16/05/2005: Testo mostra del viaggio nei Territori Occupati palestinesi estate 2004



Jenin e il suo campo profughi sorgono nel nord dei Territori Occupati.
Questo campo profughi è stato teatro di una delle più sanguinose aggressioni dell’esercito israeliano durante l’operazione «Scudo di Difesa» attuata nell’aprile del 2002. Le forze dell’IDF(Israeli Defense Forces) sono state attrici di un vero e proprio massacro, cioè di un assassinio sistematico di civili, con una pallottola in testa o seppellendoli vivi sotto le macerie delle loro case.
I militari israeliani hanno assassinato palestinesi invalidi su una carrozzella, come Kamal Zghair; hanno lasciato entrare delle donne nelle loro case per prelevare un loro parente portatore di handicap e di ucciderle, demolendo la loro casa mentre erano ancora dentro – senza che riuscissero a portare fuori il proprio familiare - ; hanno lanciato granate in viso ai palestinesi, come è successo a Afaf Disusi, nel mentre gli apriva la porta minacciata dalle grida dei militari.
Nella immensa distesa di macerie che ricopriva il campo abbondantemente raso al suolo: «Tutti hanno perduto un congiunto» - testimoniano gli estratti della 25° missione CCIPPP(Campagne Civile International Pour la Protection du Peuple Palestinienne) - «ci vengono mostrati i bambini rimasti orfani, accolti nella casa degli zii o delle zie. C’è chi ha perso un fratello, una sorella, una madre, uno sposo; c’è chi ha avuto la casa distrutta; c’è chi ha un marito, un fratello o un figlio prigioniero, lontano, di cui non si ha notizia. Si sa solo dove sono i campi, nei pressi di Ramllah, o di Gaza, nel deserto».
La testimonianza di Moshe Nissim, chiamato «l’orsacchiotto curdo»(sic!) dai suoi commilitoni, che ha guidato per 72 ore di seguito l’enorme bulldozer D-9 della CaterPillar riporta l’animo con cui i militari israeliani hanno compiuto questa carneficina: «Difficile? Volete scherzare. Volevo radere al suolo tutto. Quando gli ufficiali mi davano l’ordine di distruggere una casa, io ne approfittavo per distruggerne varie altre…Credetemi, non se ne sono distrutte abbastanza. Per tre giorni ho raso al suolo, ho spianato tutto.[…] I soldati avvertivano con un altoparlante gli abitanti perché abbandonassero la sua casa prima che intervenissi. Ma io non ho lasciato a nessuno la possibilità di uscire. Non aspettavo…[…] I soldati sono venuti a trovarmi e mi hanno detto: “Grazie, curdo, grazie”.»

Le foto mostrano:

lo stato della attuale ricostruzione del campo profughi e fanno venire in mente, per chi ha visto le immagini della devastazione israeliana del 2002, un termine arabo:”Ibda”, ovvero costruire qualcosa dal nulla.

Mentre le altre mostrano i due cimiteri dei “martiri” (“Shaid”) dove sono sepolti, sia le vittime dell’aggressioni Israeliane, sia i combattenti palestinesi con le bandiere delle rispettive organizzazioni e le foto che li ritraggono durante l’addestramento.



Hebron si trova a sud dei territori occupati, ed ha una popolazione di circa 120.000 abitanti.
Attualmente vivono ad Hebron città 850 sionisti, mentre nella colonia di Kyriat Arba sono 6.500 su una popolazione araba complessiva di 120.000 abitanti.
In questa città si trovano la Moschea di Ibrahimi, secondo luogo di culto dopo “Al-Aqsa”: “la Cupola della Roccia”, tra tutti i santuari per i mussulmani e, parimenti, per gli ebrei, la grotta di Machpelah seconda soltanto al Muro del Pianto, a Gerusalemme.
A metà degli anni novanta, un colono ebreo, Baruch Goldstein, varcò la mattina presto le porte verdi della moschea e aprì il fuoco sui mussulmani inginocchiati in preghiera che gli volgevano la schiena, ferendone circa 300 e uccidendone 29: la stampa riportò la notizia come se l’azione fosse stata effettuata in maniera preventiva per impedire un attacco massiccio di “Hamas”.
Da allora l’accesso alla moschea è controllato dall’IDF che decidono in modo arbitrario gli orari di apertura e di chiusura…
Solo l’ondata migratoria sionista, proveniente dall’Europa dell’est, alla fine del XIX secolo incrinò i rapporti tra mussulmani ed ebrei, che dal tempo dell’espansione dell’islamismo nel VII secolo d.c. fino alla colonizzazione sionista non furono mai particolarmente conflittuali, praticando ognuno il suo culto.
La resistenza palestinese all’espansione sionista liquidò, in un solo giorno, nel ’29 parecchi coloni – circa una settantina su settecento, con una popolazione araba pari a 18.000 abitanti - e costrinse i rimanenti a lasciare la città, fuggendo a Gerusalemme. Un paio di anni dopo una trentina di famiglie di coloni si reinstallarono a Hebron, ma, nell’aprile del ’36, a causa dello scoppio della “Grande Rivolta” araba che durerà fino all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, furono evacuate dall’Autorità britannica che temeva un ripetersi degli avvenimenti del ’29. Da allora fino al ’67 non ci fu più in città alcuna prsenza ebraica.
Con la presa di Hebron da parte dei sionisti e la disfatta degli eserciti arabi nella guerra del ’67, riprende – come nel resto dei Territori Occupati – la colonizzazione di Hebron: questi si installarono prima sulle colline circostanti: “Mitnachalei Hevron”, poi a “Kyriat Arba”.
Nel ’79 M.Levinger, guidò un gruppo di donne e di bambini di Kyriat Arba ad impossessarsi illegalmente del vecchio e fatiscente ospedale ebraico di Beit Hadassah nel quartiere ebraico in rovina nel centro.
Il governo concesse prima il permesso di restare ai coloni che “resistettero” un anno e poi permise presto la colonizzazione del cuore della città a sionisti che hanno sempre provocatoriamente dichiarato di “voler cacciare gli arabi da Hebron”.
A fine anni ’90 questo gruppo di coloni era protetto da 2500 soldati, su una popolazione, in centro, di 12.000 palestinesi!
L’occupazione del centro cittadino ha comportato la chiusura della maggior parte dei bazar del vecchio suq e l’evacuazione di molti dei suoi abitanti, nonché il presidio permanente dell’esercito israeliano per la protezione dei coloni arroccati ai piani superiori degli edifici del centro, mentre le colline sovrastanti la città e in generale i punti strategici vedono la presenza esclusiva dei sionisti.
Con gli Accordi di Oslo è stato ratificato il fatto che circa il 20% di Hebron resta in mano agli israeliani!
È recente la notizia che a Hebron, all’inizio di settembre, due bulldozer hanno cominciato i lavori per la costruzione di un nuovo tratto del muro a sud-ovest di Hebron, al confine con Israele.


