11/11/2009: Verso altre forme di respingimenti collettivi in Libia


Sembrano concluse la operazioni di salvataggio del peschereccio carico di migranti, in balia delle onde per giorni, mentre l’Italia e Malta tentavano di coinvolgere le forze libiche per realizzare un ennesimo respingimento collettivo verso la polizia di Gheddafi.
Grazie alla perizia del comandante della petroliera Antignano i migranti sono sopravvissuti alla tempesta che per tre giorni ha imperversato nel Canale di Sicilia.
Probabilmente solo le avverse condizioni meteo, una burrasca da nord forza otto, hanno impedito alle unità libiche, di intesa con il governo italiano e le autorità maltesi, di effettuare un altra deportazione di massa che avrebbe precluso qualunque possibilità di raggiungere un paese europeo dove presentare una istanza di asilo o di protezione internazionale. E che avrebbe avuto come vittime anche donne e minori.
La vicenda solleva numerosi interrogativi, malgrado la sua conclusione apparentemente felice, turbata però dalla scoperta di un cadavere a bordo del barcone, e desta gravi preoccupazioni per quanto potrà accadere ancora nei prossimi mesi invernali, per effetto dei recenti accordi siglati tra Malta, l’Italia e la Libia.

Sembra infatti che alle procedure di respingimento diretto verso le coste africane, con il coinvolgimento attivo delle unità militari italiane e maltesi, come si è fatto per tutta l’estate, si preferisca adesso delegare alle navi militari libiche il compito di effettuare il blocco e la deportazione dei migranti che sono scoperti in acque internazionali, o ai limiti delle acque territoriali libiche, mentre tentano di raggiungere l’Italia.
Forse le mutate e più severe condizioni meteo impediscono le “operazioni lampo” realizzate dalla Guardia di finanza di stanza a Lampedusa, che in poche ore, su segnalazione delle unità Frontex, intercettava le imbarcazioni cariche di migranti e le “restituiva” ai libici, con trasbordi in mare spesso violenti e in violazione del divieto di espulsioni collettive. In otto-dieci ore non è facile arrivare al limite delle acque libiche, respingere i migranti e rientrare a Lampedusa, come è stato possibile durante l’estate quando il mare era calmo.
Forse si sono accesi troppi riflettori su queste prassi di “cooperazione pratica” tra le polizie italiane, maltesi e libiche, dopo che la Commissione Europea ha chiesto informazioni all’Italia proprio sui respingimenti collettivi, dopo che le Procure di Agrigento e Siracusa hanno aperto indagini penali iscrivendo nel registro degli indagati alti esponenti della Guardia di finanza, dopo che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha continuato a ricevere gli esposti di quanti sono stati deportati in Libia.
Al posto dei respingimenti collettivi si profila dunque la sistematica omissione di intervento, anche per giorni, in attesa che i mezzi libici intervengano a fare il “lavoro sporco”, anche in acque internazionali, anche in zona SAR (ricerca e salvataggio) di competenza di Malta, anche quando ad intervenire nei primi soccorsi sono state unità italiane o maltesi.
Le dichiarazioni del ministro degli esteri italiano non corrispondono affatto agli “sforzi” fatti anche dall’Italia, almeno nelle prime ore successive alla chiamata di soccorso, per rinviare in Libia tutti gli occupanti del barcone in navigazione nel canale di Sicilia in tempesta, malgrado a bordo si trovassero donne e bambini, oltre che potenziali richiedenti asilo come gli eritrei.
"Come sempre l’Italia ha fatto il suo dovere: ha scortato la nave, ha rifornito di viveri e di medicinali quelli che ci sono a bordo. Non ha voltato le spalle dall’altra parte", è stato il commento del ministro degli Esteri Franco Frattini nelle ore in cui i primi migranti sbarcavano finalmente a Pozzallo. Quanto affermato (“come sempre”) dal ministro contrasta con le prassi adottate questa estate quando le imbarcazioni militari italiane hanno sistematicamente riconsegnato alle unità libiche i migranti bloccati nelle acque corrispondenti alla zona SAR (ricerca e salvataggio) italiana, o in acque internazionali di competenza di Malta. E contrasta verosimilmente con quanto realmente accaduto dopo il lancio dei primi messaggi di soccorso da parte del barcone in difficoltà nel mare in tempesta.
La realtà sembra diversa da quanto dichiarato dalle autorità. Almeno nelle prime ore dopo la chiamata di soccorso il governo italiano ha fatto di tutto per non rispettare le Convenzioni internazionali sul diritto del mare e le normative comunitarie che impongono di salvaguardare i diritti fondamentali delle persone anche nel caso dei respingimenti in mare.
Da tempo ormai gli accordi con la Libia vengono continuamente manipolati, ben al di là di quanto ha approvato il Parlamento quando li ha ratificati, lo scorso febbraio. Una ratifica seguita da una missione del ministro Maroni a Tripoli che ne ha immediatamente ridefinito la portata operativa, come si è potuto rilevare a partire dal 7 maggio di quest’anno.

