa luce però, lo stesso referendum difficilmente può essere rubricato sotto la voce del vecchio ciclo di lotte di cui rappresenterebbe il definitivo canto del cigno. Al contrario, in esso si sono intrecciati, per come è dato oggi, nodi e caratteristiche di una composizione di classe in parte "residuale", ma non ininfluente, e di un proletariato nuovo ma che fatica a trovare la propria strada.

In questa situazione non facile c?è un rischio evidente. Pensare, cioè, di sopperire allo scarto esistente tra mobilitazioni e obiettivi effettivamente raggiunti con un ritorno ai lidi della "vecchia" politica, acconciandosi in qualche modo a moderare i toni e ridando credito alla rappresentanza istituzionale (proprio quando quest?ultima mostra sempre più di non potere/volere farsi carico delle istanze sociali e di lotta: voto dell?Ulivo favorevole all?invio di militari in Irak, suggerimento interessato per l?astensione al referendum, "giravolte" di Cofferati?). Vale per il movimento, ma vale per altri versi per chi è organizzato nel sindacato.

Su un altro versante la tentazione è quella di far quadrato intorno alla propria identità anticapitalista rivendicandone l?attuale (inevitabile) separatezza come una virtù piuttosto che vederla come una necessità non voluta da cui cercare di non farsi ingabbiare. Il movimento ha quanto mai bisogno di una politica anticapitalista che non vada a scapito del suo allargamento e dell?approfondimento collettivo delle ragioni profonde del proprio esserci. La scommessa, per dirla con una battuta, è se sarà in grado di "fare politica" restando movimento, senza cioè ripercorrere la china dell?istituzionalizzazione o quella della separatezza autocentrata. Che l?onda lunga di Seattle e Genova non rappresenti di per sé un antagonismo dispiegato contro il capitalismo in quanto tale, è cosa nota. Ma non è affatto indifferente, anzi è vitale, che dopo decenni sia tornata a farsi visibile, confusamente quanto si vuole, l?esigenza di un?alternativa di sistema di cui anche la battaglia quotidiana contro il capitale ha bisogno come dell?aria.


18/07/03 I compagni di Red Link





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