08/09/2007: I COSTI DELLA POLITICA E QUELLI DEL CAPITALE


Da alcuni mesi sta montando una campagna alimentata dai principali mass media avente come obiettivo il discredito dell’attuale sistema politico. Alla denuncia di singoli episodi di corruzione si associano quelli relativi agli alti costi della politica, allo sperpero di denaro pubblico per garantire privilegi inauditi a parlamentari ed ad altre figure istituzionali. Una classe politica che attraverso tali scandalosi privilegi sarebbe corresponsabile delle difficoltà economiche del paese e che a sua volta irresponsabilmente prende decisioni antisociali ai danni del resto della popolazione che si suda tutti i giorni il proprio reddito.
Tale campagna passa per la denuncia della perversione generalizzata del ceto parlamentare che ipocritamente legifera in un maniera bacchettona e austera, ma poi vive una vita privata seguendo ben altri canoni: dalla convivenza di fatto all’uso generalizzato della droga e persino alla cresta fatta sugli stipendi dei propri collaboratori assunti come precari e pagati quattro soldi, allunga l’età per la pensione diminuendone gli importi, mentre loro con due legislature possono godere pensioni da nababbi. Se ciò non bastasse si ricorre alle interviste sul campo per evidenziare la paurosa ignoranza degli stessi parlamentari che interpellati su argomenti all’ordine del giorno dell’agenda parlamentare rispondono come ebeti analfabeti. Non mancano nemmeno i colpi di scena ad effetto che colgono in flagrante il parlamentare di turno mentre partecipa ad un orgia con prostitute di alto bordo condita da cocaina a volontà.
Tra i lavoratori salariati, e non solo tra di essi, cresce così una rabbia sorda verso l’attuale sistema e ceto politico, proporzionale alla condizione d’impotenza percepita dal sentirsi continuamente tartassati e vessati proprio da quelle leggi approvate dal parlamento senza avere strumenti per contrastarne le conseguenze.
All’orizzonte si delineano già prime iniziative o proposte organizzative per consentire a tale malcontento di esprimersi. Dal vaffanculo Day lanciato da Beppe Grillo, all’associazione che si propone di moralizzare la politica tra i cui principali protagonisti vi è il giornalista Gian Antonio Stella; altro fustigatore degli sprechi della politica, della sua inefficienza e del clientelismo affaristico che caratterizza le istituzioni tanto al centro quanto alla periferia.
Si prospetta così una classica reazione della apparentemente tanto misteriosa “società civile” chiamata in causa per, finalmente, far sentire la propria voce contro gli intollerabili soprusi cui è fatta quotidianamente oggetto da parte di quel ceto politico così distante e sordo ai bisogni della gente comune.
Questo caso da manuale infatti ben si presta ad evidenziare cosa si nasconda dietro tale categoria continuamente evocata ed invocata da tanti, e diversi tra di loro, riformatori della politica che però hanno in comune un giudizio negativo quando non di esplicita condanna della “antiquata” lotta di classe. Quello a cui si allude evocando l’azione della società civile è proprio una iniziativa capace di coinvolgere, nella figura astrattizzata del cittadino comune, tutti quei soggetti ed organismi che genericamente non sono diretta espressione della politica istituzionale anche se esprimono poteri ed interessi politici ed economici ben diversi tra di loro.
Già il fatto che a farsi promotori di tale campagna siano i principali mass media espressione dei grandi gruppi editoriali, nei cui consigli di amministrazione siede il fior fiore della finanza italiana, dovrebbe destare qualche sospetto. Né dovrebbe sfuggire la partecipazione in prima linea del Partito Radicale espressione più estremista del liberismo, anche se è tra i principali beneficiari delle sinecure del finanziamento pubblico ai partiti. Se si aggiunge che ad essa collaborano a piene mani le principali testate televisive e radiofoniche, tanto pubbliche che private, allora dovrebbero suonare dei veri campanelli d’allarme per cercare di capire quali interessi stanno dietro tale campagna e quali obiettivi si prefigge di raggiungere.
