indice n.161

PRESIDIO CONTRO LA LEONARDO DI NERVIANO (MI)
denunce per il blocco al porto di Genova del giugno 2024
Notizie dai campi di internamento per immigrati
NARRAZIONI DI POTERE NARRAZIONI DI CLASSE
LIBERTÈ POUR GEORGES ABDALLAH – LIBERTÈ POUR LA PALESTINE
Palestina: prigioniere e prigionieri
Con la resistenza palestinese: dichiarazione al processo
contro il 41 bis: dichiarazione a processo
PRIGIONI DI ISOLAMENTO E RESISTENZA IN TURCHIA
Lettera dal carcere di Massama-Oristano
LETTERA DAL CARCERE DI napoli-SECONDIGLIANO
LETTERA DAL CARCERE DI san michele (AL)
Lettera dal carcere di UTA (cagliari)
Lettera da una Comunità di servizio per la salute mentale
UDINE: PRESIDIO SOLIDALE SOTTO IL CARCERE
Lettera dal Carcere di Budapest (ungheria)


PRESIDIO CONTRO LA LEONARDO DI NERVIANO (MI)
Sabato 8 marzo la Leonardo di Nerviano (MI) ha lasciato a casa i lavoratori, mentre solitamente il sabato è un giorno
lavorativo, quindi è stata sospesa la produzione per quella giornata per evitare che questi potessero incontrare ed
eventualmente confrontarsi con i manifestanti.
Il grande tabellone con l’insegna di Leonardo è stato ricoperto totalmente con strati di polietilene nero per oscurarne
la scritta.
Il presidio, che ha visto la presenza di un paio di centinaia di partecipanti, si è poi trasformato in un corteo che ha
percorso per circa un’ora la strada statale Sempione fino ad arrivare nei pressi dell’area abitata e commerciale. Qui
sono continuati gli interventi e i volantinaggi che hanno suscitato reazioni positive, di interesse e di consenso sia da
parte degli automobilisti che dei clienti del centro commerciale.
In tutto questo è da evidenziare il totale silenzio della stampa, anche locale, che volutamente e probabilmente dietro
indicazione di Leonardo e dei suoi padroni statali, ha censurato qualsiasi tipo di informazione. È chiaro che la
denuncia dell’attività di produzione di morte di Leonardo SpA che fa affari con le guerre dia molto fastidio. Loro
vorrebbero continuare a produrre indisturbati sistemi d’arma, che sono strumenti di morte e distruzione, e aumentare i
loro profitti vertiginosamente, come sta avvenendo in questi ultimi anni in cui i venti di guerra dei padroni del mondo
si fanno sentire sempre di più e il riarmo diventa sempre più imponente. Sta a noi, che delle loro armi e delle loro
guerre siamo vittime, bloccare la loro filiera di morte e continuare con sempre più forza a mobilitarci contro le
guerre, chi le produce, chi ha interessi a farle.
La guerra comincia anche da qui, dalla Leonardo SpA, dall'appetito di sangue e di dominio del complesso militare
industriale, principale beneficiario dell'odierna e monumentale campagna di "riarmo".
Contro le bandiere blu della Von der Leyen, di un’Europa sempre più guerrafondaia e del silenzio-assenso agli 800
miliardi che in 4 anni si vuol destinare alle spese militari che, come sempre, verranno tolti agli adeguamenti
salariali, alla scuola e alla sanità pubblica, alla cura dell’ambiente e alla tutela della sicurezza sul lavoro.
Contro Leonardo parte attiva nel genocidio del popolo palestinese: i piloti israeliani, che bombardano Gaza con gli F-
35, si sono formati e addestrati a bordo di aerei prodotti in Italia all'ex Alenia Aermacchi oggi Leonardo di Venegono
Superiore (VA), 30 velivoli M-346 venduti nel 2012 a Israele facilmente armabili per trasformarli in jet d'attacco. I
primi due caccia furono consegnati nel 2014, pochi giorni prima dell'aggressione militare sulla Striscia di Gaza
denominata "Margine protettivo", un massacro che ha sterminato oltre 2200 persone di cui 531 bambini. Anche i piloti
degli elicotteri d'attacco, usati per il genocidio e che hanno bombardato anche gli ospedali uccidendo perfino i
neonati, si sono formati sugli elicotteri Agusta prodotti da Leonardo a Samarate (VA).
Leonardo, una delle cui sedi si trova sul territorio di Nerviano, direttamente o attraverso la controllata statunitense
Leonardo DRS, è un partner strategico del complesso militare-industriale di Israele, con la conseguenza che è coinvolta
in qualità di fornitore e fruitore delle tecnologie militari israeliane nella violenza contro la popolazione
Palestinese.
Dal welfare al warfare, dal conflitto tra Russia e NATO sul suolo ucraino al genocidio del popolo palestinese: Leonardo
festeggia la guerra e brinda al proprio boom in borsa, con commesse vertiginose e grandi profitti.
Il presidio di sabato davanti ai cancelli della Leonardo di Nerviano è solo uno delle tante iniziative di lotta che si
stanno moltiplicando per inceppare la macchina bellica.
Assemblea contro la guerra Varese e provincia

***
VARESE SEMPRE PIÙ COINVOLTA nella MILITARIZZAZIONE
A pochi giorni dalla "Settimana della Sicurezza" organizzata all’Istituto Falcone di Gallarate, torna la presenza delle
divise nelle scuole con finalità formative e orientative. Durante l’evento, studenti e insegnanti della provincia
avevano organizzato un presidio di protesta, sostenuto anche dall’Osservatorio. La contestazione riguardava il ruolo
delle forze dell’ordine come "docenti" su temi di competenza degli insegnanti.
Presso l’Istituto Falcone, già noto per il P.C.T.O. che prevede il coinvolgimento diretto degli studenti nella base NATO
di Solbiate Olona, nonché nei licei del Viale dei Tigli di Gallarate, sono stati recentemente ospitati due ufficiali
dell’Accademia Navale di Livorno. Il loro intervento si è focalizzato sul percorso di formazione all’interno della
Marina Militare e sulle opportunità di carriera nelle “forze di difesa”. A ciò si aggiunge la conferenza stampa del 31
gennaio, tenuta dalle sezioni di Gallarate e Milano dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia, che ha promosso una
formazione “alternativa” volta a diffondere il patrimonio della Marina Militare. Un'iniziativa che si inserisce in un
contesto più ampio di normalizzazione della presenza militare nelle scuole, con l’obiettivo implicito di rendere sempre
più familiare – e desiderabile – la carriera nelle forze armate. Si omette, tuttavia, di evidenziare la finalità ultima
di tali percorsi: il reclutamento per le guerre e il rafforzamento degli apparati di controllo e repressione.
Non si tratta solo di un fenomeno circoscritto all’ambito scolastico: anche le amministrazioni comunali contribuiscono
alla diffusione di una cultura militare. Ne è esempio l’incontro in programma a Induno Olona (VA) il 6 marzo, che vedrà
protagonista il Comandante Alfa, cofondatore del Gruppo di Intervento Speciale (GIS) dei Carabinieri, il quale
interverrà per raccontare il proprio impegno “in difesa della libertà e della democrazia” – una retorica che merita
un’attenta riflessione critica. Parallelamente, il Comune di Castano Primo (MI) organizza l’edizione 2025 del corso
"Studenti con le Stellette", in programma dal 24 al 31 agosto presso la sede di Novedrate (CO) dell’Università e Campus.
Un ulteriore tassello in un quadro sempre più orientato alla promozione della cultura militare tra le giovani
generazioni.
Di questi e di altri aspetti avremo modo di approfondire più ampiamente in seguito. (Da Osservatorio contro la
militarizzazione delle scuole e delle università Varese, febbraio 2025)


denunce per il blocco al porto di Genova del giugno 2024
“Non si può abbattere la casa del padrone, con gli strumenti del padrone” (Audre Lorde)
Per la giornata di blocco attorno al porto di Genova del 25 giugno 2024, contro tutte le guerre ed il genocidio in
Palestina, in questi giorni di primavera stanno arrivando denunce per manifestazione non autorizzata, interruzione di
pubblico servizio, travisamento, danneggiamento, violenza privata, lancio pericoloso di oggetti, imbrattamento ai danni
di venti compagne e compagni.
Ricordiamo come quella sia stata una bella e significativa giornata di lotta, partecipata da un migliaio di persone,
provenienti da Genova e da tutta Italia. Una giornata in cui per la prima volta si è riusciti a bloccare più varchi
contemporaneamente, per tante ore, infliggendo un serio danno economico ai signori della logistica. E in cui è stato
lanciato il chiaro segnale dell'urgenza di schierarsi contro il genocidio in Palestina e di ampliare la mobilitazione
contro la guerra.
Le ragioni che allora ci hanno portato al blocco, restano oggi tutt'ora valide e, se possibile, ancora più impellenti.
In Palestina il massacro continua sulle macerie di Gaza, così come la guerra in Ucraina e i tentativi di tregua per
poter meglio procedere al banchetto della ricostruzione e alla spartizione di terre e risorse, da cui apparati e
padronato europei temono di essere tagliati fuori.
La propaganda bellica (con il ceto intellettuale ormai apertamente schierato), i fondi stanziati a debito per il riarmo,
il rilancio dell'economia di guerra dei governanti ci imbandiscono un presente/futuro di miseria, ulteriore sfruttamento
e criminalizzazione di ogni forma di dissenso. Padroni e governo stanno affinando i loro strumenti repressivi (come
dimostra l'iter di approvazione del DDL sicurezza), in risposta noi non possiamo che continuare a difendere e mettere in
pratica i nostri strumenti di lotta, come il blocco del porto, fermamente convinti della giustezza delle nostre azioni e
della necessità di continuare a mobilitarci contro i venti di guerra che soffiano sempre più forte.
Solidarietà con le compagne e i compagni denunciati.

Assemblea contro la guerra e la repressione - Genova


Notizie dai campi di internamento per immigrati
Di rivolte, scioperi della fame, tentativi di evasione e fughe. La normalità del campo di Gradisca (GO). La lotta dei
prigionieri nel campo per senza-documenti di Gradisca continua senza soste. Dopo la caduta da un tetto di un giovane
prigioniero tunisino nella notte del 10 gennaio (con gravi lesioni alle gambe) e un nuovo incidente cinque giorni dopo,
giovedì 16 gennaio si è scatenata una protesta incendiaria nella zona rossa. Il 21 gennaio, dopo due giorni di scontri,
diversi fuochi sono stati accesi nella notte: la polizia è entrata nelle celle, caricando i detenuti e sequestrandogli i
telefoni, che sono stati riconsegnati solo più tardi. Com’era già successo durante la notte di capodanno, alcuni
prigionieri sono saliti sul tetto in segno di protesta. Sono così iniziati degli scontri all’interno del Cpr quasi
ininterrotti. Martedì l’agitazione è cresciuta ancora: uno sciopero della fame collettivo è sfociato in una nuova
rivolta con fuoco nell’area rossa. Le motivazioni delle rivolte sono strutturali, sia per le condizioni di detenzione
nel centro come per la sua stessa natura, di lager di tortura. Si susseguono scioperi della fame per la pessima qualità
del cibo e la somministrazione di psicofarmaci assieme ad esso. Ciò avviene con la complicità e necessaria
collaborazione della cooperativa Ekene, che continua a gestire il centro in proroga. Spesso le guardie in antisommossa
entrano nelle gabbie esterne alle camerate manganellando chiunque si trovi a tiro, ma questo non impedisce ai
prigionieri di reagire. Dopo due giorni di rivolte, la cosiddetta area rossa del campo è stata completamente devastata e
nessuno si trova più al suo interno. Otto prigionieri sono stati trasferiti nell’area blu, mentre 35 di loro sono stati
deportati in Tunisia e Marocco o trasferiti in carcere. Sono poi avvenute perquisizioni con l’impiego di squadre
antisommossa nelle camerate.
Aggiornamento del 13 marzo, un nuovo tentativo di evasione è stato tentato da cinque prigionieri: non ce l’hanno fatta e
rientrati sono stati picchiati, li hanno lasciati con le ossa spaccate. I fuochi, la notte, si accendono comunque, come
una promessa di resistenza. (da nofrontierefvg.noblogs.org)

Riapertura del CPR di Torino: a sorpresa per le vie della detenzione amministrativa.
L’apertura, prevista per il 24 Marzo, non poteva e non potrà passare nel silenzio. A 2 anni dalle rivolte che ne hanno
determinato la chiusura, 70 nuovi posti di detenzione amministrativa, in 2 sezioni delle 6 a disposizione nella
struttura, verranno messi a regime da un ente gestore torinese – Sanitalia Service – che promette condizioni dignitose e
progetti di sostegno con cui provare a mascherare il volto razzista dei centri di permanenza per il rimpatrio. Se poco
ci importa delle promesse e dei propositi di chi guadagna e si accanisce sulla pelle delle persone senza “giusti”
documenti, riteniamo invece sia fondamentale immaginare e praticare azioni che possano mettersi di traverso al razzismo
di Stato, che nei CPR e nelle deportazioni trova una delle sue massime espressioni. Coordinarsi per cogliere di sorpresa
le guardie, trovare obiettivi comuni e puntare alle parti sensibili delle strutture detentive e della macchina che le
manda avanti è il minimo che possiamo fare per non lasciare che la solidarietà sia un mero slogan. Quelle mura e quelle
gabbie, quelle reti e quelle telecamere – come ci ha insegnato chi da dentro i CPR da Torino a Bari e da Trapani a
Gradisca si è ribellato e continua a farlo – sono meno indistruttibili e invalicabili di quanto non sembri. Con questa
consapevolezza abbiamo attraversato le vie attorno al CPR ieri, lunedì 24 marzo, e nei mesi precedenti. Così vogliamo
continuare a fare, ricordando a gran voce che: i CPR si chiudono col fuoco e s’è successo una volta può succedere di
nuovo! (da brughiere.noblogs.org)

Roma: sul presidio al CPR di Ponte Galeria del 2 febbraio 2025. Domenica 2 febbraio un presidio solidale di un centinaio
di persone ha interrotto la normalità e il silenzio che tengono in piedi il campo di deportazione a Ponte Galeria.
Durante il presidio alcuni reclusi hanno preso i tetti – unico modo per vedere e farsi vedere da un lager infossato in
una palude e circondato da mura di 8 metri – e sono stati bloccati dalle guardie; poco dopo, una colonna di fumo nero è
apparsa più volte nella sezione maschile. Il presidio è stato un momento di denuncia grazie al coraggio dei e delle
parenti di Moussa Balde e di Ousmane Sylla – uccisi dalla violenza dei CPR a Torino e Roma. La loro presenza, i loro
interventi, le proteste dei reclusi nel CPR sono motivi in più per fare la nostra parte di lotta qui fuori. Domenica 2
febbraio, quelle mura – sorvegliate, militarizzate, pensate per far scomparire – sono state abbattute dalla solidarietà
e il coraggio delle persone reclusx. Con il cuore e lo sguardo rivolti a chi è rinchiusx a Ponte Galeria, a chi paga il
prezzo della ribellione sulla propria pelle, a tutte le persone recluse in ogni prigione del mondo, il presidio si è
sciolto al grido di FREEDOM – HURRIYA – LIBERTÀ. Dei CPR solo macerie. Assemblea di solidarietà e lotta. (da
hurriya.noblogs.org)

In Puglia ci sono 2 Cpr: Bari Palese e Brindisi Restinco. Mercoledì 19 marzo un gruppo di solidali è stato fuori dal CPR
di Brindisi Restinco per un breve saluto allx reclusx. Come altri cpr sul suolo italiano, il luogo si trova fuori dalla
città, in un’area militarizzata, con alti muri di cinta e pali ancor più alti muniti di telecamere 360°. La struttura
detentiva si trova nello stesso vetusto complesso del CARA, separata all’interno da un altro muro. É paradigmatico del
trattamento delle strutture detentive (non solo per soggetti migranti) in questo paese
l'aver non solo relegato in remota periferia il CPR/CARA, ma anche la virtuale impossibilità di trovarne traccia sulle
mappe, che riportano solo la dicitura "CARA". Questo è per noi un ulteriore tassello dell'invisibilizzazione e
marginalizzazione delle persone deportate in questi luoghi e, perché no, della loro disumanizzazione agli occhi della
cosiddetta "società civile" tutta. Lx solidalx hanno iniziato a gridare cori di solidarietà a cui subito è arrivata
risposta da dentro, colpi sulle celle e grida che dicevano “libertà”, “aiuto” e “siamo bambini”. Lo scambio è durato
poco e sono stati portati i saluti anche dallx compagnx di Napoli e tutta la solidarietà possibile ad M e A, vivevano a
Napoli da decenni, prima di essere arrestati dopo un blitz nell'ex-chiesa in cui dormivano con altre persone, portati
nella questura di Napoli e subito dopo nel cpr. L'obiettivo è sempre quello, rinchiudere e deportare chi non ha i
"buoni" documenti, ancora di più se è poverx e non biancx. La storia di M e A mostra anche che i cpr sono utilizzati
anche per quei territori, come Napoli, in cui non ci sono centri di espulsione. La logistica della detenzione e
dell'espulsione funziona senza sosta e in ogni punto del territorio, bastano uno sbirro zelante, un controllo di
documenti, una cella di sicurezza in una questura. Questo avviene ancor di più nei centri urbani, attraverso l’
introduzione delle zone rosse, volte all’ allontanamento dei soggetti “pericolosi”, parcheggiatori abusivi, o comunque
gente marginalizzata dalle piazze che ancora non sono turistiche, come stiamo vedendo accadere a Bari. Per questa
ragione,come rete attiva sul territorio contro ogni struttura detentiva, sentiamo la necessità di opporci
all’inasprimento della repressione che tutela il mantenimento del divario fra la città vetrina e il ghetto, attraverso
la costruzione di ponti e relazioni fra chi combatte ogni giorno per espandere il fuoco della solidarietà. Assemblea
NoCarcerieCprBari.