In base all’articolo 2 del Protocollo firmato a Tripoli il 29 dicembre 2007 dal ministro Amato, richiamato espressamente nel Trattato di amicizia italo-libico firmato da Berlusconi nell’agosto del 2008, “l’Italia e la Grande Giamahiria organizzeranno pattugliamenti marittimi con 6 unità navali cedute temporaneamente dall’Italia. I mezzi imbarcheranno equipaggi misti con personale libico e con personale di polizia italiano per l’attività di addestramento, di formazione, di assistenza tecnica all’impiego e manutenzione dei mezzi. Dette unità navali effettueranno le operazioni di controllo, di ricerca e salvataggio nei luoghi di partenza e di transito delle imbarcazioni dedite al trasporto di immigrati clandestini, sia in acque territoriali libiche che internazionali, operando nel rispetto delle Convenzioni internazionali vigenti, secondo le modalità operative che saranno definite dalle competenti autorità dei due Paesi”. Dunque, in base agli accordi conclusi da Maroni a Tripoli lo scorso febbraio, proprio quelle imbarcazioni donate dall’Italia, come altre imbarcazioni militari libiche, possono anche operare in acque internazionali, andando a “riprendere” i migranti che fuggiti dalla Libia stanno per raggiungere Malta o l’Italia, per chiedere asilo, o comunque per salvare la vita. Senza alcun “rispetto per le Convenzioni internazionali vigenti”.
Così i governi europei rimangono con le “mani pulite”, anche a rischio di commettere una vera e propria omissione di soccorso, come si è verificato dal caso della nave PINAR fino alla tristissima vicenda del gommone carico di eritrei morti di stenti ma “negati” dal governo italiano alla fine di agosto, ed ancora pochi giorni fa.

Quanto avviene nelle acque del Canale di Sicilia dal mese di maggio contrasta con la normativa interna in materia di regole di ingaggio delle unità navali preposte al contrasto dell’immigrazione irregolare. Il decreto del Ministro dell’interno 19 giugno 2003 (Misure su attività di contrasto dell’immigrazione illegale via mare), emanato in attuazione dell’art. 12, comma 9-quinquies T.U., introdotto dalla legge n. 189/2002, consente attività di pattugliamento di unità navali italiane anche al fine di rinviare imbarcazioni prive di bandiera nei porti di provenienza (non in qualsiasi porto), ma rispettando ben determinate procedure e comunque, in ogni caso, tutte le attività devono essere improntate “alla salvaguardia della vita umana ed al rispetto della dignità della persona” (art. 7), oltre al limite, invalicabile, del rispetto dei diritti umani nei termini ben definiti dal diritto nazionale, comunitario ed internazionale, nei termini seguenti.