Naturalmente gli episodi ed i fenomeni denunciati dalla campagna in corso non solo sono veri, ma sicuramente mettono in mostra solo una piccola parte dei fenomeni di corruzione, di privilegi e di affarismo di cui sono protagonisti numerosi parlamentari e parti significative delle forze politiche istituzionali. Eppure si può dire che questa situazione dura da sempre, tanto è vero che a seguito degli scandali che diedero vita alla vicenda di Mani Pulite (da cui pur bisognerebbe aver imparato qualcosa rispetto a questi impeti di moralizzazione della politica), una delle misure chiave decise fu proprio quella di aumentare il finanziamento pubblico dei partiti e delle prebende parlamentari allo scopo, si disse, di contrastare i fenomeni di corruzione e di concussione.
Come mai allora oggi sono portati così clamorosamente al centro dell’attenzione pubblica?

I veri obiettivi della campagna in corso...
Può sembrare paradossale come una simile campagna che dovrebbe essere appannaggio della sinistra radicale antistituzionale, venga portata avanti da settori riconducibili agli interessi del grande capitale, ma se si guarda con maggiore attenzione ai risultati cui ci si prefigge di arrivare la cosa diventa meno sorprendente.
Per sintetizzare diremo che gli obiettivi reali di chi muove le fila di questa ben orchestrata campagna sono molteplici e giocati su diversi piani. Innanzitutto vi è il tentativo di creare un consenso di massa verso una nuova possibile svolta istituzionale di ulteriore blindatura, ed in generale produrre una centralizzazione dei poteri decisionali e persino legislativi, tali da rendere definitivamente il parlamento un luogo di pura rappresentazione della politica. In subordine si punta comunque ad un ridimensionamento ulteriore delle possibilità del parlamento e dei singoli parlamentari di avere margini di autonomia.
Parallelamente si cerca di orientare il crescente e diffuso malcontento, conseguente al prevalere incontrastato in questa fase delle esigenze del grande capitale, verso un obiettivo tutto sommato secondario, sviando tale rabbia dai principali responsabili di tale situazione. Anzi si punta a rafforzare una tendenza ancora più interclassista, che veda insieme i “produttori”, i “cittadini”, sia pure nei loro diversi ruoli, contro gli approfittatori e privilegiati parlamentari. Di conseguenza può essere pure giusto esprimere il proprio malcontento per la crescente precarietà, per il costo insostenibile dei servizi sociali, per l’aumento delle tasse o per il ridimensionamento della previdenza, ma i veri responsabili di tale politica vanno individuati nei parlamentari e nei partiti genericamente intesi; non solo perché legiferano su tali materie ma soprattutto perché con il loro sperpero di denaro pubblico, con i loro ingiustificati privilegi, nei fatti, sottraggono risorse essenziali alla possibilità di realizzare una politica economica equa.
Si cerca cioè di riportare i lavoratori alla dimensione di generici cittadini, le cui condizioni dipendono non dalla divisione in classe e dalla logica del profitto che permea tutte le relazioni sociali, ma dall'appropriazione indebita di una ricchezza comune da cui deriverebbero le sperequazioni. È la logica del: “siamo tutti sulla stessa barca” e quindi della ipotetica torta rappresentata dalla ricchezza prodotta da ripartire tra i vari soggetti, per cui se qualcuno si appropria di una parte eccessiva (e non sarebbero i padroni) rimane poco da distribuire. Ecco allora l'appello agli interessi comuni per evitare le indebite appropriazioni, dando per scontato che il modo in cui viene prodotta la ricchezza oltre al come essa viene distribuita secondo le leggi del mercato sia un dogma intoccabile e immodificabile.

...non sono gli “sprechi” del capitale...
Ora, anche senza prendere in considerazione la sostanza della questione legata allo sfruttamento per produrre profitti, persino ad un bambino dovrebbe risultare evidente che le decine di migliaia di rappresentanti delle istituzioni nazionali e locali e persino considerando tutto il ceto politico inteso in senso più ampio, non rappresentano con tutte le loro spese che una frazione infinitesima dei maggiori costi che i proletari stanno pagando in più come conseguenza dei tagli che li hanno colpiti in questi ultimi anni.
I privilegi e le guarentigie di cui godono i rappresentanti istituzionali costituiscono certamente un vero e proprio insulto per chi, nonostante un lavoro sempre più estenuante, non riesce ad arrivare in maniera dignitosa alla fine del mese. Soprattutto quando quegli stessi parlamentari compaiono dagli schermi televisivi, per spiegare con le loro facce da corno tutti presi nel loro ruolo, la necessità di fare sacrifici, l’insostenibilità dell’attuale sistema previdenziale, l’ esigenza di privatizzare i servizi pubblici e di aumentarne i costi, etc.