La violenza del Cpr di Trapani Milo, 12 marzo 2025. Al CPR di Trapani Milo stanno avendo luogo degli episodi di violenza
per cui è necessaria una risposta urgente. Le persone recluse comunicano di essere in pericolo di vita e di avere paura
di non sopravvivere alla notte. Come rete siciliana contro il confinamento, apprendiamo infatti di una
gravissima notte di violenza nel CPR di Trapani Milo, dove, a quanto pare a seguito di una rissa, sembra che non ci
siano stati interventi a tutela delle persone e della loro incolumità -quantomeno- fisica, se non la chiamata alla
polizia antisommossa, che non sarebbe intervenuta in loro tutela. Le notizie che arrivano dall’interno, denunciano le
gravi condizioni in cui verserebbero alcune persone, ad ora non messe in sicurezza. Questi episodi contribuiscono a
dimostrare che il CPR è un luogo pericoloso, in cui alle persone recluse non viene garantito il diritto alla vita e
all’incolumità personale, e non solo alla difesa, costrette a sopravvivere in uno stato disumano e di sovraffollamento,
dove tutto può succedere. Il CPR di Milo sta creando e mantenendo delle condizioni che generano violenza e che mettono
seriamente a rischio la vita dei reclusi. Deve essere chiuso immediatamente, come tutti i CPR, e le persone, per essere
al sicuro, devono essere liberate. (Da Rete siciliana contro il confinamento)
Aggiornamenti dal Cpr di Trapani sulle violenze e resoconto di un saluto ai prigionieri. Continuano gli abusi
polizieschi e giuridici all’interno del CPR di Trapani Milo. Dalla riapertura a ottobre dell’anno scorso, dopo essere
stato reso inagibile dai prigionieri, già a novembre i detenuti reagivano rivoltandosi e opponendosi ai trattamenti
inumani del centro. Le condizioni detentive non fanno che peggiorare nonostante all’interno si cerchi di percorrere ogni
strada possibile tra battiture, scioperi del carrello e instancabili rivolte violentemente represse di cui noi
all’esterno siamo solo in parte informati. Ieri notte, 16 Marzo, un gruppo di persone ha sentito la necessità di
mostrare solidarietà ai reclusi recandosi sotto le mura del centro. (tratto da sottobosco.noblogs.org)

NARRAZIONI DI POTERE NARRAZIONI DI CLASSE
“Che lo sperpero del proferire non sia pretesto al tacere
che la rapina del significare non sia la tomba di ogni giudizio”.
(Haiku senza Haiku, progetto ispirato da Juan Sorroche-AS2 c.c. di Terni)

Vengono fatte con continuità puntuali ricerche storiche, lucide analisi politiche, dotte disquisizioni sul sesso degli
angeli, ma quasi nessuno/a si occupa di analizzare la quotidianità in termini di classe. Quei pochi/e che lo fanno sono
avvolti nel silenzio se non demonizzati e stigmatizzati anche nella così detta sinistra. E questo già la dice lunga.
Invece dovrebbe essere un esercizio di cui ci dovremmo far carico con urgenza per evitare che lo scollamento tra teoria
e prassi ci faccia perdere di vista che è sulla lettura di quello che accade nel quotidiano che si costruisce il comune
sentire. E’ un compito che ci dobbiamo assumere per evitare di dare sponda alla costruzione del nemico interno che sta
operando con sistematicità e da molto tempo il capitalismo neoliberista attraverso tutto l’arco partitico compresi
annessi, connessi e collaterali, media in prima linea. Il modello di destra, che è fondamentalmente fascista, punisce e
reprime i subalterni che non stanno al loro posto, il modello socialdemocratico, politicamente corretto e decorosamente
reazionario, li annichilisce fisicamente e psicologicamente. I subalterni devono essere sempre grati. Qualche tempo fa,
il ministro Giuseppe Valditara ha dichiarato in seguito all’aggressione da parte di un gruppo di genitori a una
professoressa di sostegno in una scuola in provincia di Napoli, nel plesso di Scansano, che siamo di fronte ad un
“imbarbarimento di una società sempre più violenta”. Sui giornali, nei media, sui social, nei telegiornali di ogni
ordine e tipo rimbalzano tutti i giorni notizie sulla violenza della società: ragazzi, addirittura minorenni, si
affrontano durante la movida con coltelli, armi da fuoco, qualche volta qualcuno rimane ucciso senza un motivo reale,
dicono i media, oppure per un pestone su un costoso paio di scarpe. Persone ne ammazzano altre incontrate per caso per
strada, i femminicidi poi sono pane quotidiano, stanno diventando routine. Lavoratori e lavoratrici muoiono tutti i
giorni, chi sotto una trave, chi sotto una gru, chi cadendo da un tetto, chi disidratato per un colpo di sole in un
campo di pomodori o chi addirittura scaricato sotto casa dal datore di lavoro e morto dissanguato. Una ragazzina tenta
di accoltellare un compagno di scuola portandosi il coltello da casa perché il ragazzino ha fatto la spia. Qualche tempo
fa un capotreno a Genova Rivarolo è stato aggredito e accoltellato da un ragazzo e una ragazza a cui aveva chiesto il
biglietto e che lui aveva fatto scendere dal treno perché privi di titolo di viaggio e senza intenzione di pagarlo.
L’aggressione al personale medico e infermieristico da parte dei familiari dei ricoverati nei pronto soccorso degli
ospedali è ricorrente. E’ notizia recente l’uccisione di Ramy, un ragazzo di 19 anni, in un inseguimento da parte delle
forze dell’ordine. Erano in due, coetanei, su un motorino e non si sono fermati all’Alt dei carabinieri. Tanto è
bastato. Per non parlare chiaramente della condanna unanime e bipartisan delle così dette violenze delle manifestazioni
di protesta e di rabbia che ci sono state a Roma, Milano, Bologna, Torino… in seguito all’uccisione di Ramy. Ma
l’ineffabile ministro Valditara, che non è il solo a fare queste esternazioni ma in buona compagnia, si è chiesto a cosa
sia dovuto questo imbarbarimento? L’insegnamento e l’esempio sono direttamente impartiti dal sistema di potere e dai
relativi agenti politici a tutti i livelli da quelli di governo a quelli partitici, a quelli associazionistici nazionali
e internazionali che usano con sistematicità e per scelta la legge del più forte per la soluzione di qualsiasi tipo di
problema sia con i subalterni in campo nazionale sia in campo internazionale. Israele ha deciso di eliminare fisicamente
tutti i palestinesi? tutto il mondo occidentale, Italia compresa, plaude e supporta. Gli Stati Uniti e la Nato hanno
deciso che gli ucraini sono carne da macello per il raggiungimento dei loro obiettivi? l’Europa si accoda, anzi è
estremamente attiva, e se il rischio è la terza guerra mondiale che importa! Comincia a manifestarsi un dissenso
interno? Viene immediatamente proposto il DDL 1660 così nessuno potrà più protestare neppure a bassa voce, tutto
rientrerà nel penale. Le scelte di potere diventano così metabolismo sociale, costruiscono la società e i rapporti tra
le persone. Se lo Stato è il primo a mettere in atto la legge della prevaricazione e del sopruso, la violenza normata e
istituzionalizzata, perché il cittadino non dovrebbe prendere esempio e applicarla in tutti i rapporti in cui si dipana
la sua quotidianità? Allo stesso tempo, la società neoliberista azzerando la speranza di una vita dignitosa, spingendo
alla realizzazione personale illusoria perché questo tipo di società ha già in premessa l’impossibilità di qualsiasi
realizzazione che non sia la svendita al miglior offerente per essere poi gettato via come merce avariata una volta
spremuto fino all’osso, provoca un disperato tentativo nei/nelle giovani di autoaffermazione attraverso la
prevaricazione nei confronti degli altri, la violenza gratuita di gruppo, il desiderio di essere considerato attraverso
la messa in atto della legge del più forte nei confronti di chi è ritenuto diverso e/o più debole. E questo è eclatante
nel caso dei femminicidi. Ma rispetto al femminicidio di Giulia Cecchettin sempre l’ineffabile ministro di cui sopra ha
dichiarato che il patriarcato non esiste e che la colpa della violenza sulle donne è dei migranti. Ignoranza, falsità,
arroganza e legge del più forte, una sintesi perfetta. E’ chiaro che la narrazione che fornisce il potere sugli
accadimenti di cui è diretto responsabile, è una narrazione di parte. Non esistono narrazioni neutre, non esistono
narrazioni oggettive. Esiste solo la narrazione di una classe contro l’altra. E allora è importantissimo dare la nostra
narrazione di classe, sempre, quotidianamente e su ogni avvenimento. Ne va della nostra dignità, consapevolezza e della
nostra stessa vita. Il potere ci racconta che gli incidenti sul lavoro sarebbero dovuti a troppo pochi ispettori che
controllano l’applicazione della normativa sulla sicurezza e scodella patenti a punti dell’ispettorato del lavoro per
l’edilizia, controlli contro il caporalato? ma noi dobbiamo smascherare il re. Tutti, assolutamente tutti, sanno che si
muore di lavoro perché i turni sono massacranti e i salari bassissimi, che dopo troppe ore di lavoro il livello di
attenzione ha un crollo verticale, che tante persone vanno al lavoro anche se stanno male, che sono costrette a staccare
da un lavoro e a correre a cominciarne un altro per ottenere una cifra che consenta di pagare un affitto e arrivare a
fine mese, che non si può lavorare in un cantiere con 40 gradi e con il casco in testa o con i guanti perché bisogna
scegliere se morire per un colpo di calore o cadendo da un ponteggio o essere licenziati per scarso rendimento e morire
di fame. E forse che Francesco Lollobrigida non sa che nelle campagne si lavora in condizioni di semischiavitù? Non mi
pare che gli siano mai andati di traverso i pomodori a pranzo. Il potere ci racconta che il 5 in condotta e la relativa
bocciatura sono uno strumento utile per far capire agli studenti il valore della legalità? Ma dovremmo essere noi a dire
ad alta voce sempre e in ogni occasione che la legalità è la consacrazione della legge del più forte e che è
l’illegalità a costituire difesa per gli oppressi. Per non parlare del velleitario e ridicolo progetto, propagandato
come specchietto per le allodole, di introdurre l’educazione al rispetto e all’affettività nelle scuole. E’ come
introdurre l’educazione alla pace in una società che vive di guerra. Un sistema che ha azzerato perfino il diritto
borghese più basilare e che disattende sistematicamente qualsiasi accordo internazionale può mai educare al rispetto
dell’Altro? Le giovani generazioni non sono stupide ma guardano e imparano. Mi torna in mente quella ragazzina, che ho
nominato prima, che a scuola ha tentato di accoltellare il compagno che aveva fatto la spia. Sicuramente sarà finita
nelle mani di qualche psicologa (e il femminile non è casuale) che si premurerà di insegnarle il valore della convivenza
civile, ma penso proprio che nessuno avrà preso per il cravattino il ragazzino per dirgli che fare la spia è un atto
estremamente ignobile. Anzi lo avranno commiserato e consolato e così si avvierà a diventare un adulto carrierista,
arrivista e delatore secondo i valori propagandati da questa società. Il potere ci racconta che i biglietti sui
trasporti urbani, sui treni regionali e via cantando si devono pagare, che non pagarli è incivile, che l’aggressione ai
controllori è cosa ignobile? ma perché nessuno dice che i controllori hanno assunto il ruolo di guardie, che nessuno/a
dovrebbe pagare i trasporti pubblici e i treni regionali, che il tempo di percorrenza per il lavoro è ugualmente lavoro
e dovrebbe essere pagato? e perché si tace sulla scelta ignobile dei sindacati che in seguito alle aggressioni ai
controllori hanno indetto uno sciopero di una giornata intera per reclamare sicurezza ma non per dire che i trasporti
locali che trasportano tra l’altro pendolari ammassati come sardine, dovrebbero essere gratuiti? D’altra parte il ruolo
dei sindacati lo conosciamo fin troppo bene. Quando Landini ha affermato a proposito dello sciopero generale indetto da
CGIL e UIL che è necessaria una rivolta sociale, di primo acchito può far dire meno male, finalmente i sindacati si sono
resi conto…e invece no, è un chiaro messaggio al governo: siamo noi in grado di gestire le masse, o ci chiamate al
tavolo decisionale oppure scateniamo la rivolta sociale. Siamo noi che possiamo gestire la pacificazione. Il governo ci
racconta che gli scioperi danneggiano la maggioranza, danneggiano i cittadini e quindi va usata la precettazione? la
socialdemocrazia ci racconta che lo sciopero è un diritto ma va usato nei termini di legge e che anche le manifestazioni
sono un diritto ma non devono essere violente, che deve essere rispettata la convivenza civile? Ma siamo noi a dover
dire in maniera esplicita, chiara, ovunque, dovunque e con ogni mezzo che scioperare e manifestare non è affatto un
diritto ma una forma di lotta messa in atto proprio per provocare disturbo, danni e reazioni. Potrei continuare
all’infinito. C’è un episodio della mia infanzia che mi ha segnata profondamente e il cui ricordo non mi ha mai
abbandonata. Prima elementare, classe di dieci bambini in una scuola pubblica del nord, maestra considerata
all’avanguardia. La maestra ci dice: a scuola vige l’obbligo del grembiule ma noi possiamo essere creativi e creare il
grembiule che vogliamo. Decidiamo tutti insieme come lo vogliamo. E così viene fuori un grembiule grigio, di stoffa
resistente, con grandi tasconi per metterci matite, gomme, penne…tutto quello che ci può servire insomma, e con una
passamaneria tirolese per renderlo più allegro. Ora le mamme (le eterne mamme!) devono comprare stoffa e passamaneria e
cucirlo. Ma in classe c’è un bambino, figlio di contadini poveri, magrolino e sparuto che viene a scuola infilato in
vestiti più grandi di lui in cui sparisce ulteriormente, la famiglia non ha abbastanza soldi per vivere, figuriamoci per
comprare la stoffa grigia e la passamaneria tirolese! Allora la maestra ha la soluzione al problema: fare una colletta
tra le madri degli altri alunni e dare al bambino i soldi perché la mamma possa fargli il grembiule. E così è stato
fatto. Ma io, bambina di sei anni sono stata colta da una grande rabbia per l’umiliazione a cui era stato sottoposto
quel compagno di scuola che mi ha segnata profondamente. Era stato costretto a riconoscere il suo status di povero, ad
accettare la carità, alla gratitudine nei confronti di chi era stato buono con lui. Proprio a proposito di lettura di
classe, nelle manifestazioni per Ramy sono comparsi striscioni di diverso tenore. Uno diceva Giustizia per Ramy, un
altro Vendetta per Ramy. Il primo si muoveva all’interno degli steccati borghesi, il secondo, qualunque cosa intendesse
per vendetta, dichiarava un posizionamento di classe. Noi dovremmo condividere la gioia che proviene dallo scegliere la
propria parte della storia.