Le foto mostrano:

La parte iniziale delle abitazioni degli israeliani nel centro cittadino, nonché punti d’osservazione e postazioni militari;

il vecchio suq per la maggior parte chiuso;

la civiltà dei coloni sionisti che gettano i rifiuti sulle strade della città vecchia ormai desertificata, con i palestinesi che sono costretti a proteggersi con delle reti metalliche.

Inoltre le immagini mostrano la moschea - e la sinagoga (costruita successivamente accanto alla moschea) – in cui si entra solo passando attraverso le perquisizioni e il metal detector al check-point israeliano.

Il Minbar (pulpito) situato accanto al Mihrab (nichhia per la preghiera rivolta verso la mecca) – dove ancora si vedono i fori delle pallottole sparate da Goldstein – fu fatto suntuosamente scolpire e decorare da più di 10.000 lapislazzuli dal Saladino nel 1191.

Mentre la cartina mostra la situazione risalente al 2000, successiva agli “Accordi di Oslo”.

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Nel campo di Deheisheh situato vicino a Betlemme vivono circa 12.000 palestinesi. Come per molti altri campi il sovra-affollamento, la fornitura di energia elettrica e quella di acqua, insieme alla raccolta dei rifiuti e all’impianto fognario, sono tra i problemi – legati all’occupazione – che maggiormente incidono sulla qualità della vita degli abitanti.
L’elettricità viene erogata dai sionisti che hanno così la possibilità di provocare, a piacimento, black-out nel campo; l’acqua che viene rubata dagli Israeliani alle fonti palestinesi è poi rivenduta a chi ha subito questo furto, i quali la depositano in cisterne collocate sui tetti delle case; la raccolta dei rifiuti nel campo viene fatta in maniera piuttosto rudimentale da personale stipendiato dall’UNWRA che la raccoglie per poi depositatarla per giorni in giganteschi contenitori posti proprio all’ingresso del campo; l’impianto fognario non permette alle acque di defluire correttamente e nei giorni di pioggia si formano pozze e rivoli più meno grandi ai bordi delle strade.
I sempre più scarsi fondi dell’UNWRA(United Nations Relief and Works Agency for Palestine) rendono insufficienti le infrastrutture educative, ricreative e igenico-sanitarie per le fasce più “deboli” della popolazione come i bambini e le persone più anziane.
Una delle conquiste del Processo di Pace, che ha suddiviso la West Bank in circa 200 bantustan - termine mutuato dall’organizzazione territoriale vigente in Sud-Africa durante il regime dell’Apartheid – cioè in frammenti di territorio senza alcuna reale contiguità territoriale, è quella di essere situati, per gli abitanti di Deheisheh nella zona A.
Questo non gli permette in caso di chiusura dei Territori, di andare, per esempio, nella vicina Gerusalemme o ad Hebron, ma di potersi spostare solo nella contigua Betlemme: l’impossibilità di muoversi è uno dei fattori che hanno aggravato la situazione occupazionale.
Gli attivisti e più in generale gli abitanti del campo si trovano di fronte ad una serie di problemi di riproduzione sociale:
dal dare ai bambini la possibilità di avere un infanzia, una pubertà e una adolescenza degne di questo nome, attraverso le attività ricreative di gruppo e un’ istruzione che sia veramente tale e che gli permetta di poter scegliere quale contributo dare all’emancipazione del popolo palestinese e alla lotta contro l’occupazione;
assistere le persone rese invalide dalle aggressioni israeliane che non possono più lavorare e che sono scarsamente sufficienti, così come dare sostegno a quelle famiglie che hanno perso un proprio parente o che viene detenuto nelle carceri israeliane;
avere spazi comunitari di aggregazione e comunicazione che promuovano, tra l’altro, a più livelli la necessità del “Diritto al ritorno” come questione centrale e imprescindibile della lotta palestinese;
sviluppare progetti che facciano acquisire del reddito e promuovano l’emancipazione popolare nei confronti del ricatto occupazionale imposto dall’occupante;
l’assistenza sanitaria è anch’essa un problema cogente, parzialmente risolto dalla recente costruzione di un ospedale.
Per tutti questi problemi si cerca di sviluppare progetti specifici che li affrontino e li risolvano attraverso prioritariamente il lavoro degli attivisti del campo e il coinvolgimento della popolazione a cui si affianca il lavoro di volontari internazionali che danno in vario modo il loro contributo e il “peso” donazioni provenienti dall’estero. Gli attivisti vengono “formati” rispetto alle necessità imposte dalla situazione.
È così che sono nati centri come Ibdaa, con numerosi progetti – tra cui un ostello, un ristorante, una palestra, un internet point, una sartoria e svariati progetti per l’infanzia di natura educativa e ricreativa – o il Phoenix gestito dal Comitato di Resistenza Popolare che ha “occupato” il terreno su cui sorge e nonostante sia stato gravemente danneggiato più volte dalle incursioni israeliane ha inaugurato le sue attività: un giardino con un bar a prezzi popolari e dei giochi per bambini, le cucine collettive, una grande sala per le riunioni e in futuro una biblioteca e un centro femminile sono tra le attività sviluppate.
Il campo abitato da profughi del ’48 e del ’67 e dai loro figli e nipoti, deve ogni giorno confrontarsi con le incursioni israeliane e spesso con dei veri e propri assedi dell’esercito, come è avvenuto subito dopo lo scoppio della Seconda Intifada, o durante l’operazione «Scudo di Difesa» nell’Aprile 2002.
Queste operazioni non si limitano all’impossibilità di muoversi e a lunghi coprifuochi, ma consistono in arresti di massa, nelle pallottole dei cecchini sulla popolazione civile, negli omicidi mirati nei confronti degli elementi più attivi, come nella vera propria devastazione delle infrastrutture essenziali.

