03/10/2009: INNSE ED ESAB, UN INTERESSANTE CONFRONTO


La lotta degli operai dell’INNSE continua anche indirettamente ad essere fonte di molti insegnamenti per tutti gli operai. Raffrontiamo brevemente l’accordo della fabbrica di Milano con quello della ESAB Saldature di Mesero (Milano), in cui un gruppo di operai è stato per più di due settimane sul tetto della fabbrica. L’INNSE non viene più smantellata, anzi riprende le attività, con l’acquisto degli impianti da parte di un nuovo padrone, che dovrà riassumere tutti i lavoratori della fabbrica, che sono attualmente in mobilità. L’ESAB, invece, chiude da subito. A fronte di qualche vuota chiacchiera su una eventuale “reindustrializzazione” dell’area, nessun impegno concreto viene preso sulla ricollocazione dei dipendenti. Gli operai avranno un massimo di due anni di cassa integrazione straordinaria, poi scatterà la mobilità, cioè il licenziamento. L’assegno di cassa integrazione sarà integrato dall’azienda fino al 100% del salario normale. Tutte le altre eventuali integrazioni salariali, che non potranno superare per ciascun lavoratore il tetto dei 24.000 Euro, saranno erogate dall’azienda solo sotto forma di incentivo all’esodo, cioè solo in occasione dell’accettazione individuale del licenziamento e, addirittura, il diritto a ricevere tali somme sarà subordinato alla sottoscrizione “da parte del lavoratore interessato di una transazione generale e novativa con rinuncia ad ogni richiesta e domanda connessa alla esecuzione e cessazione del rapporto di lavoro nei confronti di ESAB”. Una vera carognata, fatta da chi tiene ben stretta la pistola puntata alla tempia degli operai: ti do i soldi che ti servono per tirare avanti per un po’ di tempo senza lavoro, ma devi garantirmi che non mi costringerai legalmente a pagarti risarcimenti futuri per questioni contrattuali e normative o per danni biologici. Una vera e propria estorsione, che non provoca però nessun intervento della magistratura, così pronta invece a perseguire l’occupazione della fabbrica o quella della tangenziale nel corso della lotta dell’INNSE. Non c’è dubbio allora che per il primo accordo, quello dell’INNSE, si tratta di una vittoria degli operai, mentre quello della ESAB rappresenta una pesante sconfitta delle maestranze. Questo dato incontrovertibile ci spinge a fare due ordini di riflessioni. Col primo evidenzieremo alcune lezioni che si traggono dal confronto delle due esperienze di lotta. Col secondo valuteremo il ruolo del cosiddetto “sindacalismo di base”, cioè dei sindacatini alternativi. Non appena Genta, il vecchio padrone della INNSE, ha tentato con un colpo di mano di chiudere la fabbrica, iniziando le procedure di messa in mobilità e contemporaneamente invitando i lavoratori a stare a casa “pagati”, in attesa che si concludessero i tempi canonici per l’avvio della mobilità, la preoccupazione degli operai è stata quella di avere il controllo dell’officina. Loro obiettivi prioritari erano impedire la chiusura dello stabilimento e respingere anche un solo licenziamento. Su questo si sono confrontati duramente con Genta per 15 mesi, senza mai aprire trattative su un eventuale avvio della cassa integrazione straordinaria da aggiungere al periodo di mobilità o su eventuali integrazioni salariali, finendo così in mobilità senza ricevere nessuna integrazione, e si può immaginare cosa abbia significato vivere a Milano per più di un anno con il misero assegno di mobilità. Gli operai dell’Innocenti sapevano però che nella situazione di oggettiva debolezza in cui si trovavano, con un padrone non interessato a continuare la produzione, la cassa integrazione e l’integrazione del salario potevano essere ottenuti solo cedendo su altre questioni, ad esempio accettando il trasferimento di alcune macchine. In pratica, lo scambio era: più sussidi e per più tempo in cambio dell’accettazione del licenziamento. Scambio che gli operai dell’INNSE non hanno giustamente voluto fare. Di fronte a un dilemma simile si sono trovati anche gli operai della ESAB, come del resto si trovano tutti gli operai le cui fabbriche stanno chiudendo, vedi la LASME di Melfi. La risposta degli operai dell’ESAB è stata però l’esatto contrario di quella dell’INNSE. Al centro della trattativa non è stata la continuità produttiva della fabbrica e il rifiuto dei licenziamenti, ma l’eventuale cassa integrazione e le integrazioni che l’azienda avrebbe dovuto dare. Questa linea veniva già sancita nel preaccordo del 3 agosto, dove si parlava di cassa integrazione e incentivi mentre si accennava solo genericamente ad una eventuale reindustrializzazione dell’area. L’accordo del 