10/10/2007: Una riflessione del Comitato permanente contro la repressione di Nuoro


“I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono essere raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale finora esistente. Le classi dominanti tremino al pensiero d’una rivoluzione comunista. I proletari non hanno da perdervi che le catene. Tutto il mondo da guadagnare”. (K. Marx, F. Engels, «Manifesto del partito comunista»)

Il tarlo è un animale coerente e strano. Scava senza sosta alla ricerca di una via d’uscita, senza avere la più pallida idea di dove porti. Tra le tante specie, quello del dubbio, ultimamente ha perso questo spirito d’avventura...
Da qualche parte, un comunista una volta disse che i comunisti quando perdono lo spirito d’avventura diventano noiosi e talvolta pericolosi. Vera o falsa, questa affermazione rende bene il senso di una sconfitta di portata storica. Tra i troppi dubbi che assediano il nostro agire, ciò che manca alla spinta – che pure si tenta di dare per rimettere in gioco le sorti della lotta di classe – è proprio la riappropriazione dell’entusiasmo della prospettiva. Dell’utopia, o meno retoricamente dello slancio che traghetti l’analisi della composizione sociale verso la costruzione di una nuova soggettività indipendente dall’ideologia democratico-demente del capitale.
Si potrebbe pensare che ciò è banale, vago, scontato. Ma, la politica militante (per non dire la storia) dimostra come non ci sia nulla di scontato, quando dalla poesia della rivoluzione si passa alla prosa della repressione. E infatti, la nostra considerazione, parte proprio dall’esempio di coloro che sono nella posizione più scomoda in cui possa trovarsi un nemico del capitale. Quella di prigioniero/a.
Come Comitato Contro la Repressione, più volte al nostro interno, e ancora nei rapporti con l’esterno, ci siamo scontrati/incontrati su cosa sia più conveniente o meno per non ledere gli interessi dei compagni/e prigionieri/e; sull’opportunità di non “urtare” la sensibilità dell’opinione pubblica; su quella di non usare un certo linguaggio poiché aleatorio di consensi anche all’interno dell’aria culturale della sinistra. Insomma, arresi (il temine è sicuramente forte) di fronte alle nuove esigenze della società del grande fratello. Il livello culturale è basso? Ci si adegua. La coscienza politica dei proletari inesistente? Ci si adatta. Senza pensare che il prodotto non è mai coerente con gli obiettivi. Quando la tattica cela la natura rivoluzionaria del nostro pensiero, nel migliore dei casi non produce più che una piccola moltitudine che si disperde dietro lo striscione del proprio aggettivo qualificante militante. Alla mercé, della reazione di un fronte tutt’altro che disunito: lo Stato-Capitale e le sue diramazioni.
Paradosso dei paradossi, se fuori si dibatte su quale sia l’equilibrata azione “difensiva”, da dentro le celle della bestia imperialista, escono analisi, appelli, proclami che non si pongono minimamente il problema delle conseguenze sull’esito dei processi penali e la loro legittimazione. Le idee nude e crude, che invitano alla ribellione e alla resistenza, caratterizzano anche gli ultimi documenti di Ivano, Antonella, Paolo. Questo è un fatto che non si può trascurare. Il soggetto stesso che subisce la repressione, suona la carica contro il nemico di classe che estende l’oppressione esaltato dalla sua forza repressiva .

Alla luce della nostra esperienza, che non nasce come Comitato, vogliamo spezzare una lancia in favore di una progressione che superi l’empasse nella quale si trova chi milita tra le fila della contestazione.
Il nostro attivismo, come Comitato, non è poi diverso da quello di altri che ci affiancano o hanno preceduto. Abbiamo battuto tutte le piste che potessero portare acqua al mulino dei prigionieri. Cercato di comunicare in ogni modo e dove, con una popolazione tanto solidale quanto distante. Nonostante tutto, nel giocare di rimpiattino agli indiani e cowboy, siamo ritornati al punto di partenza. Quel moto di indignazione, che pensavamo potesse scaturire dai proletari, in solidarietà con altri proletari fatti oggetto dell’abuso e della negazione dei più elementari diritti “costituzionali”, non è mai arrivato. Tanto più in una roccaforte elettorale rossa come Nuoro e dintorni. Attorno ai “nostri” si sono stretti i compagni di sempre. Anche se mai piegati, disarmati dall’impotenza e l’inutilità degli appelli alla ragione, ci siamo contati, guardando oltre il fango del nostro quartiere.
La domanda – quella si – scontata, è venuta da sé. Quo vadis, companeros?