Le foto mostrano:

le cisterne poste sopra i tetti delle case,

il sistema di raccolta dei rifiuti

il risultato di una incursione israeliana effettuata nella notte tra il 12 e il 13 Luglio. Una Jeep entrata nel campo a tutta velocità si è diretta verso una casa, ha piazzato dell’esplosivo sui piloni portanti dell’edificio, ha intimato di uscire entro 5 minuti e ha fatto saltare l’abitazione allontanandosi velocemente col beneficio della notte: l’esplosione si è udita per tutta il campo…
La mattina siamo andati a visitare la famiglia che sedeva sulla strada di fronte alla sua casa, i bambini ci hanno fatto vedere i resti dell’edificio distrutto…
Con gli occhi pieni di lacrime, ci hanno ringraziato per il nostro sostegno e ci hanno pregato di riportare ciò che avevamo visto, l’ennesimo esempio del terrorismo israeliano.

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La colonizzazione della Striscia di Gaza e della West Bank inizia dopo la conquista israeliana dei Territori Occupati durante la guerra del 1967 e trova uno slancio fondamentale a metà degli anni ’70 per opera di coloni convinti della “missione storica” del popolo israeliano.
Come scrive uno dei pochi militanti anti-sionisti israeliani, Michel Warschawski: «In meno di una generazione, il messianismo nazionalista diventa una componente essenziale del nuovo discorso nazionale, incluso negli ambienti sionisti operai. Da destra a sinistra, si parla di sacro suolo, si evoca la promessa divina, si venerano i luoghi santi. Il movimento sionista e Israele non sono più una soluzione del problema ebraico, ma elementi della redenzione del popolo ebraico e della liberazione della Terra Santa».
Nel marzo 1974 Levinger (pioniere della nuova colonizzazione di Hebron e autore delle più incisive provocazioni “colonialiste”), insieme a un gruppo di ultraortodossi fuoriusciti dal Partito Nazionale Religioso (NRP), fondò Gush Emunim, traducibile come “Comunità dei Credenti” oppure “Blocco dei Fedeli”. Erano gli anni del primo governo Rabin (1974-77) e da quel momento tutto sarebbe cambiato.
La politica israeliana nei confronti dei Territori Occupati - sebbene non avesse corrisposto affatto all’immagine di “occupazione liberale” propagandata dal governo israeliano - non sarebbe più stata la stessa poiché, da quel momento, occorreva considerare l’esistenza di un gruppo nazionalista religioso capace di porre sotto pressione ogni esecutivo d’Israele.
La nascita di Gush Emunim ha significato il punto di svolta sulla questione degli insediamenti. Quel precedente ha influenzato ogni successiva controversia in materia.
La questione degli insediamenti assunse proporzioni più ampie a partire dal 1978. A quel tempo la situazione sarebbe stata ancora risolvibile con facilità, in quanto il numero di coloni residenti in tali aree era minimo.
Tra West Bank e Gaza vivevano non più di 5.000 israeliani, in appena 30 insediamenti, ma il numero degli insediamenti e dei coloni sarebbe costantemente e progressivamente aumentato nel tempo, anche nel periodo del cosiddetto “Processo di Pace” e anche successivamente all’approvazione della “Road Map”.
Tra i pionieri di questa nuova ondata di colonizzazione ci sono molti ebrei di origine americana prima, che hanno contribuito all’americanizzazione d’Israele e poi il milione di ebrei russi emigrati tra il 1989 e il 1995, che da soli costituiscono quasi 1/5 della popolazione israeliana.
Pochissimi insediamenti hanno autonomia economica, sono soprattutto centri residenziali per pendolari che, come negli USA, ogni mattina vanno al lavoro nei grandi centri urbani: le colonie non concorrono alla formazione del prodotto interno israeliano ma al suo debito.
I coloni sono estremamente sostenuti sotto il profilo economico. Essi beneficiano di aiuti finanziari sia internazionali sia interni a Israele stessa.
Le sovvenzioni degli ebrei della diaspora vanno a sommarsi ad altre fonti di finanziamento reperibili all’interno dello stato di Israele.
Le agevolazioni accordate per l’acquisto della casa e i benefici fiscali, particolarmente ampliati sotto l’esecutivo Sharon, sono già una prima grossa fonte di finanziamento.
