26/05/2004: E' uscito "tempi di guerra" N.2 - maggio 2004


NUMERO 2 - MAGGIO 2004, indice del numero

- Chi da un lager, chi dalla vita
- In fuga - Da Bologna
- Una lezione da cogliere
- Muri di cemento e muri di idee - Dalla Palestina
- Da Lecce...
- Dalla Milano male
- Dal questore? A quest'ora? In questura?
- Dall'Inghilterra...
- Mettersi d'Accor sui centri di detenzione...
- Cronache
- Contro le estradizioni
- Un appello
- Lager per migranti attualmente in funzione

Viviamo in tempi di guerra. Se in alcune parti del mondo lo urlano le bombe e gli eserciti, in altre lo sibila il terrore di non avere di che sopravvivere, di finire in carcere, di dover lasciare le proprie terre in cerca di migliori condizioni di vita, per poi essere sfruttati e derubati della propria esistenza allo stesso modo, ma altrove. Questo altrove è allora dovunque. Ma se siamo in grado di riconoscerne le cause e nominarne gli artefici, può cessare di essere un’odiosa e inevitabile realtà, per tramutarsi in mille possibilità di riscatto, aprendo prospettive di lotta e angoli d’attacco. Quelli di questo bollettino sono i lager per gli immigrati e il meccanismo delle espulsioni. Tenteremo di fornire più materiale possibile su tutto ciò che li fa esistere e funzionare - strutture e ingranaggi, gestori e collaborazionisti - senza mai perdere di vista il mondo che li ha generati.
Ma molto più che un prezioso elenco di informazioni per conoscere un meccanismo al fine di incepparlo, Tempi di guerra vuol diventare una corrispondenza fra chi non tollera che un individuo possa venir internato perché è senza un pezzo di carta o perché non accetta di diventare uno schiavo. Vuol diventare il luogo dove far emergere, dal silenzio in cui vengono volutamente costrette, le molte esperienze di rifiuto di questa realtà e metterle in rapporto, perché si stimolino, si confrontino e trovino nuovi modi di esprimere l’insofferenza che le accomuna. Per questo invitiamo tutti gli interessati ad inviarci cronache di lotte, volantini, considerazioni, notizie, informazioni, anche attraverso semplici ritagli di giornale, e quant’altro possa fornire nuovi spunti.
Il bollettino vivrà soprattutto delle lotte e delle storie che potrà raccontare. Queste dipendono da voi come da noi.

CHI DA UN LAGER, CHI DALLA VITA

Una bella notizia, di quelle che scaldano gli animi. Fra marzo ed aprile, in quattro diverse occasioni, qualche decina di immigrati riesce ad evadere dal lager bolognese di via Mattei. Contro un sistema infame che li vuole rinchiusi solo perché privi dei pezzi di carta giusti, contro tutte le anime pie antirazziste che vorrebbero dei lager più umani e colorati, ora sono liberi – in una società ostile e sfruttatrice, ma liberi. Il nostro cuore è con loro.
Anche altri prigionieri sono evasi, ma per sempre. Si tratta delle detenute morte durante un assalto ad una prigione irachena, a metà aprile. Quella che sembrava sulle prime un’azione incomprensibile quanto disperata, risulterà fin troppo chiara quando si verrà a sapere che le prigioniere di quel carcere venivano sistematicamente stuprate sia dalla polizia irachena che dai militari americani. Un loro disperato appello, circolato nei quartieri, invitava a porre fine, con qualsiasi mezzo, a quelle terribili violenze. Così è stato.
Le due facce della stessa realtà. Una lontana guerra di occupazione, fatta di bombardamenti, repressione e stupri. La guerra quotidiana dello sfruttamento, fatta di miseria, gabbie e razzismo di Stato.
Se avremo il coraggio di guardarla in faccia, questa realtà, non vedremo alcuna separazione fra una lotta contro le espulsioni e la più generale ostilità verso un ordine sociale assassino che sta facendo della guerra infinita la sua stessa condizione di sopravvivenza. Allora la guerriglia sociale irachena si affiancherà, nelle sue prospettive come nel suo attuale isolamento, alle rivolte in Occidente. Allora apparirà sempre più chiaro che chi non è con i fuggiaschi di Bologna è con i secondini dell’Iraq.

