01/12/2008: IL GIOCO DELLE TRE TAVOLETTE: Dalla finanza creativa alla truffa globale, per salvare una barca che fa acqua da tutte le parti


In un modo di produzione basato sul credito è chiaro che le crisi si manifestano in primo luogo come monetarie, azionarie e creditizie. A prima vista, infatti, non si tratta che della convertibilità delle cambiali (leggi: strumenti finanziari, derivati, ecc.) in denaro. Ma queste cambiali rappresentano in origine scambi di merci reali. E quando l’estensione della carta va molto al di là del fabbisogno sociale, quando incominciano a rappresentare ogni genere di attività finanziaria, legale o truffaldina, la crisi è inevitabile. Una legislazione bancaria insensata può peggiorare una crisi creditizia, ma nessuna legislazione bancaria può eliminare le crisi. A causa del credito, le imprese del Capitale autonomizzato sono sempre più imprese sociali in contrasto con quelle private. È la soppressione del Capitale come proprietà privata nell'ambito stesso del capitalismo. (Karl Marx, Il Capitale, III, capp. 27 e 30).

Sembrava proprio il gioco delle tre tavolette, dove abili ciarlatani cercavano di nascondere i sintomi della catastrofe imminente.
Giulio Tremonti, citando Marx, diceva che «il denaro non produce ricchezza...»
Il papa, citando i Vangeli, diceva che «il denaro è lo sterco del diavolo...».
E così via.
Di fronte al pasticcio, economisti, politicanti e preti starnazzavano che l’attuale disastro finanziario fosse frutto di disinvolte iniziative finanziarie (la famosa finanza «creativa»...), messe a punto da disonesti cialtroni, approfittando di carenze normative.
Ecco allora farsi avanti i «tecnici», pronti a proporre regole e regolette per porre sotto controllo la finanza. Quali regole?
Solo l’altro ieri, mentre scoppiavano le speculazioni Enron, Parmalat e bond argentini, per citare gli esempi più noti, il governo USA eliminava quelle misure di controllo sulla Borsa, varate dall’amministrazione Roosevelt, dopo il crollo del 1929. E oggi chiudere la stalla quando i buoi sono fuggiti è del tutto inutile. Quello che è certo è che le misure messe in atto dai governi e dai loro «stregoni» sono medicine che porteranno a maggior centralizzazione del capitale, a una ulteriore accentuazione della concorrenza, ad ulteriore valorizzazione della forza lavoro, alla blindatura poliziesca degli Stati, all’accentuazione del percorso verso la guerra.

A questo punto, la parola è passata ai «filosofi», che propongono il ritorno all’etica degli affari. Ma quale etica? Negli affari prevale la legge «homo homini lupus» e quindi parlare di etica è un ossimoro, ovvero è una contraddizioni in termini. Basta vedere i comportamenti dei dirigenti economici e politici, nonché degli Stati, che, muovendosi in ordine sparso, cercano di scaricarsi a vicenda le grane. Tra le stesse banche, non vige alcuna fiducia.
Il succo di tutte queste chiacchiere è che tecnici e filosofi cercano di avvalorare l’ipotesi che l’attuale disastro riguardi solo la sfera finanziaria e che l’economia reale, ovvero l’industria, è sana, di conseguenza il sistema è salvo, e quindi è salvo il capitalismo, la cui essenza risiede, ed è vero, nell’industria. Ma le cose non stanno così.