15 settembre è perciò la diretta conseguenza delle strategie scelte all’inizio della vertenza, con le quali non solo si è accettata chiusura della fabbrica e licenziamenti, ma si è ottenuto davvero anche molto poco sul piano delle forme di integrazione al reddito e praticamente nulla sugli impegni per una eventuale ricollocazione degli operai. Tutto ciò malgrado la mobilitazione operaia nel corso dell’ultimo mese fosse cresciuta, arrivando a forme di lotta dure, come il presidio della fabbrica e la permanenza sul tetto. Due strategie opposte, cui hanno corrisposto due opposti risultati. Gli operai dell’INNSE sapevano che accettare la chiusura dello stabilimento significava nella migliore delle ipotesi, la ricollocazione in qualche altra fabbrica, con condizioni lavorative e normative peggiorate e si sono opposti con estrema determinazione alla chiusura, senza farsi né irretire da chi proponeva loro fantasie come l’autogestione, né blandire dalle interessate proposte di mobilità fino al pensionamento o ricollocazione per una minoranza. L’unità degli operai doveva essere garantita a tutti i costi perché è proprio l’unità la forza degli operai e l’unico modo per garantirla era impedire la chiusura del luogo dove essa fisicamente si forma, la fabbrica. Difesa dell’unione degli operai, anche contro chi, preso atto della loro incrollabile determinazione, vorrebbe trasformarli in padroncini o contro chi ha creduto di dividerli con qualche miserabile incentivo. Unione operaia, questa è una delle più importanti lezioni che ricaviamo dalla lotta dell’INNSE Naturalmente, non è mancato il solito imbecille piccolo borghese, che, incapace di cogliere questa lezione, ha sparlato di patto fra gli operai dell’INNSE e i capitalisti produttivi contro i capitalisti speculatori, ragionando allo stesso modo con cui i borghesi russi tacciavano nel ’17 i bolscevichi di essere filo tedeschi. Andiamo ora ad affrontare la questione delle organizzazioni sindacali, perché anche su questo versante il raffronto fra i due accordi ci dà notevoli spunti di riflessione. L’accordo dell’INNSE è stato sottoscritto dai vertici FIOM, mentre tutti gli altri sindacati, inclusi quelli “alternativi” sono stati assenti nella lotta. L’accordo dell’ESAB è stato sottoscritto dalla FLMU, che ha praticamente diretto la lotta fino alla sua amara conclusione. In verità l’accordo porta solo la firma delle RSA, a maggioranza appartenenti alla FLMU, e non dei sindacati territoriali. Ma la scelta è solo frutto di una sporca ipocrisia. La FLMU è d’accordo con l’intesa raggiunta, ma sa che essa è impresentabile e allora opta per la soluzione di lasciare l’onere della firma ai suoi delegati aziendali, salvo poi sostenere la loro scelta scellerata in assemblea e firmare insieme alla RSA solo il verbale di accordo al Ministero in cui si avvia la cassa integrazione straordinaria per cessazione delle attività. Una vergognosa ipocrisia del tutto in linea con quella imperante fra i politici italiani pronti a chiamare “missione di pace” l’occupazione militare di altre nazioni. Il tutto condito da parte della FLMU dalle soliti frasi in sindacalese con l’elencazione certosina delle luci ed ombre dell’accordo e con i piagnistei sulla debolezza cronica degli operai. Una sola domanda, brutale e diretta, va fatta a questi sindacalisti: ma perché vi siete sforzati tanto per creare un sindacato alternativo se alla prima prova dei fatti finite col fare le stesse cose della peggiore dirigenza Fiom? E’ la fine di una illusione, quella per cui bastava fondare un sindacato “buono”, creare cioè un guscio formale di organizzazione sindacale per poi crescere fra i lavoratori e diventare determinante. Si anteponeva così la questione formale (la costituzione dell’organizzazione sindacale) a quella sostanziale (la conquista della maggioranza degli operai), che è l’unica base su cui può nascere veramente una organizzazione sindacale. Il sindacato, infatti, conta ed esiste solo in quanto organizzazione di massa, capace di rappresentare la maggioranza dei lavoratori. L’esperienza degli ultimi due decenni dimostra come la scorciatoia del “sindacalismo di base” sia fallimentare, essendo servita solo ad isolare e chiudere in un ghetto le minoranze più combattive. Ancora una volta qui torna utile riferirsi alla esperienza della INNSE, in cui il fatto di essere rappresentativi della stragrande maggioranza degli operai, ha permesso alle RSU di quella fabbrica di dettare modalità e forme della lotta e le stesse condizioni della trattativa ai vertici sindacali FIOM.

La Sezione AsLO di Napoli

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