25 gennaio 2025, da coordinamenta.noblogs.org


LIBERTÈ POUR GEORGES ABDALLAH – LIBERTÈ POUR LA PALESTINE
Lo scorso novembre il Tribunale che regola l’applicazione delle pene ha autorizzato la liberazione di Georges Ibrahim
Abdallah a condizione che lui ritorni in Libano, una decisione storica che però è stata immediatamente sospesa per
l’opposizione della Procura nazionale antiterrorismo. La Corte d’Appello di Parigi si pronuncerà quindi il 20 febbraio
sulla domanda di liberazione condizionale di quello che viene definito “il più longevo prigioniero politico d’Europa”.
Abdallah è in carcere da 41 anni e questo ci ricorda come nelle stesse condizioni anche lo Stato italiano tiene in
carcere da più di quarant’anni (alcuni dal 1982) 16 militanti delle Brigate Rosse, oltre a tre compagne/i sottoposti da
ormai 20 anni al regime carcerario speciale dell’art. 41Bis, che mira al loro annientamento attraverso il totale
isolamento con l’esterno e tra gli stessi prigionieri.
Un punto che deve stimolare una riflessione sull’intera vicenda di Georges Abdallah è ricordare come il governo USA sia
intervenuto ripetutamente intimando al governo francese di mantenere gli impegni presi: mantenere in carcere il
compagno, utilizzando una motivazione strumentale secondo la quale “Le giurisdizioni per l’applicazione delle pene non
prevedono la concessione di libertà condizionale al condannato non ancora posto in regime di semilibertà”.
Così come non va dimenticato il ruolo dell’imperialismo francese nelle politiche di aggressione militare contro i popoli
oppressi, spesso celato dagli “interventi umanitari” come nel caso dell’attacco alla Libia, la presenza in Senegal in
Costa d’Avorio, e varie operazioni nel Sahel a protezione delle forniture di uranio provenienti dalle miniere del
Niger; una presenza coloniale in costante evoluzione.
Ma anche l’Italia è tra gli Stati UE che stanno cercando di giocare un ruolo in vari paesi così come in Libia; in
continuità con il proprio passato coloniale, ha assunto il ruolo di controllo dei flussi migratori, in qualità di
paese europeo di primo arrivo per i migranti e richiedenti asilo che transitano. Se poi vogliamo sintetizzare la sua
strategia, in senso ironico ovviamente, essa sarebbe inquadrabile nel paradigma “guardare l’Africa come opportunità”.
Oltre a tutto questo c’è il ruolo dell’entità sionista nella vita di Georges. Due anni prima dell’arresto in Francia,
avvenuto a Lione nel 1984, con l’Operazione Pace in Galilea i sionisti guidati da Ariel Sharon attaccano il Libano e la
destra falangista libanese, con l’appoggio israeliano, compiendo la strage nel campo profughi di Sabra e Chatila a
Beirut, massacrando per tre giorni, a metà settembre, uomini, donne, anziani e bambini. Un massacro a lungo rimosso,
simbolo di come l’Occidente volti lo sguardo altrove quando i propri alleati commettono i peggiori crimini di guerra,
come avviene ripetutamente da 77 anni quando si tratta di Palestina e palestinesi. L’attacco sionista fece 25mila morti
e quasi il doppio dei feriti tra il popolo libanese e 3.500 nel solo campo profughi di Sabra e Chatila.
Quindi la vita del compagno Georges Abdallah, prima militante del Fronte Popolare della Liberazione della Palestina,
ferito nel Sud del Libano nel 1978 durante il primo tentativo di occupazione sionista, si intreccia con la lotta per la
liberazione del popolo arabo contro il sionismo e o le complicità occidentali con Israele.
Abdallah, è ancora in carcere come monito/esempio per il rifiuto di disfarsi delle proprie convinzioni politiche e la
Francia e i suoi alleati, gli Stati Uniti e Israele, cercano di imprigionare le idee di Georges Abdallah e l’eredità dei
movimenti rivoluzionari che hanno agitato il continente negli anni. E’ in carcere perché si è sempre battuto per la
liberazione delle masse popolari arabe e palestinesi, perché appartiene a quella generazione di comunisti, da Che
Guevara, a Abu Hani, a George Habash e tanti altri, che hanno dato all’internazionalismo la dimensione di lotta
rivoluzionaria senza confini, combattendo su diversi fronti nei paesi semicoloniali e cercando di estenderla anche ai
centri del potere imperialista, restituendogli “in casa” la loro guerra contro i popoli.
Georges è sempre stato solidale verso i prigionieri palestinesi e non solo: partecipando ai vari scioperi della fame ha
costantemente espresso sostegno alle lotte sociali in Francia portando un contributo attivo contro la repressione dei
movimenti. Durante questi 40 anni di detenzione Abdallah ha mantenuto fermamente la sua posizione di combattente e
questo suo atteggiamento ha alimentato, al tempo stesso, il sostegno di chi lo vede come un eroe della resistenza e
l’odio dei sionisti e dei loro alleati.
La sua liberazione ed il ritorno in Libano rappresentano un segnale per il movimento di resistenza palestinese ed un
valore simbolico innegabile. Per molti libanesi e palestinesi è considerato un prigioniero che ha sacrificato la sua
vita per una causa più grande: la liberazione della Palestina. Anche questa può essere parte di una risposta
all’arroganza di Trump che, da uomo d’affari, ha avanzato la proposta di comprare la Striscia di Gaza ed espellere tutti
i gazawi. Sicuramente il suo ritorno è un implicito riconoscimento delle legittime lotte dei popoli oppressi soprattutto
in un momento storico come l’attuale, dove si tenta sotto diverse forme di far passare per “terrorismo” l’appoggio ed il
sostegno alla Resistenza palestinese. E, il nostro paese è fra quelli sempre pronti a dare dimostrazioni di
“complicità” con la logica imperialista e sionista del diritto del più forte. Emblematico è il caso dei tre
palestinesi tutti con protezione speciale o con status di rifugiato: Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh,
arrestati un anno fa con l’accusa di terrorismo. Anan è ancora rinchiuso nel carcere di Terni mentre Ali e Mansour sono
in libertà provvisoria e il 26 febbraio saranno chiamati all’udienza preliminare, anticamera del processo contro di
loro. Cosi come per Abdallah diventa urgente mobilitarsi, esprimendo tutto il nostro sostegno e facendo della
solidarietà un’ arma contro la repressione.
Dal giorno del loro arresto ci sono state continue mobilitazioni che hanno richiesto la loro liberazione ed espresso la
piena solidarietà alla resistenza palestinese, il rifiuto di giustificare i crimini sionisti e la volontà di unire le
varie lotte per la liberazione non solo della Palestina. Il genocidio a Gaza e 15 mesi di devastazioni su tutto il
territorio di Palestina, nonostante la sofferenza e la morte, hanno reso ancora più forte il legame fra la popolazione
palestinese e la resistenza, di libanesi, yemeniti, altri popoli oppressi che non si arrendono e lottano contro il
colonialismo, il sionismo, il capitalismo per la libertà della propria terra, per il futuro. Con tutti loro siamo parte
di un fronte di resistenza che non deve fermarsi. Con questo spirito partecipiamo al presidio di Mercoledì 19 febbraio
al Consolato Francese di Milano.

Giovedì 20 febbraio, la Corte d’Appello di Parigi ha rinviato al 19 giugno la decisione sulla richiesta di liberazione
dell’attivista libanese filo-palestinese Georges Ibrahim Abdallah. Secondo il suo avvocato, Jean-Louis Chalanset, il
tribunale ha rinviato la sua decisione affinché il condannato potesse giustificare il risarcimento delle parti civili,
ovvero degli Stati Uniti, cosa che ha sempre rifiutato di fare. La Corte d'Appello ha dichiarato: “Poiché la questione
del risarcimento è stata affrontata solo brevemente durante i dibattiti, date le numerose questioni giuridiche
sollevate, sembra opportuno rinviare la decisione per consentire al condannato di giustificare, entro questo termine,
uno sforzo sostanziale per risarcire le parti civili”. (Tratto da Infopal del 26 febbraio 2025)

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Dopo 50 anni Leonard Peltier esce dal carcere
Dopo quasi 50 anni di ingiusta detenzione, Leonard Peltier esce dal carcere. Potrà trascorrere gli ultimi anni di vita
agli arresti domiciliari nella sua terra natia, il Turtle Mountain Indian Reservation (Mikinaakwajiwing), in North
Dakota. Nel 1975 era stato condannato per l’omicidio di due agenti dell’FBI, al termine però di un processo farsa, come
riconosciuto negli anni successivi dalle stesse persone che parteciparono a quella montatura. In quell’occasione morì un
membro dell’American Indian Movement, AIM, un gruppo che combatteva la discriminazione e la brutalità della polizia
contro le comunità dei nativi americani.
Dopo una vasta caccia all’uomo, vennero fermati tre membri dell’AIM, Dino Butler, Bob Robideau assolti poi per legittima
difesa e Leonard Peltier, che invece fu estradato dal Canada con prove artefatte per poi essere processato nel 1977, in
una sequela giudiziaria segnata da manipolazioni e intimidazioni.
Nonostante l’assenza di prove reali, Leonard Peltier ha passato gran parte della sua vita in carcere: entrato all’età di
30 anni, esce dalla prigione da 80enne. A gennaio 2025 infatti, pochi istanti dalla fine del proprio mandato alla Casa
Bianca, l’ex presidente Joe Biden ha commutato la sua condanna dall’ergastolo ai domiciliari. (Da
osservatoriorepressione.info, 19 febbraio 2025)


Palestina: prigioniere e prigionieri
A metà marzo 2025, il numero dei palestinesi detenuti nelle prigioni dell’occupazione israeliana, centri di detenzione e
campi militari ha superato le 9.500 persone, questa cifra non include tutti quelli arrestati a Gaza, particolarmente
quelli detenuti nei campi militari, include: più di 350 bambini palestinesi, almeno 21 donne, 3.405 detenuti senza
processo o condanna sotto “detenzione amministrativa”, 1.555 palestinesi arrestati a Gaza e detenuti senza processo
secondo la legge sui “combattenti illegali”. I prigionieri palestinesi deceduti in custodia israeliana dall’ottobre 2023
sono 63, tra cui 40 della Striscia di Gaza. Prima del genocidio, il numero dei palestinesi tenuti in custodia
dall’occupazione era di circa 5.250, comprese 40 donne prigioniere, 170 bambini e, approssimativamente, 1.320 “detenuti
amministrativi”. Come si può facilmente intuire, il numero di detenuti è soggetto a cambiamenti su base giornaliera
dovuta alla continua campagna di arresti. (Marzo 2025, da Resistance News Network unofficial)

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Un’estensione della lotta rivoluzionaria
La prigione, in quanto ingranaggio essenziale della macchina coloniale, occupa un ruolo centrale nelle dinamiche di
potere che strutturano la vita quotidiana dei palestinesi. Nel corso degli anni, le donne detenute si sono organizzate
per difendere i loro diritti e per portare avanti le proteste, dando vita a un movimento strutturato. Come parte delle
lotte più ampie dei prigionieri palestinesi, questo movimento si è anche sviluppato in modo più autonomo, legato alle
specifiche condizioni di prigionia delle donne. Tuttavia, per comprendere la storia di questo movimento, dobbiamo
prendere in considerazione il contesto culturale e sociale della Palestina e della regione. La lotta delle donne
palestinesi all'interno della loro società è sempre stata strettamente legata alla lotta di liberazione nazionale. Non
sono un'entità separata, estratta dalla loro società, come a volte viene rappresentata in alcune prospettive
occidentali.
Negli anni '70, le prime detenute furono inviate alla prigione di Ramleh. Si sono poi unite agli appelli allo sciopero
lanciati dai loro compagni maschi detenuti in altre carceri, portando avanti anche le proprie lotte. Questo periodo è
segnato dalla personalità di Aisha Odeh, militante e combattente nelle fila della resistenza di sinistra palestinese.
Condannata nel 1969 a due ergastoli, ha trascorso dieci anni nelle carceri sioniste prima di essere rilasciata nel 1979
nell'ambito di uno scambio di prigionieri. All'inizio degli anni '80, il movimento si ristrutturò attorno a una nuova
generazione, inclusa Rawda Basir che è succeduta ad Aisha Odeh come rappresentante delle detenute.
Nel 1995, durante la negoziazione degli Accordi di Oslo II, il direttore della prigione di Hasharon annunciò il rilascio
di tutte le prigioniere, all'epoca circa trenta, tranne cinque di loro. Per solidarietà, tutte le prigioniere si
chiusero in due celle e si rifiutarono di uscire. Dopo sedici mesi di lotta, ottennero la liberazione di tutte le
prigioniere palestinesi.
Durante la Seconda Intifada, gli arresti aumentarono, portando il numero di prigioniere a 115 nel 2004-2005.
L'amministrazione carceraria ne approfittò per distribuire le prigioniere tra Hasharon e Damon in base alle loro
affiliazioni politiche, con l'obiettivo di rompere la solidarietà tra i partiti. Tuttavia, alcune figure continuarono a
unire il movimento, come la carismatica Etaf Alayan, rilasciata nel 2008. Successivamente, le prigioniere furono
gradualmente radunate nella prigione di Damon. (Donne palestinesi - Movimento prigioniere, 6 marzo 2025, da Resistance
News Network unofficial)

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Le donne palestinesi hanno pagato il prezzo più alto del genocidio israeliano, con oltre 12.000 uccise, migliaia
sfollate e torture diffuse nelle carceri.
Torturate nelle Prigioni Israeliane
La Commissione Palestinese per i detenuti e gli ex detenuti, insieme alla Società dei Prigionieri Palestinesi, ha emesso
un rapporto sulle condizioni delle donne detenute nelle prigioni israeliane.
Secondo il rapporto, queste donne subiscono numerose violazioni, tra cui torture, fame, abusi sessuali, negligenza
medica e abusi psicologici dal momento del loro arresto. Il rapporto evidenzia che la detenzione delle donne è una
pratica sistematica e che i crimini contro di loro sono aumentati dal mese di ottobre 2023. Un totale di 490 donne sono
state detenute dall’inizio dell’assalto, comprese minorenni, donne incinte, madri e insegnanti. Tra di esse, due donne
sono state detenute prima del 7 ottobre 2023, con Israele che si rifiuta di includerle in qualsiasi accordo di scambio
di prigionieri.
Giornaliste nel Mirino. Tali arresti fanno parte di un più ampio schema di violazioni, tra cui esecuzioni
extragiudiziali, aggressioni sessuali e altre forme di gravi abusi. Secondo la Società dei Prigionieri Palestinesi,
molte delle donne arrestate sopportano condizioni degradanti e significative violazioni dei loro diritti e ha anche
sottolineato la preoccupante tendenza ad arrestare le donne come ostaggi per fare pressione sui loro familiari affinché
si arrendano. Questa pratica è notevolmente aumentata dall’inizio della guerra a Gaza ed è diventata una delle tattiche
più significative utilizzate dalle forze israeliane nelle loro operazioni.
Anche le giornaliste palestinesi sono state bersaglio delle forze israeliane. Secondo i rapporti, 24 giornaliste
palestinesi sono state uccise dalle forze israeliane dall’inizio del conflitto, una chiara violazione del diritto
internazionale umanitario. Salama Maarouf, capo servizio stampa del governo di Gaza, ha condannato queste uccisioni come
violazioni del diritto internazionale umanitario. Ha sottolineato che questi atti sono avvenuti davanti agli occhi del
“mondo libero, che afferma di difendere i diritti delle donne e dei giornalisti”. “La loro condizione di donne non le ha
protette dall’esercito israeliano, né la loro immunità giornalistica le ha difese dall’entità omicida”, ha aggiunto.
Organizzazioni come Human Rights Watch hanno condannato questi atti, ma non sono state adottate misure concrete da parte
della comunità internazionale per affrontare questa violenza.
Sfollate in Cisgiordania. In Cisgiordania, la situazione è altrettanto drammatica. Dall’inizio della guerra, le
operazioni militari israeliane si sono intensificate, con oltre 40.000 palestinesi sfollati, molti dei quali donne.
La distruzione delle case, le demolizioni diffuse e le espulsioni forzate hanno lasciato le famiglie, in particolare le
donne, in condizioni vulnerabili e traumatiche. Le donne sfollate vivono in rifugi sovraffollati, con molte che
esprimono le proprie paure e incertezze per il futuro. La distruzione dei campi profughi è continuata, con le operazioni
militari israeliane in corso nei campi di Jenin, Tulkarem e Nur Shams. Le organizzazioni per i diritti umani locali e
internazionali avvertono che le azioni di Israele fanno parte di una strategia più ampia per annettere la Cisgiordania
ed eliminare la soluzione dei due stati. Queste operazioni militari hanno causato la morte di più di 930 palestinesi e
oltre 7.000 feriti solo in Cisgiordania. (Da Palestine Chronicle, 8 marzo 2025)

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KHALIDA JARRAR E' STATA LIBERATA!
Sono 90 le donne e i minorenni palestinesi detenuti nelle carceri israeliane che sono stati liberati il 19 gennaio nel
primo scambio di prigionieri tra Israele e Hamas. Tra questi c’è Khalida Jarrar. Un profondo affetto ci lega a Khalida e
non perchè è una intellettuale di rango, una accademica, una deputata e una femminista ma perchè è una militante del
FPLP che ha dedicato tutta la vita alla causa palestinese, è stata imprigionata più volte nelle carceri israeliane,
durante le sue detenzioni sono morti suo padre, sua madre, sua figlia, un nipote. Non le è stato concesso di partecipare
ai funerali. L’ultima volta è stata arrestata nel dicembre del 2023 senza accuse, in detenzione amministrativa,
rinnovata ogni volta, in isolamento per sei mesi “E’ come essere sepolta viva in una tomba” ha detto Khalida al suo
avvocato. Khalida è una donna forte, lo è sempre stata, ha superato prove molto pesanti. Supererà anche questa
nonostante questa volta sia visivamente molto provata. (coordinamenta.noblogs.org)

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Il ruolo della donna palestinese nella lotta nazionale
Intervento di Amal, una compagna palestinese, all’iniziativa per il Ritorno della Mostra “Al Nakba” - Spazio Archive di
Milano, 31 gennaio 2025.
La lotta della donna palestinese è parte integrante del movimento delle donne palestinesi, che scoppiò in risposta al
colonialismo britannico e ai progetti sionisti all'inizio degli anni '20. Quarantamila cittadini palestinesi scesero in
strada a Gerusalemme il 27 febbraio 1920 contro il
mandato britannico e contro il progetto sionista in Palestina. Il primo congresso dell’associazione delle donne
palestinesi si tenne il 16 ottobre 1929. Prima della chiusura, il congresso organizzò una
manifestazione utilizzando 80 automobili che attraversarono lentamente le strade di Gerusalemme, fermandosi davanti ai
consolati europei. I gruppi femminili continuarono a svolgere attività politiche: manifestazioni, cablogrammi, petizioni
e altri compiti sociali. Durante la rivoluzione del 1936, le donne palestinesi parteciparono attivamente alla lotta
armata. Negli anni 1947-1950, le donne palestinesi vissero numerosi massacri, quando i sionisti uccisero i loro uomini e
i loro figli davanti ai loro occhi, costringendole a fuggire con i bambini piccoli verso la Cisgiordania e i paesi
vicini (Libano, Siria ed Egitto). Nei campi profughi, la donna palestinese è diventata non solo la madre, ma anche il
padre, assumendo grandi responsabilità e lavorando in vari settori per crescere i propri figli. La donna palestinese è
come la terra: la terra fa crescere le piante, e la donna fa crescere i figli.
Dopo la Nakba nel 1948, le donne palestinesi compresero l'importanza di organizzare il movimento femminile in
un'associazione chiamata “Unione Generale delle Donne Palestinesi”. Negli anni '50, a Beirut, divenne parte dell’Unione
delle Donne Arabe. Dopo la fondazione dell’Organizzazione per
la Liberazione della Palestina nel 1965, il ruolo delle donne palestinesi divenne più evidente, coinvolgendo un gran
numero di lavoratrici, casalinghe e studentesse in varie città e villaggi palestinesi, sia nel ruolo sociale che
politico.
Negli anni '70, la partecipazione delle donne palestinesi alla lotta armata divenne sempre più evidente e numerosa.
Dall’inizio degli anni '20 fino ad oggi, la donna palestinese ha subito carcerazione, espulsione e morte. Nella cultura
palestinese, l'istruzione è considerata un obiettivo fondamentale, sia per i maschi che per le femmine, i palestinesi
hanno sempre avuto la percentuale più alta di laureati nel mondo arabo, nonostante le difficoltà, tutto grazie al
sacrificio delle madri. Un punto molto importante è che, con tutto l’amore e la paura che una madre prova per i propri
figli, non ha mai permesso loro di dimenticare la patria e di lottare in qualsiasi modo per liberarla.