UNA LEZIONE DA COGLIERE

Il legame fra guerra, migrazioni ed espulsioni è evidente. Basta pensare che solo in seguito alla prima guerra del Golfo qualcosa come cinque milioni di profughi si sono riversati sul Mediterraneo. Allo stesso modo, stretto è il rapporto fra la lotta contro le espulsioni e le forme di resistenza contro i piani assassini di spartizione del mondo. Non stupirà dunque che in questo numero di Tempi di guerra ci sia una parte dedicata alla guerriglia in Iraq.
È urgente ricordare alcuni fatti per capire la situazione in Iraq al fine di dare un’altra prospettiva alle voci che chiedono il ritiro delle truppe italiane. Nel 1991, dopo una guerra scatenata dalla Coalizione occidentale che aveva provocato centinaia di migliaia di morti, in Iraq esplose un’insurrezione sociale contro la fame e contro il regime di Saddam Hussein. Migliaia di soldati iracheni abbandonarono l’uniforme, mantenendo però le armi per rivolgerle contro un sistema che li voleva soltanto carne da cannone. Contagiando ben presto l’insieme degli sfruttati, la sommossa si allargò a numerose città, dando vita a forme di autorganizzazione chiamate shoras (Consigli). Tutti gli Stati occidentali, temendo gli effetti di una tale sollevazione, armarono il regime affinché soffocasse nel sangue la rivolta generalizzata. Così fu. Le tanto sbandierate “armi di distruzione di massa”, i micidiali gas chimici vennero allora impiegati dall’esercito di Saddam Hussein con la complicità, nelle regioni a nord, dei partiti nazionalisti curdi. L’instabilità sociale sconsigliò agli Stati Uniti e ai loro tirapiedi o concorrenti di occupare direttamente il paese. Dopo più di dieci anni di embargo – il quale è costato la vita a un milione di iracheni – gli Stati Uniti hanno deciso, in nome della “guerra al terrorismo”, che il momento dell’occupazione era venuto. Ciò che la stampa asservita ha debitamente nascosto è che l’occupazione militare del 2003 non sarebbe mai stata così rapida se i proletari iracheni non avessero disertato in massa l’esercito, per nulla disposti a farsi ammazzare per interessi che non erano i loro. Ancora una volta, pensando bene di disertare con le armi, in attesa. Il resto è storia recente. Di fronte a condizioni di vita sempre più miserabili, appena crollato il regime, gli sfruttati saccheggiano tutti i luoghi che ricordano l’odiato potere e il suo partito. La repressione alleata è brutale, andando ad aggiungersi all’odio contro i “liberatori”, già responsabili, tra bombardamenti ed embargo, di un gigantesco massacro. Quello che nessun esercito poteva fare – e cioè mettere in difficoltà la più grande potenza militare del mondo – riesce ad una guerriglia sociale. Dagli attentati contro i convogli militari a quelli contro le ambasciate e i quartier generali, dagli attacchi contro la nuova polizia irachena ai sabotaggi ai danni di oleodotti e raffinerie, dai linciaggi dei marines agli scioperi di massa, oramai nessuno può bersi la menzogna di una popolazione che ama i “soldati portatori di pace”. Nessuno che abbia un minimo di lucidità può credere che una simile sollevazione possa essere opera unicamente di gruppi islamisti. Tanto per fare un esempio, durante i saccheggi il “comitato supremo della rivoluzione islamica” invitava, senza successo, a restituire i beni al governo… Certo, di fronte all’estremo isolamento in cui si trovano gli sfruttati iracheni, stretti fra la peste dei massacri democratici e il colera del racket integralista, le forze islamiste, strumento della classe proprietaria, accrescono il loro potere. E noi? La logica della guerra, con la sua violenza indiscriminata e dunque terrorista, espone le popolazioni dei governi guerrafondai a terribili rappresaglie (come le bombe di Madrid insegnano). Non si tratta più di uno spettacolo televisivo. C’è un solo modo per uscire da questa spirale di morte: dimostrare nella pratica che gli sfruttati occidentali non sono alleati dei propri padroni, bensì complici dei propri fratelli iracheni che i bombardamenti e la repressione non sono riusciti a domare. La situazione irachena dimostra che il capitalismo gronda sangue, ma che non è invincibile (come se ne partono in fretta e furia molte delle sue truppe!). Ecco una lezione da cogliere nella lotta contro i nemici di casa nostra. Lasciamo ai nazionalisti le lacrime di circostanza per la vita dei mercenari italiani al soldo dei capitalisti, lacrime mai versate per tutti i morti iracheni. Lasciamo agli ipocriti il pacifismo di facciata che invoca l’Onu, cioè uno dei principali responsabili del massacro iracheno. Lasciamo ai tardostalinisti il richiamo alle lotte di liberazione nazionale, da sempre menzogna dei padroni in ascesa e strumento di una nuova oppressione. Quella in corso a Baghdad, a Bassora, a Falluja o a Nassiriya ha forme diverse, ma un vecchio nome: lotta di classe.

alcuni internazionalisti

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