Ma la loro funzione è esattamente quella di garantire un “tranquillo” procedere del sistema sociale attuale fondato appunto sugli imperativi del mercato, sulla ricerca del massimo profitto e sullo sfruttamento del lavoro salariato. Si tratta di un “costo di gestione” fisiologico per rafforzare l’illusione che non vi è un diretto dominio anche sul piano politico oltre che economico da parte della borghesia e dei capitalisti. Eppure in tempi di imperante iperliberismo i padroni ritengono di poter abbassare tali costi e di aver meno bisogno della mediazione della politica così come l’abbiamo conosciuta negli scorsi anni. Oltre ai costi ufficiali della politica vi sono anche tutte quelle tangenti e finanziamenti più o meno occulti, che i padroni devono pagare per ottenere le assegnazioni di appalti, per il sostegno di provvedimenti legislativi favorevoli agli interessi sia della classe imprenditoriale nel suo insieme quanto di singole sezioni di essa. Sono questi gli “sprechi” che si intende ridurre e certamente tale richiesta non è finalizzata ad una più equa redistribuzione della ricchezza sociale ma ad aumentare la quota che va direttamente ai profitti. Un ragionamento elementare dovrebbe portare a concludere che se i padroni pagano a malincuore delle tangenti, se accettano che una parte della ricchezza disponibile venga dirottata verso il ceto politico, è perché essi sono i beneficiari ultimi di quote ben più consistenti di tale ricchezza, perché sotto il manto ideologico degli imperativi di mercato vengono varate leggi che gli consentono di sfruttare ancora di più i lavoratori, di privatizzare i servizi ed aziende pubbliche regalandoli loro a prezzi stracciati, etc,. In pratica è lo stesso meccanismo mediatico che si innesca nei confronti dello smaltimento illegale dei rifiuti tossici: tanto clamore contro la criminalità organizzata come se questa fosse la sola vera causa e la principale responsabile dell’inquinamento, senza che mai a nessun giornalista o magistrato venga in mente di andare ad indagare chi sono i committenti di tale smaltimento e chi ci guadagna di più da tale traffico illegale. Se realmente si volesse stroncare questa immonda attività, basterebbe indagare alla fonte, realizzare leggi e controlli più severi e soprattutto colpire i veri mandanti, cosa che puntualmente ci si guarda bene dal fare, nel mentre si realizzano provvedimenti sempre più repressivi contro immigrati, lavoratori e chi dissente dalla politica consociativa imperante. Non pare che tra i vari moralizzatori della politica e dei suoi costi, vi sia il benché minimo accenno a questo spreco e a questa immoralità ben superiore a quella di cui è protagonista il ceto politico, né risulta che tra i loro obiettivi vi sia quello di ridurre questo “spreco” decisamente più cospicuo.
Del resto basta guardare una classifica dei principali redditi annuali, o avere una vaga idea di quali siano oggi i guadagni, anche solo ufficiali, dei dirigenti aziendali e di redditieri vari per rendersi conto che al confronto il parlamentare più privilegiato ci fa la figura del morto di fame, pur considerando tutti gli sconti e le esenzioni di cui gode e che non risultano nella dichiarazione dei redditi. Conosciamo già la risposta pronta a tale obiezione: gli industriali, i finanzieri sono il vero motore della crescita economica, sono loro che creano posti di lavoro, sono coloro che rischiano i capitali per fare investimenti. Il fatto è che -ammesso tale motivazione abbia mai avuto una sua legittimità- oggi sempre più i padroni rischiano i capitali … degli altri; prendono soldi raccolti dalle banche e li utilizzano per acquisire pacchetti azionari da rimborsare magari con la liquidazione delle aziende acquisite e/o peggiorando lo sfruttamento dei propri dipendenti, investono in speculazioni finanziarie arrischiate che sono alimentate dalle politiche del debito imposte ai paesi periferici e sul controllo delle loro materie prime.
Abbiamo visto che un altro obiettivo della campagna in corso è quello ridurre ulteriormente il peso del parlamento e delle altre istituzioni elettive per approdare ad un accentramento ancora più autoritario delle istituzioni esecutive per finalizzarle ad una più diretta sottomissione agli interessi borghesi, il tutto in nome di una maggiore efficienza e governabilità.