Consistenti aiuti sono stati concessi sotto varie forme: benefici fiscali oltre misura, trattamento di favore per attività commerciali iniziate nei territori. Un colono che acquista un appartamento nei Territori Occupati può usufruire di un prestito con interesse del 2,5%, ben inferiore al tasso regolarmente praticato nel paese, che si attesta a 5,5%.
Ulteriore benefici sono concessi alle coppie appena sposate. Secondo quanto riportato dal quotidiano Ma’ariv nell’agosto 2003, riceverebbero una donazione di $ 2.700 e potranno usufruire dell’alloggio gratuito se si impegneranno a vivere per almeno quattro anni in tali insediamenti.
Queste misure eccezionali non sembrano giustificabili alla luce della pessima situazione economica che il paese sta attraversando. Secondo dati ufficiali, nel 2003 il paese ha visto crescere il suo livello di povertà, che interessa ormai quasi due milioni di persone, equivalenti al 30% della popolazione.
L’ultima legge finanziaria si presenta sulla falsariga dell’orientamento finora seguito poiché, seppure si intenda limitare i benefici sopra citati per prestiti e tassazioni speciali, è comunque previsto uno stanziamento notevole di incentivi per i coloni residenti nella valle del Giordano. Vi è stridente contrasto fra i tagli ai servizi imposti ai cittadini israeliani e le grandi agevolazioni accordate ai coloni.
Oltre a molti sponsor esterni, i coloni hanno anche il loro organo. Si tratta del Consiglio YESHA, una struttura di coordinamento che esercita la duplice funzione di parlamento regionale e gruppo di interesse.
Tale organismo fu fondata alla fine degli anni ’70, al fine di istituzionalizzare i principi proclamati da Gush Emunim. Da allora la popolazione YESHA (acronimo in ebraico di Giudea, Samaria e Gaza) è cresciuta in modo esponenziale, passando da 3.000 a 225.000 cittadini soggetti a tale autorità.
l’Unione Nazionale e il Partito Nazionale Religioso (NRP) sono i referenti politici dei coloni; l’Unione Nazionale ha per leader il ministro dei trasporti, Avigdor Lieberman, residente nell’insediamento di Nokdim, mentre l’altra forza politica vicina ai coloni, il NRP, è guidata dal ministro dell’edilizia, Effi Eitam.
Un congruo numero di deputati del Likud,18 su 40, condivide in pieno le idee di tali forze politiche riguardo alle colonie. Molto membri del partito di maggioranza si sono espressi pubblicamente a favore di un rafforzamento degli insediamenti in Gaza e West Bank.
Gli insediamenti, che sorgono sulla cima delle colline dei TO, hanno un ruolo strategico per ciò che concerne l’organizzazione dell’occupazione dal punto di vista del controllo militare e sono parte integrante delle trasformazioni che hanno investito l’esercito dal punto di vista della sua ristrutturazione interna e della sua capacità di condizionare la società tutta e gli sbocchi politici governativi.
Bisogna ricordare che Israele è una società castrense e che un cittadino soldato ndossa la divisa sette oppure otto settimane l’anno per fare da cane da guardia degli USA in Medio-Oriente.
Alla professionalizzazione dell’esercito, alla differenziazione al suo interno tra unità di combattimento e no e la valorizzazione del corpo degli ufficiali, ai numerosi investimenti tecnologici aereo-spaziali, si affianca la “colonizzazione” delle varie unità combattenti – i coloni “riservisti” possono tra l’altro decidere di svolgere il servizio militare annuale nelle proprie colonie - e la loro integrazione con i corpi para-militari dei coloni.
In “Giudea” e “Samaria” ci sono 230.000 coloni che abitano in 120 insediamenti. A Gaza 7.500 israeliani vivono in 20 insediamenti, in mezzo a 1,4 milioni di palestinesi. Entrambe le aree hanno conosciuto notevole sviluppo negli ultimi anni, favorite da una politica governativa che ha aiutato la proliferazione degli insediamenti.


Le foto mostrano:

il check-point di Nablus in cui, in quei giorni, viene impedito l’accesso alla città;

una postazione a Qualquilia all’ingresso di un villaggio;

una insediamento nella West Bank;

una insediamento ad Al-Quds visibile da fuori delle mura della città vecchia;