Pericolosi ma inevitabili espedienti
Chi non è affetto da eccessiva miopia sa bene che l’attuale crack ha radici lontane, che affondano proprio nelle difficoltà incontrate dall’industria, ovvero dal processo di produzione materiale, negli scorsi decenni, quando i tassi di profitto (ovvero gli utili) dettero segni di flessione. Per far fronte alle difficoltà di realizzo, i capitali si indirizzarono allora verso la finanza, trovando via via nuove opportunità di guadagno, generate apparentemente dalla creatività degli operatori finanziari. Prendeva così piede un gioco assai pericoloso, ma che negli anni Novanta assicurò ottimi guadagni, anche ad alcuni strati di operai privilegiati, grazie a quella creatività finanziaria, oggi tanto deprecata.
Grattando la brillante patina del boom borsistico, si sarebbe potuto vedere che esso traeva slancio dall’economia reale, ovvero dall’industria, che in quel periodo attraversava una spettacolare evoluzione, che fu definita New Economy.
La New Economy era il frutto delle nuove tecnologie (Information and Communication Technology), in particolare Internet, la cui prodigiosa diffusione alimentò la mitologia della produzione immateriale, che avrebbe aperto nuovi confini per uno sviluppo economico senza frontiere. Ma, a ben vedere, gli spazi economici aperti da Internet riguardarono essenzialmente il campo pubblicitario e commerciale. In poche parole Internet serve per «vendere», non solo tradizionali oggetti materiali ma anche e soprattutto servizi e prodotti finanziari, offrendo in questo ambito possibilità di intervento strepitose, sia in termini di spazio che di tempo, che dettero la stura alla finanza creativa, tenendo a battesimo un nuovo prodotto, i derivati. Di fronte a questo «miracolo», il fantasmagorico mondo della finanza confuse le cause con gli effetti, diffondendo l’illusione che dal denaro potesse nascere denaro.

Sotto la Borsa... il lavoro
Nella realtà, le spinte speculative della borsa traevano il loro alimento dall’economia reale, che allora aveva un suo centro nevralgico nella produzione materiale relativa alle nuove tecnologie informatiche e telematiche (computer, cellulari e relative infrastrutture). Quando, alle soglie del nuovo millennio, la pur notevole crescita della massa di merci e l’esasperato aumento della produttività non furono in grado di far fronte al calo del saggio di profitto, calarono conseguentemente anche i profitti. L’economia reale si dimostrò inadeguata a sorreggere l’enorme impalcatura finanziaria che su di essa gravava e scoppiò la bolla della New Economy (o meglio della Dot.com). In questi frangenti, i capitali impegnati nei derivati crescevano a dismisura, superando in proporzione «geometrica» la ricchezza prodotta a livello mondiale: prima dell’attuale crack, il rapporto tra il Pil mondiale e i derivati era di 1 a 10 (58.000 M$ contro 596.000 M$ di credit derivatives)!
La crisi di fine millennio avvenne malgrado da più di due decenni fosse in atto un forsennato attacco ai salari, che ha via via svilito il costo della forza lavoro, a tutto vantaggio dei profitti. Per es, dal 1973, la caduta dei salari dei lavoratori americani è stata circa del 20%, contro un aumento della settimana lavorativa dal 10 al 20%, cui fanno da contorno la demolizione del salario sociale totale (il cosiddetto welfare). Contemporaneamente, l’industrializzazione dei Paesi emergenti imponeva condizioni di lavoro e di vita simili a quelle dell’Inghilterra del primo Ottocento.
Ma ancora una volta, gli USA riuscirono a cavarsela. Scaricarono e circoscrissero le conseguenze della crisi, che furono assai devastanti in Estremo Oriente, e contemporaneamente cercarono una nuova via per sorreggere una speculazione finanziaria, ormai lanciata senza freno alcuno, e la trovarono pompando il settore immobiliare (il cosiddetto «mattone»). Ma sono passati i tempi belli in cui si diceva quand le bâtiment va, tout va (quando l’edilizia va, tutto va), considerando il settore edilizio cartina di torna sole dello sviluppo economico. Quanto è avvenuto negli USA è stata un’operazione del tutto fittizia, dal momento che per dare fiato alle costruzioni, il governo favorì la facile concessione di mutui da parte delle banche, e quando una massa crescente di debitori non fu in grado di far fronte ai propri impegni, le Banche trovarono la comoda scappatoia di ricorrere ai «mutui subprime», di cui tanto si è parlato in questi mesi, e di cui sappiamo di tutto e di più. L’espediente si sommava a una disinvolta politica del credito al consumo, che nel 2006 aveva già generato un indebitamento totale pari al triplo del Pil USA. Ma anche in Italia non si scherza: in dieci anni il debito medio delle famiglie è raddoppiato, passando da 60.000 a 120.000 euro; il balzo è dovuto soprattutto all’acquisto della casa.
Come si vede da questa rapida panoramica, la finanza è il detonatore del tracollo, ma la dinamite è l’economia reale.