Con la resistenza palestinese: dichiarazione al processo
Pubblichiamo la dichiarazione di Anan Yaeesh, uno dei tre palestinesi - insieme a Doghmosh Manso e Ali Saji Rabhi - ai
quali è stato ritirato il permesso di soggiorno e la protezione speciale già concessa, letta all”udienza del Tribunale
di L’Aquila che li ha rinviati a giudizio.
Questo processo ha inizio nello stesso momento in cui i carri armati sionisti entrano nei campi di Jenin e di Tulkarem e
continuano le deportazioni del popolo palestinese dalle loro case in Cisgiordania, mentre a Gaza la Resistenza ha
strappato una fragile tregua. Tregua che ha permesso a migliaia di prigionieri palestinesi il ritorno in libertà fuori
dalle terribili carceri sioniste dove la tortura è quotidianità. È evidente la criminalizzazione della Resistenza al
fine della messa in discussione della sua legittimità.
Si vuole portate a processo 3 palestinesi che da anni vivono in Italia al fine di creare e alimentare un clima di paura,
per fermare le mobilitazioni e la solidarietà internazionale. Lo Stato italiano continua a rendersi complice dei
colonialisti israeliani tenendo da più di 1 anno in carcere Anan nello stesso carcere di Terni dove ha incontrato altri
compagni rivoluzionari da molti anni detenuti e, imbastendo questo processo falsa per presunto “sostegno al terrorismo”,
attacca la legittima Resistenza armata del popolo palestinese e delle sue organizzazioni. Nella giornata di mercoledì 26
febbraio in molte città, a partire da quella de L’Aquila, si sono tenuti momenti di agitazione, di sensibilizzazione e
diversi presidi.

Desidero iniziare con i miei saluti alla Corte e a tutti i presenti.
Esiste sempre la legge, ma anche lo spirito della legge; pertanto, vorrei chiedere all’Onorevole Giudice di concedermi
il minimo diritto umano nei confronti del mio Paese, osservando un minuto di silenzio per le anime dei bambini, delle
donne e dei martiri della Palestina.
Innanzitutto, desidero affermare la mia fiducia nel sistema giudiziario italiano e riconoscerne la legittimità.
Tuttavia, mi oppongo all’essere processato in Italia, in quanto sono palestinese e non ho commesso alcun reato né in
Italia né in qualsiasi altro paese. Il mio fascicolo, come resistente palestinese, è conosciuto dalle autorità di
sicurezza italiane, e ho ottenuto il permesso di soggiorno in Italia e la protezione speciale dopo che la mia richiesta
di asilo era stata respinta dal Tribunale di Foggia. Pertanto, signor Presidente, considero il mio arresto e il mio
processo qui illegittimi, poiché l’arresto stesso, sin dal primo momento, è stato compiuto in contrasto con il diritto
internazionale umanitario, con lo statuto delle Nazioni Unite, con la Convenzione di Ginevra e con i due protocolli
aggiuntivi, e tutto ciò che ne è derivato è anch’esso illegale; ciò che si fonda sull’illegittimità, infatti, è
anch’esso illegittimo.
Se riconoscete la legittimità dello Stato di Palestina, allora la richiesta di estradizione avanzata nel gennaio dello
scorso anno nei miei confronti avrebbe dovuto essere presentata attraverso il governo del mio Paese. Se, invece,
considerate la Palestina come un territorio illegalmente occupato da una potenza coloniale, allora la resistenza è un
diritto legittimo e non dovreste arrestarmi qui per tale motivo.
Sfortunatamente, signor Giudice, ho preso visione delle vostre osservazioni sul caso e, con rammarico, ne ho dedotto che
considerate il palestinese terrorista non per la, legittima, resistenza che porta avanti contro uno stato occupante, ma
perché riconoscete Israele come uno Stato amico. Se in ballo vi fosse stato un altro paese occupante, la Russia ad
esempio, avreste riconosciuto la legittimità della resistenza palestinese. Non mi state processando in base al diritto
internazionale, ma in base ai vostri rapporti diplomatici, solo perché Israele è considerato un alleato del governo
italiano, un partner commerciale, e ritenete legittime tutte le azioni che esso porta avanti. Tanto vale allora cambiare
il nome delle corti internazionali e umanitarie in “Corti degli amici”.
Volete che mi difenda dalle accuse a mio carico, ma mi vergogno di cercare l’assoluzione da accuse che per me
rappresentano un motivo di onore. Non voglio difendermi dall’accusa di avere dei diritti e di averli rivendicati, o di
aver tentato di liberare la mia gente e il mio Paese dall’oppressione coloniale. Giuro che non intendo essere assolto
dalla legittima resistenza contro l’occupazione sionista. La resistenza palestinese è uno dei fenomeni più nobili
conosciuti dalla storia.
Piuttosto, mi vergogno di trovarmi in una stanza calda, anche se in carcere, mentre i bambini di Gaza muoiono di freddo,
fame e sete. Mi vergogno del buon trattamento ricevuto dalle autorità carcerarie qui, mentre i miei fratelli prigionieri
nelle carceri israeliane vengono sottoposti ai peggiori tipi di tortura, oppressione, sevizie.
Signor Giudice, su tutti i miei documenti rilasciati in Italia non è riportato il nome “Palestina”, ma quello di
“Territori occupati”. Quindi, sapete che quella terra è occupata e, di conseguenza, in base alle convenzioni firmate dal
vostro Paese, dovete ritenere legittima la resistenza contro l’entità occupante. Perché allora mi ritrovo oggi detenuto
da parte vostra?
Come partigiano palestinese sono costretto ad osservare che da un punto di vista politico il mondo adotta due pesi e due
misure: colui che è più forte e appoggiato dagli USA è colui che prevale.
Ma la Giustizia, il diritto, utilizza anch’esso lo stesso metro di giudizio, due pesi e due misure, oppure saranno le
leggi a prevalere nelle aule di Tribunale?
Sarebbe giusto, se considerando i coloni che occupano la terra di Palestina senza diritto né legittimità, dei civili,
solo perché non indossano le divise dell’esercito israeliano, aveste lo stesso giudizio nei confronti della resistenza
palestinese, anch’essa infatti è composta da civili e non da militari, in quanto la Palestina non possiede uno Stato e
neppure un esercito con cui difendersi dagli aggressori. Entrambi impugnano le armi e uccidono; l’unica differenza è che
la resistenza palestinese difende la propria terra, il proprio popolo e i propri diritti negati, e non uccide bambini,
donne o civili se non per errore. Nel corso degli anni, questi errori non hanno mai superato l’uno per cento, mentre i
coloni sistematicamente attaccano i civili indifesi. Da anni uccidono donne e bambini, bruciandoli addirittura
all’interno delle loro case, come hanno fatto a Hebron uccidendo oltre 30 fedeli nella Moschea di Abramo, o come hanno
fatto con la famiglia Dawabsha, con Iman Hejju, con Mohammad al-Durrah, o come hanno fatto nel villaggio di Jatt il 16
agosto e in molte altre occasioni, con lo scopo di incutere terrore nei palestinesi e obbligarli a lasciare la propria
terra; i coloni seguono gli insegnamenti della Haganah e dell’Irgun.
Nulla può testimoniarlo meglio di quanto recentemente dichiarato in una lettera dal Direttore dello Shin Bet israeliano,
che ha riconosciuto che i coloni sono gruppi terroristici e che le autorità israeliane dovrebbero arrestarli e
reprimerli. Tuttavia, la risposta di Benjamin Netanyahu è stata fornire ai coloni oltre 10.000 fucili.
Ma d’altronde cosa aspettarsi da Netanyahu riconosciuto dalla Corte Penale Internazionale come criminale di guerra per i
massacri compiuti nei confronti dei palestinesi. Il Tribunale dell’Aja ha emesso un mandato di cattura nei suoi
confronti nel caso arrivasse in Europa, ma, nonostante ciò, il governo italiano ha dichiarato che sarà il benvenuto in
Italia e ha rifiutato la decisione della Corte, disconoscendone la legittimità.
È il governo che ha deciso di arrestarmi su richiesta israeliana, attribuendomi l’appellativo di terrorista. Alla luce
di ciò, posso affermare di non vedere nessuna legge in questo paese che non sia quella del più forte; tutto il resto
sono solo finzioni che vengono, con la forza, imposte ai più deboli.
Nella prima udienza estradizionale di febbraio 2024, ho chiesto alla Corte di Appello e al Procuratore Generale di non
consegnare i contenuti dei miei telefoni cellulari agli israeliani, in quanto contenevano informazioni riservate che
detenevo in qualità di resistente palestinese, di comandante partigiano. Mi è stato risposto che ciò non sarebbe
accaduto, poiché erano consapevoli che eravamo in guerra e che l’Italia è neutrale. Tuttavia, sono rimasto sorpreso nel
sapere che ad aprile scorso tutte le informazioni contenute nei miei cellari sono state passate agli israeliani. In
questo modo, avete violato ogni principio di sicurezza e lo stesso diritto internazionale, diventando di fatto partecipi
degli israeliani in questa guerra, aiutandoli nella repressione delle legittime aspirazioni di un popolo oppresso.
Le donne di tutta la terra non sono state capaci di dare vita a resistenti come quelli palestinesi.
Signor Giudice, contro di noi si sono schierate tutte le nazioni e gli eserciti del mondo, pensando di liquidare la
nostra causa. Ma la nostra causa non finirà finché ci sarà un solo bambino palestinese in vita. I nostri diritti li
riavremo. Non chiediamo pietà a nessuno, non ci inchiniamo davanti a nessuno, anche a costo di essere tutti uccisi,
arrestati o deportati. I palestinesi non abbasseranno la testa né mendicheranno pietà, perché abbiamo dalla nostra parte
la ragione. E se nessuno ci restituirà i nostri diritti in vita, crediamo che, dopo la morte, ci ritroveremo davanti a
un giudizio che sarà il più giusto: quello di Dio, che non negherà il diritto a nessuno e ridarà a ogni oppresso i suoi
diritti, forte o debole che sia, perché tutti, il giorno del giudizio, saranno uguali.
Signor Giudice, in passato, sono stato sottoposto decine di volte alla tortura. Sono anche stato vittima di tentati
assassinii da parte di Israele, sia in Palestina che all’estero. Nel mio corpo vi sono 11 proiettili e oltre 40 schegge;
non ho un osso che non sia stato rotto. Non ho un passato, se non alcuni ricordi e foto di amici uccisi per mano
dell’occupazione, e di un’amica giustiziata a sangue freddo davanti ai miei occhi. Ho una famiglia che non vedo da
lunghi anni e due genitori morti senza realizzare il loro sogno di rivederci un’ultima volta. Ho una patria devastata,
un popolo sfollato, e persino le nostre case sono state demolite dai bulldozer israeliani.
Ciononostante, non ho mai fatto un passo indietro né esitato nel rivendicare il diritto del mio paese alla libertà, e
non ho mai chinato il capo davanti a nessuno. Questo perché credo fermamente in questa causa. Cosa sarà mai essere
ucciso per la libertà del mio paese e del mio popolo? Cosa sarà mai trascorrere anni in carcere per la mia causa? Specie
considerando che vi sono oltre 10.000 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, e io sono una parte indivisibile
di loro. Se vi è una cosa che mi rattrista, è che tutti i miei compagni hanno avuto l’onore di cadere martiri, lottando
per la Palestina, nutrendo con il loro sangue quella terra di pace e amore, violata dall’occupazione sionista. E io non
ero al loro fianco.
Non amiamo la morte; al contrario, siamo un popolo che ama la vita più di ogni altra cosa. Tuttavia, preferiamo la morte
con dignità e onore al vivere nell’umiliazione, con i nostri diritti negati. Signor Giudice, noi crediamo che la
Palestina lo meriti e che la nostra amata Gerusalemme abbia un caro costo, che ogni palestinese è disposto a pagare con
la propria anima.
Quando la Palestina chiama, ferita, ha solo noi, suoi figli, disposti a difenderla con l’anima e con il sangue. Chi non
difende la propria madre quando ha bisogno di lui, un domani non avrà il diritto di essere seppellito nella sua stessa
terra, annaffiata dal sangue dei martiri. È un figlio indegno, che verrà respinto dalla sua stessa terra e non sentirà
mai calore, né in vita né in morte.
Tutti voi avete una patria nella quale vivere in tranquillità e sicurezza, tranne noi palestinesi. La nostra patria vive
in noi, e siamo disposti a sacrificare l’anima in sua difesa. È lei che ci dà dignità e onore, e questo lo possono
comprendere solo i liberi di questa terra; siamo un popolo che non si arrende, è vittoria o morte.
Come potete accusarmi di terrorismo, mentre riconoscete la legittimità del movimento Fatah, del quale esistono uffici e
rappresentanze in tutto il mondo, tra cui l’Italia, non è un atteggiamento falso e ipocrita?
L’Italia ha anche accolto il leader e fondatore del nostro movimento al Parlamento italiano per ben due volte. In
quell’occasione, egli venne in Italia vestito con la propria divisa militare e armato, e dall’Italia pronunciò un
discorso che fu ascoltato dal mondo intero. Lo stesso è stato fatto con l’attuale presidente, Mahmoud Abbas.
Se lo sguardo strabico della giustizia affermerà che i resistenti palestinesi sono terroristi e non partigiani avallerà
la politica del più forte, la legge della giungla, dove il più forte e brutale prevale.
Signor Giudice, il popolo italiano non è e non sarà mai nostro nemico; merita tutto il meglio e il nostro rispetto, è un
popolo amico che ha sempre sostenuto la causa palestinese. I nostri nemici sono gli israeliani che occupano la nostra
terra, e nessun altro.
L’entità israeliana è un’entità occupante e terrorista, che non rispetta e non ha mai rispettato, nella sua storia, le
leggi internazionali. Ha una storia colma di tradimenti. Hanno assassinato, nel corso degli anni, molti palestinesi in
tutto il mondo: in Norvegia, Ungheria, Bulgaria, anche qui in Italia, in Malesia e in diversi paesi arabi. Essi non
riconoscono nessuna legge che non sia la loro, nessuna legittimità che non sia la loro, e guardano a tutti coloro che
non sono israeliani come loro subordinati.
Oggi definiscono le organizzazioni delle Nazioni Unite come terroristiche, come l’UNRWA, e l’ONU come un covo di
antisemiti, e con tutta insolenza attaccano anche il Papa con la stessa accusa infamante. Diventa un nemico da prendere
di mira chiunque non si allinei con loro.
Noi Palestinesi siamo un popolo libero e non accetteremo mai di essere gli schiavi di nessuno.
In questi ultimi giorni, davanti agli occhi dell’intero mondo, l’esercito israeliano ha sfollato oltre 40 mila
palestinesi dalle proprie case a Tulkarem, bruciando abitazioni, devastando strade, ospedali, uccidendo donne e bambini;
lo stesso accade anche a Jenin. Continuano a occupare anche ora, mentre mi trovo in quest’aula, commettendo i peggiori
massacri contro i civili inermi, mentre voi tacciate il nostro difenderci di terrorismo; su quanto accade siete divenuti
ciechi e sordi, perché non vi esprimete?
Signor Giudice, l’entità sionista uccide e distrugge in Palestina sin dal 1947, e non dal 7 ottobre. Ma il mondo è
rimasto immobile e in silenzio, e il dolore lo prova solo chi riceve la ferita.
Ci troviamo ad affrontare una violenza squadrista, nazi-fascista, così come il popolo italiano ha affrontato
l’aggressione e la violenza nazista tedesca. La differenza tra noi e voi, però, è che dopo più o meno 20 anni, voi siete
riusciti a liberarvi, mentre noi, dopo 75 anni, ci ritroviamo ancora a resistere.
Signor Giudice, se la resistenza palestinese, legittimata da tutte le corti internazionali, a cui l’Italia ha aderito e
riconosce legittimità, oggi la considerate terrorismo, allora, stando allo stesso principio, anche la resistenza
italiana contro Mussolini, il fascismo e la Germania nazista dovrebbe essere definita terrorismo.
Signor Giudice, nel corso della sua storia l’occupazione israeliana non ha rispettato né le Risoluzioni del Consiglio di
Sicurezza né le decisioni della Corte Internazionale, potete dirmi che fine hanno fatto gli Accordi di Oslo e Camp
David, e che fine hanno fatto le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza 242 e 338?
Riuscite a censire i palestinesi uccisi nel corso dell’aggressione israeliana a partire dal 1947 fino al giorno d’oggi?
Oppure il numero di profughi cacciati? Come si esprime su questo il vostro diritto e la vostra legge?
Signor Giudice, la madre palestinese è come tutte le madri di questa terra. Immaginate con me di svegliarvi ogni
mattina, mandare vostro figlio a scuola, preparargli da mangiare e, al momento di riaccoglierlo a casa al suo ritorno,
vederlo tornare avvolto in un telo bianco, ucciso da un soldato israeliano, e doverlo stringere per l’ultima volta.
Immaginate, a Gaza, un padre con sua moglie e nove figli che si trovano senza cibo. Il padre esce per cercare qualcosa
da mangiare; al suo ritorno ritrova tutta la famiglia morta sotto le macerie, uccisa da un bombardamento sionista.
Qualcuno di voi può alzarsi e dire che Israele è uno Stato occupante, oppressore e terrorista? Questa verità la sapete
tutti in cuor vostro, ma nessuno di voi può dirla ad alta voce, perché vi ritrovereste accusati di antisemitismo,
perdereste il vostro lavoro o potreste trovarvi a dividere con me il tavolo a pranzo in carcere, con un’accusa di
terrorismo. Per questo dico e ripeto che forse i palestinesi sono i soli liberi in questo mondo di schiavi.
Viva la Palestina libera e araba. Viva Gerusalemme, sua eterna capitale. Pace all’anima dei martiri e dei bambini di
Palestina. Saremo sempre la prima linea di difesa fino alla liberazione.