colonie tra Al-Quds e Betlemme

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Dopo non essere riusciti ad entrare a Nablus, a causa della chiusura imposta dall’esercito Israeliano, decidiamo di non ritornare a Ramallah, ma di andare a Qualquilia, una città che verrà totalmente circondata dal muro e che è stata teatro di numerose manifestazioni contro la costruzione di questa barriera di cemento armato.
Arrivati in città verso mezzogiorno incontriamo degli “internazionali” di una organizzazione pacifista belga che stanno facendo delle attività ricreative per un campo estivo di bambini palestinesi e partecipano ad alcune manifestazioni contro il muro.
Ci invitano a posare i nostri bagagli nelle stanze che hanno in affitto e a recarci con loro ad una manifestazione contro il muro che lo percorrerà per qualche centinaio di metri.
Decidiamo di andare con loro e di contattare più tardi le persone che avrebbero dovuto ospitarci, anche se queste ci attendevano per i giorni successivi.
Essendo venerdì la maggior parte dei negozi è chiusa e di gente ne gira ben poca.
All’appartamento ci sono altri attivisti per lo più belgi che sono tutti molto cordiali, uno – che ha la moglie genovese – parla molto bene l’italiano, con gli altri ci arrangiamo un po’ con il francese, un po’ con l’inglese.
Ci avvertono che avvicinandoci al muro, i militari avrebbero potuto “non gradire” la nostra presenza e accoglierci prima con i lacrimogeni e poi respingerci con delle cariche, questo anche perché, i bambini palestinesi potrebbero iniziare a lanciare i sassi contro l’IDF.
La manifestazione, che consiste in una passeggiata sotto il muro e in qualche slogan in Inglese inizia e finisce pacificamente e tranne qualche sporadica presenza autoctona, ci sono solo “internazionali” che gridano: «one, two, three, four…Occupation no more» e «Mossad, CIA…How many children will you kill today».
Alla fine della manifestazione un agricoltore racconta la sua esperienza di esproprio della terra, mentre, all’inizio ci viene spiegata come il muro desertificherà le coltivazioni in questa città, mettendo in ginocchio l’agricoltura che ne tiene in piedi l’economia e assicura lavoro e sussistenza ai suoi abitanti.
La nostra giornata continua poi con i compagni che ci ospitano, con loro visitiamo l’ospedale insieme al direttore che ci spiega l’intensa attività sanitaria legata alle conseguenze dell’occupazione: dai disturbi psichici dei bambini che vedono dispiegato il terrorismo sionista, al kit per il primo soccorso distribuito agli abitanti della città durante le incursioni israeliane, alla corretta assistenza sanitaria per le donne, ecc..
Riusciamo anche a visitare il media center, in cui ci viene mostrato un filmato sul muro, mentre alcune foto della devastazione operata dai Bulldozer ai campi e delle manifestazioni ci erano già state mostrate dal direttore dell’ospedale.
La sera discutiamo abbondantemente della situazione politica con una compagna dei comitati delle donne che ci aveva già elencato una serie di progetti che stavano portando avanti in città.
La discussione è serrata: dalle difficoltà di fare attività in una città egemonizzata dalle organizzazioni islamiche per un progetto che oltre alla lotta contro l’occupante porti avanti l’emancipazione femminile, alla differenza tra prima e seconda Intifada, dai rapporti tra uomo e donna nelle varie organizzazioni delle resistenza ai rapporti con le altre organizzazioni, la discussione finisce con un brindisi, aprendo una bottiglia di Vodka russa tirata fuori dal suo compagno.
Grazie ai compagni incontriamo un ragazzo palestinese che lavora con l’International Solidarity Movement e ci invita a partecipare, la mattinata successiva, ad una manifestazione contro l’installazione di una postazione militare in un villaggio vicino a Qualquilia.
Già prima della manifestazione i ragazzi del villaggio lanciano pietre in direzione dei soldati israeliani, mentre ad una cinquantina di metri, varie autorità intrattengono, all’ombra degli ulivi, l’audience composta da abitanti del villaggio e molti internazionali con lunghi comizi appassionati.
Tutto questo finché non si parte verso il check-point in direzione del quale gli chebab tiravano pietre e ci si ferma al limite di una specie di blocco rialzato – poco dopo l’entrata del villaggio - che è il punto massimo oltre al quale l’IDF ha l’ordine di disperderci.
La manifestazione quindi finisce, ma sull’arteria principale di traffico posta proprio sotto il villaggio passano delle Jeep di militari a cui i ragazzi e le ragazze non rinunciano a tirare pietre: le jeep rallentano e qualcuno riprende i volti dei ragazzi, mentre vengono lanciati alcuni lacrimogeni e noi rientriamo compostamente in direzione di una casa dove verrà consumato il pranzo.
Tutto sembra tornato tranquillo, tranne i militari che rimangono a presidiare l’ingresso del villaggio; alcuni internazionali, stipandosi all’inverosimile, riempiono l’ambulanza di Medical Relief e si allontanano così dal villaggio che è di fatto bloccato; poco dopo alcuni militari avanzano dal fondo sulla strada principale del villaggio composta tra si e no da una ventina di case, inizia il rastrellamento dei ragazzi e i militari sono ormai un po’ ovunque, anche se li vedremo solo poi…
Un folto gruppo di internazionali dell’ISM e noi, “armati” di macchine fotografiche digitali e telecamere, segue un militare che ha preso un ragazzo e se lo sta portando via verso l’entrata del villaggio; rimaniamo compatti di fronte ai militari che caricano i lancia-lacrimogeni, mentre il sindaco del villaggio ed altri discutono animosamente con i militari finché la madre strappa il proprio figlio dalle loro grinfie e coprendola torniamo indietro aspettando la reazione dell’IDF.
Intanto, alcuni, sapendo dai bambini che i soldati stanno continuando gli arresti, vanno a monitorare la situazione, nel mentre ci accorgiamo di essere assediati…
Ci comunicano che l’esercito vuole arrestare tutti i ragazzi - di cui ha le foto – che hanno lanciato pietre e che intima agli internazionali di lasciare il villaggio, e che ha intenzione di arrestare tutti quelli che restano: all’unanimità decidiamo di rimanere, mentre un ragazzo messicano che era stato arrestato qualche giorno prima nel tentativo di portare acqua a Nablus assediata deve nascondersi: per tutti noi e in special modo per lui c’è il pericolo di arresto, espulsione e foglio di via da Israele.
Per i palestinesi invece il pericolo delle angherie quotidiane di un esercito che sequestra bambini minorenni per il lancio di qualche pietra, il pericolo di un’incursione notturna che distrugga le case dei “piccoli terroristi” che non è riuscito ad arrestare, il maltrattamento della popolazione del villaggio svegliato in piena notte e magari qualche incidente causato nell’azione di un esercito occupante che ti da ordini puntandoti disinvoltamente gli M-16…
Pensando alla giovialità dei bambini con cui giochiamo per tutto il pomeriggio, senza avere un idioma in comune, capiamo completamente il senso delle parole di M. Darwish quando in “Carta d’Identità” dice: « non odio la gente / né aggredisco alcuno, / ma se divento affamato / la carne dell’ usurpatore sarà il mio cibo».
Il gesto di un bambino che ancora non parla e che non ha forza a sufficienza per tirare un sasso contro l’esercito e lo fa rotolare in direzione dei militari ci fa sorridere.
Decidiamo di fare delle squadre che a turno faranno delle ronde per monitorare la situazione, altri dormiranno nelle case delle famiglie dei due bambini che sono riusciti a sottrarsi all’arresto – mentre altri sono detenuti non sappiamo dove – e che rimarremmo comunque tutti vigili, anche se i militari non si vedono più.
Ma la notte trascorre senza problemi e ci accampiamo un po’ come capita finito il turno di ronda, dopo avere vegliato un po’ attorno al fuoco acceso con un palestinese che suona il flauto e un altro che ci recita sopra.
Alla mattina veniamo a sapere che i ragazzi sono stati rilasciati quasi tutti e coloro che non sono ancora liberi verranno rilasciati presto, un poco alla volta ce ne andiamo dal villaggio salutando chi ci ha dato ospitalità.