La campagna contro i costi della politica e della sua inefficienza si sposa ottimamente con le varie ipotesi di riforma istituzionale tutte miranti a ridurre ancora di più il peso del parlamento. Dai premi di maggioranza alla riduzione del numero delle camere e dei parlamentari, dal voto di coalizione alle soglie di sbarramento, vi è un comune risultato a cui si punta: ridurre ogni vincolo tra parlamentari e propri elettori, impedire che sia pure indirettamente il malessere e la protesta sociale possa condizionare i programmi degli esecutivi.

...e non è fatta in difesa dei lavoratori
Prima di associarsi acriticamente alla campagna contro i costi della politica, conviene quindi riflettere meglio su quali sono le sue ragioni di fondo, evitando di trovarsi, sia pure inconsapevolmente, a lavorare per il Re di Prussia e a favorire l’affermarsi di una ulteriore svolta autoritaria.
In mancanza di una effervescenza sociale e di lotte significative sul piano politico sindacale vanno diffondendosi anche nelle file proletarie sentimenti di sfiducia e di rassegnazione che facilitano la penetrazione di un clima conservatore e spesso qualunquista. La sensazione di impotenza e di insicurezza crescenti, la mancanza di qualsiasi prospettiva credibile di difesa collettiva, rendono più agevole la diffusione di attitudini individualiste, di competizione tra gli stessi lavoratori, e la ricerca del nemico avvertito come il più vicino ed immediato. Non si spiega altrimenti il notevole successo di opinione delle campagne securitarie, la diffusione di atteggiamenti xenofobi e razzistici anche tra i lavoratori.
La denuncia dei costi della politica e dei privilegi parlamentari, gestito su di un piano qualunquistico e populista, non serve solo a deviare l’attenzione dei proletari dai principali approfittatori e dalle loro sconfinate ricchezze, ma anche a canalizzare la loro rabbia atomizzata verso un progetto mirante proprio ad un ulteriore attacco nei loro confronti. Se tale campagna si rafforzerà fino a diventare dirompente chiunque si presenterà come castigatore dei privilegi parlamentari sarà ben accetto, anche se i suoi obiettivi si presentano all’apparenza abbastanza confusi e demagogici. I successi elettorali di Berlusconi e della Lega Nord nel recente passato ed il loro attingere voti in maniera maggioritaria persino nelle fila del lavoro dipendente dovrebbero aver insegnato qualcosa a tale proposito.
Da ciò non discende naturalmente una difesa delle istituzioni parlamentari come “male minore”, come meno peggio su cui attestarsi per salvaguardare gli ultimi baluardi per quanto scalcagnati di democrazia rappresentativa formale.
L’attuale sistema politico italiano come il resto delle “democrazie” occidentali presentano una generale tendenza storica all’espropriazione di fatto degli organismi parlamentari a favore di esecutivi sempre più blindati e assistiti da organismi collaterali non eletti da nessuno che nei fatti prendono le decisioni sostanziali e le impongono agli stessi parlamenti, senza contare le istituzioni internazionali di tipo finanziario e politico che a loro volta dettano le linee di fondo delle politiche nazionali su questioni decisive.
D’altro canto gli stessi rappresentanti parlamentari e i partiti che si candidano a concorrere nelle competizioni elettorali sempre meno sono espressione di interessi di particolari categorie sociali per non dire di classi sociali ben definite. In qualche caso essi si presentano quali espressione di determinate comunità territoriali (gli eletti nelle regioni a statuto speciale, la Lega etc) e/o di gruppi di interessi tematici (Verdi, Radicali etc), ma sempre nella prospettiva della difesa degli interessi supremi della intera popolazione ed in generale della nazione. Quando ci si riferisce esplicitamente a tali interessi generali c’è un patrimonio condiviso da parte di tutte le forze politiche parlamentari che è sintetizzabile nella promozione degli interessi diplomatici, politici, economici nonché militari nazionali nell’ambito della crescente competizione internazionale. Naturalmente tale condivisione si fonda sull’adesione al paradigma della insostituibilità delle leggi di mercato e del loro corretto funzionamento (argomento quest’ultimo sul quale sono percepibili interpretazioni diversificate), come condizione irrinunciabile per mantenere tassi di crescita elevati e poter garantire di conseguenza un benessere generalizzato (anche circa la distribuzione di tale eventuale benessere si possono evidenziare interpretazioni diversificate). Per dirla in maniera brutale tutti i partiti che concorrono alla rappresentanza parlamentare sono programmaticamente strutturati per la difesa ed il miglior funzionamento delle attuali relazioni sociali che sono fondate sul dominio del capitale.