Sabato, 1 Marzo 2025
Anan Yaeesh, via delle Campore, 32 - 05100 Terni
[Nell’udienza del 2 aprile] ancora una volta abbiamo assistito ad un processo politico travestito da procedimento
penale. Un processo costruito ad arte per colpire la Palestina e per criminalizzare chi ha partecipato, sostenuto o
difeso la libertà del proprio popolo.
La Corte ha, infatti, ammesso come prove d’accusa alcuni interrogatori estorti da Israele a venti prigionieri
palestinesi detenuti a Tulkarem. Interrogatori ottenuti in assenza di garanzie legali, probabilmente sotto tortura, e
senza la presenza di avvocati. La Procura ha giustificato la loro ammissione appellandosi al principio di “reciproca
fiducia tra Stati”, previsto nelle rogatorie internazionali. Automatismi che trasformano la complicità politica in atto
giudiziario, dentro un sistema che legittima la violenza coloniale. E meno male che, come ha dichiarato la PM aprendo
l’udienza: questo non è un processo politico.
Nel frattempo, la difesa è stata sistematicamente ostacolata: la maggior parte dei testimoni è stata esclusa, riducendo
la possibilità di contro-narrazione ad una manciata di voci. La traduzione fornita dell'intervento di Anan è stata
distorta e fuorviante. Quando il pubblico presente ha protestato, il giudice ha ordinato lo sgombero dell’aula.
Un processo come questo è sicuramente un processo politico. È figlio della complicità tra Stati coloniali: l’Italia e
Israele. Una complicità che non ci stancheremo di definire vergognosa, e che oggi si manifesta in tutta la sua
l’arroganza, quella di un potere che sa di esprimersi in maniera meschina, al sicuro, dentro un’aula di tribunale.
Anan, Mansour e Ali siedono sul banco degli imputati, ma ciò che si vuole processare è la resistenza palestinese nel suo
insieme. Lo sapevamo prima e con questa udienza tutto ciò è ben più chiaro. Un processo che vuole colpire chi ha
lottato e chi continua a difendere la libertà del proprio popolo, infangando tutto questo con il nome di “terrorismo”.
[...] (da FB Casa del Popolo Teramo)


contro il 41 bis: dichiarazione a processo
Per alcune ore, durante l'udienza preliminare per l'operazione Sibilla contro la stampa anarchica che si è conclusa con
la dichiarazione di non luogo a procedere per tutti gli imputati in merito a tutte le accuse, Alfredo ha potuto
ascoltare la voce dei compagni, vedere le loro facce, ha potuto parlare, rompendo la coltre di silenzio nel quale stanno
tentando di seppellirlo. E questo è sicuramente più emozionante di qualunque decisione presa da qualsivoglia burocrate
dello Stato. In particolare proprio le parole di Alfredo risuonano come una potente denuncia contro l’orrore totalitario
del 41 bis. Quelle impronte dei bambini sui vetri divisori della sala colloqui dovrebbero scuotere le coscienze, di chi
ancora ce l’ha una coscienza. Non sappiamo in che misura l’intervento dei compagni in aula abbia in qualche modo
influenzato la decisione del tribunale di non arrischiarsi in un processo di per sé traballante. Tuttavia il 15 gennaio
si è reso evidente che anche le successive potenziali udienze avrebbero rappresentato senza dubbio alcuno un’occasione
per intervenire, spezzando la coltre di isolamento del 41 bis, da parte di Alfredo e da parte degli altri compagni e
compagne imputati. Certamente non dovrebbe occorrere un processo come questo per avviare momenti di mobilitazione contro
la vergogna internazionale del 41 bis e, nel caso specifico di Alfredo, da oggi le giustificazioni per l’internamento in
questo regime speciale hanno un importante tassello in meno. Per fargli pagare lo scotto di questa contraddizione urge
più che mai intraprendere altre strade e ravvivare le iniziative contro il 41 bis e le politiche guerrafondaie e
repressive degli Stati. Di seguito riportiamo la dichiarazione letta da Alfredo Cospito nel corso dell’udienza.

Oggi voi rappresentanti del braccio giudiziario di questa repubblica ci mettete sotto processo per delle scritte sui
muri, per le nostre parole, per i nostri libri e periodici, costringendo di fatto l’anarchia alla clandestinità. Siamo
in buona compagnia, con questo governo a guida postfascista la censura e la repressione si stanno espandendo a tutto il
corpo sociale, accelerando la transizione da democrazia totalitaria a un tragicomico regime da operetta. Detto questo mi
tocca ringraziarvi: dopo un anno di silenzio, grazie al vostro imbarazzante e anacronistico procedimento penale, mi è
concesso esprimere il mio pensiero pubblicamente. Anche se da remoto, anche se per il breve tempo di un battito d’ali,
oggi posso strapparmi il bavaglio, la mordacchia medievale di un 41 bis che un governo di centrosinistra anni fa mi ha
applicato per mettere a tacere una voce scomoda, per quanto minoritaria e ininfluente, ma certo nemica di questa vostra
democrazia. Questi due anni di regime speciale mi hanno definitivamente aperto gli occhi sul vero volto del vostro
diritto, delle vostre garanzie costituzionali, rivelandomi un sistema criminogeno fatto di totalitarismo osceno, quanto
crudo e assassino.
Oggi in quest’aula stiamo subendo un processo inquisitoriale basato su un’intervista rilasciata con regolare posta
carceraria e non come vuol far credere l’accusa attraverso il colloquio con mia sorella, trascinata in aula per il solo
fatto di continuare imperterrita a fare i colloqui con il fratello. Classica strategia di tutti i regimi autoritari nel
mondo, usata regolarmente al 41 bis, per far terreno bruciato di ogni legame affettivo con l’esterno.
È indicativo, ad ogni colloquio che faccio, vedere le impronte delle mani dei bambini sui vetri blindati che li separano
dai loro padri o dalle loro madri. Ma in fondo che aspettarsi da una democrazia che mette in prigione i bambini?
Naturalmente mi assumo tutta la responsabilità dell’intervista, che è il motivo per il quale oggi mi trovo al 41 bis,
come d’altronde mi assumo la responsabilità di tutti i miei scritti, l’ultimo in ordine cronologico il piccolo saggio
sul MIL nella Spagna postfranchista scritto in Alta Sicurezza prima di essere trasferito in questa tomba per vivi e sono
certo già pubblicato o in procinto di esserlo.
Ed è qui la particolarità di questa mia storia giudiziaria. Messo in questo regime per farmi tacere definitivamente con
l’accusa di un ruolo apicale, come definite il mio ruolo nel vostro contorto e involuto linguaggio. Un brutto precedente
il mio, con risvolti inquietanti. L’essere riusciti a far passare la tesi che un anarchico possa svolgere un ruolo
apicale, un ruolo intrinsecamente autoritario, quindi incompatibile con quello che è il pensiero stesso dell’anarchia,
spalanca i cancelli del 41 bis a chiunque disturbi il potere, rivoluzionario singolo o movimento radicale che sia, oltre
a rendere più facili i procedimenti penali abnormi come quello a cui oggi mi tocca assistere da imputato. Dico questo
perché sono fermamente convinto che il mio trasferimento in 41 bis e questo stesso processo siano fondamentalmente un
attacco alla libertà di pensiero e di stampa. È questo il fuoco della questione, il cuore di questo processo.
La pericolosità del 41 bis non si può ridurre a un gerarca da operetta che imbastisce una patetica trappola a
un’opposizione altrettanto da operetta (indicativo in tal senso il mio trasferimento eterodiretto due anni fa da una
sezione all’altra in vista dell’arrivo di politicanti romani per imbastire un teatrino con comparse più utili alla
bisogna). La sua reale pericolosità è qualcosa di ben più oscuro, in potenza una formidabile scorciatoia repressiva in
caso di conflittualità sociale. Quale modo migliore per silenziare i movimenti e le opposizioni radicali di un regime
emergenziale già attivo e testato. Uno stato di eccezione in cui molti diritti sono sospesi, in cui regna una censura
assoluta già sperimentata in decenni di pratica sul campo. Chi saranno i primi a vivere sulla propria pelle questo
regime speciale? I compagni e le compagne che si battono per la Palestina? Gli anarchici e le anarchiche che
imperterriti continuano a parlare di rivoluzione? I comunisti e le comuniste mai arresi? Quattro di loro sono decenni
che resistono con fierezza in questo regime nell’isolamento più assoluto, senza mai piegarsi.
Se la guerra imperialista dell’Occidente tracimerà per reazione dai confini dell’Ucraina irrompendo nelle nostre case,
se i conflitti sociali supereranno il limite sostenibile di un meccanismo traballante, o anche solo se la transizione
morbida e graduale in regime non sarà praticabile, il 41 bis grazie proprio alla sua patina di legalità sarà lo
strumento repressivo ideale per un’anestetizzazione sociale forzata, una sorta di olio di ricino per rimettere in riga i
recalcitranti, un golpe graduale e a norma di legge. E questo spiegherebbe il perché di un regime emergenziale in
assenza di una vera e propria emergenza. Per fare accettare questa forzatura, questa aberrazione del vostro stesso
diritto, quale miglior cavallo di troia se non la lotta ai cattivi per eccellenza: i mafiosi. Gente indifendibile,
divenuta irrecuperabile dagli stessi politici che prima li hanno usati per il lavoro sporco e poi seppelliti qui dentro
per evitare recriminazioni su favori fatti e mai restituiti. Un segreto di Pulcinella che non sorprende più nessuno.
Con la scusa di combattere le mafie avete calpestato le vostre stesse leggi, tradendo la Costituzione ne avete svelato
l’inconsistenza e la sua reale essenza di foglia di fico. Con la scusa di combattere le mafie avete messo in atto una
sorta di persecuzione etnica. Qui con me, solo calabresi, campani, siciliani, pugliesi e ovviamente anche rom, figli
impresentabili di un meridione popolato da cittadini di serie b. Gente arrestata a volte solo per il cognome che porta.
Gente a cui i diritti in teoria inviolabili vengono negati per spingerli al pentimento, che nella vostra aberrante
concezione del diritto si concretizza nella denuncia del proprio padre, della propria madre, del proprio fratello o
sorella. Avvocati accusati di collusione quando non si fanno intimidire da PM Torquemada, colloqui blindati senza nessun
contatto fisico o umano, colloqui nei quali i parenti vengono incerottati in caso abbiano tatuaggi e filmati e
registrati alla ricerca di pretesti per arrestarli e inquisirli. Una spada di Damocle sospesa costantemente sulle loro
teste per terrorizzare chi imperterrito continua a non voler abbandonare i propri cari. Un terrorismo di Stato che ha
l’obbiettivo di privare il prigioniero della solidarietà più naturale, quella dei figli, delle mogli, dei mariti, delle
madri che è l’unica solidarietà che la gente qui dentro può permettersi e capire. Una tecnica repressiva che privando
della solidarietà umana e dell’empatia disumanizza. Arrivati a quel punto al prigioniero si può fare di tutto perché non
è più un essere umano, è solo un numero a cui estorcere informazioni. Nel caso non si piegasse un soggetto da torturare
con un isolamento assassino, privandolo di ogni speranza, in caso di ergastolo ostativo fino alla morte.
Una concezione del diritto degna della vostra etica. Questa è la lebbra che chiamate civiltà.

Alfredo Cospito, strada provinciale 56, n.4 - 07100 Bancali (Sassari)


PRIGIONI DI ISOLAMENTO E RESISTENZA IN TURCHIA
Circa tre anni fa, lo stato turco ha costruito silenziosamente un nuovo tipo di prigione. Sono note come prigioni di
tipo S, R e Y. I primi detenuti rinchiusi in queste prigioni sono stati quelli condannati per i casi del PKK (Partito
dei lavoratori del Kurdistan), IS (Stato islamico) e FETÖ (Movimento Gulen), e non è stata condivisa alcuna informazione
pubblica su queste strutture di nuova costruzione. Tuttavia, nel 2023, i prigionieri del caso DHKC (Fronte
rivoluzionario di liberazione del popolo) sono stati trasferiti in queste cosiddette prigioni di "tipo bene", portandole
all'attenzione del pubblico.
Perchè queste prigioni sono state costruite in segreto?
Perché quando le prigioni di tipo F sono state aperte il 19 dicembre 2000, lo stato turco ha avviato un'operazione
simultanea e sanguinosa in 20 prigioni. Chiamando beffardamente il massacro un'operazione di "ritorno alla vita",
uccisero 28 prigionieri. Ciò suscitò la condanna internazionale e mise la Turchia in una posizione difficile. Ora,
mirano a eliminare i prigionieri senza versare una goccia di sangue, senza lasciare traccia, eseguendo una morte
silenziosa. Nelle prigioni di tipo Well, le persone vengono sepolte vive. Poiché le amministrazioni carcerarie operano
in modo autonomo, ci sono variazioni nella gestione. Tuttavia, le condizioni generali possono essere descritte come
segue:
- Una cella di 6 metri quadrati, 23 ore da solo nella cella, 1 ora da solo nel cortile.
- La cella e il cortile sono su piani diversi. Il prigioniero deve sopportare neve, pioggia, polvere e sole nel cortile
per 1,5 ore.
- 23 ore in totale isolamento all'interno della cella.
- Se l'amministrazione carceraria lo consente, possono trascorrere 1-1,5 ore nel cortile con altri due prigionieri,
sempre gli stessi.
- Isolamento totale, sorveglianza costante con telecamere 24 ore su 24.
L'obiettivo è eliminare i prigionieri dalla vista e dalla mente.
I prigionieri rivoluzionari hanno immediatamente iniziato scioperi della fame. Quando le loro richieste sono state
ignorate, sono passati al digiuno fino alla morte. Finora, ogni resistenza ha avuto successo. I prigionieri sono stati
trasferiti di nuovo nelle prigioni di tipo F, dove possono stare con i loro compagni.
Tuttavia, gli scioperi della fame sono estremamente prolungati, in genere durano 200 giorni. I prigionieri sono spesso
privati delle vitali vitamine B1, del tutto o solo dopo 100 giorni, momento in cui si sono già verificati danni
permanenti. Alla fine, lo stato turco accetta le richieste, ma a un costo elevato. Il loro messaggio taciuto è: "Se
resisti, rimarrai disabile". Inoltre, lo stato turco, imparando dai suoi padroni negli Stati Uniti e nell'UE, impiega
tattiche più insidiose per spezzare la resistenza.
Accolgono parzialmente le richieste ma chiedono compromessi in cambio. L'obiettivo è erodere lo spirito di resistenza.
Se un prigioniero politico inizia a pensare: "Perché resistere? Forse posso risolvere i miei problemi dialogando con
l'amministrazione", allora la dinamica della resistenza si indebolisce. Ma i prigionieri rivoluzionari vedono attraverso
tutti i trucchi imperialisti e collaborazionisti. Lo stato turco impone una scelta brutale ai prigionieri: "Arrendersi o
morire". E i prigionieri rivoluzionari rispondono: "Vittoria o morte".
Finora, 10 prigionieri sono riusciti a ottenere il trasferimento dalle prigioni di tipo Well-Type attraverso la
resistenza. Attualmente, 9 prigionieri sono in sciopero della fame a tempo indeterminato. Il 30 marzo, Fikret Akar,
detenuto nella prigione di tipo Y di Çorlu, inizierà uno sciopero della fame a tempo indeterminato. Quando
l'amministrazione carceraria ha minacciato di negare zucchero e vitamine B1, ha risposto: "Allora smetterò anche di bere
acqua".
È probabile che Fikret Akar affronti gravi problemi di salute nei primi giorni del suo sciopero. Sostenere il suo
diritto alla resistenza è ora una responsabilità urgente. Dobbiamo essere la voce, il respiro, le mani e i piedi di
Fikret Akar e degli altri prigionieri rivoluzionari in resistenza. Questo può essere fatto:
- Unendosi a scioperi della fame solidali
- Inviando caramelle simboliche alla prigione
- Scrivendo lettere e cartoline ai prigionieri
- Chiamando o inviando fax all'amministrazione carceraria
- Registrando e condividendo video e foto a sostegno delle richieste
- Sensibilizzando ovunque
marzo 2025, Anti-imperialist Front
Lettera dal carcere di Massama-Oristano
Ciao compagni, ho ricevuto il vostro plico con le toccanti cartoline su Gaza, ho letto Olga con le mie lettere e di
tanti contributi, principalmente sul genocidio palestinese.
Proprio ieri ho ricevuto la tessera di iscrizione del sindacato SI.N.D.E.F., me l’ha spedita Claudio Cipriani dal
carcere di Secondigliano, lui è uno dei fautori dell’idea del sindacato. Questo organismo potrebbe funzionare da argine
se verrà approvato il decreto sicurezza; l’anticamera dell’autocrazia di Orban in Ungheria. Con la vittoria di Trump, i
fascisti nostrani limiteranno ogni cautela e i Del Mastro prenderanno il sopravvento.
Trump con le sue dichiarazioni ha svelato le sue intenzioni, sicuramente la luce che il mondo chiede sarà oscurata da
questo novello Hitler.
Un abbraccio a voi tutti. Ciao Pasquale.