Le foto mostrano:

Il lancio di pietre in direzione delle jeep che passano nell’arteria principale di fronte al villaggio;

un ragazzo catturato dall’esercito;

militari che presidiano l’ingresso del villaggio;

alcuni chebab che “aspettano” l’esercito che sta per entrare nel villaggio

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Arraba, paese natale di Abu Ali Mustafa, segretario del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina dopo George Habash e assassinato il 27 agosto 2001 dopo appena un anno dalla sua elezione, è un villaggio situato sulle colline vicino a Jenin.
Spostandoci da Jenin verso Arrabi abbiamo potuto nuovamente saggiare la cortesia dei militari Israeliani che hanno intimato di fermarci, puntando l’M-16 in direzione del Taxi collettivo su cui eravamo per aspettare che una macchina per la movimentazione della terra finisse di costruire con dei voluminosi blocchi di cemento una specie di S sul percorso stradale per rallentare il traffico in prossimità di una caserma Israeliana, posta sul percorso obbligato e accidentato per entrare ed uscire da Jenin.
L’antico centro cittadino che si vede nelle foto è servito più volte come roccaforte della resistenza all’occupazione e nei progetti dei compagni dovrebbe essere ristrutturato per ospitare un “centro” che porterebbe il nome di questo martire della lotta palestinese.
Il paesaggio che si può ammirare dal punto più alto di questo edificio, posto vicino al minareto della moschea è davvero suggestivo, e la musica festante del villaggio in cui gli studenti dell’ultimo anno delle scuole superiori festeggiano la fine degli esami, non fanno che accrescere il clima di convivialità che si instaura subito con chi ci ospita.
Uno dei nostri “accompagnatori” lavora a Gerusallemme in una struttura che si occupa dei disagi psichici causati dall’occupazione, un'altra compagna è un insegnante di musica presso un centro femminile gestito dalle compagne a Jenin - centro che è stato costruito grazie ai fondi raccolti da un nostro compagno di viaggio – mentre suo fratello studia Information Technology ad Amman.
Ci portano a vedere Il centro giovanile del del “Fronte” è stato gravemente danneggiato durante una delle ultime incursioni Israeliane rendendolo inutilizzabile.
Pochi giorni prima del nostro soggiorno l’esercito aveva circondato l’edificio vicino alle case della famiglia che ci ospitava e fatto prigionieri due ragazzi accusati di essere esponenti della resistenza.


Le foto mostrano il vecchio centro disabitato del villaggio e il minareto che gli sorge accanto.