1) se i migranti in navigazione si trovino in stato di pericolo ogni nave italiana ha il dovere di soccorrerli e di trasbordarli sulle unità navali italiane; infatti in base alla Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo, adottata ad Amburgo il 27 aprile 1979 (Marittime Search and Rescue Sar), a cui l’Italia ha aderito e ha dato esecuzione con legge 3 aprile 1989, n. 147, ogni nave italiana è obbligata a procedere alle operazioni di soccorso ai naufraghi e, nel caso verifichi lo stato di pericolo delle imbarcazioni dei migranti, ha l’obbligo di portarli in porto sicuro e dunque in Italia, essendo il luogo in cui le navi italiane sono autorizzate ad attraccare e dove gli stranieri possono essere protetti da gravi violazioni dei diritti umani. Dove potrebbero anche presentare una domanda di asilo politico e di protezione internazionale; anche quando una nave militare o in servizio di polizia prende misure di ispezione o controllo nei confronti di un’imbarcazione che è sospettata di trasportare migranti in condizioni irregolari ha comunque l’obbligo di assicurare l’incolumità e il trattamento umano delle persone a bordo e l’applicazione del principio di non allontanamento e le altre norme della convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati (così prevedono gli artt. 9 e 19 del Protocollo addizionale per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria della Convenzione contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001, ratificati e resi esecutivi con legge 16 marzo 2006, n. 146);

I respingimenti collettivi verso la Libia, anche nella versione più recente camuffata da omissione di soccorso e richieste di intervento delle unità militari libiche, contrastano con la normativa comunitaria. L’art. 12 del Codice comunitario delle frontiere Schengen prevede che le autorità di polizia possano bloccare i migranti che tentano di entrare nel territorio di uno stato Schengen, ma secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia questo potere non può essere esercitato in contrasto con i diritti fondamentali della persona umana, tra i quali va annoverato il diritto di chiedere asilo ed il diritto a non subire respingimenti collettivi. Chiunque venga raccolto a bordo di una unità battente bandiera italiana in attività di controllo delle frontiere marittime, si trova in territorio italiano e se fa richiesta di asilo, o se si tratta di un minore, non può essere riconsegnato alle autorità di un paese terzo come la Libia, soprattutto quando non può essere stabilita la esatta provenienza delle persone raccolte in mare. Chi contravviene queste regole viola il diritto internazionale e questa stessa violazione andrebbe sanzionata anche dal giudice penale italiano quanto meno come abuso di ufficio, se non come omissione di soccorso o vero e proprio sequestro di persona. Sono forse queste le ragioni per le quali per giorni si è negato un intervento di assistenza, affidando ad una petroliera il compito di “spianare” il mare in burrasca, a lato del barcone carico di migranti, ed adesso si affida ai libici il “lavoro sporco” di effettuare concretamente la deportazione.

Il principio di non refoulement ( non respingimento), sancito oltre che dalla Convenzione a salvaguardia dei diritti dell’Uomo (CEDU) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dalla Convenzione di Ginevra del 1951, vale anche in acque internazionali, come è ribadito nelle linee guida dell’ACNUR, ed anche quando c’è il rischio che le persone respinte verso un paese terzo come la Libia siano successivamente deportate verso i paesi di origine nei quali possono subire arresti arbitrari, torture o altri trattamenti disumani o degradanti.

Le deportazioni successive praticate su vasta scala dalla Libia, anche con fondi europei, aggravano le conseguenze della violazione del principio di non respingimento da parte di quei paesi come Malta e l’Italia che dovrebbero garantire soccorso ed assistenza, e non invece consentire deportazione ed arresti arbitrari. Per questo motivo “chiamare” le unità militari libiche per ricondurre i migranti che si trovano in acque internazionali quando invece dovrebbe scattare un obbligo di protezione e di salvataggio, equivale ad un “respingimento collettivo” vietato da tutte le convenzioni internazionali.

Il prefetto Rodolfo Ronconi, responsabile della Direzione centrale immigrazione e polizia della frontiera del Ministero dell’interno, ha dichiarato all’Ansa che: "il barcone si trovava in acque libiche [70 miglia a nord di Bengasi, ndr.] e se la petroliera italiana avesse preso a bordo i migranti, li avrebbe poi condotti, in accordo con Tripoli, verso le coste libiche da cui erano partiti. La Antignano non è però riuscita ad avvicinarsi al barcone: ha comunque lanciato viveri. Le cattive condizioni del mare hanno vanificato in seguito anche i tentativi (ben quattro) di una motovedetta libica di raggiungere l’imbarcazione, che nel frattempo aveva raggiunto le acque maltesi".
Come avrebbe potuto la petroliera prendere a bordo i migranti se tutti dicono da giorni che la petroliera avrebbe distrutto al primo contatto la imbarcazione di legno stracarica di migranti? Che garanzie come “place of safety” poteva offrire la Libia sulla sorte successiva di migranti che si sapeva già essere eritrei, di donne, di minori ?