Massama, 15 gennaio 2025
Pasquale De Feo, Località su Pedriaxiu, 09170 Massama Oristano


LETTERA DAL CARCERE DI napoli-SECONDIGLIANO
Un saluto a tuttx i/le compagnx di Ampi Orizzonti. Le festività sono passate e con esse anche il 2024, il mio augurio è
che questo 2025 sia un anno migliore, ricco di iniziative contro ogni forma di repressione. Qui a Secondigliano va tutto
bene, il Natale è passato come al solito; come ogni anno c’è stato il consueto pranzo organizzato dalla comunità di
Sant’Egidio che ha visto partecipi un centinaio di noi compreso parte del reparto femminile.
Io sto abbastanza bene e continuo a portare avanti gli studi, seppur a rilento a causa dei molteplici impegni. Riguardo
alla nostra iniziativa sindacale vi aggiorno sul fatto che abbiamo attualmente una trentina di ricorsi lavorativi in
corso, già depositati in Tribunale e di cui abbiamo già ricevuto la fissazione per le udienze presso il Tribunale di
Roma. Sono ancora pochi ma, sono sempre dell’idea, che ad oggi per attaccare il potere, politico o no che sia, bisogna
intaccare anche il loro potere economico che sempre più si trova alla base delle loro aspettative. La dimostrazione è
quella che noi stessi abbiamo riscontrato a seguito dello sciopero della spesa che, come vi avevo scritto, ha visto
partecipi tutti i 1.300 detenuti di Secondigliano e che, dopo tre settimane di spese in bianco ha portato i suoi frutti,
questo logicamente è un nostro punto di vista. [...] Cambiando discorso, abbiamo intavolato una piccola discussione
sull’ultimo atto repressivo che consideriamo una mera ghettizzazione del detenuto, ossia la zona rossa che ha
interessato Milano, Bologna, Firenze e Napoli vietando, non solo ai pregiudicati ma anche a chi era stato raggiunto da
una semplice segnalazione di recarsi in alcuni punti della città. Una nefandezza unica, caratterizzante di una cultura
fascista e dispotica. Mi chiedo se, visto il silenzio delle opposizioni (delle vere merde) non stiano tastando il polso
alla popolazione. La prossima quale sarà? Zone per i borghesi e zone per i proletari? Ricchi da un lato e poveri nei
ghetti? Va bhe evito il pippone, adesso vi saluto con un abbraccione a tuttx voi, Claudio.

Secondigliano, 7 gennaio 2025
Cipriani Claudio, Via Roma verso Scampia, 350 - 80144 Secondigliano (Napoli)

In allegato all’opuscolo inviamo il progetto del Sindacato Nazionale Detenuti e Famiglie presente anche sul sito di
OLGa. Si tratta di un contributo, per una serie di iniziative tenutesi a Torino, Genova e Milano a metà marzo, sul tema:
prospettive di auto organizzazione dietro le sbarre. Un confronto tra vicende attuali su possibili percorsi da costruire
per resistere al carcere, intrecciando l’attivismo dei prigionieri a quello di chi lotta fuori. Per curiosità,
richieste, ecc. chi vuole si potrà rivolgere direttamente a loro.
SINDEF casella postale:
Centro MBE - casella postale: Diego Dentale, Via Roma, 213 - 80038 Pomigliano D'Arco (NA)


LETTERA DAL CARCERE DI san michele (AL)
Caro, ho ricevuto la tua lettera datata 3 ottobre 2024 dopo un mese, quindi deduco che questo ritardo sia dovuto dalle
poste. Spero!! Dentro, il piego libri conteneva riviste, quotidiani, tre libri ed altro. Grazie.
Sempre nella tua lettera mi chiedi se avevo ricevuto cartoline del Che, ne ricevetti un pacco da un compagno dove c'era
la bandiera del Che, che ho appeso sulla parete.
Ti spiego la dinamica dei fatti: era successo che avvenivano frequenti perquisizioni e cominciammo a pensare a qualche
detenuto; solo quando avemmo una certezza che era lui l'informatore, tutta la sezione iniziò a fargli pressione fino a
fargli cambiare reparto.
A quel punto lui fece delle dichiarazioni spontanee come persona informata dei fatti, raccontando che alcune persone
detenevano hashish e telefonini. Poi dichiarò che io gli avevo dato un colpo di bastone e per questo mi fecero un
rapporto disciplinare e mi dettero sette giorni di espulsione dalle attività creative e sportive in comune. Questo era
di nazionalità tunisina.
Dopo di lui si mandò via anche un italiano sempre per le stesse ragioni. Dopo questi fatti incominciammo a fare delle
petizioni da inoltrare alla direzione, facendo sapere che molti detenuti, compreso me, dopo la doccia avevano prurito in
vari punti del corpo, anche nei punti intimi, venendo fuori piccole bollicine rosse, che però non era scabbia, quindi
chiedevamo che venissero controllate la tubatura, e forse era dovuto per troppo cloro che buttano nell'acqua. Non venne
accertato, come non vennero cambiati i materassi dai vecchi ai nuovi, e altre richieste. I miei compagni scelsero me
come loro portavoce e così proposi di levare la graduatoria del lavoro; anziché far lavorare un portavitto e lo scopino
due mesi, farli lavorare un mese a girare, per dare la possibilità in primis a chi non ha nessuna entrata economica e
poi chi tutte le settimane fa i colloqui con i familiari ed ha le entrate, ma continuano con la graduatoria. Poi un
giorno si decise di non fare rientro nelle celle, così venne l'ispettore e ritornai a parlare con la commissaria, che
con aria minacciosa disse di rientrare nelle celle; così la sfidai dicendo che la commissaria non ascolta le nostre
richieste, quindi dissi agli altri detenuti se volevamo entrare nelle celle oppure rimanere fuori e così si fece anche
se qualcuno non era d'accordo.
Alla fine si rimase 4/5 di noi. Dopo una settimana mi fecero un'altra disciplinare, sette giorni di esclusione dalle
attività creative e sportive in comune. Poi ci sono state altre proteste singole, anzi incazzature per
minchiate/richieste perché non gli sono stati dati psicofarmaci come Valium e altro. Nell'insieme di cose poteva
degenerare una rivolta e proteste per farmaci non dati.
Io non faccio distinzione né di razza né di colore di pelle, dove posso do un po' di spesa ad alcuni, ad altri una busta
di tabacco e qualche indumento, privandomene io.
Di questa solidarietà fra detenuti poi ce n'è poca; eppure basta poco per essere vicino uno con l'altro, ma purtroppo
non è così che avviene.
La solidarietà è andata a farsi fottere, è rimasta solo unione fra detenuti e forse nel corso degli anni non ci sarà più
nemmeno questa.
Si percepisce un po' di razzismo, ma questo è dovuto alla povertà, guerre fra poveri, ma è anche la campagna che fanno i
nostri signori al governo, Meloni, Salvini e quella campagna si riflette all'interno delle carceri, andando a creare
conflitti poco piacevoli.
Se i detenuti ragionassero di più, capirebbero che l'unico nemico sono quelli che li hanno accettati nel nostro paese
per poi buttarli nei centri, che sono campi di concentramento, facendoli vivere in condizioni disumane... Quindi anche
noi italiani siamo stati emigranti perché c'era la povertà dopo la guerra. Gli italiani che andavano in America
dormivano nelle baracche e recintati, e su questo bisogna farci una riflessione come eravamo dopo la guerra e alla fine
della guerra. [...] Non si deve incolpare gli emigranti se lavoro non c'è e se l'economia è bassa. È colpa della mala
politica, dei sindacati corrotti che da anni leccano il culo al potere statale e continueranno a farlo per altri cento
anni. Abbiamo una classe politica di burattinai da circo senza scrupoli, questi sono i veri nemici che inquinano l'aria
che respiriamo con le loro cazzate che ogni giorno raccontano, che alle fasce più povere danno un misero bonus, se però
è vero, mentre loro intascano milioni di euro [...] loro dobbiamo picchiare che hanno creato disoccupazione e migliaia
di poveri e morti sul lavoro a nero.
Non basta scrivere ciò che si pensa, non basta tirare fuori le nostre arrabbiature, ma dovremmo cominciare a tirare
fuori gli artigli e le palle come fanno in Francia e in parte del mondo. Basta!!
… uscire dalla gabbia, creare e organizzare la rabbia…

Alessandria, 20 novembre 2024
Mauro è stato trasferito dal carcere di Alessandria a quello di Padova
Rossetti Busa Mauro, Via Due Palazzi, 35 - 35136 PADOVA


Lettera dal carcere di UTA (cagliari)
Salute compagne e compagni. Siamo rientrati in carcere il 23 ottobre 2024, mancavamo dall'inferno carcerario da poco più
di due anni.
Ad UTA la situazione è molto complicata, ormai siamo in 780 prigionieri su una capienza iniziale di 470/480 posti letto,
questo sovraffollamento porta ad una “convivenza” a dir poco spinosa, ad una serenità minata, tanto che i casi di
autolesionismo e di suicidio sono numerosi e di ordinaria routine.
Proprio stanotte un prigioniero, rinchiuso nella sezione di transito Arborea A, ha posto fine alle sue traversie
impiccandosi in cella.
L'area sanitaria è completamente sguarnita, ormai non si fanno le visite mediche giornaliere di un tempo, se ti va bene
aspetti anche più di una settimana prima di essere visitato, in compenso vengono “elargiti” pillole e intrugli equivoci
che fanno dei malcapitati assuntori degli zombie.
Tutto questo fa sì che la conflittualità tra prigionieri e secondini sia molto scarsa e dovuta per lo più a risibili
situazioni.
Noi due siamo dal primo giorno in una sezione chiusa, celle chiuse, solo aria e/o saletta, siamo in 4 in cella dove
l'area di movimento, compreso bagno e cucina, è poco più di 12 metri quadrati.
Il lavoro (per chi lo vuol fare) è scarso ed anche scarsamente retribuito, per non parlare dell'area educativa che,
strettamente complice con l'area securitaria e con la direzione, fa cinghia di trasmissione ai soprusi che avvengono qua
dentro. Tutto è sigillato a doppia mandata: la biblioteca (non più di 3 ore alla settimana); il campo di calcio (2 ore
scarse alla settimana); scuola per pochi prigionieri per mancanza di spazi; sale hobby insufficienti e niente altro.
In compenso i pacchi che arrivano da fuori vengono consegnati (quando questo succede) con notevole ritardo, con questo
spesso e volentieri eventuali alimentari vanno a male, infine, udite udite, i soldi spediti da terze persone che non
fanno i colloqui non vengono consegnati, dunque rimangono nelle loro mani, inoltre vogliono sapere il motivo dell'invio
del denaro, questo su ordine del herr direktor Marco Porco. Con questo vi salutiamo.

Uta, 11 gennaio 2025
Paolo Todde, Joan Florian Monne, Presoneris anarco-indipendentistas sardus


Lettera da una Comunità di servizio per la salute mentale
Ciao, la solidarietà che dalla redazione di Olga mi esprimete mi fa molto piacere. Dal mondo della scuola dove ho
lavorato 20 anni non ho ricevuto alcuna manifestazione di solidarietà e di amicizia. Averne da voi mi fa senz’altro
molto piacere... Sono veramente basito di come si è messa la situazione politica e sociale. In tutta Europa sembrano
governare le destre, come in Italia. Il governo va per la sua strada ignorando completamente il sentimento popolare e
cercando di soffocare sul nascere ogni forma di dissenso. La magistratura usa la mannaia contro chiunque rappresenti una
forma di dissenso nei confronti del potere. Su ordine di Trump, i paesi europei raddoppiano le spese militari,
portandole al 3% del Pil. I Mass-Media sono quasi tutti allineati a coprire e a sostenere le forze di regime. Quasi
nessuno protesta per le libertà perdute, per la deriva poliziesca e liberticida. L’effetto serra e il cambiamento
climatico sembrano essere dimenticati. La maggior parte della popolazione è prona e supina nei confronti del potere e
delle autorità da tempo. È uno schifo e non c’è quasi nessuno che alzi la testa per protestare. Sono basito ed
esterrefatto. Portare avanti delle lotte è diventato difficilissimo. A me gli operatori psichiatrici del manicomio dove
sono recluso leggono la posta in arrivo e la fanno sparire. Un compagno con cui sono in contatto è processato per
devastazione e saccheggio per aver scagliato un uovo di vernice contro un edificio. Renato Curcio è processato per
concorso in omicidio per fatti risalenti a più di 50 anni fa, per uno scontro a fuoco in cui non è implicato e dove è
morta la sua prima moglie, Mara Cagol. Hanno riaperto molti altri processi a carico di compagni delle Brigate Rosse a
distanza di 50 anni dai fatti. Mi scrivono che “I giorni e le notti”, una rivista anarchica, ha chiuso perché molti dei
suoi redattori sono finiti in carcere. L’uso repressivo e fascista della magistratura passa sotto silenzio. Sono basito
e anche preoccupato. Non so dove ci porteranno tutte queste tendenze repressive, che sembrano manifestarsi in tutto
l’occidente. Sono preoccupato. È difficile organizzarsi, tutto il traffico internet è monitorato da algoritmi di
intelligenza artificiale e a me stann
o venendo degli scrupoli quando uso il telefono, mando le mail o pubblico post su Facebook. Riesco ad esprimermi
liberamente solo quando uso la posta cartacea. Non so come sia il clima nelle scuole, adesso. Sono 4 anni che sono
recluso e non insegno. Mi dicono che le forze di polizia entrano spesso nelle scuole per parlare di tutto e di più:
bullismo, sessualità, Costituzione. Immagino che sia un clima da caccia alle streghe anche nelle scuole, e non mi sento
a mio agio con i fascisti al governo. Ora vi saluto e un abbraccio.

15 marzo 2025
“Gino della Fornace”

***
diffondere un agire e una cultura antipsichiatrica
Segue un testo tratto dallo scritto del Collettivo “SenzaNumero” per l’agenda 2025 “Scarceranda”.