In tal modo le stesse specificità che i partiti o singoli parlamentari pretendono di rappresentare possono trovare espressione solo a condizione di essere conciliabili e non contraddittori con gli interessi generali del paese. Esse sono quindi delle variabili dipendenti e subordinate, che possono essere messe tranquillamente in secondo piano di fronte ad eventuali difficoltà che le rendono incompatibili con i suddetti interessi generali.
Se vi fosse qualche dubbio in proposito basta guardare cosa sta producendo in termini legislativi il parlamento in cui la cosiddetta sinistra gode di una maggioranza sia pur risicata e a cosa si riduce la presenza al suo interno di una consistente pattuglia parlamentare che si autodefinisce di sinistra radicale.

Attenzione ad illusioni semplicistiche
Il parlamento ed i suoi componenti meritano interamente il disprezzo di cui sono fatti oggetto, non solo per i privilegi di cui godono ma soprattutto, in virtù anche di tali privilegi, per la loro sottomissione agli imperativi del capitale. Una loro difesa contro l’offensiva in corso non sposterebbe questa sostanza di una virgola, ma potrebbe solo rafforzare la convinzione in limitati settori sociali che una “corretta” dialettica parlamentare possa rappresentare il metodo migliore per rappresentare le istanze di tutti i cittadini.
Tale atteggiamento, oltre a non produrre risultati significativi, ridurrebbe gli attivisti del movimento al ruolo di “utili idioti” essendo speculare a quello dell’adesione acritica alla campagna in corso. Inoltre produrrebbe lo spiacevole effetto di associare queste aree al giusto discredito generale di cui godono i rappresentanti istituzionali. Ma è bene essere consapevoli che nel contesto dato, senza una forte ripresa di mobilitazioni a difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro, in grado di modificare il clima generale entro il quale si inserisce il disprezzo per la politica, senza una campagna in proprio che denunci il senso della generale offensiva liberista e neoautoritaria, ci si può trovare solo a fare i portatori d’acqua di progetti altrui, che attaccano le attuali istituzioni parlamentari da un punto di vista reazionario, non certo per favorire la democrazia reale diffusa ed il protagonismo delle masse se non come massa di opinione di supporto.
Né ci si può illudere che il disprezzo generale indirizzato verso gli attuali partiti istituzionali possa essere capitalizzato da una nuova tendenza politica che si candidi a rappresentare effettivamente i “veri” interessi di classe nel parlamento. In genere le forze di estrema sinistra quando hanno provato a cimentarsi con l’esperienza parlamentare, anche nei momenti alti di scontro sociale, hanno ottenuto risultati miserabili, figuriamoci in una situazione come quella attuale in cui l’adesione alla campagna in atto è direttamente proporzionata alla mancanza di mobilitazioni su di un terreno indipendente ed autonomo. Ma soprattutto, cosa ben più grave, esse immancabilmente hanno subito delle profonde trasformazioni facendo la fine dei noti pifferi di montagna, venendo cooptati nel teatrino della politica istituzionale nello spazio di un mattino oppure implodendo vergognosamente, dimostrando nei fatti quanto le istituzioni democratiche nelle società a capitalismo avanzato siano impermeabili ad istanze anticapitalistiche, ma che non sono nemmeno utilizzabili quali “tribune rivoluzionarie” di leninana memoria.
Altrettanto poco convincenti risultano coloro che pensano di aggirare il problema puntando ad un rapporto con le istituzioni fatto di “contaminazione” attraverso cui la pressione dei movimenti dovrebbe essere capace di incidere sensibilmente sulla politica delle istituzioni o pezzi di essa a livello tanto nazionale che locale. Quasi sempre tale posizione si accompagna al municipalismo che, sempre sulla scorta di un radicamento nelle lotte territoriali porti ad incursioni diffuse nell’ambito delle amministrazioni locali, attraverso la presentazione di liste proprie o la presenza di candidati “di movimento” nell’ambito di altre liste. Questo fenomeno, diffuso per ora soprattutto nelle aree metropolitane, ha spesso riprodotto in sedicesimo le esperienze di chi ha provato a cimentarsi con le elezioni nazionali, vedendo i propri eletti diventare ostaggi delle amministrazioni locali con relativo distacco dal proprio ambito di provenienza e, nelle peggiori delle ipotesi, le strutture di cui erano emanazione hanno subito la sorte del proprio rappresentante trasformandosi in appendici di movimento delle stesse amministrazioni. Nella maggior parte dei casi non si è andati comunque oltre il livello della circoscrizione con l’elezione attraverso gli stessi meccanismi di apparentamento o da soli, ma con il risultato di trasformarsi in assistenti sociali di quartiere a cui l’amministrazione, in maniera più o meno conflittuale può delegare alcune funzioni di spazio ludico culturale dedicato ai giovani.