Altre circostanze della vicenda rimangono assai dubbie, soprattutto per quanto concerne le fasi iniziali. Di certo Malta e la Libia non sono “rimaste a guardare”, come sostengono la maggior parte dei mezzi di informazione. Tutti i governi coinvolti hanno tentato inizialmente di rispedire i migranti in Libia, e solo le avverse condizioni del mare hanno impedito alle navi militari libiche che avrebbero dovuto navigare verso nord, con una tempesta forza otto e venti a 50 nodi provenienti proprio da quella direzione, di raggiungere il barcone carico di migranti e quindi di ricondurre gli stessi verso il porto di partenza. In questo caso il maltempo ha salvato la vita dei migranti, ma in quante altre occasioni simili si sono verificate, e si potranno verificare ancora in futuro, tragedie senza testimoni?

La successione cronologica dei fatti relativi alle prime fasi delle azioni di salvataggio del barcone, in navigazione nel mare in tempesta per cinque giorni, suscita oggi gravi dubbi. Ci auguriamo che l’inchiesta penale aperta oggi contribuisca a fare chiarezza su quanto realmente avvenuto ed accerti tutte le responsabilità.

Il comandante della petroliera Antignano, intervistato da Repubblica TV ha dichiarato con la sua viva voce che la prima richiesta di intervento da parte del Corpo della capitaneria di porto italiano gli è stata rivolta alle 18,30 di giovedì 22 ottobre, un giorno prima di quanto annunciato dal governo italiano e poi diffuso da tutti i media. O abbiamo sentito male, o il comandante della petroliera si è sbagliato sulle date, oppure si può credere che il governo italiano abbia mentito e posticipato di 24 ore la data del primo segnale di soccorso, raccolto dalle autorità italiane e poi girato alla petroliera italiana per “coprire” le attività diplomatiche e militari tendenti a ricondurre il barcone verso il porto libico dal quale era salpato, probabilmente all’alba della giornata di giovedì, o nella notte precedente.

Che cosa è successo veramente nelle acque in tempesta del Canale di Sicilia tra giovedì 22 e venerdì 23?
A bordo del barcone trainato nel porto di Pozzallo si è trovato anche il cadavere di un uomo. In quali circostanze è avvenuto il decesso, ed un intervento più tempestivo delle autorità italiane o maltesi avrebbe potuto salvare quella vita?

No, il problema non è certo “dove mettiamo anche questi”, come alcuni squallidi messaggi reperibili in rete commentano oggi l’arrivo tardivo dei naufraghi in un porto italiano. Le ansie di sicurezza degli italiani, che sono disposti anche al sacrificio di vite umane, pur di difendere un benessere che viene intaccato da ben altri “nemici interni”, non si possono soddisfare con le menzogne, o con la violazione delle regole dello stato di diritto e del diritto internazionale.
In questo caso, per giustificare i ritardi nell’intervento delle unità militari di soccorso non basta addurre che il mare era agitato, perché la burrasca di giovedì e di venerdì a forza otto, secondo i bollettini meteomar era già diminuita a forza sette nella mattina di sabato, ed era ancora in diminuzione per tutta la giornata di domenica 25. In circostanze analoghe sono stati operati numerosi salvataggi in alto mare quando erano coinvolti dipartisti o traghetti italiani. Perché questa volta le avverse condizioni meteo avrebbero impedito un tempestivo intervento delle unità militari italiane?