E l’economia reale soffre
Venendo all’oggi, è una pia (e pericolosa) illusione pensare che il crack possa essere circoscritto alla finanza. La smentita è subito arrivata all’inizio di ottobre, quando la domanda e quindi i prezzi di tutte le materie prime, sia minerali che agricole, hanno cominciato a scendere, in alcuni casi a crollare (rame e caffé), suonando al contempo la campana d’allarme che la produzione industriale è in flessione. È significativo che in pochi giorni la domanda di acciaio sia scesa del 30%.
Ecco alcuni flash su quanto sta avvenendo nel mondo dell’economia reale.
In Germania, modello del capitalismo industriale (secondo uno sciocco luogo comune) l’industria automobilistica (Opel, Ford, BMW) segna il passo.
L’Italia è il paradiso della piccola e media industria, che fin’ora è stata favorita da agevolazioni nel campo del lavoro (art. 18 dello Statuto dei lavoratori, più lavoro nero) e in quello fiscale (agevolazioni più evasione), che le hanno consentito di far fronte alla concorrenza. Ma ora la festa è finita e le piccole imprese devono fare i conti con la generale stretta creditizia e con il maggior rigore delle banche nella gestione del credito, che nei mesi precedenti aveva toccato un livello assai elevato (più 12,4% rispetto lo scorso anno). E tra i grandi, la FIAT auto aumenta la cassa integrazione (sono 4.700 i lavoratori colpiti). In agosto la produzione industriale è scesa del 14,3%, rispetto all’agosto 2007.
In USA, nell’ultimo anno, i risparmi previdenziali dei lavoratori hanno perso circa 2.000 miliardi (quasi tre volte la cifra stanziata dal piano d’emergenza di Paulson). E i giganti dell’auto, GM e Ford, cadono.
La Spagna ha subito ridotto di un terzo i contratti di immigrati, a causa del forte aumento della disoccupazione, eliminando muratori, camerieri, braccianti agricoli e colf. Nel 2005 in Spagna erano arrivati «legalmente» 450.000 immigrati. In Italia, il decreto flussi per il 2008 prevede l’ingresso di 170.000 persone, quota analoga a quella degli anni precedenti. L’esempio è seguito da Francia e Regno Unito.

Chi paga la crisi?
Le misure anti-crisi, o meglio il salvataggio delle banche, richiedono capitali che - poiché come si è visto il denaro proviene dal lavoro - saranno presi dalle tasche dei lavoratori dipendenti, molti dei quali hanno già perso i loro risparmi previdenziali, investiti in fondi bruciati dalla crisi, soprattutto in USA, ma anche in Italia. Il risultato è che un mercato gia asmatico si contrae ulteriormente, e i consumi scendono. A questo punto, i paesi OCSE hanno dovuto rivedere al ribasso le previsioni di crescita del Pil, e si parla di recessione. In realtà siamo ormai nella depressione.
L’ultima spiaggia sarebbero allora i Paesi emergenti, in particolare Cina, India, Russia e Brasile, dove è prevista una crescita del Pil del 6%. Ma qui siamo proprio al gioco delle tre tavolette. La previsione di crescita del Pil del 6% risale ad alcuni mesi fa, quando le acque non erano tanto agitate. Oggi diventa del tutto aleatorio avanzare questa previsione, dal momento che i Paesi emergenti hanno realizzato la loro crescita economica soprattutto con le esportazioni verso i Paesi OCSE, dove però il mercato si sta ora contraendo. Infine, per Paesi industrialmente meno evoluti, fortemente dipendenti dall’export di materie prime, il futuro è assai nero, in seguito al forte calo della domanda. E dal gioco delle tre tavolette, si passerà presto all’effetto domino.
Ma le conseguenze non colpiranno gli autori del disastro, i finanzieri creativi, che stanno abbandonando il campo con liquidazioni milionarie.

Milano, 15 ottobre 2008
d.e.
* Quasi tutti i dati sono tratti dal «Sole 24 Ore» della prima metà d’ottobre 2008

BIBLIOGRAFIA MINIMA:
- LOREN GOLDNER, Capitale fittizio e crisi del capitalismo, PonSinMor, Torino, 2007
- La crisi dei mutui statunitensi annuncia un uragano economico, sociale e politico mondiale, «Che fare», n. 69, aprile-maggio 2008
- ANTONIO PAGLIARONE – GIUSEPPE SOTTILE, Ma il capitalismo si espande ancora?, Asterios, Trieste, 2008

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