18/07/2007: Cronaca sgombero campo rom di via Barzaghi - Milano


Il 21-22 giugno ha avuto luogo, nella baraccopoli di via Barzaghi-Triboniano a Milano, l’ennesimo sgombero ai danni della comunità rom-rumena, da quasi dieci anni al centro delle cronache cittadine (e non solo).
Una situazione, quella di Barzaghi-Triboniano, che, pur collocandosi nel quadro di una guerra senza fine e senza confini verso i rom che caratterizza ormai tutte le aree metropolitane italiane, e l'operato di giunte di ogni colore (sempre più nero), non è così “facilmente” gestibile. Da una parte l’ingresso nella comunità europea della Romania ha reso impossibile l’utilizzo della deportazione di massa come sbocco principale delle operazioni di sgombero. Dall’altra il numero degli abitanti dell’immensa baraccopoli, (si supera abbondantemente il migliaio di persone), e i complessi legami parentali interni, costituiscono una matassa difficile da sbrogliare per coloro che intendono semplicemente portare a compimento operazione di selezione e sfoltimento.
E così anche questa operazione, largamente preannunciata e costruita in oltre 9 mesi di preparativi (censimenti divisionisti, operazioni di allestimento di nuove aree “attrezzate”, definizione di criteri di gestione, individuazione di soggetti politici adibiti al controllo, ecc) ha finito, come già in altre occasioni, per far esplodere il conflitto. In questo caso sono state le 60 famiglie destinate ad abbandonare l’area (per lo più lavoratori, residenti nell’area e con figli regolarmente iscritti a scuola da molti anni) a scatenare la bagarre dopo la distruzione delle loro abitazioni. Dimostrando che gli insegnamenti più utili dell'esperienza di via Adda non sono andati perduti.
Prima hanno tentato di occupare l’area destinata alle famiglie più “fortunate”, poi barricandosi in una struttura adiacente (quella contornata di filo spinato, che fu allestita per i regolari sfuggiti alla deportazione dopo lo sgombero di via Adda nel 2004) hanno fronteggiato per diverse ore vigili, carabinieri e poliziotti al fine di non farsi allontanare e di rivendicare una soluzione abitativa per tutti. I rom sono riusciti a resistere ai tentativi di carica e, pur non essendo riusciti a ottenere una soluzione abitativa degna di questo nome, hanno comunque respinto i piani repressivi e sono rimasti nell’area, continua spina nel fianco dei piani istituzionali attuali.
Dopo il sostanziale fallimento dell’obiettivo di ridurre il numero delle presenze, la palla é rimbalzata nuovamente alle istituzioni che dovranno conciliare l’ipotesi della tolleranza zero con l’utopia dell’integrazione dei rom alle logiche produttivistiche della società attuale. Una volta di più consapevoli di non poter fare i conti senza l’oste.
Oltre alla capacità di resistenza dimostrata dai rom, l’altro elemento politicamente significativo che è emerso riguarda il rifiuto di farsi rappresentare da Don Colmegna nelle trattative con le istituzioni
La figura di Don Colmegna, direttore della Casa della Carità (frutto di una scissione interna alla Caritas e sostenitrice della coalizione di centro-sinistra in città) è centrale nella definizione delle nuove politiche milanesi rispetto alla questione rom.
Il pezzo forte di questa politica è il cosiddetto “Patto per la legalità e la sicurezza”, un accordo bipartisan che ha messo insieme la Moratti e Penati, e che ha definito l’obiettivo del numero chiuso per i rom e nella prospettiva di un improbabile integrazione coatta della comunità stessa. Anche la destinazione degli stanziamenti (in totale circa 3 milioni di euro) mostra chiaramente il contenuto della strategia messa in campo: per due terzi destinati alle forze dell’ordine e operazioni di carattere militare, per il resto destinati alle casse di chi riuscirà a farsi garante del controllo diretto sulla comunità.
Il patto per la legalità ha avuto anche ricadute interne alla comunità. E’ stato lo stesso Don Colmegna, nei mesi scorsi, a promuovere uno statuto, sottoposto alla firma di ogni singola famiglia rom, come condizione necessaria per avere accesso alle strutture destinate a sostituire la vecchia baraccopoli, in cui vengono enunciate una serie di obblighi e restrizioni per le famiglie rom.
Alcuni esempi per capire: l’ingresso nelle strutture è quotidianamente sottoposto al controllo degli organi di polizia, è vietato ospitare persone esterne, parenti di primo grado compresi, senza autorizzazione scritta, l’allontanamento per più di un mese dalla propria dimora comporta la perdita del posto, così come il non rispetto del silenzio notturno e del divieto di fare elemosina. Misure che, nel loro insieme, definiscono chiaramente il carattere coercitivo del patto e l’esigenza di controllo assoluto sulla sub-società zingara. Chi, tra i rom, ha osato nei mesi scorsi contrapporsi al diktat ha potuto assaggiare la vera natura del “buonismo” della Casa della Carità: espulsi dal campo di Parco Lambro, dichiarati cittadini indesiderati dalla Prefettura e infine accompagnati in maniera coatta in Romania, dove verranno “assistiti” da strutture sotto il controllo di... Don Colmegna. Ecco il vero senso dell’abbattimento delle frontiere con la Romania.
La battaglia va quindi ben oltre l'incerto destino di 60 famiglie. E’ in gioco un’ipotesi politica che, mentre sbandiera demagogicamente la necessità di comprensione e solidarietà, cerca di ribadire la supremazia della “civiltà” occidentale, della sua politica, delle sue verità intoccabili, del suo intimo e profondo razzismo. Un’ipotesi che cozza in maniera inconciliabile con la possibilità che la sorte di un intero popolo, da sempre vittima di discriminazioni e persecuzioni etniche, possa congiungersi con quella di milioni di proletari a partire dalla rivendicazione degli stessi diritti fondamentali, a cominciare da quello ad un’abitazione degna e sicura

Via Adda non si cancella

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