Chi scrive è il collettivo SenzaNumero che dal 2015 è impegnato nell’approfondire e diffondere un agire e una cultura
antipsichiatrica intesi come critica ai paradigmi della psichiatria ritenuta, a grande maggioranza, una scienza. Al
collettivo partecipano anche persone che vivono sulla propria pelle le “cure” della psichiatria. Il nostro percorso, in
questi lunghi anni, è stato – e lo è ancora - pieno di intoppi e contraddizioni ma ci ha anche portato a realizzare
quanto importanti siano le relazioni vere, cioè quelle reti affettive/amicali e di supporto concreto alle persone che si
trovano ad attraversare, in un determinato periodo della loro esistenza, una crisi che non definiamo malattia mentale,
bensì crisi psico-emotiva. Molto spesso l’intervento psichiatrico – l’obbligatorietà della cura tramite il Trattamento
Sanitario Obbligatorio [TSO], la contenzione meccanica, l’elettroshock ancora largamente usato e l’imposta assunzione di
psicofarmaci – anziché guarire, genera cronicizzazione dei sintomi e stigmatizzazione escludente della persona.
Il carcere è sempre stato identificato come la punta più alta della repressione. Il luogo in cui vengono occultati i
corpi delle persone recluse, ma anche le ragioni politiche, economiche e sociali che determinano la presunta necessità
del carcere. È il luogo della pena per antonomasia e i rapporti al suo interno, tra chi li gestisce e chi si pretende di
gestire, sono caratterizzati da una totale assenza di riconoscimento delle persone recluse, di soggettività,
personalità, credibilità, autonomia di pensiero e di azione. Tutto ciò che si era fuori da quelle mura non può né deve
essere rivendicabile e portato all’interno. Sin dalle prime ore di carcerazione, infatti, ci si trova di fronte a regole
di comportamento e di gestione quotidiana alle quali bisogna sottostare senza capirne né – persino! – domandarne i
motivi. Ma una volta finita la pena, per chi ha fuori una rete sociale e affettiva ancora in piedi, seppur lentamente si
può ripartire e tornare a essere persone e non automi. Ciò non accade a chi finisce sotto il controllo psichiatrico
della propria vita.
Questo contributo vorrebbe essere spunto di riflessione per capire se le due condizioni, di cui fin’ora abbiamo parlato
– cioè detenzione e psichiatrizzazione – siano le due facce di una stessa medaglia, quella repressiva […]
Il campo nel quale, negli ultimi anni, si è registrato il maggiore aumento di diagnosi psichiatriche e prescrizioni di
psicofarmaci è senz’altro quello dell’infanzia e dell’adolescenza […] A scuola il “disagio” comportamentale invece di
essere valutato come un campanello d’allarme nella relazione adulto-bambino o del sistema scuola, viene incasellato come
un problema mentale del bambino; dispensando così l’educatore o l’insegnante dal modificare l’approccio educativo e
delegando il problema a un neuropsichiatra attraverso diagnosi stigmatizzanti di deficit di attenzione, sin dai
primissimi anni d’infanzia. Una delle diagnosi più frequenti è quella dell'ADHD (Disturbo da Deficit dell’Attenzione e
Iperattività) trattato, ad esempio, con il Ritalin, che ha effetti simili alle anfetamine e di cui non si conosce la
gamma completa delle interazioni biochimiche.
È sempre più diffuso l’utilizzo di psicofarmaci introdotti nel mercato come innovativi, innocui e adatti a tutte le
fasce di età ma con innumerevoli effetti collaterali. Questi, oltre ad agire solo sui sintomi e non sulle cause della
sofferenza della persona, alterano il metabolismo e le percezioni, rallentano i percorsi cognitivi e ideativi,
contrastando la possibilità di fare scelte autonome, generando fenomeni di dipendenza e assuefazione. Presi per lungo
tempo possono portare a danni neurologici gravi che potrebbero provocare disabilità permanenti. L'uso massiccio di
farmaci, la contenzione, la minaccia (e l'attuazione) di trattamenti sanitari obbligatori sono strumenti coercitivi
sempre pronti all'uso, nella pratica psichiatrica clinica come nei luoghi di reclusione, siano essi galere o CPR (Centri
Per il Rimpatrio). Siamo certamente testimoni di un passaggio che vede una recrudescenza di concetti e pratiche che si
pensavano superate. Per ultima la proposta del nuovo disegno di "legge Zaffini" (ddl 1179/2024) che, oltre a promuovere
l'individuazione di "disturbi mentali" con tutto ciò che ne consegue sin dalla fase pre-adolescenziale, esalta e amplia
tutte quelle pratiche tipiche del dispositivo manicomiale per eccellenza. Aumentando i giorni obbligati per un TSO (da 7
a 15) e aggiungendo – ai 3 precedenti – un ulteriore e non ben definito criterio di "elevato rischio di aggravamento",
allarga le maglie del trattamento coercitivo e rafforza il concetto di pericolosità sociale. Permette, inoltre, nello
specifico caso delle persone detenute, di esperire il ricovero coatto non più in un presidio ospedaliero, ma negli
stessi ATSM (Articolazioni per la Tutela della Salute Mentale) – i cosiddetti "repartini" – direttamente all'interno del
carcere. Per buona pace di chi pensava che il tempo degli OPG fosse per sempre finito. Inoltre, questa modifica va di
pari passo con il DDL 1660 in cui sono previsti nuovi reati in particolare per chi protesta – pacificamente o meno –
all'interno delle carceri, dei CPR e dei centri di accoglienza. Sembra evidente che la minaccia del TSO all'interno
delle galere sia un aggiuntivo strumento di intimidazione e punitivo. Infine, con la motivazione parziale e fittizia
della tutela degli operatori, irrobustisce il binomio cura-custodia, affidando la gestione della salute a una nociva e
mortifera collaborazione oltre che tra il ministero della salute e della giustizia anche con quello dell'interno,
delegando così qualsiasi "intoppo" all'apparato repressivo […] Attraverso campagne mediatiche fondate sulla paura e
insicurezza – in realtà dovuta alla precarietà delle condizioni economiche drammaticamente peggiorate dall’attuale stato
di guerra permanente – si introducono forme sempre più capillari di controllo e gestione della conflittualità e
dissenso. Un controllo che passa anche attraverso una massiccia assunzione di psicofarmaci che inducono a comportamenti
assenzienti e rassegnati, per lo più concentrati nei propri piccoli e soggettivi mondi e riducono le capacità reattive e
recettive. Sempre a proposito del connubio psichiatria/repressione, da qualche anno è stato approvato l’uso del taser da
parte delle molteplici e variegate forze dell’ordine presenti in questo Paese […] Quando il taser colpisce non lascia
tracce sanguinolente, non turba il nostro immaginario ma immobilizza attraverso scariche elettriche che paralizzano i
muscoli.
Da qualche anno, la cosiddetta comunità scientifica, ha poi riaperto il dibattito sulle scariche elettriche al cervello.
Stiamo parlando del tristemente famoso elettroshock, che molti di noi pensavano fosse un trattamento superato. Così non
è, e oggi viene somministrato con l’uso dell’anestesia (onde evitare reazioni di opposizione) e ha cambiato il nome in
TEC (terapia elettro-convulsiva). Negli Stati Uniti duecentomila persone ogni anno sono sottoposte a questo trattamento,
mentre in Italia circa trecento! L’elettroshock provoca un notevole stress per il sistema cardiocircolatorio, con un
aumento relativo dei rischi di infarto e ha un effetto devastante sulla memoria provocandone una perdita permanente in
un intervallo che va dal 29% al 55% dei casi […] La psichiatria non è una scienza neutra: con la pretesa di incarnare il
sapere medico è diventata sempre più scienza del controllo. È necessaria a certificare "devianzepatologiche" sempre più
spesso funzionali alla rapacità di arricchimento delle case farmaceutiche e al controllo sociale. Con lo scopo di
rieducare e normare il "paziente", depersonalizza le soggettività psichiatrizzate e in questo modo le persone diventano
diagnosi, che diventano statistiche, che diventano "cure" direttamente sperimentate sulla loro pelle. Lo stesso concetto
di malattia mentale crea persone definite malate, che hanno l'obbligo di cura imposto anche con la forza. Una visione
manicomiale che, da un momento all'altro, può trasformare in prigione persino ciò che ci è più familiare (amici,
famiglia, la nostra stessa casa) […] La psichiatria non usa quasi mai un approccio dialogante che porti alla conoscenza
dell’influenza sulla persona dei fattori ambientali, relazionali, sociali e culturali in cui vive o con cui è costretto
a vivere. Sta a noi tutti, quindi, il compito di fare luce su questi aspetti,valorizzando esperienze e relazioni
positive e costruendo percorsi di lotta a ciò che ci sta stretto, che ci opprime, che non ci rappresenta, ritornando a
chiamare "cura" l'attenzione, l'affetto e la necessità di costruire legami valorizzanti e significativi.


UDINE: PRESIDIO SOLIDALE SOTTO IL CARCERE
Nel carcere di Udine il sovraffollamento ha raggiunto un limite insopportabile, vi sono rinchiusi 180 detenuti a fronte
di una capienza di 90 posti, dei quali ben 57 si trovano nella prima sezione, situata al piano terra, in condizioni di
grave degrado ambientale con umidità, muffa, fili elettrici scoperti, mancanza di tubi di scarico nei lavandini. Questa
sezione è quella dove vengono collocati i nuovi giunti, che vivono il trauma dell’entrata in carcere, i prigionieri che
manifestano problemi di disagio mentale o di tossicodipendenza e dove ci sono le celle di isolamento.
Inoltre all’interno del carcere manca una copertura medica e infermieristica sulle 24 ore. Però i lavori di
“riqualificazione della struttura”, tanto sbandierati dai garanti comunali che si sono succeduti in questi ultimi anni,
che prevedono l’allestimento di aule studio, laboratori e di una sala polifunzionale uso teatro, vanno avanti. I garanti
hanno promosso lo scorso dicembre una “marcia silenziosa e non violenta”, con tanto di rosa bianca in mano, dal duomo al
carcere “per festeggiare la conclusione dei lavori del polo culturale e didattico e dolersi per il mancato inizio lavori
per la prima sezione”, come se questa ennesima negligenza fosse colpa del destino avverso, che è necessario propiziarsi,
o di qualche divinità, e non una precisa responsabilità dell’amministrazione penitenziaria e dell’ASL che evita di
controllare e di intervenire sull’area sanitaria. A lavori ultimati dunque, la “società civile” di questa società
distopica potrà provare l’emozione di andare a teatro dentro le mura del carcere, mentre nelle sezioni i detenuti vivono
in condizioni disumane, patiscono maltrattamenti fisici e psicologici, vengono psichiatrizzati attraverso la
somministrazione di psicofarmaci e metadone. Il garante regionale, pragmatico, già direttore del carcere di Trieste, non
si lagna, ha la soluzione per risolvere il problema del sovraffollamento: costruire “una nuova e moderna struttura
carceraria in regione” in modo da realizzare “una sorta di bacino di espansione di fronte al flusso non arrestabile di
persone detenute, flusso che non tenderà a decrescere nei prossimi mesi e anni”. Ecco, le persone che vengono
imprigionate diventano un flusso… Nei prossimi mesi ed anni lo Stato infatti, attraverso il Pacchetto sicurezza, la
creazione di nuovi reati, le zone rosse, il proliferare dei dispositivi di controllo,… vorrebbe chiudere il cerchio del
suo dominio, attraverso la guerra a poveri e marginali, a migranti e ribelli, alle persone detenute nelle carceri e nei
CPR, mentre è sempre più attivo nelle guerre guerreggiate con l’industria bellica, le missioni militari, le imprese neo-
coloniali, lo sfruttamento e la devastazione della Terra e del vivente. Qua fuori, la città di Udine, già mostruosamente
militarizzata, video-sorvegliata e blindata, è ora diventata una estesa zona rossa, invasa dalle forze dell’ordine, con
una control room e un progetto comunale di istigazione alla delazione detto “sicurezza partecipata”. Noi rifiutiamo di
far parte di una società sottomessa che guarda un marchingegno illuminato mentre tutto va in rovina, vogliamo invece
guardarci attorno, metterci in mezzo, cogliere gli sguardi dei fratelli e delle sorelle, dei compagni e delle compagne,
lottare insieme per continuare a lottare, ancora e ancora…
Sabato 15 febbraio presidio solidale con i detenuti del carcere di Udine, musica, parole, saluti, urla di libertà e di
vicinanza (da brughiere.noblogs.org)


***
PRESIDIO SOTTO LE MURA DEL CARCERE DI TORINO
Testo di indizione del presidio sotto il carcere di domenica 23 febbraio.
Tornare sotto le mura del carcere è – a nostro avviso – qualcosa di impellente e importante, tanto più oggi in cui i
venti di guerra contribuiscono a rinforzare politiche securitarie e repressive. La detenzione – penale o amministrativa
che sia – funge da monito ai/alle liberx tentando da un lato di scoraggiare le lotte e dall’altro di rinforzare le
dinamiche ghettizzanti e segreganti proprie del capitalismo differenziale. Ciò che ci insegnano i rivoltosi è che ciò
che bisogna distruggere è sia la galera che la società che ne ha bisogno. Come ci è stato dimostrato più volte da chi
vive e subisce la violenza di Stato quotidianamente, da chi è costrettx in regimi di detenzione sempre più schiaccianti
e de-umanizzanti, da chi soffre la lontananza dai più cari affetti, spingere le voci dei/delle solidalx oltre le gabbie
è possibile. Chi è dentro lo sa bene e nel passato non ha mancato di farcelo sapere. Non solo è possibile: è necessario;
al fine anche di dimostrare che fuori da quelle mura la lotta si muove, come da dentro, verso la libertà di tuttx. La
solidarietà è uno strumento di lotta. Non è uno slogan.
La solidarietà è fondamentale non solo per garantire la presenza e per ridare un senso alla verità storica, ma anche per
poter dare continuità alle lotte e tentare di dotarsi di strumenti comunicativi che contrastino l’isolamento umano,
affettivo e politico che le forme di detenzione infliggono.
Essere in tantx – periodicamente e con costanza – sotto le mura del carcere ha anche il senso di mantenere viva la
comunicazione dal fuori al dentro, non solo in virtù di vincere le barriere umane proprie della violenza carceraria, ma
anche – e soprattutto – di raccontare cosa succede all’interno di altre galere e rompere così l’isolamento comunicativo
che la detenzione produce.
Il 3 febbraio 2025, nel carcere Pagliarelli di Palermo, 400 detenutx hanno deciso di lottare, contro i sempre più
stringenti provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria, attraverso uno sciopero della fame. Tali provvedimenti
riguardano importanti restrizioni sui beni che chi è in gabbia può ricevere tra cui alimenti, vestiti e coperte. Questa
e tante altre notizie che raccontano gesti di rivolta, ribellione, resistenza e resilienza di chi non si fa annichilire
dalla brutalità del potere ci ricordano – ed è bene ribadirlo e narrarlo sotto ogni prigione – che laddove lo Stato
reprime, la lotta si alimenta. Fino a che rimarranno solo macerie e polvere. Per la libertà

***
BOLOGNA: CONTRO L’ISTITUZIONE DI UN NUOVO REGIME CARCERARIO SPECIALE PER “GIOVANI ADULTI”
Martedi 25 febbraio un po’ di persone si sono trovate sotto al carcere del Pratello per un volantinaggio rumoroso contro
l’istituzione di un nuovo regime speciale per “giovani adulti problematici” (provenienti da istituti minorili)
all’interno del carcere della Dozza, e per portare la loro solidarietà ai reclusx.
Di seguito il volantino distribuito.

IL CARCERE FA SCHIFO
Siamo qui per contestare l’istituzione di una sezione speciale destinata a “giovani adulti problematici” (giovani
provenienti da istituti minorili) all’interno del carcere della Dozza (carcere “per adulti”). Sembra che proprio oggi
martedì 25 febbraio stia avvenendo il trasferimento di 50/70 detenuti (il numero non è chiaro) provenienti da diversi
istituti penali per minori di Italia, pare, dal centro nord. Questa misura ha già previsto la deportazione di 70 reclusi
in “Alta sicurezza 3”, per fare spazio ai detenuti in arrivo. Le sezioni “alta sicurezza”, articolate su tre livelli,
sono regimi speciali, i più isolati e degradanti di tutta la struttura penitenziaria, peggio dell’ AS c’è solo il
carcere cosiddetto duro\41bis. Il trasferimento di questi detenuti potrebbe creare ulteriori trasferimenti interni tra
sezioni AS, scombussolando la vita già difficile di ben piu di una cinquantina di giovani detenuti. I detenuti
trasferiti dai penitenziari minorili sono di età compresa tra i 18 e i 25 anni, hanno commesso un reato quando erano
ancora minorenni e per il ministero sono da considerarsi non educativamente recuperabili.
Ma chi è “non recuperabile”? Probabilmente chi non si allinea alle pratiche rieducative del carcere, che, come si è
visto a Milano al Beccaria, consistono in punizioni, pestaggi e violenze. Questa manovra che viene spacciata come
risolutiva dei problemi di spazio e di inagibilità del carcere minorile del Pratello mostra la vera faccia di questo
sistema: non esiste alcuna differenza tra un carcere per minori ed uno per adulti, il carcere fa schifo.
I detenuti vengono gestiti, presi, spostati, assegnati ad altri carceri, considerati come numeri in più all’interno di
una struttura sempre più sovraffollata e in decadenza. Il trasferimento spesso viene usato come arma di punizione da
parte dell’amministrazione penitenziaria per isolare le persone dai legami che si sono costruite all’interno del carcere
e dai loro affetti all’esterno. Una quotidianità carceraria che oltre ad essere priva di dignità umana è, post pandemia
e post rivolte, sempre più soggetta a soprusi di ogni tipo: dalla potenziata discrezionalità di ogni singola Direzione
carceraria e Sanitaria, all’abuso di potere delle guardie penitenziarie. Quando qualcuno prova a rompere questo
monopolio restituendo un’infinitesimale parte della violenza statale viene duramente represso, come avvenuto dopo le
rivolte del marzo 2020.
Anche al carcere minorile del Pratello vi sono stati episodi di rivolta ed evasione: a fine dicembre del 2022 una cella
è stata data alle fiamme e qualche giorno dopo vi è stata una rivolta. Anche in questo caso vi sono stati trasferimenti
punitivi dei detenuti maggiorenni coinvolti alla Casa circondariale per adulti. Si parla di cinque celle rese inagibili
e di una porta blindata divelta. A luglio del 2024 i detenuti hanno dato fuoco a due celle e sfidato le guardie, mentre
un detenuto è riuscito ad evadere attraverso un foro scavato nella cella. Un’altra evasione risale a settembre del 2023.
Ma questi sono soltanto alcuni degli episodi di rifiuto e rivolta di cui abbiamo notizia dalla stampa di regime, chissà
invece quante sono le rivolte che rimangono represse dietro quelle mura.
Chi riduce il problema del carcere ad un problema di “sovraffollamento” è lo stesso che le galere le ha riempite fino a
farle scoppiare.
Con l’approvazione del Decreto Caivano, un provvedimento fortemente punitivo e repressivo volto a criminalizzare e
colpire i giovani delle periferie e le fasce più marginalizzate della popolazione, la situazione si è ulteriormente
aggravata: più pene, più carcere, più facilità per un minore di finire in arresto e/o di essere tradotto in questura,
eliminazione di istituti alternativi al carcere (ora subordinati a lavori di pubblica utilità nonostante la minore età,
riproducendo la premialità già presente nelle carceri comuni e nei regimi speciali). Un decreto approvato per far fronte
a quella che il governo Meloni definisce come “emergenza baby gang”,un tipo di retorica, non lo dimentichiamo,
propagandata non solo dai governi di destra ma anche da tutte quelle realtà politiche e partitiche che si proclamano di
sinistra ma che hanno sempre portato avanti e vidimato politiche emergenzialiste e securitarie.
A Bologna questo attacco ha trovato infatti nuovo vigore con l’asse Lepore-Piantedosi, tra retate, espulsioni, arresti,
interventi ad “alto impatto” nei quartieri e per le strade, fino alla recente ordinanza del prefetto che vieta
l’accessibilità ad alcune zone della città a quelle persone valutate “moleste” da guardie e divise, naturalmente con
“valutazioni” iper discrezionali e arbitrarie. Un dispositivo, quello delle “zone rosse”, che sta armando ancora di più
il senso di impunità delle forze dell’ordine. Una caccia alle streghe che conferma la funzione primaria del carcere come
strumento di repressione, governo delle diseguaglianze e del conflitto sociale, volto al mantenimento di un ordine fatto
di sfruttate e sfruttatori.
In un clima di guerra interna e sistematica repressione del dissenso (in qualsiasi forma esso si esprima) il carcere
diventa prospettiva concreta per chiunque si opponga a questo esistente. Non vogliamo un carcere bello. Non vorremmo
nessun carcere.
CHE LA RIVOLTA SOCIALE (PAROLA VUOTA E RIDICOLA IN BOCCA AI CANI DA GUARDIA DEL PADRONATO) DIVENTI REALTÀ DENTRO E FUORI
LE GALERE


Lettera dal Carcere di Budapest (ungheria)
Maja è una persona antifascista imprigionata a Budapest con l'accusa di aver preso parte a pestaggi ai danni di nazisti
il 22 febbraio 2023. Arrestat* in Germania, è stata rapit* nella notte dalle forze ungheresi, con la complicità della
polizia tedesca, ed estradata in Ungheria prima che la corte potesse esprimersi sulla legalità di tale estradizione. Le
condizioni carcerarie ungheresi sono ormai note, e peggiorano per una persona non binaria come Maja, costretta
all'isolamento e alle violenze di una società fascista.
Gino, imputato nel medesimo processo, è stato arrestato a fine novembre a Parigi e detenuto in carcere per oltre tre
mesi. Il 26 marzo è stato scarcerato, ma resta fissata per lui la data dell'udienza per l'estradizione in Ungheria, che
sarà il 9 di aprile. Di seguito pubbichiamo una lettera pubblicata su freeallantifas.noblogs.org.