Le interessanti esperienze di lotta della Val di Susa e di Vicenza al momento non rappresentano una controtendenza significativa alla dinamica sopra descritta.
La capacità del movimento No Tav di tenere fino ad ora al suo interno anche rappresentanti delle istituzioni locali vincolandoli alle scelte del movimento derivano dalle condizioni specifiche di quella lotta difficilmente ripetibili e soprattutto non generalizzabili. Il fatto che ad essere coinvolte nella opposizione al progetto della Tav siano soprattutto piccole comunità locali dove il rapporto con l’eletto è immediato e continuo, consentono un controllo effettivo sui loro comportamenti, almeno fino a quando continuano le mobilitazioni ed il consistente processo di autorganizzazione che caratterizza quella esperienza. Non a caso è stato praticamente impossibile realizzare lo stesso tipo di relazione con i rappresentanti eletti al comune di Torino, alla provincia o alla regione, nonostante le notevoli energie ed intelligenze messe in moto da quella lotta.
Già la vicenda di Vicenza che riguarda una realtà cittadina di più ampie dimensioni mostra maggiori difficoltà a realizzare un rapporto di questo tipo con gli eletti nell’amministrazione locale evidenziando quanto sia difficile il processo di “contaminazione” persino con le istituzioni locali quando si supera la soglia di esperienze comunitarie di piccolo taglio.
Sappiamo che al loro interno si comincia a discutere seriamente della possibilità di dare uno sbocco rappresentativo a livello di istituzioni locali della mobilitazione in corso ma noi speriamo vivamente che una tale prospettiva, che rappresenterebbe un vero e proprio corto circuito con conseguenze deleterie per le sorti dello stesso movimento, venga scartata dalla maggioranza.
A parte l’illusione elettoralistica che spesso alligna in maniera insospettata anche nelle fila di organismi verbosamente estremamente radicali, quello che accomuna tutte queste tendenze è la visione della trasformazione sociale come un processo di lungo periodo in cui le tendenze antagonistiche guadagnano posizioni, certo non solo sul piano elettorale, attraverso un progressivo accumulo di forze che sposti progressivamente i rapporti di forza con i nostri avversari di classe.
Se qualcosa ci ha dimostrato il secolo che abbiamo alle spalle è stato l’andamento ciclico e fatto di brusche accelerazioni dello scontro di classe. Tutti gli organismi predisposti a crescere su se stessi, dovendo seguire l’andamento ondivago dello scontro e della radicalità di classe, si sono immancabilmente trasformati in qualcosa di diverso dai loro progetti rivoluzionari iniziali, dove la preservazione dell’organismo stesso ed il mantenimento del patrimonio di adesioni accumulate diventava il fine e non il mezzo. Al punto che i contenitori anche mastodontici predisposti per combattere una lunga guerra di posizione negli svolti decisivi si sono rivelati essere inservibili quando non proprio ostili di fronte ad una precipitazione della radicalità proletaria. Non stiamo parlando solo del PCI italiano ma di una tendenza caratteristica di tutti i paesi centrali nella dinamica imperialista come pure di tutti quei tentativi che hanno cercato di scimmiottare in maniera più a meno dignitosa tale strategia.

Nella situazione data ciò che è possibile fare da parte degli attivisti è di collegarsi saldamente alle esperienze di conflittualità radicale non solo di fabbrica che resistono alle conseguenze della politica borghese, partecipando e sostenendo tali resistenze per rafforzarne i percorsi di autonomia e di indipendenza. Contemporaneamente lavorando a favorire i processi di autorganizzazione e di generalizzazione senza dimenticare come sempre di provare a trasformare l’opposizione contro un singolo aspetto del dominio del capitale in antagonismo cosciente contro il sistema capitalistico nel suo complesso.

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