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Al-Quds al-Sharif, nome arabo di Gerusalemme, o Yerushalaim in ebraico, termine che deriva dall’aramaico e che significa «città della pace», oppure Urshalim, nome della città usato dalle chiese cristiane di rito orientale che utilizzano l’arabo nella loro lingua, è uno degli epicentri del conflitto arabo-israeliano.
Questo da quando, poco dopo la sua elevazione al rango di unità amministrativa autonoma, dipendente direttamente da Istambul nel 1874, è iniziata l’emigrazione sionista in Palestina.
Al-Quds al-Sharif è stata il centro, nel tardo impero ottomano, della nascita della moderna identità nazionale palestinese e culla del nazionalismo stesso, sorto, all’interno dell’elités non solo in contrapposizione alle potenze imperialiste nascenti e al sorgente movimento sionista, ma come rielaborazione in chiave riformista di una storia millenaria.
La valorizzazione di una specifica connotazione religiosa tra le varie stratificazioni archeologiche e la “relativizzazione” o vera e propria cancellazione delle altre, così come la battaglia per la denominazione dei luoghi - che è una “guerra dei segni” prodotta dal conflitto arabo-sionista – caratterizzano l’esperienza contemporanea di Gerusalemme.
La politica degli insediamenti perseguita negli ultimi decenni ha portato infatti a Gerusalemme oltre 200.000 ebrei residenti in undici colonie.
Nel 1967, l’annessione di Gerusalemme est ha aggiunto settanta kilometri quadrati allo stato d’Israele; altri cinquantaquattro furono sottratti alla Cisgiordania e aggiunti all’area metropolitana.
Così la descrive un ebreo anti-sionista: «Nel 1967, Gerusalemme ovest non è propriamente una città, quanto piuttosto un insieme di quartieri disparati, divisi da immensi spazi vuoti e da terreni indefiniti. Ciascun quartiere ha la sua popolazione specifica: Knesset Israel è una borgata dell’europa orientale; Rehavia, con le sue aiuole fiorite, i suoi giardini ben curati e la sua macelleria non kasher dove si può acquistare prosciutto, è una piccola Amburgo, in cui si sente parlare più il tedesco che l’ebraico; Guivat Mordekhai è un villaggio di giovani coppie osservanti, che vivono in case modeste dai tetti di tegole rosse e circondate da orti. A Mahanè Yehuda, i Pinto, i Gabai e gli Eliashar (i cosìdetti “sefarditi originari”, vera e prorpria aristocrazia locale prima del monopolio sionista della comunità ebraica) parlano ancora il ladino, nei caffè dove si gioca a tric-trac bevendo l’arak al suono delle canzoni di Farid el-Atrashe.».
Dal ’67 in poi, comunque, Gerusalemme Est è stata sottoposta ad una sistematica opera di “giudaizzazione”, ha visto ampliarsi a dismisura i suoi confini e costruire condomini giganteschi, nuove strade e vie private tanto da diventare sostanzialmente e obbiettivamente una città in cui è rimasto poco da restituire, nonché, per la popolazione araba della città, perseguitata e ormai ridotta al minimo, ormai inabitabile.
A metà degli anni ‘70 A Gerusalemme Est i coloni erano 50.000. In seguito agli accordi di Camp David, con l’egitto, del 1978, Begin si accordò con l’amministrazione Carter per una moratoria, durata tre mesi, delle costruzioni in territori occupati. La sospensione venne però interpretata nel senso di un diritto, tacitamente espresso, di poter estendere gli insediamenti già esistenti. L’ampliamento delle colonie già esistenti diverrà una prassi per ogni governo israeliano.
Infatti, quasi tutti i governi degli ultimi 25 anni si sono mostrati decisamente contrari a ogni concessione su Gerusalemme: le trasformazioni urbanistiche sono andate di pari passo con i mutamenti della composizione demografica.
La città vecchia è percorsa in continuazione da coloni armati e da rabbini scortati, mentre i militari Israeliani controllano l’accesso ad Al-Aqsa, consentendone o negandone arbitrariamente l’accesso, e pattugliano il centro fermando in continuo i cittadini arabi, mentre l’accesso al Muro del Pianto e al quartiere ebraico, sebbene ultra-sorvegliato, è di libero.
Molte delle abitazioni sono state acquistate dagli stessi Israeliani che vivono solitamente nelle parti superiori degli edifici dietro il filo spinato ed ostentano i simboli ebraici e la bandiera Israeliana.


Le foto mostrano:

il suq dentro la città vecchia

una delle entrate che portano ad Al-Aqsa

uno squarcio della “Cupola nella Roccia”

una scalinata della città vecchia e altri luoghi dentro il centro della città

ebrei che si aggirano nella notte della città vecchia

cartina degli insediamenti ad Al-Quds

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Il Muqata, 12mila metri quadrati, 350 stanze, fu costruito negli anni Trenta dalla Gran Bretagna che allora esercitava un mandato sulla Palestina. Dal 1948 la grande caserma di cemento passò sotto il controllo della Giordania e, dal 1967, sotto quello di Israele che ne fece una delle principali prigioni in Cisgiordania. Nel 1997 il Muqata era passato all'Anp e ospitava i servizi di sicurezza e la guardia presidenziale "Forza 17".
Più volte circondato dai carri-armati israeliani, parzialmente distrutto da ingenti quantità di esplosivo usati dall’IDF, devastato dai Bulldozer e soggetto ai bombardamenti dell’aviazione è da tempo il luogo in cui Yasser Arafat - Abu Ammar è costretto a vivere.
Ciclicamente l’eliminazione dello storico leader palestinese è lo spauracchio agitato da Ariel Sharon che l’ha tenuto sotto assedio per mesi e mesi tra l’inverno del 2001 e la primavera del 2002 e poi durante la “seconda operazione Muqata” nel settembre dello stesso anno.
Recentemente, l’ipotesi di “trasferimento”/espulsione è stata di nuovo agitata dal governo di Tel Aviv.

Le foto mostrano i resti dell’edificio presidenziale e le macchine dell’ANP distrutte all’interno del perimetro della Muqata.