Sì, ho qualcosa da dire, vorrei parlare con voi, che rappresentate lo Stato ungherese e i suoi cittadini e siete in
grado di giudicare a loro nome. Come a tutte le persone che mi ascoltano. So di non essere sol* qui oggi e questo mi
riempie di profonda gratitudine.
Con la più profonda gratitudine. Non sono nemmeno l’unico imputato in questo processo, la repressione ha una continuità
opprimente. Ma quello che ho letto oggi parla solo per me, tutto il resto mi è sembrato presuntuoso.
Una cosa voglio dire con certezza: non sarei qui oggi se non conoscessi i tanti cuori ardenti di umanità e solidarietà.
Quindi eccomi qui, incatenat* e accusat* in un Paese per il quale io, in quanto essere umano non binario, come Maja, non
esisto. È uno Stato che esclude apertamente le persone a causa della loro sessualità o del loro genere.
Sono accusat* da uno Stato europeo perché sono antifascista. Nonostante questo, ho deciso di parlare perché sono qui
oggi perché otto mesi fa sono stata rapit* con un atto di violazione della legge e sono stata estradat* qui dalla
Germania e sono stato estradat* qui – da un Paese la cui costituzione prometteva di rispettare e proteggere la mia
dignità, ma i cui presunti organi costituzionali hanno scavalcato la più alta corte tedesca, sapendo che stavano agendo
illegalmente e che io ero minacciata qui.
Mi hanno portato in un Paese il cui impegno nei confronti dei diritti umani e dei principi democratici stanno già
svanendo sulla carta e le cui prigioni sono piene di persone che osano difendere l’autodeterminazione di tutti i popoli,
che osano promettere “Mai più fascismo”.
Sono consapevole di essere qui perché la mia nascita portava con sé una promessa da cui sono cresciut*, è la promessa di
essere umano. Non è cresciuta da sola: mai completamente libera, privilegiata eppure piena di sofferenza, sempre alla
ricerca di come poterla realizzare, che ciò che nessun diavolo può compiere non si ripeta mai più.
Solo l’uomo era ed è capace di questo uomo, per cui ancora oggi crea strutture statali totalitarie, oppressive e
distruttive, guidato dall’odio e dall’invidia, fuggendo dall’imperfezione. L’uomo ha creato la Shoa e più atrocità di
quante ne dia il cielo con le sue stelle, pur non perdendo mai la speranza di un domani di pace.
Sono accusat* da una Procura che è in grado di riconoscere l’odio fiammeggiante dentro di me odio dentro di me, mentre
vedono in quelle persone che esaltano gli autori e i crimini dell’Olocausto come una minoranza da proteggere. È quindi
essenziale chiarire che la Procura sostiene che io abbia aggredito fisicamente delle persone che che erano venute in
questa città due anni fa per partecipare al cosiddetto “Giornate dell’Onore”.
Si tratta di giornate di manifestazioni, passeggiate e concerti che servono come incontro internazionale per gli di
estremisti di destra, legittimati e promossi da attori statali. Lì persone si riuniscono per venerare orgogliosamente e
apertamente le strade percorse un tempo dai fascisti tedeschi e ungheresi. I fascisti tedeschi e ungheresi scelsero un
tempo di fuggire dalle loro responsabilità di assassini. Festeggiano ai concerti di gruppi musicali profondamente
razzisti e antisemiti che incitano all’odio e alla violenza e donano denaro a reti terroristiche di destra come “Blood
and Honour”.
E ora siamo qui riuniti per preparare un processo in cui sono già stato condannat*, in cui la detenzione è già
l’esecuzione di una pena, come lo sono stato io. Da otto mesi mi trovo di fronte a condizioni di detenzione che violano
le garanzie dell’Ungheria.
Non vengono rispettate né le “Regole penitenziarie europee” né le “Regole di Nelson Mandela” delle Nazioni Unite. Ciò è
avvenuto sottoponendomi a un isolamento continuo e prolungato, in particolare a meno di 30 minuti di contatto umano al
giorno, per oltre 200 giorni. È una detenzione preventiva in cui non mi è permesso studiare, non mi è permesso lavorare,
non mi sono stati dati abbastanza libri, non mi sono stati dati gli integratori vitaminici necessari o le visite mediche
tempestive, non c’è luce sufficiente e cibo sano. Sono stat* consegnaté a un carcere che impone misure di sicurezza
umilianti e degradanti per le quali non c’è ancora alcuna giustificazione o spiegazione. Quando glielo si chiede,
restano in silenzio e così ho dovuto portare le manette anche in cella, durante le visite ufficiali o le chiamate via
Skype.
Ero ormai costrett* da diverse decine di persone a spogliarmi nudo davanti a loro e non osavo ancora cambiarmi nella mia
cella per la vergogna, visto che una telecamera era appesa lì illegalmente da tre mesi. Le cimici e gli scarafaggi
rimangono ancora oggi, così come la luce dei controlli orari che mi tolgono il sonno di notte. Sonno in cui sogno di
poter finalmente stringere tra le braccia la mia famiglia, persone al cui fianco non mi è stato permesso di elaborare il
lutto e che mi è consentito vedere dietro a lastre di plexiglass solo per due ore al mese. Oggi sono qui e sto già
subendo danni fisici e mentali. La mia vista si sta affievolendo e il mio corpo è esausto, mentre il carcere mi
costringe a parlare da solo, vietandomi un contatto sufficiente con i compagni di detenzione a causa della mia identità
queer, il cui unico scopo è punirmi e impedirmi di essere viv*.
Non è solo il sistema giudiziario ungherese a essere responsabile di tutto ciò, ma anche, contrariamente alle loro
affermazioni, ogni tribunale che ha prolungato la mia detenzione. L’ultima volta l’hanno fatto per i prossimi 2,5 anni o
fino alla fine di questo processo.
Ci sono ragioni per cui oggi sono seduto qui da sol* sul banco degli imputati, perché la magistratura ungherese ha ormai
perso ogni credibilità e altri tribunali europei si rifiutano di collaborare. Questa è la cosa giusta da fare. Questo
processo contro di me avrebbe dovuto svolgersi anche in Germania, insieme a tutti gli altri imputati, dove avrei potuto
difendermi e prepararmi, e mi aspetto che finalmente si ponga fine a tutto questo, che io possa prepararmi a un processo
su un piano di parità, senza essere privat* di alcuna opportunità di autosviluppo, e che non venga più punito con una
disumana detenzione in isolamento, che lascia dietro di sé danni a lungo termine che stanno già fiaccando le mie forze.
Non sono solo le condizioni di detenzione a creare una punizione da condannare, ma anche il fatto che non esiste un
rischio oggettivo di fuga o di recidiva. Non sono mai stato informato dalle autorità tedesche o ungheresi del mandato di
cattura emesso un mese prima del mio arresto, né ho mai manifestato l’intenzione di sottrarmi a qualsiasi procedimento.
Vorrei precisare che dovrei difendermi da presunte prove che non mi è stato permesso di vedere. Ancora oggi mi manca il
materiale completo del fascicolo, dovrei difendermi da un atto di accusa le cui montagne di documenti non sono state
tradotte per me, la maggior parte delle quali ho ricevuto solo in ungherese. Avrei dovuto prepararmi da solo mentre i
miei avvocati venivano ripetutamente respinti al cancello della prigione, avvocati ai quali non è stato permesso di
mostrarmi i fascicoli e che ora si aspettano che io commenti un atto d’accusa che consiste in mere ipotesi…! In cui non
riesco a trovare una sola parola che delinei la mia vita, la mia personalità e che sia basata su fatti, né tanto meno
che spieghi come nasce l’accusa di far parte di un’organizzazione criminale. Vi aspettate davvero che io faccia mie
queste accuse, che le confessi e che poi mi faccia rinchiudere dietro le sbarre per il periodo della mia giovinezza
appena trascorso? Per 14 anni nel più severo regime carcerario, senza possibilità di libertà vigilata, solo per
risparmiarvi l’imbarazzo di veder crollare le vostre fragili sentenze per mancanza di credibilità. Caro pubblico
ministero, sii onesto, speri che l’isolamento mi faccia morire di fame e costringa a una sentenza senza processo.
Devo rendermi conto che sono stat* imprigionat* per 14 mesi, privat* della mia vita precedente dall’11 dicembre 2023,
privat* della possibilità di iniziare i miei studi e continuare il mio lavoro, privato della mia famiglia, privato della
possibilità di sostenerla e di partecipare a una società alla quale voglio contribuire. Privato del bisogno di
svilupparmi e realizzarmi come essere umano. Mi è stato tolto tutto questo con l’obiettivo di distruggermi come persona
politica. Ma ho ancora le parole che scrivo e parlo, e non smetterò di farlo finché sarò e penserò.
Così ho scritto anche un atto di accusa, che racconta ciò che ho vissuto l’anno scorso, mi ha aiutato a sopportare le
ferite e si ritrova in parte in ciò che presento qui. Taccio i suoi dettagli angoscianti, perché oggi e in questo
processo si tratta di molto più che di me stess*. Si tratta di capire in che tipo di società vogliamo vivere e se
possiamo accettare un’azione governativa che contraddice i nostri valori morali. Non sono di casa in questo Paese, né
sono riuscito a imparare la sua lingua. Ma so cosa fa ai suoi cittadini, ho sentito come tratta le persone che sono
indifese alla sua mercé.
Sì, ho sentito le urla e i colpi provenienti dalle altre celle, i lamenti e i pianti, la rabbia e la disperazione che
col tempo perdono ogni melodia umana. Ho visto sguardi smarriti e spaventati, ho sentito parole sprezzanti che nascono
quando le persone creano sistemi e luoghi in cui cercano di togliere il libero arbitrio agli altri per creare e riempire
il potere degli altri con parole giudicanti e azioni punitive. Ho visto le carceri in Germania e in Ungheria e vorrei
dire che qui le persone vengono derubate della loro dignità, indipendentemente dal fatto che siano sorvegliate o meno.
Non posso avere la presunzione di giudicare le persone che ho incontrato lì, so solo che qui la società sta fallendo.
Consapevole di ciò, non posso negare i momenti in cui mi siedo alla scrivania della mia cella e mi sembra impossibile
tenere con me la bellezza del mondo, la mia mente si limita a seguire la sofferenza dei compagni di prigionia,
interrotta dal pulsare delle mie stesse ferite.
Fugge dall’impotenza, si perde nel sentimento di impotenza, strappato dal mio corpo, strappato da ieri e da domani,
allora vedo solo ciò che al momento sembra irraggiungibile, ma da cui germoglia per me l’umanità, l’eredità di cercare
un terreno comune con l’altro senza giudicare l’essere umano per il suo essere, il suo corpo e le sue capacità, cercando
di creare insieme qualcosa di valore senza sfruttare e opprimere, sapendo perdonare i fallimenti senza tacere e infine
meravigliandosi di come da tutto questo germogli la fiducia in un domani prossimo e pacifico.
Ma le lacrime di dolore si attenuano, al più tardi quando leggo le vostre lettere, quando il giornale mi parla del mondo
e apprendo che le loro utopie sono preservate da persone. Persone che non sono abbandonate da valori morali evidenti,
che sono pronte a difenderli e a crearli, che non riescono a distogliere lo sguardo da chi commette atrocità, che
cercano l’imperfezione umana, che non paralizza né abbruttisce, ma che invece vive in un tentativo di creatività e
solidarietà, cercando una via d’uscita dalla violenza guidata dal potere, dall’avidità e dalla compiacenza. Ammiro ogni
persona comune che cerca di cogliere la complessità del nostro mondo e agisce dove sembra umanamente possibile.
Voglio condividere il cammino con chi dubita, senza scambiare la propria moralità e tenerezza con ingannevoli promesse
di felicità individuale. Rispetto tutti coloro che cercano di comprendere l’umanità come un tutt’uno e riescono a non
perdere di vista l’unicità di ogni persona, che è germogliata da ciò che ha vissuto. Non è un’esistenza perfetta – no,
falliamo, non possiamo sfuggire a noi stessi o al mondo. Ma siamo in grado di agire, possiamo imparare a fidarci l’uno
dell’altro e di noi stessi, siamo in grado di crescere oltre noi stessi quando cerchiamo di capire, comprendere e
decidere a partire dall’impulso dell’umanità, siamo in grado di aiutare dove c’è un incendio, dove manca la protezione e
le persone fuggono, possiamo condividere e stare dove il dolore e la sofferenza sono più grandi, sapendo sempre che non
siamo soli.
Ora nemmeno io riesco a evitare che gli occhi mi facciano sempre più spesso male, che si chiudano per la stanchezza e
che i sensi vengano meno.
Ma anche con le palpebre chiuse, non posso sfuggire al fatto che guerre, fame, distruzione dell’ambiente e distribuzione
ingiusta continuano a creare realtà dolorose. In Europa infuria ancora una guerra di aggressione ed è impossibile
ignorare il fatto che il fascismo e i suoi seguaci stanno nuovamente mettendo radici, sia in un continente
apparentemente lontano che nel giardino vicino. I desideri totalitari e gli intrecci autoritari nelle nostre società,
l’emarginazione e l’isolamento stanno vivendo una rinascita. Mi chiedo cosa accadrebbe se ognuno si salvasse da solo. È
così che sfuggiamo alla nostra impotenza collettiva? Dove ci lasciamo guidare dalla paura e dalla disperazione? Nelle
ultime settimane ho sperimentato personalmente come queste possano paralizzare la mia mente e il mio corpo, come mi
abbiano spinto ad appendere le mie speranze e ad allontanarmi dalla vita. Ma poi ho visto spuntare una tenera pianta in
un luogo dove per mesi non è caduto il sole, sapendo che l’inverno sarebbe passato. Al suo fianco, ho dovuto ammettere a
me stess* che – per quanto infernale sia questo posto sulla terra – i fiori possono crescere lì, nelle crepe del muro o
nel mio essere.
Non ci vuole molto, ma prima la fiducia che il coraggio e la fiducia creano grandi cose dalle piccole cose, perché da
esse nasce la resilienza contro l’attesa di giorni migliori, in cui sperimentiamo che ogni nostra azione determina ciò
che si ramifica nel nostro giardino davanti a noi e fiorisce nei prossimi giorni di primavera. Spesso non so come, so
solo che è necessario osare e, se siamo onesti, sappiamo che è possibile incontrando persone sconosciute come noi.
Oggi ho visto alcuni dei vostri volti, ho letto dei vostri sogni, ho potuto condividere tempi di vita, sentirmi
solidale, ammirarvi e invidiarvi mentre vi battete per un’umanità che resiste, supera i confini arrugginiti del ferro
freddo della parola e del pensiero e si dispiega nell’essere queer, nell’amore, nell’autoemancipazione femminista di
un’umanità senza confini e in tutte le lotte emancipatorie per la giustizia tra tutte le persone.
Ora la mia parola per oggi finirà presto, se necessario la contraddirò, soprattutto se si continua a mettermi in catene,
a rinchiudermi e a cercare di spezzare la mia dignità con la forza. Perché sì, oggi si tratta ancora della questione di
una procedura costituzionale, della questione di come sia possibile che io sia esposto a queste condizioni di detenzione
e che si cerchi di punirmi in questo modo umiliante e offensivo.
Tuttavia, non è nelle mie mani cambiare la situazione. Le autorità tedesche mi hanno estradato e non hanno rispettato la
loro massima corte, l’Ungheria sta violando le garanzie e la legge europea, dimostrando ancora una volta come si stia
allontanando dai presunti valori democratici. Non mi resta che denunciare tutto questo, oppormi e fare appello a tutti
affinché facciano lo stesso. So che l’esperienza di tutto questo non è solo mia e quindi spero che le mie parole
arrivino anche a tutti coloro che sono perseguitati e imprigionati per essersi opposti all’estremismo di destra, al
fascismo, al patriarcato, allo sfruttamento della natura e delle persone, alla violenza strutturale e razzista e alla
repressione, per aver creato alternative e per l’emancipazione, l’esistenza queer e una vita dignitosa per tutti. Non ci
vuole molto, ma prima la fiducia che il coraggio e la fiducia creano grandi cose dalle piccole cose, perché da esse
nasce la resilienza contro l’attesa di giorni migliori, in cui sperimentiamo che ogni nostra azione determina ciò che si
ramifica nel nostro giardino davanti a noi e fiorisce nei prossimi giorni di primavera.
E a tutti gli altri, voglio esprimere la mia sincera gratitudine per aver trovato il tempo di ascoltarmi.

21 febbraio 2025
Maja