Come ogni altro potere, il potere politico si veicola e riempie di significati. Parole d’ordine che codificano i comportamenti vincolandoli ai rapporti di dominio e controllo esistenti. In un tempo avulso alle più elementari forme di partecipazione popolare alle sorti del presente, il primato della politica sulle reali attività umane si presenta in tutta la sua vacuità. Volutamente essa allontana da sé il proprio oggetto (le masse) per controllarne, dall’alto dello scranno, il movimento; per rendere tutto ciò che alla politica è riconducibile, refrattario, inutile, sporco, disgustoso; per ridurre l’intensità dello scontro ai soli addetti ai lavori. Per essere chiari, al conflitto avanguardie–Stato. Ma, poiché ogni strategia predispone un margine di errore, ecco dispiegarsi contemporaneamente gli antidoti alla sua evoluzione. Per quanto paradossale, la disaffezione alla politica, sancendo la scissione politicamente inconscia, ma, effettiva, del sociale dal politico, apre gli spazi per una lotta che dall’antipolitica ritrova il suo significato originario: il potere proletario che riconosce e disconosce il feticcio intorno al quale ruota l’ingiusta redistribuzione di privilegi e fatiche (il “caso” Grillo è illuminante). A ben vedere, nell’astensionismo galoppante, nelle sezioni di partito vuote, nel rigurgito dell’impegno militante tradizionale, si possono scovare li spazi entro i quali estendere la nostra azione. Nella società, nella sua insoddisfazione e malessere, si percepisce un tirarsi fuori che sa di accusatorio nei confronti di un sistema incapace di soddisfare i bisogni e valorizzare la partecipazione. La critica della politica, o meglio il rifiuto del potere che dentro il parlamento (con le sue variabili di maggioranza e opposizione) è sintesi della sua perpetuazione, non può che iniziare dalla ricollocazione/ricomposizione della progettualità rivoluzionaria liberata dai tatticismi dell’assimilazione.
A questo punto si tratta di far chiarezza all’interno del campo antagonista. La prospettiva rivoluzionaria riparte proprio dall’unità (non solo d’intenti) delle sue componenti. Piaccia o meno, spesso la mancanza di coordinazione delle stesse (la dispersione militante) ci fa apparire ogni giorno più arretrati rispetto al passo dei tempi. La società sorniona, viaggia veloce, supera il nostro parlare annacquato nel marasma di riflessioni che il sistema multimediale produce. Il tempo delle parole è al capolinea. Gridare la propria rabbia non basta. Non basta nel momento in cui le mobilitazioni di Vicenza, della Val di Susa, di Melfi, della Sardegna davanti la repressione, di Bologna contro il suo sceriffo, rimangono chiuse in un processo di resistenza strettamente locale. Suona strano, ma nell’era della comunicazione, dove le distanze si bruciano in un megabit, viene difficile consolidare nuove forme di organizzazione di classe. Ancor più, attivare un salto di qualità nello scontro in atto contro uno Stato che per stare al passo della competizione internazionale si ritaglia il proprio ruolo guerrafondaio e imperialista (a meno che non si consideri più l’internazionalismo una priorità strategica... e non è il caso!).
Insomma, a nostro avviso si dovrebbero – qui e ora – gettare le basi di un confronto che non sia solamente “solidaristico”, tra tutte le realtà più o meno significative coagulate intorno alle esperienze di lotta contro questo modello sociale travestito di modernità. Scevro di capacità critica, ma abile camuffatore del tutto che diventa nulla. In altre parole, pensiamo si debba battere la strada dell’unità politica, quindi della cooper...azione.
Per farlo, occorre mettere nel piatto qualche elemento qualificante la proposta. A nostro avviso sono quattro quelli intorno ai quali si può costruire un fronte di resistenza di respiro generale: l’anticapitalismo, l’antimperialismo, l’antifascismo e il disprezzo per un sistema che continua ad insultare i deboli. Le forme? Saranno quelle adeguate alle conclusioni del processo di aggregazione. Inutile mettere il carro davanti ai buoi.

Una lezione affiora dalle rovine dei beceri processi di ristrutturazione capitalistica di questo inizio secolo. L’assenza di uno spazio di agibilità e intervento, per mezzo del quale tassellare in modo visibile e concreto le impalcature di un’azione vieppiù incisiva che – presto o tardi – porti alla rivoluzione. Il che non si traduce nell’impossibilità di portare avanti lotte intermedie e vincerle. Bensì, nella consapevolezza che queste non rimangano una fiammata, seppur bella, mortale.
Forse, la distinzione socialismo o barbarie è politicamente più netta oggi che in passato. Forse, così come si è evoluta, l’unica iniezione di civiltà in questa società non è rintracciabile che nel conflitto. Nello scontro di classe senza mediazione. Sicuramente, però, un primo passo avanti risiede nel recupero della politica al sociale attraverso il progetto e la sua attuazione. Restituendo alla stessa, la dignità della lotta e costruendo le coscienze che fin da subito si muovono in direzione di un cambiamento che non c’è, ma è già in essere... Senza, alfine, appellarsi all’evidenza che è sotto gli occhi di tutti: uno Stato che riprende la sua funzione storica di mediatore del trasferimento di ricchezza dal lavoro al profitto e alla rendita finanziaria.
La belva mostra il volto. Lo Stato si è svestito del ruolo che una costituzione nata dalla Resistenza aveva mascherato, generando quell’incomprensione sulla difesa delle istituzioni, per la quale, generazioni di militanti (vedi PCI) hanno visto naufragare le idee di giustizia sociale e (perché no!) rivoluzione. Gendarme degli interessi del capitale, lo Stato-Capitale moderno (il trattino è un mero incipit) ha affinato le tecniche di distruzione del dissenso. Da una parte il ramo d’ulivo, col quale garantisce simbolicamente l’esistenza dello stesso (il diritto di sciopero e la legislazione che ne azzera l’efficacia). Dall’altra il bastone, che con la giurisprudenza colpisce chi infrange le regole del gioco, scelte e imposte in modo coercitivo e unilaterale. Ma, non ha tenuto conto della brace che cova sotto le macerie fumanti della sua evoluzione. Può presentare la precarietà come un metodo per arricchire il proprio bagaglio di esperienze lavorative e sociali. Può ridurre le garanzie di diritti conquistati in un intenso ciclo di lotte, come presupposto per il futuro dei giovani. Ma, la menzogna non metterà padri contro figli, neanche passerà impunita la logica che vuole “progressista” e riformista la morsa dentro la quali si stringe il cerchio sulla dignità umana. E se non saremo noi a godere del pane e delle rose, potremo sempre scrivere nuove pagine di ribelli che non si fanno calpestare.
...Un altro dubbio, si affaccia all’orizzonte. A spezzarsi, sarà prima la schiena o il bastone?

E sigo semper gai e mai mi rendo
E cando bat bisonzu mi difendo.

Comitato permanente contro la repressione - Nuoro

http://www.autprol.org/