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Il «muro di sicurezza» che il governo israeliano costruisce attorno alla Cisgiordania e a Gerusalemme modificherà radicalmente il paesaggio sia geografico che politico in “Medioriente”. Innalzando una chiusura tre volte più alta e due volte più larga del muro di Berlino. Israele procede all'annessione unilaterale di una parte considerevole della Cisgiordania e rafforza gli sbarramenti militari attorno alle città palestinesi, imprigionandovi così gli abitanti. Un primo muro era stato costruito attorno a Gaza già ai tempi della prima Intifada (1987-1993), allorché lo stato ebraico circondò quella striscia di terra con una barriera elettrificata ermeticamente chiusa. Ciò gli permise di conservare la sua autorità sulle sedici colonie ebraiche e di controllare i movimenti dei palestinesi. Attualmente, Israele mantiene sotto il suo controllo il 20% di Gaza, costringendo i suoi 1.2 milioni di abitanti a vivere nei tre cantoni separati in uno spazio che è appena il doppio rispetto a quello di Washington DC. I palestinesi della Cisgiordania subiranno lo stesso destino di quelli di Gaza. La prima tappa consiste nel separare Israele dalla maggior parte del nord della Cisgiordania. La chiusura segue le frontiere del 1967, pur con l'annessione di numerose colonie; chiude in una stretta numerosi territori chiave palestinesi, e ne spazza numerosi altri. Alcune zone palestinesi come il villaggio di Qaffin si vedono sottrarre il 60% dei loro terreni agricoli, mentre altre, come la città di Qalqilya, non solo vengono privati delle loro terre, ma vengono separate sia dalla Cisgiordania che da Israele. Questa parte del muro costa al governo israeliano oltre un milione di dollari a chilometro, ed è fortificata da pareti di cemento armato di otto metri, da torri di controllo ogni 300 metri, da trincee profonde due metri, da recinzioni di filo spinato e strade di aggiramento. La prima parte di questo muro «del nord» si estende su 95 chilometri, da Salem a Kafr Kassen, e porterà ad una annessione dei fatto dell'1,6% della Cisgiordania, includendo 11 colonie israeliane e 10.000 abitanti palestinesi. Lo stato ebraico ha il progetto di incorporare questa zona in Israele in modo che, quando riprenderanno i negoziati sullo status finale, un ritorno al passato costerebbe talmente caro dal punto di vista politico, che questa annessione sarà considerata irreversibile. Ci si trova quindi di fronte ad una strategia mirante a modificare la linea verde.La costruzione del muro attorno a Gerusalemme est è ancora più devastante per le aspirazioni ad uno stato palestinese: mentre al nord il muro non si spinge mai più di otto chilometri all'interno delle terre, a Gerusalemme penetra molto più in profondità.
L’annessione della Grande Gerusalemme nello stato ebraico pone numerosi e gravi problemi, perché porta ad incorporare un gran numero di palestinesi, sottolineando una volta di più le contraddizioni esistenti tra gli imperativi demografici e quelli della sicurezza. Per risolvere tale problema, Israele tenta di costruire due muri intorno a Gerusalemme: il primo costituisce una separazione interna, costruita essenzialmente attorno alle frontiere municipali definite da Israele; Il secondo è di fatto una separazione esterna, attorno a blocchi di colonie. A differenza delle fortezze medioevali, questi muri di Gerusalemme saranno costituiti da una barriera elettrificata, una strada di aggiramento e, in alcuni luoghi, da trincee, pareti di cemento armato e apparecchi rilevatori di movimento.
Una volta completato il muro, dal nord della Cisgiordania a Gerusalemme, lo stato ebraico si sarà annesso il 7% del West Bank, tra cui 39 colonie israeliane e circa 290.000 palestinesi, 70.000 dei quali non hanno ufficialmente diritto di residenza in Israele e pertanto non hanno diritto di viaggiare o di beneficiare dei servizi sociali israeliani. Questi 70.000 palestinesi vivono in una situazione di estrema vulnerabilità e probabilmente saranno costretti a emigrare. Se il muro verso sud si spingerà fino a Hebron, si ritiene che Israele si sarà annessa un altro 3% della Cisgiordania.

Le foto mostrano:
la distesa delle parti di cemento armato che affianca la strada che da Al-Quds(Gerusalemme) porta al check-point di Kalandi a cui si accede a Rammalah
la parte di muro che si vede arrivando da Al-Quods per andare a Rammalah;
il muro a Qualquilia durante una manifestazione, tra cui alcune apparecchiature di video-sorveglianza e la torre di guardia

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Gli Asili sono uno dei progetti sviluppati dai Comitati delle Donne del FPLP in differenti città, villaggi e campi profughi.
Questi prendono tutti il nome dallo scrittore Ghassan Kanafani, militante del “Fronte” ucciso dai sionisti in Libano nel 1972.
Gli asili, sia i “nido” che le “materne”, non possano essere paragonati né con i nostri asili pubblici statali, né con quelli privati. La loro esistenza è dovuta all’attività dei Comitati, alle “quote” popolari versate dalle famiglie che ne usufruiscono e dal reperimento di fondi provenienti dall’estero o da associazioni assistenziali vere e proprie.
Il loro sviluppo coniuga l’esigenza di soddisfare i bisogni di riproduzione sociale in un contesto di quasi totale assenza di strutture adeguate con la strategia di radicamento del FPLP, contribuendo allo sviluppo dell’infanzia secondo principi educativi laici e “progressisti”.
La cronica assenza di fondi ha conseguenze dirette sulla natura di questi progetti, non permettendo a chi ci lavora all’interno di avere uno stipendio adeguato, rendendo carente il materiale didattico a disposizione, facendo mancare farmaci e rendendo difficile servire pasti adeguati ai bambini.
Nonostante queste difficoltà, oltre a quelle già più volte menzionate causate dall’occupazione, questi progetti permettono ai bambini di avere luoghi educativi con standard igienico-sanitari adeguati, alternativi alla strada, dove potere cominciare a sviluppare una socialità e una autonomia in un ambiente esterno alla famiglia.
Questa attività che caratterizza gli “asili nido” prosegue con un pre-inserimento in un percorso educativo vero e proprio con le “materne”, che offre strumenti d’apprendimento.
Abbiamo potuto visitare un asilo a Deheisheh e a Ramallah e visitato un centro per donne a Jenin.
Questo centro sviluppava corsi ginnici con strutture adeguate per le donne, corsi informatici ed educazione musicale per bambini.
Abbiamo parlato con una compagna di Qualquilia dei progetti per l’infanzia che portano avanti, tra cui un progetto per i bambini di quelle famiglie colpite dalla repressione israeliana.


Le foto mostrano gli asili di Deheisheh e di Rammllah



ckimil@tin.it

http://www.autprol.org/