Perché i migranti non sono stati tratti i salvo nel pomeriggio di sabato o, al più tardi nella mattina di domenica, magari coinvolgendo -come si era fatto altre volte in passato - i pescherecci di altura di Mazara del Vallo? Perché il ministero dell’interno precisa adesso che almeno nelle prime ore anche l’intervento della petroliera Antignano era finalizzato alla deportazione dei migranti in Libia? Perché questo ennesimo balletto diplomatico ha tenuto per 48 ore almeno i naufraghi a rischio di morire annegati o di freddo? E in futuro, quante vittime dovremo attenderci quando le diatribe sulle competenze di salvataggio nelle acque internazionali ritarderanno ancora i soccorsi e non si troveranno navi come la Antignano a difendere dalle onde la rotta dei barconi dei disperati in fuga dalla Libia? Oppure si vogliono ancora altre vittime della fortezza Europa per confortare le opinioni pubbliche sempre più xenofobe sulla “cattiveria” dei governanti, e tentare magari di dissuadere, altri che intendono ancora partire per attraversare il Canale di Sicilia verso l’Italia, in fuga dall’inferno libico? Che fine hanno fatto le unità FRONTEX, di base fino a poche settimane fa proprio a Malta?

Chiediamo alla Commissione Europea di fare luce sui rapporti tra le operazione dell’agenzia europea per il controllo delle frontiere FRONTEX e le attività di pattugliamento congiunto e di respingimento collettivo poste in essere dalle autorità italiane, maltesi e libiche. Chiediamo inoltre di conoscere le attività di salvataggio poste in essere dalle unità aero-navali di Frontex nelle acque internazionali e nella zona SAR di competenza della Repubblica maltese, a partire dall’avvio delle missioni gestite dall’Agenzia Europea per il controllo delle frontiere esterne con base a Malta.

Chiediamo che il Parlamento e l’Unione Europea impongano a Malta il rispetto dei doveri di salvataggio nella zona SAR di sua competenza, stabilendo analogo obbligo per l’Italia quando non vi siano mezzi maltesi pronti ad intervenire. Ove ciò non si verificasse, si dovrebbe adottare a livello internazionale un accordo che ridimensioni la zona SAR che Malta, soprattutto per ragioni economiche ( pedaggi), si è riservata dalla fine della seconda guerra mondiale. Il governo maltese deve accettare gli emendamenti aggiuntivi della Convenzione di Montego Bay del 1982, in vigore dal 2006 ed accettati dall’Italia, secondo i quali sono i governi rivieraschi comunque responsabili delle azioni di salvataggio. Ma chiediamo anche che venga superato il Regolamento Dublino 2 che scarica sugli stati esterni dell’Unione Europea la competenza per le domande di protezione internazionale. Malta a differenza dell’Italia, non può accogliere un numero elevato di richiedenti asilo e gli altri paesi europei devono accettare il ritrasferimento (resettlment) sui propri territori di quanti raggiungono quell’isola. Assai diverso il caso dell’Italia che accoglie soltanto un decimo ( circa 50.000) dei rifugiati che accoglie la Germania ( oltre 500.000). E poi qualcuno lamenta ancora che in Italia si corre il rischio di “invasione” non appena arrivano alcune centinaia di richiedenti asilo.

Chiediamo alla magistratura italiana ed agli organismi dell’Unione Europea di accertare ed eventualmente sanzionare l’inadempimento degli obblighi di protezione nei confronti delle persone in pericolo di vita a mare, poste in essere dalle autorità maltesi, o durante operazioni di pattugliamento o di salvataggio coordinate dalle stesse autorità nella zona SAR ( Ricerca e soccorso) di competenza della Repubblica maltese. Ma la stessa verifica va avviata nei confronti delle autorità italiane per i respingimenti collettivi praticati su vasta scala fino a poche settimane fa.

Attendiamo che le corti internazionali, e, sarebbe tempo, qualche magistrato italiano, trovino la forza e la coerenza per comminare al governo italiano ed al governo maltese, condanne esemplari. Condanne e procedure di infrazione da parte della Commissione Europea che andrebbero estese ai responsabili operativi dell’Agenzia FRONTEX, ove se ne accertassero responsabilità omissive o violazioni delle normative comunitarie e/o internazionali.

Fulvio Vassallo Paleologo
Università di Palermo

martedì 27 ottobre 2009
da www.meltingpot.org/articolo14936.html

http://www.autprol.org/